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Sommario del 28/11/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco in Uganda rende omaggio all'ecumenismo del sangue

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“Non i piaceri mondani o il potere terreno, ma la fedeltà a Dio, l’onestà e l’integrità di vita danno gioia e pace durature”. Così il Papa celebrando questa mattina in Uganda a Kampala, presso il Santuario di Namugongo, la Messa commemorativa di San Carlo Lwanga e compagni martiri, a 50 anni dalla loro canonizzazione. Precedentemente l’omaggio di Francesco ai martiri anglicani. La testimonianza dei martiri - ha detto il Santo Padre - non va custodita in  un museo, ma tramandata  in ogni luogo. Silenzio, raccoglimento e preghiera, ma anche grande gioia tra le decine di migliaia di fedeli presenti. Paolo Ondarza

Francesco sui luoghi del martirio di anglicani e cattolici
Nel segno del martirio e dell’ecumenismo. Si apre così la seconda giornata di Francesco in Uganda. Prima la visita al Santuario anglicano di Namugongo dove il Papa in omaggio all’ecumenismo del sangue ha svelato una targa commemorativa dei 23 martiri anglicani torturati e uccisi alla fine dell’Ottocento. Poi, dopo l’abbraccio all’arcivescovo anglicano e la preghiera silenziosa, il trasferimento in papamobile, tra la folla festante, al vicino Santuario cattolico consacrato da Paolo VI nel luogo dove San Carlo Lwanga fu bruciato insieme ai suoi 21 giovani compagni il 3 giugno 1886 dopo averli protetti dalle attenzioni morbose del re Mwanga e iniziati alla fede in piena persecuzione anticristiana. Al sovrano questi uomini non nascosero la loro fede nel vero Re: Gesù Cristo.

Esempio martiri per portare Cristo in ogni angolo del mondo
La libera testimonianza di questi martiri, molti in giovane età – ha ricordato Francesco nel corso della Messa calorosamente partecipata tra canti e balli tipici –  ha raggiunto “gli estremi confini della terra” ed è una grande eredità da tramandare:

“Non ci si appropria di questa eredità con un ricordo di circostanza o conservandola in un museo come fosse un gioiello prezioso. La onoriamo veramente, e onoriamo tutti i Santi, quando piuttosto portiamo la loro testimonianza a Cristo nelle nostre case e ai nostri vicini, sui posti di lavoro e nella società civile, sia che rimaniamo nelle nostre case, sia che ci rechiamo fino al più remoto angolo del mondo”.

Martiri ugandesi proclamarono Cristo in tempi pericolosi Cristo 
Il dono dello Spirito non può essere trattenuto, ha detto il Francesco ricordando come San Carlo Lwanga e compagni, dopo essere stati educati alla fede, trasmisero quanto ricevuto in tempi pericolosi e la loro testimonianza parla ancora oggi, proclama Cristo e la potenza della Croce:

“Non solo la loro vita fu minacciata ma lo fu anche la vita dei ragazzi più giovani affidati alle loro cure. (…)  non ebbero timore di portare Cristo agli altri, persino a costo della vita. La loro fede divenne testimonianza; oggi, venerati come martiri, il loro esempio continua ad ispirare tante persone nel mondo”.

Ravvivando il dono dello Spirito, come i martiri – è stata l’esortazione del Santo Padre – anche noi diverremo i discepoli missionari che Cristo ci chiama ad essere, “per i nostri amici, ma anche per chi ci è ostile”. Questa apertura agli altri inizia in famiglia, scuola di amore e misericordia, e si esprime nella cura verso anziani, poveri, vedove e orfani.

Non potere o piacere mondano, ma fedeltà a Dio dona gioia e piacere duraturi
La testimonianza dei martiri conclude il Papa mostra come "non i piaceri mondani o il potere terreno, ma la fedeltà a Dio, l’onestà, l’integrità di vita, la genuina preoccupazione per il bene degli altri donano gioia e pace durature":

“Ciò non diminuisce la nostra cura per questo mondo, come se guardassimo soltanto alla vita futura. Al contrario, offre uno scopo alla vita in questo mondo e ci aiuta a raggiungere i bisognosi, a cooperare con gli altri per il bene comune e a costruire una società più giusta, che promuova la dignità umana, senza escludere nessuno, che difenda la vita, dono di Dio, e protegga le meraviglie della natura, il creato, la nostra casa comune”.

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Un sacerdote: Papa è profeta di pace in un'Africa che brucia

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Quello del Papa nella Repubblica Centrafricana sarà un “gesto profetico” di un “santo uomo” che ha il “coraggio” di venire di persona a parlare di pace in mezzo alla guerra: è l’opinione di padre Paulino Mondo, missionario comboniano, parroco della chiesa di Mbuya in Uganda. Al microfono dell’inviato, Filomeno Lopes, il sacerdote parla del cammino di preparazione compiuto dai giovani ugandesi che hanno incontrando Papa Francesco al “Kololo air strip” di Kampala: 

R. – Abbiamo preparato bene i giovani, anche sulle Encicliche del Papa, l’“Evangelii Gaudium” e la “Laudato si’”, così che i giovani sappiano cosa pensa il Santo Padre. Abbiamo invitato tutti i giovani dell’Uganda a venire a Kololo: questa è una grande benedizione, perché ovunque vada il Santo Padre quando parla per i giovani e con i giovani è proprio un “nonno” che sta dando un suggerimento buono e vero. Tra l’altro, tanti dei martiri dell’Uganda erano giovani, alcuni avevano soltanto 13-14 anni e altri, come Carlo Lwanga, avevano soltanto 21 anni. I martiri dell’Uganda sono un modello vero, che dà sicurezza ai giovani ed insegna loro anche a prendere con serietà la vita nel mondo di oggi, che qualche volta fa confusione.

D. – Dopo l’Uganda, il Papa andrà nella Repubblica Centrafricana dove aprirà la Porta Santa per l’anno giubilare. Cosa rappresenta, secondo lei, questo gesto di Papa Francesco di iniziare nel continente africano, e in un luogo molto problematico in questo momento, un percorso sul tema della misericordia?

R. – Direi che il Santo Padre sta dando al mondo un segno profetico. Quando il Santo Padre sarà in Centrafrica, la sua sarà una presenza che potrà toccare tanti Paesi del mondo, in cui ci sono le guerre: Siria, Libano… Quando il Santo Padre sarà in Centrafrica, questo sarà un segno: sta dicendo “Guarda che Dio vuole la pace!”. Speriamo che quando il Santo Padre arriverà in Centrafrica anche i Boko Haram, che sono lì in Nigeria, sentiranno questa voce di un santo uomo… Come gli al-Shabaab che sono in Somalia, così come i Fratelli musulmani che sono in Egitto… C’è poi tanta confusione in Libia, in Mali… Quasi tutta l’Africa è in fiamme, sta bruciando. La presenza del Santo Padre, il significato dell’apertura della Porta della Misericordia sono segni di riconciliazione.

D. – Quali sono, secondo lei, le principali sfide che Papa Francesco trova oggi nel suo Paese?

R. – Qui, in Uganda, stanno distruggendo tutti i posti in cui c’era l’acqua, stanno costruendo case dappertutto… In Africa, le radici tradizionali stanno purtroppo sparendo. Il Santo Padre ci sta dicendo: guardate, in questo mondo siete passeggeri. Amatevi a vicenda. Se il Santo Padre ha il coraggio di andare dove c’è guerra, noi africani dobbiamo cominciare anche a essere ambasciatori di pace.

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Il Papa in Uganda: mio viaggio attiri attenzione del mondo sull'Africa

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Papa Francesco è giunto ieri pomeriggio ad Entebbe, in Uganda, seconda tappa del suo viaggio in Africa. Momento centrale di questa visita è il ricordo del 50.mo anniversario della canonizzazione dei martiri ugandesi.  Poco dopo l’arrivo, si è svolta la visita di cortesia al presidente Museveni e l'incontro con le autorità e il Corpo diplomatico. Ce ne parla Sergio Centofanti

Festosa accoglienza per Papa Francesco in Uganda. A dargli il benvenuto all’aeroporto di Entebbe i suonatori di tamburi e i danzatori della tribù kiganda e tantissima gente che lo ha salutato con entusiasmo lungo i 7 chilometri che lo hanno portato nel palazzo presidenziale.

Nel suo primo discorso nel Paese, il Papa ha sottolineato che “i martiri, sia cattolici che anglicani – sono autentici eroi nazionali” perché con la loro morte “ci ricordano l’importanza che la fede, la rettitudine morale e l’impegno per il bene comune hanno rappresentato e continuano a rappresentare nella vita culturale, economica e politica di questo Paese”. Ci ricordano, “nonostante le nostre diverse credenze religiose e convinzioni, che tutti siamo chiamati a cercare la verità, a lavorare per la giustizia e la riconciliazione, e a rispettarci, proteggerci ed aiutarci reciprocamente come membri dell’unica famiglia umana”.

“Questi alti ideali – ha detto Papa Francesco - sono particolarmente richiesti” a quanti hanno “il compito di assicurare con criteri di trasparenza il buon governo, uno sviluppo umano integrale, un’ampia partecipazione alla vita pubblica della Nazione, così come una saggia ed equa distribuzione delle risorse, che il Creatore ha elargito in modo così ricco a queste terre”. Mio desiderio - ha precisato - è attirare l'attenzione del mondo sull'Africa:

“Il mondo guarda all’Africa come al continente della speranza. L’Uganda è stata veramente benedetta da Dio con abbondanti risorse naturali, che siete chiamati ad amministrare come custodi responsabili. Ma la Nazione è stata soprattutto benedetta attraverso il suo popolo: le sue solide famiglie, i suoi giovani e i suoi anziani”.

In particolare, è importante – ha detto – che ai giovani vengano offerte “la speranza, la possibilità di ricevere un’istruzione adeguata e un lavoro retribuito, e soprattutto l’opportunità di partecipare pienamente alla vita della società!”.

Il Pontefice ha citato anche la benedizione degli anziani:  

“Sono la memoria vivente di ogni popolo. La loro saggezza ed esperienza dovrebbero sempre essere valorizzate come una bussola che può consentire alla società di trovare la giusta direzione nell’affrontare le sfide del tempo presente con integrità, saggezza e lungimiranza”.

Quindi, ha espresso il suo apprezzamento per l’impegno “eccezionale” profuso dall’Uganda “nell’accogliere i rifugiati, permettendo loro di ricostruire le loro esistenze nella sicurezza”:

“Il nostro mondo, segnato da guerre, violenze e diverse forme di ingiustizia, è testimone di un movimento migratorio di popoli senza precedenti. Il modo in cui affrontiamo tale fenomeno è una prova della nostra umanità, del nostro rispetto della dignità umana e, prima ancora, della nostra solidarietà con i fratelli e le sorelle nel bisogno”.

Di qui, l’incoraggiamento di Papa Francesco ai “tanti silenziosi sforzi compiuti per assistere i poveri, gli ammalati e le persone in qualsiasi difficoltà. È in questi piccoli segni che possiamo vedere la vera anima di un popolo”:

“In molti modi il nostro mondo diventa più solidale; tuttavia, nel medesimo tempo, assistiamo con preoccupazione alla globalizzazione della “cultura dello scarto”, che ci rende ciechi di fronte ai valori spirituali, indurisce i nostri cuori davanti alle necessità dei poveri e priva i nostri giovani della speranza”.

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Papa ai catechisti ugandesi: siate maestri ma soprattutto testimoni

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Il messaggio che portate si radicherà quanto più voi sarete non solo dei maestri, ma anche dei testimoni. Così il Papa agli insegnanti e catechisti nella comunità ugandese di Munyonyo. Francesco ha benedetto la prima pietra della nuova chiesa. Nel suo saluto, l’arcivescovo di Kampala, mons. Cyprian Kizito Lwanga, ha evidenziato la gioia nell’avere il Papa “nella terra dei Martiri” e per la prima volta a Munyonyo dove a fine ‘800 il Re Mwanga decise l’eliminazione dei cristiani. Al temine dell'incontro Francesco ha piantato simbolicamente un albero versandoci dell’acqua insieme con l’arcivescovo e con i rappresentanti di altre confessioni cristiane, a ricordare la dimensione ecumenica dei martiri ugandesi. Il servizio di Massimiliano Menichetti: 

L’affetto e il desiderio d’incontro accompagnano Papa Francesco in un abbraccio continuo di colori e suoni in questo suo viaggio in Africa. Anche nella comunità ugandese di Munyonyo i canti e i balli, bucando il buio della sera, hanno dato il benvenuto al Pontefice accolto dal superiore dei Francescani Conventuali, cui è affidato il Santuario. Migliaia le persone presenti. Il Pontefice, rivolgendosi a insegnanti e catechisti, che nel Paese sono oltre 14.500, ha subito parlato del loro mandato evidenziando che Gesù è “il primo e più grande maestro”:  

“Insieme ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, che sono stati ordinati per predicare il Vangelo e prendersi cura del gregge del Signore, voi, come catechisti, avete una parte di rilievo nel portare la Buona Notizia ad ogni villaggio e casolare del vostro Paese”.

Il Papa ha ringraziato per “i sacrifici”, “la dedizione e devozione” nell’insegnare:

“Istruite gli adulti e aiutate i genitori a crescere i loro figli nella fede e portate a tutti la gioia e la speranza della vita eterna. Grazie! Grazie per la vostra dedizione, per l’esempio che offrite, per la vicinanza al popolo di Dio nella sua vita quotidiana e per i tanti modi con cui piantate e coltivate i semi della fede in tutta questa vasta terra! Grazie specialmente per il fatto di insegnare ai bambini e ai giovani come pregare”.

Guardando alle difficoltà Francesco ha incoraggiato a perseverare chiedendo a “vescovi e sacerdoti” l’aiuto per una “formazione dottrinale, spirituale e pastorale” per rendere “sempre più efficace” il lavoro di insegnati e catechisti:

“Anche quando il compito appare gravoso, le risorse risultano troppo poche e gli ostacoli troppo grandi, vi farà bene ricordare che il vostro è un lavoro santo”.

Francesco ha ricordato la forza della preghiera e che lo Spirito Santo è “presente dove il nome di Cristo viene proclamato” e che è proprio Lui che “darà la luce e la forza di cui avete bisogno!”:

“Il messaggio che portate si radicherà tanto più profondamente nei cuori delle persone quanto più voi sarete non solo dei maestri, ma anche dei testimoni. E questa è un'altra cosa importante: voi dovete essere maestri, ma questo non serve se voi non siete testimoni”.

“Che il vostro esempio faccia vedere a tutti la bellezza della preghiera – ha rimarcato - il potere della misericordia e del perdono, la gioia di condividere l’Eucaristia con tutti i fratelli e le sorelle”:

“La comunità cristiana in Uganda è cresciuta grandemente grazie alla testimonianza dei martiri. Essi hanno reso testimonianza alla verità che rende liberi; furono disposti a versare il proprio sangue per rimanere fedeli a ciò che sapevano essere buono, bello e vero”.

Ribandendo lo splendore della luce emersa dal sangue dei Martiri ugandesi ha ricordato che “Munyonyo, è il “luogo dove il Re Mwanga decise di eliminare i seguaci di Cristo”. Ma “egli - ha continuato - non riuscì in questo intento, così come il Re Erode non riuscì ad uccidere Gesù”. La luce rifulse nelle tenebre - ha proseguito - e le tenebre non hanno prevalso (cfr Gv 1,5). Dopo aver visto la coraggiosa testimonianza di sant’Andrea Kaggwa e dei suoi compagni, i cristiani in Uganda divennero ancora più convinti delle promesse di Cristo”. Francesco ha affidato ai Martiri tutti gli uomini e le donne per una “convincente testimonianza dello splendore della verità di Dio e della gioia del Vangelo”. Poi il mandato:

“Andate senza paura in ogni città e villaggio di questo Paese, senza paura, per diffondere il buon seme della Parola di Dio, e abbiate fiducia nella sua promessa che tornerete festosi, con covoni ricolmi di un abbondante raccolto”.

Quindi la benedizione, “Dio vi benedica” ha detto in lingua swahili: Omukama Abawe Omukisa!

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Papa a giovani: trasformare male in bene, con Gesù è possibile

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Siete forti, affidatevi a Gesù e così trasformerete il male in bene. E’ l’esortazione che Francesco ha rivolto ai giovani ugandesi che lo hanno accolto con straordinario entusiasmo all’ex aeroporto di Kololo, a Kampala. Un incontro di grande intensità emotiva sia per i giovani che per il Papa. Dopo aver ascoltato due toccanti testimonianze di ragazzi ugandesi, il Pontefice ha preferito mettere da parte il testo preparato per l’incontro e parlare a braccio, fino a dialogare con i giovani presenti sul tema della sofferenza che viene trasformata in speranza dalla fede in Gesù. Il servizio di Alessandro Gisotti:

Una ragazza malata di Aids fin dalla nascita, un giovane rapito dai miliziani dell’Esercito di liberazione del signore per arruolarlo come bambino soldato. Sono le testimonianze toccanti, commoventi che hanno preceduto il discorso tutto a braccio di Papa Francesco. Due ragazzi, Winnie ed Emmanuel, che nella sofferenza hanno trovato la forza di guardare avanti, di “non mollare”, e così costruire un futuro di speranza:

“Young people living with HIV…”
“I giovani malati di Aids – ha detto Winnie – hanno bisogno di amore e sostegno, non di pietà e rifiuto”. “Rimaniamo forti nella fede – gli ha fatto eco Emmanuel – per superare le tentazioni e le sfide della nostra vita”. E proprio da queste testimonianze ha mosso la riflessione Papa Francesco, sensibilmente toccato da quanto aveva ascoltato.

Gesù trasforma le pareti in orizzonti
“Un’esperienza negativa – si è innanzitutto domandato – può servire a qualcosa nella vita?”. Tanto “Emmanuel quanto Winnie – ha affermato – hanno vissuto esperienze negative nella loro vita”, ma Gesù ha fatto capire loro che “nella vita si può fare un grande miracolo: trasformare una parete in un orizzonte, un orizzonte che mi apra al futuro”. Davanti a una esperienza negativa, ha ripreso, “c’è sempre la possibilità di aprire un orizzonte, di aprirlo con la forza di Gesù”, come ha fatto Winnie.

“Y esto no es magia, esto es obra de Jesús...
E questa non è una magia: questa è opera di Gesù! Perché Gesù è il Signore. Gesù può tutto. E Gesù ha sofferto la esperienza più negativa della storia: è stato insultato, è stato scacciato ed è stato assassinato. Ma Gesù, con il potere di Dio, è Risorto. Egli può fare in ognuno di noi lo stesso, con ogni esperienza negativa. Perché Gesù è il Signore”.

Giovani dell’Uganda, trasformate l’odio in amore
Francesco ha quindi rivolto il pensiero a Emmanuel, alla sua sofferenza “quando vedeva che i suoi compagni venivano torturati, quando vedeva che i suoi compagni venivano assassinati”. Ma Emmanuel, ha detto, “è stato coraggioso”, ha corso “il rischio, ebbe fiducia in Gesù e fuggì” ed oggi è qui:

“Nuestra vida es como una semilla: para vivir hay que morir...
La nostra vita è come un seme: per vivere occorre morire. E a volte morire fisicamente, come è successo ai compagni di Emmanuel. Morire come sono morti Carlo Lwanga e i martiri dell’Uganda. Ma attraverso questa morte c’è una vita, una vita per tutti. Se io trasformo il negativo in positivo, sono un trionfatore. Però, questo si può fare solamente con la grazia di Gesù”.

Il Papa ha dunque dialogato con i giovani, chiedendo innanzitutto se siano “disposti a trasformare nella vita tutte le cose negative in cose positive”, a “trasformare l’odio in amore”, “trasformare la guerra in pace”. Voi, ha detto ancora, “dovete essere coscienti che siete un popolo di martiri. Nelle vostre vene scorre il sangue dei martiri! E per questo avete la fede e la vita”. Una fede e una “vita così bella, che si chiama la perla dell’Africa’”. Gesù, ha detto ancora, “può cambiarti la vita. Gesù può tirare giù tutti i muri che hai davanti a te. Gesù può far sì che la tua vita sia un servizio per gli altri”. E questo, ha commentato con una battuta, non perché abbia “una bacchetta magica”.

Superare le difficoltà, trasformare il negativo e pregare
Francesco ha così invitato i giovani a chiedere aiuto al Signore attraverso la preghiera: “Non smettete mai di pregare – ha esortato – la preghiera è l’arma più forte che ha un giovane”. E ancora, ha invitato i giovani ugandesi ad “aprire la porta” del cuore e “lasciarlo entrare” perché “quando Gesù entra nella nostra vita ci aiuta a combattere”, contro tutti i problemi della vita. Quindi, ha sottolineato che siamo nella Chiesa e nella Chiesa tutti hanno una Madre, che è Maria e bisogna pregarla:

“Las tres cosas: superar las dificultades. Segundo: transformar lo negativo...
Tre cose: la prima, superare le difficoltà; la seconda, trasformare il negativo in positivo; la terza, la preghiera, la preghiera a Gesù che può tutto. Gesù, che entra nel nostro cuore e che cambia la vita. Gesù, che è venuto per salvarmi e che ha dato la sua vita per me. Pregare Gesù, perché Lui è l’unico Signore. E siccome nella Chiesa non siamo orfani e abbiamo una Madre, pregare la Madre nostra”.

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Padre Lombardi: entusiasmo africano per Papa Francesco

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Dopo il Kenya, l’Uganda. Cambiano i Paesi ma è la stessa gioia che accoglie Papa Francesco nel suo primo viaggio in Africa. Il nostro inviato in Uganda, Filomeno Lopes, ha chiesto al direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, quale significato abbia questo viaggio in un Paese già visitato da Paolo VI e Giovanni Paolo II: 

R. – Come dici bene, il Papa viene in Uganda in continuità con i suoi predecessori, proprio perché l’Uganda è la terra dei martiri africani, i primi martiri africani dell’era moderna, e con una testimonianza che ha per la Chiesa africana una grandissima importanza e non solo per l’Uganda, ma anche per gli altri Paesi. Quindi il fatto di ricordare la testimonianza di questi martiri, di riportarla continuamente alla memoria e farne comprendere il significato permanente è qualcosa che è un gran servizio per la Chiesa e il Papa intende farlo. Ricordiamo che questo tema del martirio il Papa lo sente molto: il viaggio in Corea – per esempio – per i martiri coreani, è stato veramente un grande viaggio in cui il tema del martirio è stato assolutamente dominante. E poi in questa testimonianza dei martiri africani noi abbiamo quella dimensione ecumenica che è molto cara al Papa. Lui parla sempre dell’ecumenismo del sangue: il fatto che siano insieme, cattolici e anglicani, che nello stesso modo e nelle stesse circostanze hanno dato la vita, dice che abbiamo una stessa fede e siamo chiamati da Gesù Cristo alla stessa testimonianza, alla più grande testimonianza che è quella dell’amore superiore alla vita stessa. Quindi questo è centrale – direi - per il viaggio in Uganda. Però il viaggio in Uganda è anche un viaggio in un Paese dell’Africa che ha problemi comuni con tanti altri problemi dell’Africa. Io sono rimasto già colpito, arrivando in Uganda dal Kenya con il Papa, nel capire che i temi che egli ha lanciato durante il viaggio in Kenya continuerà ad approfondirli durante il viaggio in Uganda, anche se con situazioni e sfumature diverse in Centrafrica. Ci sono dei problemi comuni e alcuni aspetti sono fondamentali, come la gioventù: i giovani, la popolazione – solo guardandoci attorno – vediamo che è giovanissima. I problemi della gioventù in Africa sono drammatici. Li abbiamo sentiti nello Stadio di Kasarani a Nairobi e lo sentiremo qui a Kampala. Il Papa incoraggia i giovani, affronta con loro e partecipa con loro ai difficili problemi che hanno e che sono il futuro loro e che quindi sono il futuro degli africani. Poi ci sono i problemi che sono attorno a noi, evidenti, di povertà, di corruzione, di sanità, di dignità della persona in tantissime forme. E il Papa li affronta con questi suoi incontri simbolici con i poveri, con le persone sofferenti nelle istituzioni di sanità … Questo è un discorso che continua. Quindi io vedo l’Uganda come un anello di una catena di questo viaggio africano, che sarà molto ricco e che andrà approfondendosi man mano.

D. – Come ha visto la prima accoglienza?

R. – Io sono rimasto stupefatto. Nairobi è una grande città ma non è concentrata o meglio le zone in cui noi siamo passati non sono molto concentrate e quindi lungo le strade non è che ci fossero delle grandi folle… Ci sono state le grandi folle nello slum di Kangemi, che naturalmente è densissimamente popolato e lì la gente si era ammassata. Ma qui abbiamo fatto 40-50 chilometri trovando gente in grande quantità lungo la strada e trovandola di notte: già al buio, quando il sole era tramontato, il Papa passava in una macchina chiusa, a grandissima velocità, e la gente c’era ugualmente e noi abbiamo sentiamo, io ho sentito – io ero su una macchina, naturalmente dietro al Papa – l’onda delle grida di gioia, dei canti, vedevo la gente che ballava, che si sbracciava nell’oscurità. Era una impressione molto, molto caratteristica. Direi che è una grandiosa accoglienza, anche se notturna e poco visibile con gli occhi: era una grandiosa accoglienza! Ne ho viste anche altre, ma questa mi ha molto colpita devo dire, anche per le sue dimensioni e per il suo entusiasmo tipicamente africano.

D. – Dopo l’Uganda sarà la volta anche della Repubblica Centrafricana: il suo predecessore Benedetto XVI aveva chiesto all’Africa e agli africani di essere “polmoni spirituali” di questa umanità, che affronta in questo momento tanti conflitti. Il fatto stesso che Papa Francesco abbia scelto la Repubblica Centrafricana e quindi un Paese in questo momento con problemi di pace come luogo per andare ad aprire la Porta Santa per questo Anno del Giubileo della Misericordia che significato può avere prima per gli africani e in secondo luogo anche per l’umanità come tale?

R. – Il significato mi sembra assolutamente evidente: come abbiamo visto che il Papa, anche in Europa, è partito dalle periferie e non dai Paesi più potenti, anche in Africa ha voluto intensamente fare il suo primo viaggio toccando un Paese – anzi devo dire che il Centrafrica è il primo a cui lui ha pensato – che ha particolari problemi in questo periodo, come sappiamo, in seguito ai conflitti e quindi un Paese molto travagliato ormai da tanti anni… Il Papa cerca naturalmente di farsi presente con chi ha più bisogno, con chi è più povero e soffre di più: allora ha pensato al Centrafrica e ha pensato ad aprire lì la Porta della Misericordia, facendo una piccola eccezione, un piccolo anticipo, che è però estremamente significativo: se lui vuole che tutti i popoli sperimentino che c’è la misericordia di Dio, l’amore di Dio per loro, allora vuole farlo sentire in particolare anche ad un popolo che soffre tanto come quello centrafricano, andando proprio al cuore dell’Africa, perché il Centrafrica è proprio fisicamente al centro dell’Africa, e farlo capire a tutto un continente che ha bisogno di incoraggiamento, di speranza, di sentire l’amore di Dio come incoraggiamento a trovare una strada per uno sviluppo degno, riconciliato, nell’amore e nella dignità.

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Centrafrica: musulmani mobilitati per accogliere Papa Francesco

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Uno dei momenti forti del viaggio del Papa in Centrafrica, sarà l’incontro con i musulmani nella Moschea centrale di Bangui, in programma lunedì mattina 30 novembre. Ma qual è la realtà della componente islamica di Bangui?  La nostra inviata Romilda Ferrauto ha raccolto la testimonianza di Ali Abakar, insegnante musulmano e coordinatore della piattaforma interreligiosa dei giovani centrafricani:

R. – Je réside au PK5: c’est la localité ou les musulmans de la ville de Bangui …
Vivo nel quartiere « PK5 », il quartiere nel quale vive la maggioranza dei musulmani di Bangui. Sono stati avviati diversi programmi per preparare l’arrivo del Papa, per quanto riguarda la Moschea centrale. I musulmani si sono mobilitati in massa: le organizzazioni musulmane del terzo distretto si sono costituite in commissione per preparare l’arrivo del Papa e le attività si svolgono sotto la presidenza dell’imam della Moschea centrale.

D. – Lei spera che la visita del Papa possa favorire una riconciliazione tra cristiani e musulmani?

R. - La réconciliation entre chrétiens et musulmans est obligatoire, parce-que avant tout ça …
La riconciliazione tra cristiani e musulmani è d’obbligo, perché prima delle violenze cristiani e musulmani vivevano insieme! E’ la politica che ha tentato di volgere la situazione a proprio favore, orientando gli scontri verso un conflitto religioso.

D. – Lei mi dice che la maggioranza dei musulmani è contenta della visita del Papa. Ma non ci sono forse anche frange estremiste, ostili a questa visita e che potrebbero manifestarsi, nei prossimi giorni?

R. – Le terme “extrémiste”, pour la communauté ici, ne me parait pas très, très justificatif. …
Il termine "estremista", applicato alla comunità locale, non mi sembra poi molto, molto indicato. Io ho vissuto di persona tutto quello che è successo, dall’inizio degli scontri fino a oggi: l’aggressione alla comunità ha indotto la comunità a proteggersi con il poco che ha e nel poco spazio a sua disposizione per seguire le proprie attività e la propria religione in libertà, nel terzo distretto.

D. – Sì, questo può essere vero per la popolazione che vive nel PK5; ma ci sono stati e ci sono ancora gruppi armati a maggioranza musulmana …

R. – Avec le programme mis en place pour la sortie de crise actuellement, ces groupes armés on les a …
Con il programma istituito per gestire la crisi, questi gruppi armati sono stati allontanati e si sono dislocati in prefetture ben note al fine di garantire la sicurezza della popolazione civile, protetta dalle forze internazionali.

D. – Perché, allora, ci sono stati timori, a livello di sicurezza, per quanto riguarda la visita di Papa Francesco alla Moschea centrale?

R. – Bon. Vous savez, le pays vient de traverser un conflit et, en vie encore ce conflit, il y a des gens …
Bene. Come lei sa, nel Paese c’è stato un conflitto e questo conflitto è ancora in atto. Ci sono persone che hanno ancora ferite aperte: ad alcune è stata devastata la casa, ci sono persone alle quali sono stati uccisi i genitori … sono grandi dolori e queste persone non riescono ad accettare tutto e vogliono rivendicare i loro diritti, cosa però che non bisogna confondere con la sfida politica. Anche nella comunità c’è chi difende i propri interessi politici. Ma la maggior parte delle persone è pronta a ricevere il Papa e a uscire da questa situazione.

D. – Mi racconta, allora, come si vive nel quartiere musulmano PK5?

R. – Sans vous mentir, nous avons pas tellement de problèmes: notre seul problème c’est la libre …
Non le racconto una bugia: non ci sono tantissimi problemi; il nostro vero problema è la libera circolazione all’interno stesso della città di Bangui. La maggioranza della popolazione di Bangui è manipolata dai politici; non ci si dà la possibilità di parlare; nessun soggetto musulmano ha il diritto di spostarsi liberamente nella città di Bangui. L’unico spazio in cui il musulmano è “libero”, è il terzo distretto, e cioè il PK5. Questo è un gioco politico, perché vuol significare che il musulmano rappresenta un pericolo per la comunità, senza tenere conto del fatto che la maggior parte di loro sono poveri commercianti ai quali sono state distrutte le proprietà – avevano una casa … Se, ad esempio, prendiamo le prefetture di Berbérati, di Carnot – che sono quartieri nei quali i musulmani erano la maggioranza – queste sono state devastate, le case distrutte e ormai tutti si ritrovano nel PK5, l’unico luogo nel quale il musulmano è libero.

D. – E uscire dal Pk5, per voi è pericoloso?

R. – Nous sommes exposés à des attaques à tout moment. …
Noi siamo esposti ad attacchi in qualsiasi momento. Ci sono dei gruppi che ci sparano addosso senza alcuna ragione e siamo costretti a proteggerci. Ma quello che si dice alle spalle della comunità musulmana è tutt’altra cosa rispetto a quello che poi noi viviamo realmente.

D. – Per concludere: voi, la comunità del PK5, che cosa vi aspettate da Papa Francesco? Qual è la vostra speranza?

R. – Le retour à la paix.
Che torni la pace.

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Missione Onu in Centrafrica: tutto pronto per la visita del Papa

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Il Centrafrica è ormai pronto ad accogliere Papa Francesco. L’arrivo è previsto a Bangui questa domenica alle 10.00. La missione di pace dell’Onu, Minusca, e le truppe francesi dell’operazione Sangaris, in collaborazione con le autorità locali, hanno predisposto tutto perché la visita in questo Paese ancora dilaniato dalle violenze possa svolgersi in sicurezza. Ascoltiamo il responsabile dell’Ufficio Onu in Centrafrica, Parfait Onanga-Anyanga, al microfono di Hélène Destombes:

R. – C’est un travail d’équipe…
E’ un lavoro di équipe, tutti i preparativi sono quasi ultimati e siamo fiduciosi nella capacità delle forze congiunte di assicurare la migliore sicurezza al Papa e al suo entourage durante la visita in Centrafrica.

D. - Ci sono operazioni comuni previste tra Minusca e Sangaris?

R. – Absolument, nous sommes dans un partenariat…
Assolutamente, siamo in un partenariato strategico che è forte. Coordiniamo le nostre attività sul terreno e possiamo essere soddisfatti del calo della violenza, certo non è escluso che ci sia qualche sabotatore che cerchi di perturbare la calma ma siamo preparati a rispondere nella maniera più efficace possibile.

D. - Qual è oggi la situazione in termini di sicurezza e di clima nella città?

R. – Nous avons une accalmie dont il faut se satisfaire ...
C’è una calma di cui bisogna essere soddisfatti … La vita è un po’ più gioiosa del solito, ci sono dappertutto grandi poster che annunciano la visita del Papa, con messaggi di pace… Credo che quello che sia da notare in questo periodo è l’unanimità in seno alla famiglia e la popolazione centrafricana. Credo che questa sia una gran bella cosa.

D. - Quali sono adesso i quartieri che vi preoccupano di più?

R. – Nous avons quelque soucis…
Abbiamo qualche problema nel Km 5, nel terzo arrondissement, ma quello che è notevole anche lì è la volontà della popolazione e soprattutto delle comunità musulmane di questo arrondissement di accogliere il Papa. Le disposizioni sono state prese… Dovrebbe essere un momento storico per il Centrafrica.

D. - Alcuni quartieri come quello di Fatima per esempio non sono ancora resi sicuri e bande armate imperversano ancora …

R. – Fatima a été effectivement le siége…
Fatima è stata effettivamente la sede di queste bande armate in alcuni momenti. La Missione dell’Onu (Minusca) ha sempre ripreso il controllo, abbiamo pattuglie presenti, abbiamo cominciato un’operazione volta a togliere tutte le barricate e quindi c’è una circolazione più fluida. Questo non significa che non ci sono più sfide ma che siamo in una crescita di potenza delle forze internazionali e ho assolutamente fiducia nella nostra capacità di ristabilire una libera circolazione e una sicurezza più grande per la popolazione civile.

D. - Senza minimizzare la sfida della sicurezza lei ha la sensazione che la situazione in Centrafrica soprattutto a Bangui è meno preoccupante di quello che lasciano trasparire i media?

R. – Oui, ça je peux le dire…
Sì sono d’accordo perché a Bangui ci troviamo di fronte a un’insicurezza che è organizzata in alcuni quartieri e arrondissement e dove c’è chiaramente la volontà di sabotatori di strumentalizzare le religioni in questo conflitto ed è molto spiacevole. Adesso, malgrado tutte queste difficoltà vediamo ad ogni modo che due milioni di centrafricani si sono precipitati alle urne elettorali, auspicando di impegnarsi in un processo politico, dicendo alle loro élite che non vogliono regolare la gestione del governo con l’uso delle armi: vogliono che le urne determino il loro futuro. Bisogna dare loro questa occasione. Il tempo della pace, della saggezza, potrebbe essere arrivato. L’opportunità della visita del Papa ci ricorda che al di là che sia un capo di Stato politico è anche un capo spirituale ed è forse in questa dimensione che i centrafricani potrebbero trovare l’energia, l’ispirazione perché questo Paese si ridia i mezzi  di riconciliarsi con se stesso e che possa intravedere un futuro in cui tutti i figli e le figlie del Centrafrica possano vivere all’unisono.

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Il Papa ha ricevuto a Kampala il Presidente sud-sudanese Salva Kiir

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Papa Francesco ha ricevuto ieri sera nella nunziatura di Kampala il Presidente del Sud Sudan, Salva Kiir. Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha sottolineato che l'udienza rappresenta "un gesto speciale" che testimonia l'attenzione con la quale Francesco segue le travagliate vicende di questo Paese che è il più giovane dell'Africa (indipendente dal luglio 2011) e ha tra i suoi fondatori un vescovo cattolico, mons. Cesare Mazzolari, scomparso poco dopo la nascita del Sud Sudan. Nei 5 anni di vita, infatti, non c’è mai stata pace per il Sud Sudan, nonostante gli ideali che lo hanno ispirato fossero proprio quelli della pacificazione tra le etnie e con il Sudan. Il conflitto contrappone il Presidente Salva Kiir da un lato e dall’altra la fazione ribelle che fa capo all’ex vice Presidente, Riek Machar. Le parti, lo scorso agosto, avevano sottoscritto un’intesa per il cessate il fuoco e la creazione di un governo di unità nazionale, ma di fatto sono numerose le violazioni alla tregua. Sull'importanza di questo incontro e sul processo di pace nel Paese africano, Elvira Ragosta ha intervistato Anna Bono, docente di Storia e Istituzioni africane all’Università di Torino: 

R. – E’ importante sotto due profili, perché mostra l’attenzione speciale che Papa Francesco ha dimostrato nei confronti del Sud Sudan e poi per la gravità della situazione nel Paese, che da due anni è in guerra con uno sforzo enorme, costante, da parte della comunità internazionale, per cercare di far sì che i contendenti trovino una soluzione e smettano di combattere. Sforzo che, continuamente, viene frustrato, perché un susseguirsi di accordi di pace, di cessate-il-fuoco, sono stati siglati dai contendenti e regolarmente violati, e sul terreno si combatte.

D. – L’Unicef denuncia che circa 16 mila bambini sono stati arruolati dalle parti in conflitto, che, dal suo inizio, ha provocato 1500 vittime tra i minori. Cosa può dirci sulla situazione umanitaria nel Paese?

R. – Dal 2013, quando il conflitto è iniziato, si parla anche di decine di migliaia di morti e oltre 2 milioni di profughi e di sfollati, che vivono in condizioni sempre più gravi. Mezzo milione di bambini non riesce più ad andare a scuola, perché è in fuga o perché le scuole sono state distrutte. In più ci sono delle resistenze da parte del governo a consentire ai soccorsi internazionali di raggiungere soprattutto la parte di popolazione più a rischio. La carestia che si temeva nei mesi scorsi è arrivata. Un rapporto recente, di poche settimane fa, delle Nazioni Unite racconta di persone, di famiglie intere che vivono mangiando erbe e radici per settimane, in attesa che qualcuno li raggiunga e si prenda cura di loro. Purtroppo, un conflitto di potere ai vertici dello Stato è poi degenerato in una guerra civile, in uno scontro etnico che vede contrapposte soprattutto le due maggiori etnie: i dinka e i nuer. E questo dilagare poi di scontri, che coinvolgono la popolazione, è forse il danno peggiore. Risanare, infatti, una situazione di crisi di questo genere richiede – lo dicono i vescovi, lo dicono le agenzie umanitarie – non mesi, ma anni, anche nell’ipotesi, per il momento non molto probabile, di un vero cessate-il-fuoco e di un vero accordo di pace. Vedremo che cosa è riuscito a fare Papa Francesco nei quindici minuti in cui ha incontrato il Presidente del Sud Sudan, Salva Kiir.  

D. – Il Sud Sudan è il più giovane dei Paesi africani: ha raggiunto l’indipendenza nel 2011. Tra i suoi fondatori, anche il vescovo cattolico mons. Mazzolari. E’ un Paese nato proprio con gli ideali di pacificazione tra le diverse etnie. Eppure, nei suoi pochi anni di vita è un Paese che non ha conosciuto la pace. Al di là delle differenze tra le etnie, quali sono i motivi per cui si combatte questa guerra civile?

R. – Tutto si è originato ai vertici dello Stato. Questo Paese per prosperare, per risollevarsi anche rapidamente da decenni di guerra, aveva solo bisogno che chi ha preso la guida del Paese evitasse due rischi: la corruzione e il tribalismo. Bastava davvero questo, perché il Paese è ricchissimo di materie prime, in particolare di petrolio. Purtroppo, quasi subito, un’etnia – i dinka – che ha espresso il presidente della Repubblica, Salva Kiir, ha incominciato ad accentrare nelle proprie mani il potere politico. L’altra etnia – i nuer – la seconda etnia del Paese, ha mal tollerato questo e nell’agosto del 2013 è scoppiata la crisi, quando il portavoce dei nuer, Riek Machar, che all’epoca era vice Presidente, ha annunciato di volersi candidare alle prossime elezioni presidenziali. La reazione del Presidente è stata di dimetterlo immediatamente e poche settimane dopo è scoppiato il conflitto.

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Nomina episcopale in Costa d'Avorio

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In Costa d’Avorio, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Yopougon, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Laurent Akran Mandjo. Al suo spoto, il Papa ha nominato mons. Jean Salomon Lezoutié, coadiutore della medesima diocesi.

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Papa a Festival Dottrina sociale: è tempo di dialogo e cambiamento

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Questo è il tempo di dialogare, il tempo di cambiare, il tempo di coinvolgerci: è quanto ha affermato Papa Francesco in un videomessaggio in occasione del quinto Festival della Dottrina sociale della Chiesa in corso a Verona sul tema: “La sfida della realtà”. Ce ne parla Sergio Centofanti

“Questo è il tempo del dialogo – ha affermato Papa Francesco - non della difesa di rigidità contrapposte”, è il tempo di costruire ponti non muri. L’invito è ad affrontare «la sfida di scoprire e trasmettere la ‘mistica’ di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Evangelii gaudium, 87). Il dialogo apre al diverso e ricompone in un quadro i tanti segmenti della nostra società creando le condizioni per un disegno armonico”.

Il Papa esorta a non essere indifferenti, a coinvolgersi con l’altro, con i poveri, con chi soffre. L’estraneità – ha detto – “è un modo che difende l’egoismo e ci rende tristi. Lo star vicino alle persone, versare l’olio della consolazione, toccare la carne dell’altro, farsi carico dei suoi problemi allarga il cuore, rimette in circolazione l’amore e ci fa stare bene”. E’ questa la strada indicata da Gesù quando dice: “Avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere…” (cfr Mt 25,31- 46)”.

“La sfida della realtà – ha aggiunto il Pontefice - chiede però un cambiamento. Da tutti è percepito il bisogno di cambiamento perché si avverte che c’è qualcosa che non va. Il consumismo, l’idolatria del denaro, le troppe diseguaglianze e ingiustizie, l’omologazione al pensiero dominante sono un peso da cui ci vogliamo liberare con il recupero della nostra dignità e impegnandoci nella condivisione, sapendo che la soluzione ai problemi concreti non viene dai soldi ma dalla fraternità che si fa carico dell’altro. Il cambiamento vero parte innanzitutto da noi stessi ed è un frutto dello Spirito Santo. Persone interiormente cambiate dallo Spirito conducono anche a un cambiamento sociale”.

“Il cambiamento è richiesto poi alle nostre strutture: è preferibile essere flessibili per rispondere meglio ai bisogni concreti, che difendere le strutture e rimanere ingessati. Fare un po’ di pulizia, aumentare la trasparenza, recuperare freschezza, genuinità e agilità fa bene alle strutture e alle persone: troveremo nuovamente lo slancio e l’entusiasmo di fare qualcosa di bello a servizio dei fratelli. Ai nuovi bisogni e alle nuove povertà occorrono risposte nuove. Vivendo la prossimità troveremo anche l’ispirazione e la forza per dare una forma concreta al cambiamento da tutti desiderato”.

Infine c’è la sfida ecologica che “chiede di ascoltare il grido della madre terra: il rispetto delle creature e del creato rappresenta una grande sfida per il futuro dell’uomo. L’uomo e il creato sono indissolubilmente legati: «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (Enc. Laudato si’, 49)”.

La cura della terra – precisa il Papa – “riguarda certamente la politica, l’economia, le scelte strategiche sullo sviluppo, ma niente può sostituire il nostro impegno personale. La sobrietà, il consumo consapevole, uno stile di vita che accoglie il creato come un dono ed esclude forme predatorie e di possesso esclusivo, è il modo concreto attraverso il quale si crea una nuova sensibilità. Se saremo in molti a vivere così, l’intera società ne risentirà positivamente e diventerà udibile da tutti il grido della terra e il grido dei poveri”. “Le sfide della realtà sono tante – conclude il Papa - a noi il compito e la gioia di trasformarle in opportunità”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Veri eroi della nazione: in prima pagina, un editoriale del direttore sulla visita del Papa in Uganda.

Muro contro muro: cresce la tensione fra Russia e Turchia.

Il dramma delle spose bambine: secondo l'Unicef sono settecento milioni nel mondo.

I rischi di ogni sconfinamento: Mariella Carpinello su Charles de Foucauld e la fratellanza universale.

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Oggi in Primo Piano



Russia e Turchia: è scontro anche sul fronte economico

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Le diplomazie di Russia e Turchia sono al lavoro per evitare un’ulteriore escalation nei rapporti bilaterali, dopo l’abbattimento del jet di Mosca martedì scorso, ma nelle sedi ufficiali minacce e accuse reciproche restano pesanti. Si parla di petrolio acquistato dall’Is in cambio della vendita di armi. Da qui anche una serie di ritorsioni economiche attuate da Mosca: reintroduzione dei visti, blocco di import e stop ai viaggi sia verso la Russia che sul Bosforo. Una guerra economica che se portata avanti costerebbe ad entrambi i Paesi miliardi di perdite. E’ dunque una cosa possibile o le acque si calmeranno con l’incontro previsto tra i Presidenti, lunedì a Parigi? Gabriella Ceraso ne ha parlato con Nathalie Tocci vice direttore dell'Istituto Affari Internazionali: 

R. – Non credo che si arriverà ad una rottura totale dei rapporti bilaterali. E questo lo dico sulla base di quello che è la storia fra Turchia e Russia: sono sempre state in competizione, ma sono sempre state legate da tutta una serie di interessi - energetici, commerciali e geopolitici - che hanno sempre fatto sì che  questa competizione venisse contenuta. Quindi questo mi fa pensare che, anche in questo caso, né Russia né Turchia si possano permettere una rottura totale del rapporto.

D. – Probabilmente non arriveranno a scontrarsi perché gli interessi sono, appunto, quelli che lei ha citato: però l’intervento della Russia diretto in Siria e anche suoi pozzi petroliferi deve aver sconquassato un po’ quelle che erano gli obiettivi della Turchia. Perché, secondo lei?

R. – Perché la Russia aveva iniziato ad attaccare villaggi turcomanni in cui c’erano cellule jihadiste, che la Turchia considera opposizione legittima ad Assad, dà loro le armi, dà loro tutta una serie di sostegno anche logistico. Che cosa, secondo me, stava cercando quindi di fare la Turchia con la questione dell'aereo? Anzitutto chiaramente dare un segnale ai russi: “non ci provate, questa è roba nostra!”. In secondo luogo, in qualche modo, voleva complicare quello che è lo scacchiere che si sta componendo a Vienna. E qual è il discorso che si sta portando avanti a Vienna? Da un lato il fronte militare anti Is e dall’altro il fronte politico che cerca di arrivare ad un cessate-il-fuoco nelle zone non Is, che poi piano piano porterà ad una transizione politica, che però non vedrà un Assad che scompare dall’oggi al domani. Questa è una posizione, in qualche modo, molto antiturca: la Turchia e l’Arabia Saudita, sostanzialmente, sono quelli che hanno sempre detto che Assad se ne deve andare, se ne deve andare il prima possibile. Quindi, in questa situazione post-Parigi in cui si vedeva la Russia che si avvicinava all’Occidente, con l’abbattimento dell’aereo subentra chiaramente il discorso Nato, il discorso di solidarietà: quindi anche se a porte chiuse si dice “forse la Turchia ha un po’ esagerato”, di fatto poi pubblicamente nel momento in cui c’è stata una violazione dello spazio aereo, in cui comunque la Turchia ha iniziato a parlare dell’art. 5, la Nato fa fronte insieme alla Turchia. In questo senso, si complicano di nuovo i rapporti con la Russia e quindi il percorso di Vienna che è un percorso invece inclusivo.

D. – L’attesa è per questo incontro politico ad alto livello tra Erdogan e Putin  – come si spera che ci sia – lunedì in occasione dell’apertura della Conferenza sul clima a Parigi. L’accordo sul clima potrà essere intaccato da questo episodio?

R. - Non credo! Non credo! Mentre il discorso di Vienna e quindi il processo di pace in Siria è strettamente collegato al conflitto bilaterale, in questo caso no! Turchia e Russia sono sempre state in competizione, ma sono sempre riuscite – in qualche modo – alla fine a far prevalere il pragmatismo nel rapporto bilaterale. E anche in questo caso, visto che comunque sul discorso cambiamento climatico in realtà Turchia e Russia non hanno interessi opposti, non vedo motivo per cui si dovrebbe tradurre il conflitto su un piano scollegato, a differenza del discorso di Vienna.

D. – Potrà avvenire quindi questo incontro, secondo lei?

R. – Non mi stupirebbe se l’incontro non dovesse avvenire. E’ capace che ancora siano troppo caldi gli animi; ma forse no… Forse il lavoro che comunque sta facendo la diplomazia sottobanco è sufficiente per preparare un bilaterale, che non è completamente esclusivo.

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Cambiamenti climatici: 800 miliardi i costi per i Paesi poveri

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790 miliardi di dollari: è questo il costo che i Paesi in via di sviluppo dovranno sostenere per adattarsi ai cambiamenti climatici, se non verranno mantenuti gli impegni sul taglio dei gas nocivi. Alla vigilia della COP21 di Parigi, il prossimo 30 novembre, e della marcia globale per il clima in programma a Roma e in molte capitali mondiali questa domenica, Oxfam pubblica il rapporto “Le chiavi di svolta per l’accordo sul clima di Parigi” nel quale le conseguenze dei disastri ambientali sono quantificate dettagliatamente. Veronica Di Benedetto Montaccini ne ha parlato con Elisa Bacciotti, ricercatrice di Oxfam Italia: 

R. – Secondo le nostre stime, un innalzamento di tre gradi delle temperature a livello globale, da qui fino al 2050, comporterebbe per i Paesi in via di sviluppo un aumento dei costi pari a 273 miliardi di dollari all’anno. Cifra comunque irrisoria se consideriamo che a questa va sommata la perdita in Pil dell’economia nazionale di questi Paesi. 

D. – I fondi promessi per l’adattamento al cambiamento climatico sono stati erogati solo in minima parte: a cosa servivano principalmente? E come andrebbero poi ristabiliti e ridivisi?

R. – Pensate solo che se suddividessimo tutti i fondi già erogati per questo fine tra il miliardo e mezzo di contadini che lavorano nel mondo e che ne hanno bisogno, ogni contadino riceverebbe appena 3 dollari l’anno, che dovrebbero servire a questo contadino e alla sua famiglia per proteggersi da alluvioni, siccità e altri fenomeni climatici estremi che purtroppo vediamo quotidianamente nel nostro lavoro: in Vietnam, in Laos, in Cambogia, in Honduras e anche in molti altri Paesi. Risulta ovvio che per il momento questi aiuti sono veramente insufficienti.

D. – Cosa è cambiato dagli impegni siglati a Copenaghen, sei anni fa?

R. – Quello che è cambiato è che a oggi, oltre 150 Paesi – dal 2009 in poi – hanno assunto impegni fondamentali per il taglio delle emissioni. Quindi non solo è importante contenere i disastri ambientali ma anche diminuire i gas nocivi. Ci sono state anche prese di posizione importanti: dal segretario delle Nazioni Unite, da Papa Francesco e da altri rappresentanti religiosi, che hanno fatto cambiare il modo in cui molti Paesi del mondo guardano alla necessità di lottare contro il cambiamento climatico.

D. – Quali esempi positivi di contrasto ai disastri ambientali si possono già osservare? E poi, quali sviluppi sono auspicabili con la COP21 di Parigi?

R. – Per esempio, in Thailandia noi abbiamo da tempo attivato un programma per la produzione di riso, tenendo conto dell’impatto del cambiamento climatico nella regione, cercando di dare ai contadini strumenti per poter lavorare o coltivare il riso anche in situazioni di cambiamento climatico. Molti altri stati si stanno impegnando puntando sull'agroecologia. Una cosa molto concreta che può essere fatta a livello europeo, è la futura tassa europea sulle transazioni finanziarie: questa tassa può essere devoluta in parte a finanziare il fondo verde per il clima delle Nazioni Unite. Potrebbe quindi arrivare a lottare contro il cambiamento climatico e a permettere alle comunità di adattarsi ai suoi effetti.

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Declino demografico: necessari nuovi modelli culturali

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Un’Italia in declino demografico: è la fotografia scattata dall’Istat nel rapporto 2014 su “Natalità e fecondità della popolazione residente”. Sono quasi 12mila in meno i bimbi nati lo scorso anno, spesso da genitori non sposati, l’8% dei piccoli ha una madre che ha già superato i 40 anni. Di solito si punta il dito sulla crisi economica e lavorativa ma ci sono altre ragioni secondo Paola Ricci Sindoni, presidente dell’associazione “Scienza e Vita”. L’intervista è di Benedetta Capelli

R. – L’idea è che ci sia davvero da fare un lavoro culturale, perché bisogna restituire alle donne, ma anche alla coppia, il senso vero del tempo. E’ Papa Francesco a indicarci, nella “Evangelii gaudium”, l’idea che noi siamo sempre presi dalla conquista dello spazio e invece dovremmo recuperare il senso vero del tempo. Si tratta di ridare e di riformare dei modelli culturali per la donna, in primis, ma anche per la sua relazione con l’uomo, in cui c’è tempo per ogni cosa – come dice anche la saggezza biblica. Restituire il tempo alle donne significa metterle in condizione di poter star dentro – anche armonicamente – il proprio tempo biologico, quindi restituirle la capacità di inserirsi nel proprio tempo.

D. – Ci sono modelli culturali che puntano a posticipare la maternità, nell’idea che si possa fare un figlio a qualsiasi età …

R. – Dopo che la donna – giustamente – è entrata nel mondo del lavoro, si sono rotti quegli equilibri che avrebbero dovuto consentirle di ricreare un nuovo equilibrio tra lo stare al lavoro e nello stesso tempo, però, poter gestire il proprio bisogno di realizzarsi come madre. Invece, come sempre capita, quando si passa da un modello culturale a un altro, si tende a radicalizzare, a estremizzare. Da qui, appunto, la necessità non di riportare le donne “in casa, a fare figli”, come si dice, ma di restituire loro la possibilità – e qui entra in campo anche l’azione della politica – di mediare i diversi registri del tempo: quindi il tempo del lavoro e il tempo, appunto, della maternità.

D. – C’è anche una pubblicità dilagante che ha abituato le giovani donne a ritenere che sia possibile fare figli a qualsiasi età …

R. – Certamente. Perché le attrici, ma penso anche a grandi personaggi politici, pongono in evidenza come la donna poi, in fondo, non debba essere più schiava dei propri ritmi biologici, perché la scienza, questa grande madre artificiale, tende a sostituirsi al “bios” attraverso, appunto, anche le tecniche di fecondazione omologa, eterologa, utero in affitto e quant’altro. Invece, recuperare la passività di un tempo che – tra virgolette – ti costringe a recuperare il tuo desiderio di maternità, non diluendolo in un tempo infinito.

D. – I figli nascono spesso fuori dal matrimonio: l’Istat lo indica in una cifra di 138 mila bambini, che sono 26 mila in più rispetto al 2008. Anche questo è un segno della mancanza di fiducia nel “per sempre”?

R. – Sì, certamente. L’idea che il matrimonio sia un vincolo troppo pesante a fronte, appunto, di modelli più “light”, più liberi … E anche qui bisognerebbe far capire che è proprio per i figli che occorre che il legame si stabilizzi e abbia un suo riconoscimento sociale.

D. – Quali sono le risposte che la vostra associazione chiede, anche alla politica?

R. – Ma, intanto, noi stiamo preparando per il 2016 una serie di iniziative sia territoriali, sia anche a livello nazionale, per capire “cosa” realmente chiedere alla politica. Perché si fa presto a scaricare sulla politica, che pure ha le sue responsabilità, delle aspettative che devono essere affidate, invece, a una nuova sensibilità del femminile. Secondo me, è qui che bisogna offrire una serie di riflessioni, che sono pre-politiche, prima di gettare la responsabilità completamente sulla politica, che pure ne ha …

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Festa Natale cancellata in scuola Milano. Gambino: si mina democrazia

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Dare una netta impronta di laicità e non urtare la sensibilità degli studenti non cristiani, soprattutto in questo tempo scosso dal terrorismo e dalle stragi di Parigi. E’ questa la controversa motivazione che ha spinto il preside di una scuola a Rozzano, alle porte di Milano, a cancellare la “Festa di natale”. Al suo posto si terrà nell’istituto, il prossimo 21 gennaio, una “Festa d’inverno” con canzoni popolari e filastrocche invece dei tradizionali canti natalizi. La decisione, contestata da molti genitori, ha suscitato forti polemiche. Essere laici non significa negare la religione, sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco il giurista Alberto Gambino: 

R. – Sarebbe una definizione sbagliata di laicità quella che ritenesse l’annientamento dell’ispirazione religiosa nella comunità civile. In realtà, la laicità è ben definita da una serie di articoli della Carta costituzionale, dove si parla di una reciproca autonomia fra la dimensione religiosa e quella temporale. E questo implica non indifferenza fra queste due dimensioni. Non indifferenza significa anche che la comunità, all’interno delle varie religioni, individua quella più corrispondente alle proprie radici di civiltà. E, in questo caso, è proprio il cristianesimo in Italia che rappresenta queste radici di civiltà e di democrazia.

D. – Ci sono in nome della laicità riferimenti legislativi per eliminare simboli e feste religiose?

R. – Direi proprio di no, perché si andrebbe contro, intanto, gli art. 19 e 20 della carta costituzionale, che invece garantisce da parte dell’ordinamento la libertà religiosa, la possibilità che essa venga espressa in forme organizzate; altrimenti, ci sarebbe una forte discriminazione. Ma anche gli stessi art. 2 e 3 che riguardano la dignità della persona e i diritti inviolabili. La libertà religiosa è un diritto inviolabile. Poi, nel caso italiano, abbiamo addirittura gli art. 7 e 8 della carta costituzionale, che disciplinano i rapporti tra le religioni e, nel caso della religione cattolica, c’è il Concordato che assume anche una dimensione diversa dalle intese che, invece, disciplinano le altre religioni. E’ proprio infatti nelle radici di civiltà del nostro ordinamento il riferimento ad una religione che è una religione della tolleranza, dell’apertura, del rispetto tra gli altri. Quindi tutti valori davvero condivisi nella comunità italiana.

D. – C’è contraddizione tra laicità e celebrazione di feste religiose?

R. – Non c’è contraddizione. Tra l’altro, la laicità nasce nel mondo della Chiesa, nel mondo della religione, proprio per indicare come la missione spirituale sia una missione che riguarda le coscienze. E non sarebbe appunto laica se invece riguardasse l’esercizio del potere temporale all’interno di uno Stato. Questa ‘separazione dei poteri’ è molto chiara proprio in tutti gli ordinamenti occidentali che hanno a cuore questa distinzione. Del resto, non sarebbe libera una religione che fosse imposta dallo Stato. Ma è evidente che non è così in gran parte del mondo occidentale. Evidentemente, sono altri gli ordinamenti che hanno questa trasposizione tra potere religioso e potere temporale. Davvero mi sembra fuorviante questa decisione di estirpare dal mondo della scuola, dall’ambiente scolastico alcune celebrazioni che sono le radici della nostra democrazia. Sarebbe a questo punto, forse anche minare i principi della democrazia, estirpando questa tradizione, che non è solo religiosa, ma anche culturale delle grandi democrazie occidentali.

D. – Cosa si può fare, facendo riferimento proprio alla legge per salvaguardare le feste religiose, in particolare quelle cristiane?

R. – La legge deve rispettare i cosiddetti spazi di libertà. Ovviamente, devono essere libertà in grado di non nuocere ad altri. La libertà religiosa, legata anche  all’espressione materiale di questa libertà - quindi celebrazioni, funzioni, possibilità di parlare pubblicamente del sentimento religioso, anche con dei simboli - è accettata, anzi auspicata dagli ordinamenti ogni qualvolta non crei un danno verso altri. Ma il danno verso altri ci sarà laddove queste espressioni di libertà religiosa vadano contro i principi ispiratori dell’ordinamento. E quindi la legge deve anzi auspicare che ci siano sempre più spazi di libertà per quelle religioni che portano dei valori positivi, condivisi, perché sono la miglior garanzia che non vengano conculcate libertà anche di altro tipo, non soltanto quella religiosa.

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Cinema. "Colpa di comunismo", storia di immigrazione al femminile

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Presentato al Torino Film Festival, che questa sera proclamerà i vincitori della 33.ma edizione, "Colpa di comunismo", film italiano in concorso col quale la regista Elisabetta Sgarbi segue con delicatezza e semplicità un segmento di vita di tre donne romene in Italia. Una bella storia di integrazione e umanità. Il servizio di Luca Pellegrini

Per Ana, Elena e Micaela l'Italia ha preso il posto della loro patria, la Romania. Sono tre badanti che cercano lavoro. Lo fanno per la loro vita e per quella di chi è lontano. Elisabetta Sgarbi ha avvicinato queste tre donne offrendo loro l'occasione di raccontarsi, tra le Marche e il Polesine, mentre compiono gesti quotidiani, frequentano la loro chiesa ortodossa, cercano l'aiuto di amiche, condividendo timori, fragilità, ricordi e affetti. La regista le segue con discrezione e l'anima in mano, ci aiuta a compiere un viaggio in un mondo che ancora fa memoria delle sofferenze dei regimi del passato e cerca un futuro in un Europa dei popoli. Racconta ai nostri microfoni perché ha voluto girare questo documentario.

R. – Il mio intento era proprio di accendere i riflettori su queste persone che normalmente non vediamo, ci paiono invisibili e che pure sono persone che vivono, soffrono, che hanno desideri. Sono persone umilissime, che poi diventano fondamentali per le nostre vite perché sono poi quelle persone che noi scegliamo perché stiano accanto alle persone che ci sono più care e quindi a loro affidiamo la nostra debolezza, che è la debolezza dei nostri genitori. Io volevo proprio capire quanto queste persone fossero poi consapevoli del ruolo importante che noi affidiamo a loro in un momento in cui la vita diventa qualcosa di molto fragile. Quindi, volevo studiare la loro psicologia, il loro modo di essere, capire come si arrangiassero per arrivare poi a trovare quel lavoro che a noi sembra un fatto scontato. In realtà, emergono persone dolci, persone malinconiche, persone spavalde ma che sono tutte vòlte a risolvere un problema, un’urgenza, che è un’urgenza poi legata alla loro sopravvivenza, ma che con l’esperienza e col tempo – e così è stato quando poi ho studiato meglio una di loro che è Marianna, che è quella che le ospita – apprendono anche un’umanità molto importante e molto viva per svolgere il mestiere che viene loro affidato.

D. – In loro ha trovato più forte la necessità di rimanere o il desiderio di ritornare?

R. – No, è più forte la necessità di rimanere. Il fatto stesso che non parlino quasi più la loro lingua, se non proprio in momenti in cui o stanno giocando, come nel letto in cui si ritrovano in una strana euforia o a casa dopo la Messa, in cui comunque raccontandosi un po’ le loro vite, l'una si sorprende perché l’altra non torna a casa da sei o sette anni… Però, il fatto stesso che l’italiano sia la lingua che domina il loro modo di comunicare ci fa pensare che loro proprio desiderano integrarsi e restare nel Paese che hanno scelto. E quindi, ho notato anche che il loro sentimento verso le loro famiglie è un sentimento, forse per necessità, più freddo di quello che noi viviamo, nel senso che riescono a trascorrere tempi lunghissimi senza rivedere i loro figli e non sembra neanche che sia una necessità dell’immediato o comunque nascosta e sottesa ai loro ragionamenti. Quello che è chiaro è che per loro è fondamentale trovare i soldi per poterli mandare là dove sono rimaste le persone con cui hanno costruito un nucleo familiare, o i genitori o i mariti o i figli.

D. – Quando lei ha proposto a queste tre donne il film, qual è stata la loro reazione?

R. – Io vorrei vedere, davvero, sono molto curiosa di vedere la loro reazione quando lo vedranno il film, perché loro hanno seguito me ciecamente, volevo raccontare le loro giornate e quindi dovevano essere il più possibile loro stesse e parlare come si parlano quando stanno insieme, fare le cose che danno uno svolgimento al loro tempo e al loro quotidiano. Mi piacerà vedere come si vedranno perché forse non sanno che hanno raccontato davvero una bella storia.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella prima Domenica di Avvento la liturgia ci presenta il Vangelo in cui Gesù parla ai discepoli degli ultimi tempi, quando Lui tornerà con grande potenza e gloria. “Vi saran­no segni nel sole, nella luna e nelle stelle - afferma - e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti”. Quindi aggiunge:  

“Quando cominceranno ad accadere queste cose, risol­levatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”.

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti: 

L’uomo cerca la pace, ma non sa proprio come raggiungerla. Per la paura che ha della morte, resta schiavo del demonio, il signore della guerra, della violenza, di ogni terrorismo, di gelosie e contese e che lo spinge ogni giorno al male. Già la Lettera di Barnaba, agli inizi del II secolo, osservava amaramente: “I tempi sono cattivi e spadroneggia il Maligno con la sua attività diabolica”. Ci riteniamo troppo intelligenti per parlare di demonio, anche davanti alla tragedia di questi giorni: non per averne paura – Cristo lo ha vinto –, ma per non esserne vittime! Vogliamo la pace, ma facciamo la guerra. Il Vangelo di oggi apre una finestra su ciò che ci attende e le previsioni sono da bollettino di guerra, con lo sconvolgimento dell’universo intero! Già da qualche tempo si parla di “post-umano”, o “trans-umano”: l’uomo ha messo le mani sull’albero della vita; sembra avere tra le mani una tecnologia con cui “ricreare se stesso a propria immagine”, non importa se la persona scompare, se l’anima è bandita, cancellata… Il “post-umano” non guarda più a Dio che ha creato l’uomo a sua immagine, non vuole neppure sentir parlare di Dio. E’ figlio della filosofia di Nietzsche: “L’uomo può essere oltrepassato… Spezzate, spezzate le tavole…”, diceva. A quest’uomo resta solo la tecnica, capace di costruire macchine, macchine di morte. Il Vangelo oggi, con molta forza ci dice: “State attenti a voi stessi”, perché chi cancella Dio, cancella l’uomo. Il tempo di Avvento annuncia che Dio viene, viene per amare, per salvare l’uomo da se stesso: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28).

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Nella Chiesa e nel mondo



Missionari Sud Sudan: evento di speranza incontro Papa-Salva Kiir

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“Può apparire un evento marginale nell’ambito della visita di Papa Francesco in Uganda, ma per il Sud Sudan è un evento di speranza” dicono all’agenzia Fides fonti missionarie dal Sud Sudan commentando l’incontro avvenuto a Kampala, capitale dell’Uganda, tra Papa Francesco e il Presidente del Sud Sudan, Salva Kiir. L’incontro di un quarto d’ora è avvenuto nel tardo pomeriggio di ieri, 27 novembre, poco dopo l’arrivo del Santo Padre in Uganda.

Il processo di pace va avanti a fatica
​Il Sud Sudan è sconvolto dal dicembre 2013 da una drammatica guerra civile tra le forze leali al Presidente Kiir e quelle che fanno riferimento all’ex vice Presidente Riek Machar. “Questo perché - spiegano le fonti di Fides - dopo la firma a fine agosto degli accordi di pace, il processo di pace sta andando avanti a fatica. I combattimenti continuano ancora in varie zone, non solo nella aree che erano state maggiormente interessate dalla guerra, nella regione del Grande Alto Nilo, ma in questi ultimi mesi, dopo la firma degli accordi, si sono avuti forti scontri anche nella regione dell’Equatoria. La scorsa settimana il governo ha inviato gli elicotteri a bombardare almeno due località”.

In Uganda anche pellegrini sud-sudanesi
“La vicinanza politica e geografica tra Uganda e Sud Sudan ha certamente facilitato l’incontro tra il Papa e il Presidente sud-sudanese che è un cattolico” aggiungono le fonti di Fides. “Tra l’altro diversi pellegrini delle diocesi meridionali del Sud Sudan sono giunti a Kampala per partecipare alla visita del Santo Padre”. (L.M.)

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Unicef: 16 mila bambini arruolati dai due fronti in Sud Sudan

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Circa 16.000 bambini sono stati arruolati di forza dalle parti coinvolte nel conflitto civile in Sud Sudan. Lo ha denunciato l’Unicef secondo cui, “nonostante la firma di accordi di pace, sul terreno si vedono pochi segnali di miglioramento”. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia - riporta l'agenzia Misna - ha riferito inoltre di “gravi violazioni dei diritti dei minori, tra cui omicidi, rapimenti e violenze sessuali”. Dall’inizio del 2015 ad oggi, la situazione sarebbe addirittura peggiorata, con arruolamenti forzati e stupri di minori da parte dei combattenti.

1.500 i bambini uccisi dall'inizio del conflitto
“Alcuni bambini sono costretti a combattere in prima linea - ha aggiunto il portavoce Unicef  Christophe Boulierac - mentre altri vengono usati come messaggeri o facchini in situazioni pericolose”. L'Unicef stima che siano 1.500 i bambini uccisi dall'inizio del conflitto, 900mila gli sfollati interni e un milione i bambini affetti da malnutrizione.

Il Paese dilaniato dal 2013 da una sanguinosa guerra civile
​Indipendente dal 2011, dopo una lunga guerra civile con Khartoum, il Sud Sudan è ripiombato nel conflitto civile nel dicembre 2013 in seguito ad una lotta ai vertici di potere tra il Presidente Salva Kiir e il suo vice Riek Machar. I combattimenti non sono mai veramente cessati nonostante le firme – lo scorso 26 agosto – di un accordo di pace tra il governo e i ribelli mediato dall’Igad. (A.d.L.)

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Arrivato a Parigi il pellegrinaggio dei popoli per la terra

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È giunto a Parigi il pellegrinaggio “Una terra. Una famiglia umana. In cammino verso Parigi” dopo 57 giorni, molti dei quali sotto la pioggia autunnale e 1.500 chilometri a piedi: i partecipanti hanno percorso l’Italia da Roma fino ad Aosta, per poi affrontare le strade della Svizzera, della Germania e, infine, della Francia. Una quindicina di pellegrini sono arrivati a Parigi per l’inizio della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima Cop21. L’iniziativa - riferisce l'agenzia Sir - è stata organizzata, per la tratta europea, da Focsiv-Volontari nel mondo con la collaborazione della Coalizione Italiana per il clima. È guidata da Yeb Sano, ex vice-ministro ed ex-negoziatore sui cambiamenti climatici della Repubblica delle Filippine, ideatore di The People’s Pilgrimage e ambasciatore di OurVoices. 

La crisi ambientale ha anche una dimensione morale
In Asia e Oceania durante Cop21, tutti i governi del mondo dovranno sottoscrivere un nuovo accordo globale sul clima che consenta di limitare il riscaldamento globale, almeno al di sotto di 2°C, e accelerare la transizione verso la decarbonizzazione entro il 2050. “I governi dovrebbero ricordare che la crisi ecologica non ha una dimensione puramente economica e ambientale ma anche morale. Il sostentamento e l’esistenza stessa di molte comunità, come nelle basse isole dell’Oceania, le comunità costiere del Bangladesh, le famiglie contadine in Africa e molte altre, corrono dei seri rischi per loro stessa sopravvivenza”, ha dichiarato Bernd Nilles, segretario generale Cidse. 

Il rischio di politiche che continuano a rimandare l’assunzione di impegni forti
In vista di Cop21 i due coordinamenti hanno presentato il Rapporto “Parigi, per le Persone e per il Pianeta”, nel quale sono esposte le raccomandazioni sull’accordo di Parigi, esaminando il significato dell’enciclica Laudato si’ in relazione ai negoziati sul clima. Gianfranco Cattai, presidente Focsiv, punta il dito contro “le politiche che continuano a rimandare l’assunzione di impegni forti e vincolanti per l’abbandono di pratiche inquinanti e di sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali”. 

Mettere al centro le Persone, il Pianeta, la Pace e il Futuro dell’Umanità
A Roma Focsiv e Cidse parteciperanno anche alla Global Climate March di domani, organizzata dalla Coalizione Italiana Clima in 150 Paesi: “Vogliamo far crescere la voce a favore di una ecologia umana integrale, come indicatoci da Papa Francesco, e vogliamo manifestare per la pace, contro il terrorismo. Mai come ora c’è bisogno di tanti cammini personali e collettivi per costruire un mondo che metta al centro le Persone, il Pianeta, la Pace e il Futuro dell’Umanità”. (R.P.)

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Argentina: Messe e preghiere per la Cop21 sul clima

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La Commissione nazionale “Giustizia e Pace” della Conferenza episcopale argentina, ha invitato ad offrire le Messe di domani, domenica 29 novembre e la preghiera personale perchè la Conferenza sul cambiamento climatico (Cop21) che si svolge dal 30 novembre all’11 dicembre a Parigi, e che vedrà riuniti i leader di tutto il mondo, abbia un buon esito e porti frutti concreti.

Si tratta di una questione di stile di vita
Secondo quanto riferisce l’agenzia Fides, il presidente della Commissione, Emilio Inzaurraga, ritiene che "le conseguenze globali derivanti dalla drammatica accelerazione dei cambiamenti climatici obbligano a ridefinire i nostri concetti di crescita e di progresso. Si tratta realmente di una questione di stile di vita. Ci auguriamo che la Cop21 trovi una soluzione che sia consensuale, considerando la dimensione e la natura globale dell’impatto climatico”.

Appello delle Chiese di tutto il mondo per la riuscita della Conferenza
Richiamando la recente enciclica di Papa Francesco Laudato sì, sulla cura della casa comune, Inzaurraga sottolinea che gli abitanti di tutto il mondo chiedono che “la Conferenza di Parigi si dimostri responsabile e si concluda con successo”, per questo desiderano far sentire la loro voce, “impegnandosi con la loro preghiera e il loro lavoro quotidiano per la cura del creato". Invitando ad aderire alla petizione cattolica per il clima, indirizzata ai leader mondiali, Inzurraga ricorda anche l’Appello di cardinali, patriarchi e vescovi, rappresentanti delle Conferenze episcopali continentali, delle diverse parti del mondo, indirizzato al Cop21. (S.L.)

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Gianluigi De Palo nuovo presidente del Forum delle Famiglie

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“Siamo cellule staminali – rigorosamente adulte – che silenziosamente ritessono una coesione sociale che sta andando in frantumi”. "Realizzeremo il quoziente familiare in 3 anni". Così Gianluigi De Palo il nuovo presidente eletto oggi dal Forum delle Associazioni familiari. 39 anni sposato, papà di 4 figli ha un lungo passato nell’associazionismo cattolico (già presidente delle Acli di Roma e del Forum delle Famiglie del Lazio è stato assessore tecnico alla famiglia e alla scuola del Comune di Roma e consigliere capitolino). Nell’ottobre del 2014 è stato il promotore del “movimento dei passeggini” per la difesa delle famiglie a fronte degli aumenti ingiustificati delle tariffe degli asili nido.

Il Forum vuole dare voce alla famiglia ed alle coppie giovani
“Siamo la voce di quelle coppie che vorrebbero mettere al mondo un figlio, ma sanno che facendolo nel nostro Paese diventano povere" ha detto il neo presidente. "Siamo la voce di quelle mamme italiane che vorrebbero fare due figli e invece si devono fermare, di media, a 1,39, rischiando, peraltro, di venire licenziate. Siamo la voce di quel 92% di giovani (tra i 18 e i 29 anni) che sogna di costruirsi una famiglia (addirittura desiderando 2 o più figli), ma che è costretto, per inseguire quei progetti, ad andare all’estero. Siamo la voce di quelle famiglie italiane che non arrivano alla fine del mese perché costrette a fare i conti con un fisco iniquo e vecchio che non tiene conto del numero dei figli”. 

Centro dell’agenda politica la vera priorità del Paese che è la famiglia
“Il nostro Paese – aggiunge Di Palo – deve dimostrare se vuole vincere la sfida del futuro o invece rassegnarsi all’antipolitica. Il problema della denatalità non è un problema sociologico, legato solo alle nascite, ma un problema di speranza e di fiducia. Il Forum non vuole rassegnarsi a un Paese che gestisce le emergenze. Per questo vogliamo rimettere al centro dell’agenda politica la vera priorità del Paese che è la famiglia”.(M.M.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 332

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.