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Sommario del 08/10/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: Dio non abbandona mai i giusti, i malvagi non hanno nome

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Dio non abbandona mai i giusti, mentre quelli che seminano il male sono come degli sconosciuti, dei quali il cielo non ricorda il nome. È l’insegnamento che Papa Francesco ha tratto dalle letture del giorno della Messa mattutina, celebrata in Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Una madre coraggio, marito, tre figli, meno di 40 anni e un tumore “di quelli brutti” che la inchioda al letto. “Perché?”. Una donna anziana, persona con la preghiera nel cuore e con un figlio assassinato dalla mafia. “Perché?”.

Perché il bene dei malvagi?
La voce del Papa sull’altare di Santa Marta amplifica il grande quesito che come una lama taglia i pensieri di tanta gente la cui fede convinta, radicata, è messa a dura prova dai drammi della vita. Perché accade questo, “quale vantaggio abbiamo ricevuto – è il grido che Francesco prende dalla lettura del Profeta Malachia – dall’aver osservato” i comandamenti di Dio, mentre i “superbi” pur “facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti?”: 

“Quante volte noi vediamo questa realtà in gente cattiva, in gente che fa del male e che sembra che nella vita le vada bene: sono felici, hanno tutto quello che vogliono, non manca loro niente. Perché Signore? E’ uno dei tanti perché… Perché a questo che è uno sfacciato al quale non importa niente né di Dio né degli altri, che è una persona ingiusta pure cattiva, gli va bene tutto nella sua vita, ha tutto quello che vuole e noi che vogliamo fare del bene abbiamo tanti problemi?”.

Il Signore veglia sui giusti
La risposta a questo perché il Papa la desume dal Salmo del giorno, che proclama “beato” l’uomo “che non entra nel consiglio dei malvagi” e che “trova la sua gioia” nella “legge del Signore”. E spiega:

“Adesso non vediamo i frutti di questa gente che soffre, di questa gente che porta la croce, come quel Venerdì Santo e quel Sabato Santo non si vedevano i frutti del Figlio di Dio Crocifisso, delle sue sofferenze. E tutto quello che farà, riuscirà bene. E cosa dice il Salmo sui malvagi, su quelli che noi pensiamo vada tutto bene? ‘Non così, non così malvagi, ma come pula che il vento disperde. Perché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina’”.

Solo un aggettivo
Una rovina che Francesco sottolinea citando la parabola evangelica di Lazzaro, simbolo di una miseria senza scampo, e del gaudente che gli negava anche le briciole che cadevano dalla sua tavola:

“E’ curioso di quell’uomo non si dice il nome. E’ soltanto un aggettivo: è un ricco. Dei malvagi, nel Libro della Memoria di Dio, non c’è nome: è un malvagio, è un truffatore, è uno sfruttatore… Non hanno nome, soltanto hanno aggettivi. Invece, tutti quelli che cercano di andare sulla strada del Signore, saranno con suo Figlio, che ha il nome, Gesù Salvatore. Ma un nome difficile da capire, anche inspiegabile per la prova della croce e per tutto quello che Lui ha sofferto per noi”.

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Sinodo. Padre Lombardi: il Papa invita a non pensare a complotti

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Circoli minori al lavoro anche oggi al Sinodo dei vescovi sulla famiglia, in corso in Vaticano. A fine mattinata, consueto briefing nella Sala Stampa vaticana. Sono intervenuti, in qualità di relatori e membri dei Circoli minori, il card. Menichelli, l’arcivescovo Palmer-Buckle ed il patriarca siro-cattolico Ignace Youssif III Younan, che ha lanciato un appello: “L’Occidente non dimentichi i cristiani in Medio Oriente”. Il servizio di Isabella Piro: 

Patriarca Younan : Occidente non dimentichi cristiani in Medio Oriente
"Nous sommes très inquiets et même alarmé… 
“Siamo davvero preoccupati ed allarmati per la situazione delle comunità cristiane in Medio Oriente e soprattutto per le prove catastrofiche a cui sono sottoposte le famiglie, divise perché fanno tutto il possibile per uscire dall’inferno in cui vivono in Siria ed in Iraq”: questo l’appello drammatico lanciato dal patriarca siro-cattolico Ignace Youssif III Younan. “Deploriamo il fatto – spiega - che non riusciamo a convincere le nuove generazioni a rimanere laddove il Cristianesimo ha avuto le sue origini”. E ribadisce: “Abbiamo centinaia di persone che sono ostaggio dei terroristi islamici, è un fenomeno catastrofico di lunga durata”.

L’appello, quindi, è portare la voce dei perseguitati soprattutto in Occidente perché, sottolinea il patriarca Younan, “ci sentiamo dimenticati e traditi dall’Europa e dall’America”. E conclude: “Portiamo la nostra voce ai potenti perché la situazione cambi”.

Mons. Palmer-Buckle: Africa al Sinodo non per bloccare qualcosa, ma per proporre
“It will be difficult for anybody to tell me Africa is blocking anything...
“Non siamo qui per bloccare nessuno, ma per proporre quello che sentiamo sulla famiglia e per il bene della Chiesa”, aggiunge dal suo canto mons. Charles Palmer-Buckle, arcivescovo di Accra, in Ghana. In Africa, spiega, “c’è un concetto di famiglia estesa e noi vogliamo vedere come mantenere vivi i valori e le gioie di tale famiglia estesa”.

“Il futuro della famiglia è la missione della Chiesa”, ribadisce il presule ghanese, soprattutto nel continente africano dove la Chiesa cattolica sta crescendo molto in fretta. Poi, il vescovo di Accra assicura: i temi discussi dal Sinodo non sono solo europei, ma della Chiesa nella sua universalità.

Card. Menichelli: nessun personalismo nei Circoli minori
“Mi sembra che questo sia un Sinodo del popolo, frutto del contributo delle diocesi”, dice inoltre il card. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo, riferendo che in Aula si è riflettuto anche sul tema del diaconato femminile. Dal porporato anche un’analisi delle modalità di lavoro nei Circoli minori:

“Il clima è molto aperto, non ci sono personalismi. Anzi: c’è proprio questo desiderio di conoscere per offrire indicazioni nuove, per manifestare quell’amore verso le famiglie ed anche quella preoccupazione che la Chiesa spesso manifesta di fronte a fenomeni che vorrebbero – tra virgolette – non nobilitare pienamente la realtà familiare”.

Padre Lombardi: dal Papa, l’invito a non pensare che ci siano complotti 
Rispondendo, infine, alla domanda di un giornalista sull’intervento del Papa ai lavori Sinodali del 6 ottobre, in particolare sull’espressione “ermeneutica cospirativa” a lui attribuita, padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, ha spiegato:

“Io non ho riferito questa espressione, è uscita da altra fonte. Non ho da smentirla. Evidentemente il concetto è: non dobbiamo pensare che ci siano complotti. Quindi, la visione che dobbiamo avere del Sinodo è quella di un processo di scambio, di comunicazione, che avviene nella serenità, nella sincerità e non è da considerare guidata da interessi particolari e da tentativi di manipolare o di condurre diversamente da quello che, invece, è il processo di ricerca comune, nello spirito che la comunità ecclesiale deve fare”.

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Card. Coccopalmerio: dottrina astratta non guarda alla persona

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Al di là di quanto si legge su alcuni media, il clima che si sta vivendo al Sinodo è di grande fraternità: è quanto afferma il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. Ascoltiamolo al microfono di Fabio Colagrande

R. – Direi che innanzitutto c’è molta fraternità, soprattutto nei circoli minori: adesso che ci si conosce meglio si parla molto liberamente – e questo è un grande valore perché il Papa ce l’ha richiamato fortemente – e valorizzando più facilmente le opinioni degli altri, anche se sono diverse dalle tue. Questa mi sembra una cosa molto buona. Poi, speriamo che le cose continuino con questa libertà e fraternità.

D. – Il Papa, nella Santa Messa inaugurale, ha detto che una Chiesa con le porte chiuse tradirebbe se stessa: sentite anche l’impegno di essere uniti, alla vigilia del Giubileo della Misericordia?

R. – Ma certamente! Guardi, questa dell’apertura delle porte, di cui è simbolo anche l’apertura della Porta Santa nel Giubileo, è fondamentale per la Chiesa. Certamente, la Chiesa ha una dottrina che deve mantenere ferma, però se guarda direttamente alla dottrina e poi alla persona, può aver più difficoltà a capire la persona; se invece guarda direttamente alla persona e alle sue sofferenze, alle sue necessità concrete, poi trova nella dottrina una luce per venire incontro alla persona. Ma guardando direttamente alla persona, alle sue sofferenze, alle sue necessità concrete, si trova quello stimolo che invece non si ha guardando più astrattamente solo e direttamente alla dottrina.

D. – Si può dire che è un Sinodo pastorale e non dottrinale? E’ giusta questa definizione?

R. – Io non contrapporrei “dottrinale” a “pastorale”, perché la dottrina è per la persona, per il bene della persona e la pastorale è il bene della persona. A volte, però, la dottrina deve tener conto della situazione della persona, o meglio: deve diventare luce per dare una risposta alle necessità concrete. Quindi, si potrebbe dire: contrapponiamo dottrina astratta a pastorale, ma non dottrina a pastorale. La dottrina deve servire, nel suo nucleo profondo, a illuminare e a risolvere i problemi concreti.

D. – In questo senso il Santo Padre, con il Motu proprio che riguardava lo snellimento del processo canonico matrimoniale, ha dato un’indicazione – secondo lei – al Sinodo?

R. – Sì. Ha dato una risposta a quello che il Sinodo aveva chiesto nella sua prima sessione: quella di rendere più veloci le procedure di investigazione sulla validità o non validità del matrimonio e quindi sulla dichiarazione di come il matrimonio si trova. Quindi ha dato una risposta a queste domande. Bisogna sempre tener conto che il procedimento per la dichiarazione di nullità matrimoniale è un procedimento “pro rei veritate”, cioè deve arrivare a vedere – quindi a dichiarare – se questo matrimonio è valido o non è valido. Per cui, anche nella maggiore velocità, deve sempre però aver presente questa finalità: dichiarare se la realtà è questa o è un’altra. Questo è un postulato fondamentale. La velocità, però, non va a scapito della veridicità dell’indagine e della dichiarazione.

D. – Alcune cronache giornalistiche stanno raccontando il Sinodo come un luogo dove si scontrano fazioni diverse di vescovi, ci sono correnti in lite. Dal di dentro, lei come lo vive?

R. – Ci sono pareri diversi e questo è veramente un bene, perché se tutti la pensassimo nello stesso modo su realtà che evidentemente sono suscettibili di pensiero diverso, sarebbe una cosa molto povera, molto negativa; invece questi modi di pensare diversi sono una ricchezza. Ed è una grande ricchezza quella di poter esprimere il proprio parere, anche se diverso da quello di altri fratelli, di altri padri sinodali, o anche diverso dalla maggioranza dei pareri degli altri confratelli o padri sinodali. Quindi, direi che sono due ricchezze: quella di avere pensieri diversi e quello di potere esprimere il proprio pensiero con libertà e con gioia.

D. – Si troverà una sintesi, affidandosi allo Spirito Santo?

R. – Certamente! Noi dobbiamo avere piena fiducia nello Spirito Santo e dobbiamo anche esprimerlo nella preghiera: cioè, non soltanto chiedere la luce ma anche dire allo Spirito Santo: “Noi siamo sicuri che Tu ci aiuterai a trovare un’intesa, una sintesi finale di comunione”. Proprio oggi nella Lettura del Vangelo si dice: “Il Padre darà certamente lo Spirito Santo a chi glielo chiederà" perché l’unico oggetto certo di preghiera, che certamente il Padre non può eludere, è quello della richiesta dello Spirito Santo. Quindi, chiederglielo in questi giorni, anche con una breve preghiera ripetitiva, credo che sia veramente molto importante.

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Testimonianza di un vescovo vietnamita: vivere famiglia come sogno di Dio

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La ricchezza che la Chiesa può offrire alle famiglie in difficoltà è mostrare loro che in Cristo, morto e risorto, ogni croce può essere affrontata. Lo dimostrano le tante storie di coppie che dopo un periodo di separazione e sofferenza si sono rialzate riprendendo il loro cammino insieme. La fede – spiega il padre sinodale vietnamita mons. Joseph Đinc Duc Dao, vescovo coadiutore di Xuân Lôc – aiuta l’uomo contemporaneo a non fuggire di fronte alla sofferenza, ma a condividerla con la comunità ecclesiale. Ascoltiamo il presule nell’intervista di Paolo Ondarza

R. – Le difficoltà ci sono sempre, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. La novità che la Chiesa proclama è che in mezzo a tutte queste difficoltà c’è la presenza di Dio che è venuto per portare la sua forza, la sua luce affinché le famiglie, con il suo aiuto, possano affrontare queste difficoltà con dignità. Ma a volte, le difficoltà sono anche una missione che Dio chiede di saper affrontare con il suo Spirito, guardando a  Cristo crocifisso che sulla Croce ha salvato il mondo. Quindi è possibile trasformare le sofferenze in grazia, in salvezza per l’umanità intera.

D. – C’è il rischio che di fronte alle difficoltà si scelga la via della fuga, mentre – come lei sta dicendo – la difficoltà può essere affrontata alla luce della Croce che salva?

R. – Naturalmente, in tutti i tempi c’è sempre la tentazione di cercare le cose più facili. Oggi, nel nostro mondo, la tendenza è sempre cercare la facilità: quindi si dimentica il messaggio fondamentale del cristianesimo. L’Amore è l’amore che si esprime soprattutto nel contesto della sofferenza: quando si ama si accetta anche la sofferenza, per amore.

D. – Sofferenza come parte della vita umana e quindi anche come parte della vocazione al matrimonio, che non vuol dire “scelta della sofferenza”, ma piuttosto incontrare la sofferenza e portarla con Cristo …

R. – L’importante è ricordare che Cristo è venuto non per eliminare la sofferenza, ma insegna a trasformare la sofferenza in vita, in forza!

D. – Dunque, lei sta facendo un appello alla fede: oggi c’è debolezza nella fede?

R. – Sì: si vedono molti segni della mancanza di fede, però allo stesso tempo ci sono molti segni di fede. Tante famiglie in difficoltà vivono in pace, in speranza, in gioia grazie alla loro fede. Diverse famiglie in tutto il mondo, parlo naturalmente del Vietnam: tante famiglie vivono nella fede e trasmettono la fede ai loro figli. A volte corrono il rischio di perdere anche il lavoro per poter conservare la loro fede e trasmettere la fede ai loro figli: e questa è la forza della Chiesa in Vietnam!

D. – La Chiesa è il luogo in cui la gioia e anche il dolore possono essere condivise …

R. – Grazie a Dio, la nostra cultura ha un carattere comunitario, quindi si vive la fede non soltanto nell’ottica individuale, ma anche in comunità, in famiglia, in parrocchia. La parrocchia in Vietnam è una realtà molto viva: c’è una connessione molto intima tra famiglia e parrocchia, e questa è la forza della Chiesa. I cristiani vivono la loro fede come gioia, come entusiasmo e servizio, grazie a queste due realtà comunitarie: famiglia e parrocchia.

D. – Gioia e sofferenza, due dimensioni della vita familiare …

R. – Nello stesso momento in cui si vive la sofferenza, si esprime la gioia. Conosco, per esempio, un mio lontano parente che ha un cancro e soffre molto a causa di questo tumore. Nel momento della sofferenza grida, ma dopo chiede a tutti i familiari di pregare per lui affinché sappia trasformare questo momento di dolore per la salvezza del mondo, per essere fedele a Dio.

D. – Per chiudere, qual è il suo augurio per questo Sinodo sulla famiglia qui, in Vaticano?

R. – Il mio augurio, naturalmente, è che si possa trasmettere l’entusiasmo, la gioia del Vangelo a tutte le famiglie e che le famiglie cristiane, cattoliche – naturalmente, nella nostra Chiesa – trovino la gioia in Dio affinché possano trasmettere questa gioia di vivere la famiglia come sogno di Dio, trasmetterla a tutte le famiglie del mondo, a prescindere dal luogo o dalle differenze religiose.

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Donna ruandese al Sinodo: colonizzazione ideologica in Africa

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Fin dal primo giorno dei lavori al Sinodo è risuonata la denuncia della colonizzazione ideologica in atto in tutto il mondo, particolarmente in Africa dove ai paesi poveri in cambio di aiuti allo sviluppo viene imposta da parte di organizzazioni internazionali una visione della vita che decostruisce la natura e le differenze sessuali. Non è attaccando la famiglia che si  protegge la società, spiega Thérèse Nyrabukeye, formatrice della federazione africana dell’azione familiare in Ruanda e uditrice al Sinodo. L’intervista è di Paolo Ondarza: 

R. – Nel continente africano la gente è ancora vicina alla natura… Abbiamo tante pressioni dall’esterno che ci impongono ad esempio la contraccezione, però nell’anima, nella cultura africana questo non viene accettato…

D. – Immagino che nel suo lavoro debba scontrarsi con queste pressioni internazionali presentate come “diritti alla salute riproduttiva”: campagne che godono di finanziamenti cospicui…

R. – A causa di queste pressioni politiche la gente non è più libera di fare quello che vuole. Come dice il Papa, questa è una forma di colonialismo ideologico. Quello che veramente ci fa male è il fatto che la gente è spinta a fare qualcosa che non vuole!

D. – Da alcuni Padri Sinodali, anche nello scorso Sinodo, è stato denunciato come gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo spesso vengano condizionati all’introduzione degli aspetti tipici di questa colonizzazione ideologica…

R. – Sì, questo accade dappertutto in Africa: com’è noto, è un programma mondiale indirizzato soprattutto ai Paesi in via di sviluppo. E questo non è giusto! Noi sentiamo che nell’anima africana abbiamo ancora qualcosa di sacro nei riguardi della vita, della persona: questo sì, lo abbiamo ancora questo sentimento. Però, le pressioni esterne vogliono toglierci l’anima nostra… non siamo più noi!

D. – Lei spiegava che è molto forte e radicato l’attaccamento al dato di natura in Africa: la differenza maschile e femminile. Ed è proprio questo che si sta cercando di destrutturare, attraverso queste teorie e queste ideologie?

R. – Sì, vediamo che l’ideologia del gender è una cosa che sta cambiando la vita coniugale – la vita familiare – è una cosa per noi terribile, perché le donne semplici non ne capiscono il senso, il significato del gender. Si sta attuando un cambiamento nella vita normale, antropologica, di ogni famiglia. E questa è una cosa disastrosa – la vediamo ogni giorno – e non so come sarà il futuro della famiglia africana.

D. – Cosa chiedete alla Chiesa?

R. – Direi che la Chiesa è l’unica istituzione che difende ancora la dignità della persona umana come il Signore ha voluto. Allora, dalla Chiesa mi aspetto una parola forte, una parola che non sia debole e che riaffermi la dignità della persona, la dignità della famiglia e la dignità della donna come ha voluto il Signore nel suo disegno divino. La Chiesa deve parlare in maniera chiara, perché non siamo solo noi cristiani ad aspettarci dalla Chiesa parole forti, ma anche coloro che non credono – almeno in Africa – si aspettano dalla Chiesa una parola che aiuti la gente ad andare avanti come persone. Mi sembra che la famiglia abbia bisogno di una cura particolare, perché tutti noi veniamo dalla famiglia e andiamo verso la famiglia. L’aiuto alla famiglia comprende e riguarda tutta la pastorale; la costruzione di base delle persone nasce dalla famiglia. Allora, se i costruttori “non sono costruiti”, come si può pensare ad una persona veramente “persona”? Vedo che è un lavoro molto, molto importante che la Chiesa deve fare.

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Intervento di Mons. Gallagher a 50 anni dalla visita di Paolo VI all'Onu

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La Chiesa non ha mai smesso di dialogare con il mondo per promuovere la pace, la giustizia, la libertà, la fraternità: è questo, in sintesi, quanto ha detto mons. Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, intervenendo oggi a Brescia alla commemorazione del 50° anniversario della visita del Beato Paolo VI alle Nazioni Unite, il 4 ottobre 1965.

“Essendo nel mondo senza essere del mondo – ha detto il presule - la Chiesa lungo i secoli ha dialogato con il mondo per trasformare tutte le realtà in Gesù Cristo per mezzo dell’amore e, tramite Lui, portare tutte le realtà al Padre. Tuttavia, in ogni momento storico, quel dialogo deve essere rinnovato e riproposto, in risposta agli sviluppi della storia e alle attese dei popoli. Così lo intendeva anche papa Montini, impegnandosi in un dialogo performativo con tutta la realtà e con tutti gli uomini, per il bene degli uomini e per il bene della Chiesa stessa”. 

Mons. Gallagher divide in quattro punti le indicazioni date da Paolo VI alle Nazioni Unite: l’Onu deve offrire agli Stati, quale formula di convivenza pacifica, una sorta di cittadinanza internazionale, che si articola in un sistema ordinato e stabile di vita internazionale. L’Organizzazione esiste e opera per unire le Nazioni, per collegare gli Stati, per mettere insieme gli uni con gli altri, senza lasciar fuori nessuno. L’Onu deve seguire la formula dell’eguaglianza, cioè nessuno Stato potrà essere superiore agli altri. Il patto giuridico che unisce le Nazioni all’Onu deve intendersi quale un solenne giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo perché non ci sia mai più la guerra, in modo che la pace guidi le sorti dei Popoli e dell’intera umanità. 

Tuttavia – afferma mons. Gallagher - Papa Montini aggiunge altri due punti relativi allo sviluppo e alla dignità dell’uomo: innanzitutto, la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, bensì con lo spirito, con le idee, con le opere della pace.   All’Onu non solo si deve lavorare per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si deve lavorare con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Si deve lavorare per lo sviluppo e per i diritti e i doveri fondamentali dell'uomo, la sua dignità, la sua libertà e, per prima, la libertà religiosa. In questo modo, secondo Paolo VI, la comunità internazionale organizzata interpreta la sfera superiore della sapienza umana e persino la sacralità dell’uomo. Secondo punto, il dialogo internazionale deve fare attenzione anzitutto alla vita dell'uomo che è sacra: nessuno può osare di offenderla. Il rispetto alla vita, anche per ciò che riguarda il grande problema della natalità, deve avere qui la sua più alta professione e la sua più ragionevole difesa.

Si percepisce facilmente – ha detto il presule - che il discorso di Paolo VI all’Onu è una traccia che guiderà anche le parole alle Nazioni Unite di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Francesco. Quelle parole dell’ottobre 1965 - ha concluso - sono anche le linee guide su cui è stata impostata tutta l’attività internazionale della Santa Sede fino ad oggi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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I senza nome: messa a Santa Marta.

Al Sinodo si conclude il lavoro dei circoli minori.

Nato pronta a scendere in campo: possibile dispiegamento di forze in Turchia di fronte ai raid di Mosca.

Dialoghi a tutto campo: il segretario per i Rapporti con gli Stati sull’azione internazionale promossa da Paolo VI.

Lo scrigno nascosto: Dominiek Oversteyns su beatificazioni e canonizzazioni nelle foto private di Pio XII.

Per la prima volta a una giornalista: Svetlana Alexievic vince il Nobel per la letteratura.

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Oggi in Primo Piano



Siria: Usa e Nato accusano Russia. Offensiva di Assad

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Sale la tensione tra Russia e Stati Uniti, su fronti opposti nella lotta contro le forze del sedicente Stato Islamico in Siria. Dunque, si allontana l’ipotesi presentata da Mosca all’Onu di una nuova coalizione anti Is, in accordo con Washington e la Nato, che chiedono ad Assad di lasciare il potere e accusano Putin di avere finora bombardato gli oppositori del regime di Damasco. Prova ne è la vasta offensiva annunciata oggi dalla forze armate siriane contro i centri terroristici. Ma quali sono gli interessi in gioco? Roberta Gisotti ha intervistato Gianandrea Gaiani, direttore della rivista on line "Analisidifesa.it": 

R. – L’interesse principale della Russia – e lo ha detto chiaramente Putin – è sostenere il regime di Bashar al Assad per favorire in futuro una transizione, ma soltanto una volta sconfitte le forze terroristiche che non sono solo l’Is, ma sono anche una buona parte delle forze ribelli. La questione è interessante perché tra le forze ribelli ormai il dominio è assicurato, a parte il sedicente Stato islamico, all’Esercito della conquista, che è quella coalizione di milizie islamiste che comprende salafiti, Fratelli musulmani e addirittura le milizie di al Qaeda, il fronte al Nusra, che è sostenuto da Turchia, Qatar ed anche Arabia Saudita. Ovviamente, questo fronte invece è composto da Paesi che hanno aderito alla coalizione guidata dagli Stati Uniti che – guarda caso – è la stessa che in un anno non è riuscita non solo a distruggere l’Is, ma non è riuscita neppure a impedire all’Is e nemmeno alle milizie qaediste – che comunque non sono obiettivo della coalizione – di proseguire nella loro avanzata. Non si è mai vista una forza militare come l’Is priva di forze aeree, priva di contraerea, riuscire a conquistare intere città come Ramahdi e Palmira, contro un avversario – la coalizione – che invece ha il dominio dell’aria.

D. – Perché, però, la stampa internazionale tende a mettere in cattiva luce Putin quando l’esperienza insegna che esautorare i leader di regimi forti senza avere pronti altre leader affidabili crea più disastri di quanto ripari?

R. – Diciamo che in Occidente c’è sempre stato un certo appiattimento dell’informazione sulle posizioni degli establishment, dei governi, dei poteri forti: parliamo della Casa Bianca, del governo britannico, francese, parliamo della Nato, che dopo la crisi ucraina parla con un linguaggio che forse rappresenta quello delle leadership angloamericane, ma non certo quello di tanti Paesi europei che il contrasto con la Russia non lo vogliono. Ed è paradossale vedere che, mentre i russi incominciano a bombardare – ed è vero: non colpiscono solo l’Is, ma colpiscono, ad esempio, anche le milizie di al Qaeda che stanno minacciando Latakia e altre città sciite della fascia costiera siriana – gli americani se ne lamentano: e questo, a 14 anni dall’11 settembre, deve far riflettere sulla posizione e la strategia americana in Medio Oriente, che non è più quella di grande stabilizzatore, ma semmai forse quella di grande destabilizzatore. E il motivo è forse legato al fatto che gli Stati Uniti oggi sono autosufficienti sul piano energetico, nel 2020 saranno grandi esportatori di energia e, mi pare di capire dal fallimento di un anno di campagna militare, di finta campagna militare contro l’Is, che hanno tutto l’interesse a mantenere il caos nell’area energetica del Medio Oriente che rimane, però, strategica non più per gli americani ma certo per noi europei e per tanti altri Paesi che sono ‘competitor’ degli Stati Uniti: l’India, il Giappone, la Cina. Per questo io credo che l’Europa dovrebbe svegliarsi e guardare a questi conflitti pensando ai propri interessi e non soltanto ad assecondare un alleato americano che è sempre meno nostro alleato. Non per cattiveria, ma semplicemente perché i suoi interessi strategici sono mutati.

D. – C’è davvero il rischio di collisioni nei cieli della Siria?

R. – Sì, il rischio c’è perché nello spazio aereo siriano, e questo è curioso, non c’è una sola risoluzione Onu che autorizzi chiunque a sorvolare con aerei armati lo spazio aereo della Siria. Eppure, su questo volano tutti: volano gli americani, i Paesi della coalizione – australiani, canadesi, britannici, francesi recentemente – più i Paesi arabi: Emirati Arabi, Sauditi, Qatar fanno volare i loro aeroplani nello spazio aereo siriano. Volano i turchi, che da luglio sono entrati pesantemente in Siria per colpire l’Is – dicono – in realtà per bombardare i curdi che infatti stanno avvicinandosi – i curdi siriani – a questa nuova coalizione che la Russia sta creando con la Siria, con l’Iraq e con l’Iran. E sulla Siria adesso volano, ovviamente, le forze di Bashar al Assad e volano anche gli aerei russi in grande quantità. Del resto, questo caso si presta anche ad operazioni di propaganda o a tentativi di mettere in luce aggressioni anche quando queste non ci sono e quindi può favorire il gioco delle parti in cui i russi sconfinano in Turchia e i turchi magari fingono di essere impauriti da questo avvicinamento e chiamano la Nato a difendere lo spazio aereo turco dall’aggressore russo.

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Tripoli frena sull'accordo per il governo di unità in Libia

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Il Parlamento di Tripoli ha annunciato che non presenterà i nomi dei candidati per il governo di unità nazionale libico fino a quando non saranno introdotti emendamenti all'accordo. E’ quanto ha affermato, secondo l'agenzia Mena, Awad Magbari, vicepresidente del Congresso, autorità che si oppone al governo, riconosciuto dalla comunità internazionale, di Tobruk. Nelle ore precedenti, l’inviato Onu per la Libia, Leon, aveva dato per probabile la firma dell’accordo entro oggi, escludendo modifiche del testo finale. Intanto, ieri l'ambasciatore libico al Palazzo di Vetro, Ibrahim Dabbashi,  ha assicurato l’appoggio alla bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, che autorizza un'operazione dell'Ue in acque internazionali contro i trafficanti di migranti nel Mediterraneo.  Fausta Speranza ne ha parlato con Francesco Cherubini, docente di organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss: 

R. – L’unico precedente è quello dell’operazione che è stata – fra virgolette – autorizzata davanti alle coste somale, una operazione antipirateria, nella quale – proprio perché siamo in una situazione di incertezza, in relazione alla base giuridica – le Nazioni Unite si sono procurate il consenso dello Stato territoriale che in questo caso era la Somalia. Un contesto - anche lì – scricchiolante, perché naturalmente il consenso deve essere dato dal governo che effettivamente controlla il territorio dello Stato nel quale si svolge l’operazione… Ed è una situazione analoga a quella della Libia, perché anche qui naturalmente ci sono più governi che pretendono – per così dire – di controllare effettivamente il territorio e quello di Tobruk controlla una parte davvero minima. Quindi, anche a fronte di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che si appoggiasse sul consenso del governo di Tobruk, non mi sentirei di dire con certezza che l’operazione rimanga nella piena legalità internazionale.

D. – Diamo per raggiunto l’accordo per il governo di unità nazionale. Che cosa può fare la Comunità internazionale per accompagnare una transizione, certo non facile tra le due parti?

R. – In questi casi la prassi precedente insegna che l’uso della forza è sempre fortemente sconsigliabile. Perché? Perché il precedente più simile è di nuovo quello della Somalia, qui non per quanto riguarda l’operazione antipirateria, ma per quanto riguarda quello che è accaduto negli anni Novanta e nel quale lo Stato si era completamente sfasciato. Questo mi sentirei di escluderlo e cioè che l’uso della forza possa risolvere problemi. Però mi pare di capire che proprio in questa direzione stanno andando le Nazioni Unite e soprattutto l’Unione Europea, che naturalmente deve agire sotto il cappello di una autorizzazione delle Nazioni Unite e sempre – non ci scordiamo – con il consenso dello Stato territoriale.

D. – Quali altri strumenti o possibilità ci sarebbero?

R. – Escluso l’uso della forza, la diplomazia in questi casi è l’unica altra strada, è l’unica alternativa possibile, sia in chiave – che interessa forse di più all’Unione Europea – di lotta contro i trafficanti, i cosiddetti smugglers , cioè coloro i quali portano con i barconi i migranti, sia anche per una generale stabilizzazione della zona.

D. - Da una parte, c’è il governo riconosciuto di Tobruk e dall’altra parte c’è Tripoli, un interlocutore difficile da indentificare…

R. – E’ difficile da indentificare, però credo che è con quell’interlocutore che in primo luogo occorrerebbe negoziare. Perché – ripeto – il governo di Tobruk controlla ben poco e soprattutto non controlla la zona dalla quale i barconi partono, perchè quella zona è sotto il controllo del governo di Tripoli. E allora il consenso andrebbe cercato proprio lì. In questo momento mi sembra abbastanza un miraggio, perché è addirittura scettico e ci sono voluti mesi per guadagnare il consenso del governo di Tobruk, quindi figuriamoci con quello di Tripoli. E’ un’operazione molto complicata, però credo che un intervento militare potrebbe soltanto complicare ulteriormente le cose in una zona che è fortemente destabilizzata. Ripeto: il precedente della Somalia dovrebbe insegnare molto da questo punto di vista, proprio perché l’intervento delle Nazioni Unite ha peggiorato solamente la situazione. E’ fallito poi perché si sono ritirati ed è fallito nel contempo anche lo Stato, perché in questo momento la Somalia non è più uno Stato, ma un territorio che è sotto il controllo di diverse fazioni, se le vogliamo chiamare così.

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Immigrazione. Unhcr: nessun uomo è uno scarto

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“I centri di identificazione dei richiedenti asilo sono la precondizione essenziale per far rispettare le nostre frontiere”. Lo ha detto, il presidente francese, Francois Hollande, parlando ieri al parlamento europeo in sessione plenaria a Strasburgo, nel discorso congiunto con la cancelliera tedesca, Angela Merkel che ha ribadito: “Il regolamento di Dublino è ormai superato”. Il servizio di Massimiliano Menichetti

Il capo dell'Eliseo ha spiegato che la fine del trattato di Schengen sulla libera circolazione "sarebbe un errore tragico" e che l’Europa "ha tardato a capire che le crisi in Medio Oriente e in Africa avrebbero avuto delle conseguenze” pesanti. Ha ammesso che l’Ue “non ha aiutato abbastanza chi ha ospitato milioni di profughi” e che "Italia, Grecia e i Paesi balcanici non possono essere lasciati soli. Punto centrale per il capo dell’Eliseo è “il sistema di redistribuzione dei richiedenti asilo, che va attuato rapidamente". Per la Merkel “chi scappa dalla guerra deve poter vivere senza paura e questo – ha evidenziato – è un lavoro per l'Europa e il mondo”. “Per fronteggiare la crisi migratoria – ha incalzato – abbiamo bisogno di più Europa e non di approcci nazionali". In particolare, per la cancelliera è necessario aiutare i Paesi vicini “alla Siria che ospitano milioni di profughi” e la Turchia, che “gioca un ruolo cruciale”. Ha espresso l’impegno a strutturare una nuova procedura che ottemperi a "equità e solidarietà" ribadendo che il trattato di Dublino, che incardina di fatto i richiedenti asilo nel Paese d’arrivo, è superato. Tuttavia, per la Merkel i cosiddetti “migranti economici” ovvero chi emigra cercando di migliorare la propria condizione di vita, quindi non rifugiati e richiedenti asilo, "non possono restare in Germania", perché il Paese "è impegnato ad aiutare chi fugge dalla guerra”. E oggi proprio la questione del rimpatrio dei “migranti economici” è al centro del Consiglio Ue degli Affari interni a Lussemburgo, intanto l’Italia ha confermato che venerdì ci saranno i ricollocamenti verso la Svezia di una ventina di eritrei che fanno parte del gruppo di 40 mila previsti su scala Europea. Ancora senza soluzione i migranti bloccati a Calais in Francia e le chiusure nel centro dell'Europa del cosiddetto gruppo Visegrad, ovvero Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia.

Sulla situazione attuale abbiamo intervistato Carlotta Sami, portavoce dell'Alto Commissariato Onu per i rifufiati: 

R. – Per noi, è importante che continui ad esserci una risposta collettiva robusta da parte europea. Bene il primo passo, quello della decisione sui piani di ricollocamento dei richiedenti asilo attraverso i diversi Paesi europei. Il regolamento di Dublino sappiamo che andrà a naturale revisione nel 2016: è bene che se ne ravvisino sia gli aspetti positivi – che però spesso non sono applicati, come i ricongiungimenti familiari – sia ciò che non funziona. Bisogna continuare con questo spirito di solidarietà tra i membri dell’Unione.

D. – Si invocano continuamente canali di ingresso preferenziali nei Paesi vicini alle zone di conflitto – di migrazione forzata – ma questa strada non vede mai la luce…

R. – L’importante è rendere accessibili le vie legali per l’accesso alla protezione in Europa. Significa utilizzare strumenti che già ci sono, ma vengono applicati poco, come i programmi di reinsediamento, i ricongiungimenti familiari che non sono mai possibili a causa di lunghissimi tempi amministrativi. Ci sono anche forme di sponsorizzazione private fatte ad esempio da datori di lavoro o da università per i più giovani. Ci possono essere visti umanitari per i casi medici più gravi. Bisogna insomma assolutamente aumentare le vie legali per coloro che hanno bisogno di protezione. Poi, è importante aprire ulteriori centri, migliorare le condizioni di coloro che sono nei Paesi vicini alla guerra. In questo momento, abbiamo visto che c’è un’apertura, ci sono maggiori finanziamenti in particolare per la Siria: non dimentichiamo che la vita dei rifugiati nei Paesi vicini alla guerra è una vita di stenti al momento.

D. – E’ partita la fase due del contrasto in mare agli scafisti, ovvero è “Eunavfor Med”, missione in mare che va dal confine tunisino a quello egiziano. Che ne pensa di questa iniziativa?

R. – Il primo modo per contrastare il traffico dei migranti è togliere esseri umani dalle grinfie dei mercanti di morte e per farlo bisogna aprire le vie legali. Il secondo aspetto – dato che il Mar Mediterraneo rappresenta la rotta più rischiosa al mondo con oltre 3.000 vittime dall’inizio dell’anno – è quello di dare priorità anzitutto al salvataggio in mare.

D. – Come giudica la distinzione, e quindi l’accesso nei Paesi, tra migranti che fuggono da guerre e da persecuzioni e quelli che cercano invece una migliore condizione economica, i cosiddetti "migranti economici"?

R. – Va ribadita con forza la necessità di applicare la Convenzione di Ginevra e di dare piena protezione ai richiedenti asilo. Queste persone si trovano in una condizione di estrema vulnerabilità e non va in alcun modo attenuata la forza di questo strumento. È bene distinguere chiaramente – ma non per il fatto che dei migranti economici si possa fare qualsiasi cosa: ci devono essere delle politiche di gestione dei flussi di migrazione.

D. – Insomma, ci sono delle priorità ma questa situazione non deve poi ricadere in maniera negativa su queste persone…

R. – Nessun essere umano può essere considerato uno scarto. Vanno rispettati i diritti e tutte le condizioni che possano assicurare un trattamento dignitoso. Ma bisogna anche che si affronti la questione della migrazione in modo concreto, perché – lo dicono tutti gli economisti e gli stessi governanti europei – a causa del grande calo demografico in Europa c’è bisogno anche di forza lavoro. Bene, allora bisogna che si metta mano alla gestione dei flussi di migrazione, che si addivenga a degli accordi multilaterali con dei Paesi di origine da cui i migranti economici arrivano. E bisogna anche che, nel momento in cui vengono rimpatriati però, ci siano degli investimenti in questi Paesi per migliorare le condizioni economiche e il livello di sviluppo.

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Germania, export registra -5,2%. Baglioni: dati non inattesi

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Arrivano notizie negative per la Germania sul fronte economico. Secondo i dati del "Federal Statistic Office", le esportazioni tedesche sono diminuite del 5,2% nel mese di agosto, in maniera più veloce rispetto al culmine della crisi finanziaria globale. Per gli economisti, si tratterebbe del calo più forte registrato dal gennaio 2009, che riflette i contraccolpi del rallentamento della Cina e dei Paesi emergenti. Intanto, giungono accenni di crescita per l’economia italiana: ieri il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha segnalato una crescita del pil “più forte previsto”, rivista al rialzo di 0,1 punti. Maria Caterina Bombarda ha raccolto il commento di Angelo Baglioni, docente di Microeconomia all’Università Cattolica di Milano: 

R. – Non sono poi così inaspettati questi dati, nel senso che teniamo conto che c’è un rallentamento in alcuni Paesi, a cominciare dalla Cina, che sono mercati di sbocco molto importanti per la Germania. Infatti, anche il Fondo monetario internazionale di recente ha rivisto al ribasso le previsioni per la crescita mondiale a cominciare dai Paesi emergenti. E quindi è chiaro che questo si riflette in una minore possibilità di esportare per la Germania.

D. – Questo indebolimento della Germania nell’area euro a quali conseguenze potrebbe portare?

R. – E chiaro che, tramite i legami di commercio internazionale, può avere qualche riflesso negativo anche sugli altri Paesi, nel senso che, naturalmente, se rallenta la Germania presumibilmente rallenteranno le esportazioni che anche noi possiamo fare in Germania. D’altra parte, forse, un rallentamento della Germania potrebbe indurre il governo tedesco a essere un pochino più morbido sulle politiche di rigore fiscale, a essere più flessibile a fare una politica fiscale meno restrittiva, e anche una politica salariale che punti ad aumentare i salari e a dare più potere di acquisto.

D. – Che cosa può fare un’Europa “a diverse velocità”?

R. – Reagire e abbandonare la politica di assoluto e totale rigore fiscale, di ancoraggio solo ai paletti del “Fiscal compact” di queste regole. E quindi, soprattutto i Paesi che stanno meglio dal punto di vista della finanza pubblica, come la Germania, dovrebbero attuare una politica più espansiva. Questo dal lato della politica fiscale. Dal lato della politica monetaria, credo che la Bce stia facendo tutto il possibile per evitare la deflazione e per garantire la sopravvivenza dell’euro anche di fronte a problemi come quello della Grecia. Adesso, su questo Paese è stato appena fatto un accordo che almeno per tre anni dovrebbe garantire la stabilità finanziaria. Poi, naturalmente, la risoluzione dei problemi di fondo della Grecia sta anche al governo greco.

D. – In contraltare, c’è l’Italia con una crescita più forte del previsto: il Fondo monetario internazionale ha stimato una crescita del Pil intorno allo 0,8%...

R. – Si tratta, sì, di una revisione al rialzo, però parliamo sempre di un passaggio dallo 0,7 allo 0,8, cioè sempre di uno “0,”. Quindi, è una crescita che sicuramente non ci consente di raggiungere come livello di produzione quello che era prima della crisi del 2007, e degli anni seguenti.

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Unioni civili. Gambino: si introduce nuova forma di matrimonio

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Il nuovo testo sulle unioni civili andrà in Aula il 14 ottobre. Lo ha affermato la senatrice dem Monica Cirinnà che ieri ha presentato il disegno di legge. Ma una parte della maggioranza è contraria perché il nuovo testo introdurrebbe un istituto simile al matrimonio e le adozioni da parte di coppie omosessuali. Alessandro Guarasci ha sentito Alberto Gambino, ordinario di diritto privato nell'Università Europea di Roma: 

R. – E’ stata espunta l’espressione “matrimonio”, ma è rimasto tutto l’apparato civilistico di rimando alle norme che disciplinano il matrimonio, il matrimonio civile, cioè il matrimonio contenuto nel nostro codice. E quindi davvero non cambia nulla, perché non è un fatto nominalistico, è un fatto di sostanza.

D. – In questo progetto di legge viene spesso usata la parola “coniuge”, perché secondo lei?

R. – Questo vuol dire che si estenderanno tutte le discipline. Pensi anche all’adozione che non è attualmente espressamente prevista, ma che inevitabilmente porterà una sua estensione anche nell’ambito di persone dello stesso sesso, perché nel momento in cui il rapporto coniugale viene a configurarsi anche come rapporto tra due persone di egual sesso inevitabilmente tutte le norme che fanno riferimento al rapporto coniugale verranno plasmate con questa nuova concezione.

D. – Come cambia, a questo punto, secondo lei, nella società la percezione del matrimonio?

R. – Ho l’impressione che ci sia un dibattito molto di elite, molto legato ad alcuni mezzi di comunicazione. La società è probabilmente un concetto che sfugge alla percezione di questi mezzi di comunicazione, che la vedono più come i rappresentanti del popolo oggi eletti che tentano di disciplinare questi temi. In realtà, il tema del matrimonio e della famiglia è molto, ma molto più radicato nella realtà sociale di quanto non si creda.

D. – Uno dei temi che affronta questo ddl è, per esempio, la reversibilità della pensione. Possiamo, secondo lei, pensare ad un impatto importante sulla spesa pubblica, in questo senso?

R. – Ci può essere un impatto importante sulla spesa pubblica, ma il tema non è solo questo. Il tema è che lo Stato italiano ha ritenuto che le coppie che danno vita, generano, possono creare una famiglia, vanno aiutate, vanno sostenute, se uno dei due coniugi un giorno manca e quindi l’altro ha bisogno di avere un’entrata, ed è appunto la reversibilità della pensione. Se invece si cambia totalmente prospettiva e lo Stato decidesse di aiutare anche quelle coppie che tecnicamente non possono procreare, sarebbe una rivoluzione anche nella concezione generale di quale sia la centralità della famiglia rispetto alla comunità istituzionale nella quale si vive.

D. – Se dovesse passare questa legge, l’Italia come si porrebbe rispetto al resto d’Europa?

R. – L’Italia si avvicinerebbe ad alcuni Paesi, non tanti, che hanno fatto di questo tema una loro bandiera, e si discosterebbe da altri. In realtà, io ritengo che l’Italia potrebbe fare qualcosa di molto più intelligente, cioè risolvere pragmaticamente, sì con una disciplina, tanti problemi che ci sono nell’ambito di una relazione tra persone dello stesso sesso, senza però intaccare istituti importanti come il matrimonio e la famiglia, che sono prerogative tipiche di persone di sesso diverso, che di per sé potranno generare dei figli.

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Giornata Mondiale Vista: l'impegno di Cmb nel Sud del Mondo

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Nel mondo sono 285 milioni le persone che hanno problemi alla vista, di queste, 39 milioni sono cieche. Eppure si stima che nell’80% dei casi la cecità si può prevenire. Oggi, 8 ottobre, l’Oms, Organizzazione mondiale della sanità celebra la XVI Giornata mondiale della vista per portare l’attenzione sulle dimensioni del fenomeno e non dimenticare quanto sia fondamentale, nei Paesi del Sud del Mondo, intervenire tempestivamente attraverso interventi mirati e di prevenzione per l’eliminazione della cecità evitabile. Francesca di Folco ha raccolto la testimonianza del prof. Mario Angi, presidente di Cbm Italia (Missioni Cristiane per i Ciechi nel Mondo): 

R. – Il problema della cecità è, in gran parte, un problema legato alla mancanza di medici, di ospedali e di organizzazione per curare le malattie prevenibili: questa è una cosa che sembra assurda in un Paese occidentale, ma nel resto del mondo è la regola. Per questo Cbm, che è la più grande organizzazione internazionale che lotta contro la disabilità visiva e le disabilità in generale, organizza ospedali e forma il personale locale per sconfiggere la cecità evitabile nel mondo.

D. – In cosa consiste la campagna “Aprite gli occhi”, partita lo scorso 4 ottobre?

R. – Ci proponiamo di curare 7 mila persone e di distribuire occhiali a 6 mila bambini nelle scuole del mondo. E’ una campagna che vuole soprattutto indirizzarsi alla cecità infantile nei bambini affetti da cataratta congenita, che nel resto del mondo – soprattutto in Africa – sono abbandonati nelle loro capanne e non vengono assolutamente curati.

D – Cosa significa essere un non vedente in un ricco Paese europeo ed esserlo nel Sud del mondo?

R. – Nel Sud del mondo essere non vedente vuol dire avere una aspettativa di vita molto ridotta. Si calcola che il 50 per cento dei bambini che nascono con cecità muoiono entro un anno, un anno e mezzo dalla nascita… Essere un non vedente nei Paesi ricchi significa avere una assistenza e una possibilità di vita che è incomparabilmente superiore a quella dei poveri del Sud del mondo.

D. – Lei è inserito tra i nove "eroi della vista": che emozione le suscita  - ancora oggi - ridonare la vista a chi l’aveva persa?

R. – E’ una sensazione che ogni volta si rinnova ed è un dono incredibile. Mi sento umilmente al servizio di queste persone e cerco di fare quello che posso per incanalare energie e per rendere coscienti le persone nel nostro mondo ricco della possibilità di fare tanto del bene con un piccolo sforzo. 

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Cinema. "The Program", la grande bugia di Lance Armstrong

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Dall’8 ottobre arriva al cinema “The Program”, il film di Stephen Frears sull’enorme bugia del ciclista americano Lance Armstrong, sette volte vincitore del Tour de France, sotto effetto di sostanze dopanti. Il servizio di Corinna Spirito

Il cancro, i sette Tour de France vinti, la squalifica per doping. “The Program” racconta tutta la controversa storia di Lance Armstrong, il ciclista americano che convinse il mondo di essere un atleta di incredibile talento. Un’enorme bugia durata vent’anni, fino al 2013, quando un’inchiesta accertò che i suoi successi erano dovuti al sistematico utilizzo di droghe e i titoli vinti gli vennero ritirati. Una storia di scelte che ha interessato sin da subito il regista Stephen Frears, un regista che ha già portato sul grande schermo storie vere di peso come “The Queen” e “Philomena”.

"He is a good crime: he stole the “Tour de France” seven time…
E’ stato un gran furfante: è riuscito a rubare il “Tour de France” per ben sette volte! È come rubare la “Monna Lisa”: è fantastico... So che è difficile da comprendere: voleva vincere e scoprì che con l’assunzione di determinate sostanze avrebbe vinto. Si è cacciato in una situazione molto interessante: poteva scegliere di continuare sulla strada che stava percorrendo, oppure di prendere delle droghe e diventare un vincitore. E’ stato come un bivio, come per Dante. E Lance ha preso la strada della droga. Aveva avuto un tumore e forse aveva delle paure, ma non mi sembra che lo abbiano mai condizionato…"

A Roma per presentare il film, Stephen Frears ha spiegato come la storia di Armstrong sia uno specchio della società moderna, continuamente alla ricerca di una star da celebrare:

"You know, I know most about it, with the English football…
È come quello che è successo per il calcio inglese: a Rupert Murdoch serviva David Beckham per rendere il football inglese quella macchina per produrre denaro che è diventato. Nel ciclismo serviva Lance Armstrong per ridestare l’entusiasmo della gente e l’hanno trasformato in una sorta di star del cinema. Si tratta quindi di un equilibrio molto, molto sofisticato. Il ciclismo aveva bisogno di lui, quanto lui aveva bisogno del ciclismo."

Lance Armstrong si sente autorizzato a fare uso di sostanze dopanti perché le sue vittorie rivoluzionano il ciclismo, uno sport che in America non aveva mai avuto tanto seguito. La droga è l’idolo di Armstrong, come lui diventa idolo nel ciclismo. E l’idolatria, spiega “The Program” di Stephen Frears, porta sempre alla distruzione.

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Nella Chiesa e nel mondo



P. Spadaro: per Francesco riforma della Chiesa è processo aperto

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“La riforma della Chiesa secondo Francesco. Le radici ignaziane”. E’ il titolo di un lungo articolo di padre Antonio Spadaro sull’ultimo numero di “Civiltà Cattolica”. Il direttore della rivisita dei gesuiti e padre sinodale sottolinea che “Papa Francesco è un Papa gesuita e la sua idea della riforma della Chiesa corrisponde alla visione ignaziana”. La riforma, dunque, è “un processo davvero spirituale che cambia anche le strutture”. Non a caso, prosegue, “uno dei grandi modelli ispiratori di Bergoglio è il gesuita San Pietro Favre” che Michel de Certeau definisce semplicemente “il prete riformato”.

In Bergoglio la riforma della Chiesa è frutto degli Esercizi Spirituali
“Papa Francesco – scrive padre Spadaro – è un frutto degli ‘Esercizi Spirituali’ e la sua visione della riforma della Chiesa è radicata nella riforma di vita, che è frutto degli Esercizi”. D’altro canto, prosegue l’articolo, il riformatore – come il gesuita – per Francesco deve essere uno “svuotato”, non deve essere centrato su se stesso ma nel Signore, è chiamato ad un abbassamento, ad uno "svuotamento". “La riforma per Francesco – scrive il direttore di ‘Civiltà Cattolica’ – si radica in uno svuotamento di sé. Se non fosse così, se fosse solamente un’idea, un progetto ideale, frutto dei propri desideri, anche buoni, diventerebbe l’ennesima ideologia del cambiamento”.

Il Papa non ha “programma”, al centro c’è il “discernimento”
Papa Francesco, si legge ancora, non ha un “programma”. Il Pontefice “avanza sulla base di una esperienza spirituale e di preghiera che condivide nel dialogo e nella consultazione”. Questo “modo di procedere si chiama discernimento: è il discernimento della volontà di Dio nella vita quotidiana”. Compito del riformatore “è dunque quello di iniziare o accompagnare i processi storici”. Per Bergoglio, annota padre Spadaro, “riformare significa avviare processi aperti e non tagliare teste o conquistare spazi di potere. E’ proprio con questo spirito di discernimento che Ignazio e i primi compagni hanno affrontato la sfida della Riforma”. Tuttavia, osserva il direttore della rivista dei gesuiti, “la strada che intende percorrere è per lui davvero aperta, non è una road map teorica: il cammino si apre camminando. Dunque il suo progetto è, in realtà, un’esperienza spirituale vissuta che prende forma per gradi che si traduce in termini concreti, in azione”. “Il pontificato bergogliano, e la sua volontà di riforma – prosegue – non sono e non saranno solamente di ordine amministrativo, ma di avviamento e di accompagnamento di processi: alcuni rapidi e folgoranti, altri estremamente lenti”.

Con il Sinodo, Papa ha impresso movimento alla Chiesa
Per Francesco, quindi, è più importante avviare processi che occupare spazi. “Ne è esempio notevole – evidenza padre Spadaro – il movimento impresso alla Chiesa intera” con il doppio Sinodo sulla famiglia che “è stato pensato come un processo” dal Papa. Bergoglio, prosegue, “vive una costante dinamica di discernimento, che lo apre al futuro. Anche al futuro della riforma della Chiesa, che non è un progetto ma un esercizio dello spirito, che non vede solamente bianchi e neri, come vedono coloro che vogliono sempre fare battaglie”. Del resto, Francesco ritiene che “non bisogna neanche aver paura dei conflitti, che a volte scuotono e impauriscono”. Per il Papa gesuita, bisogna “accarezzare i conflitti”, “armonizzare le contraddizioni”. Al contempo, Papa Francesco “è ben consapevole che la riforma della Chiesa di cui parla richiede una formazione ampia e profonda, specialmente dei pastori. In questo senso è anche in linea con l’esigenza profonda sempre avvertita come missione da parte della Compagnia di Gesù di formare il clero, di formare i pastori”.

La riforma vive una proficua tensione tra Spirito e istituzione
L’articolo si conclude sottolineando che per “Papa Francesco la riforma della Chiesa vive una forte e proficua tensione dialettica tra spirito e istituzione”. Esiste una “tensione dialettica intraecclesiale nel discorso che fa Papa Francesco tra Spirito e istituzione”, “in modo da contrastare l’introversione ecclesiale come l’aveva definita San Giovanni Paolo II, che resta sempre una grande tentazione”. “E’ interessante notare questa tensione fruttuosa tra la Chiesa come popolo pellegrino e quella come istituzione, che rispecchia le due definizioni di Chiesa predilette da Papa Francesco”: “popolo fedele di Dio in cammino” (Lumen Gentium) e “santa madre Chiesa gerarchica” (Sant’Ignazio di Loyola). “La riforma della Chiesa, per Francesco – conclude Antonio Spadaro – in fondo è questo: far sì che la santa madre Chiesa gerarchica sia sempre il popolo fedele di Dio in cammino”. (A cura di Alessandro Gisotti)

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Vescovi Usa: "tragedia per vita umana" suicidio assistito in California

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“Una grande tragedia per la vita umana”, “un’azione profondamente sbagliata”: così il card. Seán O’Malley, presidente del Comitato per la vita della Conferenza episcopale negli Stati Uniti, definisce – in una nota – la legalizzazione del suicidio assistito in California, siglata due giorni fa dal governatore dello Stato, Jerry Brown. La legge, che entrerà in vigore solo nei prossimi mesi, consentirà ai malati terminali adulti ed in pieno possesso delle facoltà mentali di scegliere la morte volontaria tramite farmaco. La normativa richiede l’approvazione previa di due medici e la presenza di due testimoni, di cui solo uno può essere un parente, al momento della somministrazione della sostanza letale, che deve avvenire alla presenza di medici.

Ai pazienti occorrono cure, non farmaci letali
Ora, quindi – scrive il card. O’Malley – i pazienti “gravemente malati, che soffrono di depressione ed hanno tendenze suicide, riceveranno farmaci letali invece di vere e proprie cure in grado di alleviare le loro sofferenze”. Il porporato denuncia anche “la confusione” che si è creata intorno alla normativa: “Ad esempio – spiega – il governatore Brown ha affermato di aver approvato tale legge perché non dovrebbe essere un crimine, per una persona che soffre, porre fine alla propria vita”. Ma, sottolinea il porporato, “il suicidio è una tragedia, non un crimine. Il crimine è quello delle autorità e dei medici che facilitano la morte deliberata degli altri, delle persone più vulnerabili. Ed ora questo crimine sarà permesso in California”.

No alla cultura della scarto. Le persone non sono oggetti
La conseguenza, aggiunge il card. O’Malley, sarà che “dove il così detto ‘suicidio assistito’ sarà legale, molte persone prenderanno farmaci letali non a causa delle sofferenze patite, ma perché si sentiranno abbandonati ed un ‘peso’ per gli altri. E lo Stato della California ora conferma questo giudizio, perché un governo che legalizza il suicidio assistito manda un messaggio terribile, quello contro il quale Papa Francesco ci mette così eloquentemente in guardia, ovvero che le persone possono essere scartate, come fossero oggetti”.

Necessario promuovere cure palliative. Tutelare la vita in ogni sua fase
“Insieme ai vescovi della California – sottolinea ancora il porporato – mi rammarico per questa azione profondamente sbagliata. Sono sicuro che la Chiesa cattolica di questo Stato raddoppierà i suoi sforzi per proteggere la vita innocente, soprattutto nelle sue fasi più vulnerabili, e per promuovere le cure palliative ed altre soluzioni concrete ai problemi ed alle difficoltà dei malati terminali e delle loro famiglie”. (I.P.)

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Siria: video dei jihadisti dell'esecuzione di tre ostaggi assiri

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Tre dei cristiani assiri della valle del Khabur tenuti in ostaggio dai jihadisti del sedicente Stato Islamico (Daesh) sono stati sottoposti a esecuzione capitale da parte dei loro sequestratori. Lo testimonia il video dell'esecuzione, diffuso nelle ultime ore sui website jihadisti. Nel filmato, girato secondo i rituali scenici seguiti anche in altri casi analoghi dalla propaganda jihadista - riferisce l'agenzia Fides - i tre cristiani assiri compaiono in ginocchio, vestiti con le “solite” tute arancioni in un'area desertica, e vengono ammazzati con colpi di pistola alla nuca da tre boia incappucciati. Ciascuno dei tre assiri, prima di essere ucciso, si identifica ripetendo il proprio nome e il villaggio di provenienza: si tratta di Audisho Enwiya e Assur Abraham - provenienti dal villaggio di Tel Jazira – e di Basam Michael, del villaggio di Tel Shamiram. 

L'esecuzione è avvenuta il 23 settembre scorso
Dopo la loro esecuzione, il video si conclude con altri tre assiri ripresi in ginocchio e in tuta arancione davanti ai cadaveri dei tre giustiziati. Anche loro rivelano il proprio nome e il villaggio di provenienza, e uno di loro aggiunge in arabo, indicando i corpi dei tre assiri già uccisi: “la nostra sorte sarà la stessa di questi, se non vengono seguite le procedure corrette per il nostro rilascio”. L'esecuzione – avvertono gli artefici del macabro filmato – è avvenuta la mattina del 23 settembre, nel giorno in cui i musulmani commemoravano la "Festa del Sacrificio" (Eid al-Adha).

Le esecuzioni continueranno se non verrà pagato il riscatto
I tre uomini assassinati, come i tre che compaiono nel video ancora vivi, facevano parte del gruppo di circa 230 cristiani assiri che i jihadisti del Daesh tengono in ostaggio dalla fine di febbraio, quando l'offensiva jihadista raggiunse i villaggi cristiani della valle del fiume Khabur. Il luogo della loro detenzione con tutta probabilità si trova ancora nella zona di al-Shaddadi, roccaforte del Daesh, a 60 chilometri da Hassakè. Il messaggio veicolato da video è chiaro e feroce: il riscatto richiesto per la liberazione dei cristiani ancora prigionieri non è stato pagato, e le esecuzioni continueranno finchè non verrà versato la somma richiesta.

La Chiesa sperava in una riduzione della somma chiesta per il rilascio
Nelle fasi successive al sequestro collettivo, i jihadisti hanno chiesto 100mila dollari in cambio della liberazione di ogni singolo ostaggio. Davanti alle risposte di chi dichiarava l'impossibilità di raccogliere tale cifra esorbitante di denaro, le trattative si erano interrotte. Circa un mese fa, l'arcivescovo siro-cattolico Jacques Behnan Hindo aveva riferito all'agenzia Fides che si erano riaperti degli spiragli per trovare l'accordo su una somma di riscatto pro-capite molto meno onerosa. Il video con l'esecuzione dei tre poveri assiri stronca le speranze, e torna a crescere la preoccupazione per la sorte dei cristiani del Khabur – compresi donne e bambini- ancora nelle mani dei jihadisti. (G.V.)

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Filippine. Fonti missionarie: Del Torchio rapito per denaro

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“Le notizie sono molto vaghe e non si conoscono i responsabili del rapimento di Rolando Del Torchio, oggi ristoratore ed ex missionario del Pime. Molto probabilmente lo scopo è un riscatto in denaro”: lo dice all’agenzia Fides padre Sebastiano D’Ambra, missionario del Pime, da oltre trent’anni residente nella città di Zamboanga, all’estremo Sud dell’isola di Mindanao. Il sequestro è avvenuto nella serata di ieri. L’uomo, 57 anni, è stato prelevato da uomini armati, nel ristorante che gestiva nella regione di Zamboanga del Nord.

Microcriminalità locale o gruppi e bande islamiste?
“Siamo piuttosto sconcertati – nota il missionario – perchè la zona di Dipolog, dove si è verificato il sequestro, non è infestata da gruppi e bande criminali ed è ritenuta piuttosto sicura. Ma la settimana scorsa è avvenuto un altro rapimento di tre cittadini occidentali e di un filippino sull’isola di Samal, altra zona considerata protetta e sicura. Non sappiamo chi sia dietro questi sequestri, se microcriminalità locale o gruppi e bande islamiste. Sta di fatto che quello dei sequestri è un business redditizio ed è una piaga che, a tratti, diventa più diffusa e fiorente. Ora, secondo alcuni, con l’avvicinarsi delle elezioni politiche, nel maggio 2016, i rapimenti possono essere un modo per aumentare le tensioni politiche e sociali”.

Sequestrare un occidentale garantisce maggiore visibilità sui media
Padre D’Ambra, che conosceva direttamente Del Torchio, suo ex confratello, spiega a Fides: “Nella maggior parte dei casi, lo scopo è un riscatto. Prendere un bianco, un occidentale, un europeo, garantisce maggiore visibilità sui media, coinvolge i governi occidentali e dunque dà la possibilità di richiedere una somma di denaro maggiore”. In ogni caso, rimarca, “per esperienza dico che minore sarà l’attenzione dei mass-media, maggiori saranno le possibilità di riportarlo a casa sano e salvo”. (P.A.)

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Terra Santa: lettera patriarca Twal per Giubileo della Misericordia

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Cristo, volto della Misericordia del Padre” è il titolo della lettera pastorale del patriarca Latino di Gerusalemme Fouad Twal, scritta per il Giubileo della Misericordia. L’anno giubilare, indetto da Papa Francesco, si aprirà l’8 dicembre. In questa occasione - riferisce l'agenzia Sir - saranno aperte quattro Porte della Misericordia: nella basilica del Getsemani a Gerusalemme, nella chiesa di santa Caterina a Betlemme, nella Basilica dell’Annunciazione a Nazareth e nel santuario di Nostra Signora della Montagna, ad Anjara in Giordania. 

La vera misericordia “trascende tutti i confini e distrugge tutti i muri”
Mons. Twal, nel testo, parla dell’attuale come di un “un periodo difficile della nostra storia; si soffre, soprattutto in Medio Oriente, dove la ferocia e la barbarie dell’uomo seminano ancora odio fratricida” e si rivolge “alla stragrande maggioranza del mondo che non è interessato al destino di tanti Popoli nei diversi contenenti, tra cui questa nostra regione medio-orientale”. Un vero e proprio invito per quanti “diffondono ideologie di morte a ritornare ad ascoltare la loro vera coscienza, a far prevalere il valore della vita umana ponendolo al di sopra di tanti interessi materiali” e a pregare affinché “i protagonisti di queste politiche sentano la chiamata a essere più testimoni della misericordia di Dio, ad ascoltare di più Papa Francesco, gli oppressi, la comunità umana”. La vera misericordia “trascende tutti i confini e distrugge tutti i muri”.

La Misericordia deve abbracciare Stati, popoli, etnie, religioni e confessioni religiose
E come la misericordia di Dio “non conosce confini, così dovrebbe essere per la misericordia dell’uomo verso il prossimo, soprattutto verso i più deboli, gli oppressi, gli emarginati, i migranti, i profughi e coloro che vivono alle periferie della società”. La misericordia, scrive Twal, “non è un sentimento fugace, epidermico, emozionale che si ferma a questi livelli; è invece un impegno concreto, tangibile, creativo e coinvolgente tutta la persona umana”. Per il patriarca latino la misericordia “deve abbracciare la vita pubblica in tutti i suoi settori: dalla politica all’economia, dalla cultura alla società, e questo a livello nazionale, internazionale, regionale e locale, senza trascurare nessuna direzione: Stati, popoli, etnie, religioni e confessioni religiose”. Quando diventa “parte dell’azione pubblica, contribuisce alla costruzione di un mondo migliore”. 

In un mondo sempre più disumano testimoniare la misericordia divina
“In un mondo che è sempre più disumano e che si sta muovendo verso la barbarie, la violenza e l’oppressione, la vocazione cristiana è di testimoniare la misericordia divina, in collaborazione con gli uomini e le donne di buona volontà”. La lettera si chiude con una esortazione a tutti i fedeli, “che hanno qualche peso nella famiglia politica, economica, culturale e sociale a vivere la misericordia e rifondare una cultura che permei di misericordia questo mondo che ci appartiene”. (R.P.)

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Malnutrizione infantile a Gaza: interviene Caritas Jerusalem

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La maggior parte del milione e 800mila abitanti della Striscia di Gaza non può permettersi una alimentazione adeguata, anche per l'aumento dei prezzi del cibo seguito all'ultimo intervento militare israeliano. A soffrire di più questa condizione sono i bambini e i ragazzi nell'età della crescita, che rappresentano la metà della popolazione. Uno studio condotto dal Palestinian Medical Relief Society ha rivelato che il 52% dei bambini della Striscia soffre di anemia e di grave carenze di fosforo, calcio e zinco, mentre un numero significativo di bambini soffre di infezioni al sistema respiratorio.

Il progetto di Caritas Jerusalem
​Dopo l'ultimo intervento militare israeliano, Caritas Jerusalem ha avviato un progetto teso a migliorare gli standard alimentari dei bambini della Striscia in età compresa tra i 5 e i 12 anni, fornendo loro latte e alimenti prodotti appositamente per venire incontro alle loro carenze nutrizionali. Il progetto – riferisce la documentazione fornita da Caritas Jerusalem all'agenzia Fides – coinvolge 5mila bambini e ragazzi provenienti da 10 zone diverse della Striscia, e in una prima fase punterà a individuare i mille casi di malnutrizione più grave. Dopo tale screening, i mille bambini presi in considerazione verranno nutriti per sei mesi con una dieta speciale, che prevede anche l'uso di latte e biscotti arricchiti. Alla fine dei sei mesi, gli effetti di tale dieta sulla salute complessiva dei ragazzi verranno monitorati attraverso test e analisi mediche. In seguito, il progetto verrà progressivamente esteso anche ad altre sezioni della popolazione infantile di Gaza, con l'utilizzo di diete calibrate anche sulla base dei dati scientifici raccolti nella prima fase sperimentale. (G.V.)

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Vescovi Regno Unito: carcere sia luogo di riabilitazione e redenzione

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“Il carcere deve essere un luogo di riabilitazione, riforma e redenzione”: è quanto afferma, in una nota, mons. Richarc Moth, responsabile della Pastorale carceraria per la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles. Nella sua dichiarazione, il presule esprime soddisfazione per il recente discorso del premier britannico, David Cameron, che al Congresso annuale del Partito conservatore ha sottolineato la necessità di riformare il sistema carcerario attuale, costruendo nuove strutture “che funzionino davvero”.

Collaborazione Chiesa-governo per migliorare le strutture carcerarie
“Le prigioni sono una parte integrante del nostro sistema giuridico – spiega mons. Moth – ma troppi uomini e donne trascorrono intere giornate chiusi in cella, senza avere, neanche lontanamente, un minimo accesso all’istruzione, alla formazione, alle cappellanie, ai programmi di riabilitazione ed alle altre opportunità necessarie a trasformare la loro vita”. “Non ho alcun dubbio – aggiunge il presule – sul fatto che dobbiamo affrontare sfide difficili, ma sono pronto a lavorare insieme al governo per cercare di migliorare le nostre carceri per il bene comune di tutta la società”. (I.P.)

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Istituto apostolato laico: giovani trasformino la società asiatica

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“La gioventù cattolica, trasformata da Cristo e dalla sua Chiesa, trasformi l’Asia”: questo, in sintesi, il messaggio emerso dai lavori del Bila III, il terzo incontro dell’Istituto episcopale per l’apostolato laico dei giovani nel continente asiatico. L’evento si è svolto nel mese di agosto a Sabah, in Malesia, ma il comunicato finale è stato diffuso solo in questi giorni. All’incontro hanno preso parte 95 delegati appartenenti a diciotto Commissione episcopali e sei organizzazioni cattoliche per i giovani in Asia.

I giovani hanno sete di Dio, bisogna ascoltarli
Nel documento, si mettono innanzitutto in risalto le sfide riguardanti la Pastorale giovanile del continente: “I ragazzi cercano una loro identità, la verità, il senso della vita”, si legge, “hanno sete di Dio e cercano rapporti umani significativi”. Per questo, scrive il Bila, è necessario che essi “abbiano una guida che li accompagni nella loro crescita”. Tante, infatti, sono le difficoltà che vivono i ragazzi di oggi: disoccupazione, migrazione, tratta, lavoro forzato, tossicodipendenza, alcolismo, prostituzione, mancanza di accesso all’educazione. A tutto questo si aggiungono il consumismo, la dipendenza dalla tecnologia, l’indifferenza sociale, la discriminazione religiosa, il proselitismo che “priva i giovani delle opportunità di crescita”.

No a clericalismo e competizione all’interno della Chiesa
Al contempo, anche la Chiesa asiatica si trova a fronteggiare molte sfide, spiega il Bila, a partire da quella del “clericalismo e della competizione tra i suoi pastori e le sue realtà interne”. Non solo: la carenza di  personale, il ritmo frenetico della quotidianità, la mancanza di tempo e di energie portano i sacerdoti a “compromettere la vita di preghiera e la propria cura spirituale”. Nello specifico, poi, della Pastorale giovanile, si riscontra “l’instabilità delle vocazioni e la mancanza di un riconoscimento chiaro del ruolo dei laici” in tale settore.

Non giudicare i giovani, ma trattarli con rispetto
Cosa fare, dunque? Il Bila propone alcuni principi-guida e numerose raccomandazioni: riguardo ai primi, l’atteggiamento suggerito è quello della Samaritana descritta nel Vangelo di Giovanni, ossia un atteggiamento di “preoccupazione e compassione” verso tutti i giovani, affinché si sentano “non giudicati, ma trattati con rispetto”. A loro, spiega il documento, bisogna annunciare “il potere salvifico dell’amore e della misericordia di Dio”, affinché ne siano trasformati. “Bisogna credere alla gioventù – continua il comunicato - ed aiutarla a realizzare il suo grande potenziale”, preparandola anche “all’opera missionaria”.

Formazione costante per operatori pastorali, anche in ambito tecnologico
Di qui, le raccomandazioni a “rispettare e valorizzare i giovani come dono e parte vitale della Chiesa”, offrendo loro “l’opportunità di incontri regolari con i responsabili ecclesiali”, “aiutandoli a riscoprire la ricchezza degli insegnamenti della Chiesa e l’esperienza dell’amore di Dio attraverso i sacramenti”. Al contempo, agli operatori pastorali del settore si suggerisce di “esaminare nuovi modi per raggiungere tutti i ragazzi, soprattutto quelli che vivono nelle periferie”, mantenendo una formazione “aggiornata e costante anche nelle tecnologie ”, usate dai giovani, e “condividendo risorse ed esperienza tra le diocesi ed i movimenti ecclesiali, in spirito di comunione”.

Chiesa esca da zona-comfort e raggiunga le periferie
​E ancora: si esortano gli operatori pastorali ad “incanalare gli ideali e le energie dei giovani in favore della giustizia sociale”, aiutandoli a “comprendere e ad impegnarsi nel dialogo ecumenico ed interreligioso”. Perché in fondo, spiega il Bila, “per trasformare l’Asia, bisogna che la Chiesa esca dalla sua zona-comfort e vada nelle periferie”, non solo geografiche, ma anche esistenziali. “Nella sequela di Gesù – conclude il comunicato – dobbiamo sviluppare orecchie, occhi e cuori capaci di ascoltare davvero i desideri e le ambizioni della popolazione asiatica”. (A cura di Isabella Piro)

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Nobel letteratura alla giornalista bielorussa Aleksievich

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La giornalista e scrittrice bielorussa, Svetlana Aleksievich, ha vinto il premio Nobel per la Letteratura. La sua "opera polifonica" – si legge nella motivazione – è “un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”. Per la prima volta nella storia dei Nobel, viene premiato un genere giornalistico. Autrice di opere a metà tra il documentario e la fiction, Svetlana Aleksievich è autrice di libri su temi delicati della cronaca degli ultimi anni, tra cui la catastrofe di Chernobyl e la guerra in Afghanistan.

Nei suoi libri denuncia i danni delle guerre nella psicologia delle persone
Le sue opere, nelle quali ha anche raccontato i drammi della storia dell'Unione Sovietica e del suo crollo, sono state tradotte in diverse lingue e pubblicate in tutto il mondo. Nei suoi libri ha denunciato, in particolare, i danni che le guerre provocano nella psicologia delle persone. Ha raccolto testimonianze e dato voce ai reduci di conflitti. Svetlana Aleksievich, nata il 31 maggio del 1948 nella città ucraina di Ivano-Frankivsk, ha iniziato la sua carriera come insegnante e poi come giornalista. Ha studiato all'Università di Minsk tra il 1967 e il 1972.  (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 281

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.