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Sommario del 04/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa ai Domenicani: predicate la misericordia in mezzo alla gente

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Predicazione, testimonianza, carità. Sono i tre punti forti del discorso che Papa Francesco ha rivolto stamani, in Vaticano, ai partecipanti al Capitolo generale dei Domenicani, tenutosi a Bologna, guidati dal maestro generale, fra Bruno Cadoré. Il Pontefice ha sottolineato che per essere autentici predicatori della verità, bisogna saziare la sete del prossimo, toccare nei poveri e bisognosi la “carne sofferente di Cristo”. Il servizio di Alessandro Gisotti

“Hoy podriamos describir este dia…”
“Oggi – ha esordito scherzando Francesco – possiamo descrivere questa giornata come un gesuita tra i frati: perché la mattina sono con voi e nel pomeriggio ad Assisi con i Francescani”. Il Papa ha quindi incentrato il suo discorso ai Domenicani su tre punti: predicazione, testimonianza e carità. Tre pilastri fondamentali per il futuro dell’Ordine, ha detto, che mantengono la freschezza del carisma fondativo. Francesco ha ricordato che San Domenico affermava: “Prima contemplare, poi insegnare”. “Evangelizzati da Dio per evangelizzare”:

“Sin una fuerte union personal…”
“Senza una forte unione personale con Lui – ha osservato – la predicazione potrà essere perfetta, motivata, ammirevole, ma non toccherà il cuore, che è ciò che deve cambiare”. Francesco ha detto che è “tanto imprescindibile lo studio serio e assiduo della questioni teologiche, quanto tutto ciò che permette di avvicinarci alla realtà e porgere l'orecchio al popolo di Dio”. Il predicatore, ha evidenziato, “è un contemplativo della Parola ma lo è anche del popolo, che spera di essere compreso”.

“Transmitir más eficazmente la Palabra…”
“Trasmettere più efficacemente la Parola di Dio – ha soggiunto – richiede la testimonianza: maestri fedeli alla verità e testimoni coraggiosi del Vangelo”. La testimonianza, ha detto, “incarna l’insegnamento, lo rende tangibile” non “lascia nessuno indifferente”. Ancora, ha affermato, “unisce la verità alla gioia del Vangelo, quella di sapersi amati da Dio e di essere oggetto della sua infinita misericordia”. Infine, il Papa ha rivolto il pensiero alla carità. Il Corpo di Cristo “vivo e sofferente”, ha detto, “grida al predicatore e non lo lascia tranquillo”. Il grido dei poveri e degli scartati, ha ripreso, “ci sveglia e fa comprendere la compassione che Gesù aveva per la sua gente”. Questo grido, ha ribadito, ci “interpella” e su questo grido vanno fondate le strutture e i programmi pastorali dell’Ordine. Tutto, ha esortato, deve essere fatto per “rispondere” a questo grido di Dio:

“Cuanto más se salga a saciar la sed…”
“Quanto più si esce per placare la sete degli altri – ha avvertito – tanto più saremo predicatori della verità, di questa verità annunciata dall’amore e dalla misericordia, di cui parla Santa Caterina da Siena”. Nell’incontro con la carne viva di Cristo, ha detto, “siamo evangelizzati e riscopriamo la passione di essere predicatori e testimoni del suo amore”. Francesco ha quindi concluso il suo discorso incoraggiando i Domenicani “a seguire con gioia il carisma ispirato a San Domenico”. Il “suo esempio – ha affermato – spinge ad affrontare il futuro con speranza, sapendo che Dio rinnova sempre tutto e non delude”.

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Maestro generale Domenicani: evangelizzare con la Parola e la vicinanza

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Ha partecipato all’incontro con il Papa anche fra Bruno Cadoré, maestro generale dei Domenicani. Francese, 62 anni, era un medico prima di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. È stato eletto alla guida dei Domenicani nel Capitolo generale del 2010. Ascoltiamo il suo commento al microfono di Sergio Centofanti

R. – È stato un incontro importante perché celebriamo il Capitolo generale dell’Ordine e l’Anno del Giubileo della Misericordia. Lei sa che San Domenico era il predicatore della grazia della misericordia. Allora è una fortuna quella di celebrare due Giubilei nello stesso anno! È stato un incontro molto bello … vedere i provinciali di tutto il mondo incontrare il Santo Padre per presentare  tutto l’Ordine, i frati, le monache, le suore apostoliche, i laici domenicani. Tutta la famiglia domenicana ha potuto incontrare il Santo Padre. È stato un momento bellissimo di confermazione nella nostra missione nella Chiesa.

D. – Quali sono le parole del Papa che vi hanno colpito di più?

R. - Lui ha sottolineato il fatto che i predicatori devono essere nella contemplazione della Parola per poter avere una relazione di amicizia con il popolo verso il quale sono inviati. Allora, contemplazione della Parola e anche testimonianza della vita nell’amicizia con la gente.

D. - Quali sono oggi le sfide dei Domenicani?

R. - Ascoltare e amare il mondo. Ascoltare, per capire la ricerca di saggezza nel mondo; ascoltare prima di parlare, prendere il tempo per conoscere, avere relazioni di prossimità e di amicizia con tutti e portare avanti la sfida di raggiungere quelli che non vengono in chiesa, quelli che ancora non conoscono la Parola di Dio, per presentare loro il nostro amico Gesù.

D. - Come stanno vivendo i Domenicani questo Pontificato?

R. - Il Papa ha dato questa sfida della misericordia come testimonianza di vita, come un modo per costruire la Chiesa, per fare una comunità di testimonianza del Vangelo. Questo è molto importante per l’Ordine dei predicatori della grazia di Dio: è una sfida. Papa Francesco, dopo Papa Benedetto, ha lanciato alla Chiesa la sfida dell’evangelizzazione e di una evangelizzazione che non sia astratta, ma fatta di amicizia, di prossimità con la gente.

D. - Il Papa con una battuta ha detto: “Oggi un Gesuita tra Francescani e Domenicani” …

R. - Siamo frati. È vero, le due tradizioni si sono incontrate. A me piace molto perché all’inizio del Capitolo ho invitato il ministro generale dei Francescani per fare un giorno di ritiro. È un Capitolo che è iniziato con i Francescani ed è continuato con la preghiera e la benedizione di un Papa gesuita. È una grande gioia.

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Papa alla Porziuncola. Il vescovo di Assisi: il perdono è bellezza

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Visita di Papa Francesco oggi pomeriggio alla Porziuncola, in occasione dell’ottavo centenario del “Perdono di Assisi”. Una visita di appena quattro ore, dalle 15 alle 19.00. Nella Basilica di Santa Maria degli Angeli il Papa tiene una meditazione sul perdono. Il servizio del nostro inviato Federico Piana

Un viaggio breve ma significativo. Papa Francesco vuole così quello che già in molti pensano sarà un altro suo gesto storico: la preghiera, intensa e riservata, nella Porziuncola, cuore del perdono francescano, per riflettere sulla potenza e la misericordia di Dio. Ad accogliere il Santo Padre, all’esterno della Basilica, almeno tremila tra pellegrini e fedeli ed un’infiorata, sul sagrato, con la scritta ‘Francesco testimone di umiltà, esempio di pace e di accoglienza’.

Subito dopo la preghiera privata, un momento pubblico, intenso:  la meditazione sul Vangelo di Matteo nel quale si narra del dialogo tra Gesù e Pietro, al quale il Signore ricorda che non basta perdonare solo sette volte ma settanta volte sette. Prima di fare ritorno in Vaticano, il Papa si recherà nell’infermeria della Basilica dove incontrerà alcuni frati malati, le infermiere e il personale di servizio.

Sulla visita del Papa alla Porziuncola ascoltiamo il vescovo di Assisi, mons. Domenico Sorrentino

R. – Nessuno avrebbe potuto prevedere che l’VIII centenario dell’Indulgenza della Porziuncola, che sottolinea appunto la dimensione della misericordia, cadesse in un anno tutto dedicato alla misericordia. Credo che anche questa coincidenza abbia spinto il Papa a venire: sente la bellezza di un messaggio partito 800 anni fa ad Assisi; lui, Papa che ha preso il nome di Francesco, sente questa coincidenza bella e profonda con quanto lo Spirito Santo gli ha ispirato nell’invitare tutta la Chiesa a fare della misericordia la dimensione privilegiata della sua esistenza, del suo cammino. E credo che Francesco d’Assisi abbia molto da dire, in questo orizzonte; e Papa Francesco lo vuole evidenziare: è qui per questo.

D. – 800 anni dall’Indulgenza: lei per questo ha scritto una Lettera pastorale, “Perdono di Assisi, cammino di Chiesa”. Perché questa scelta di dedicare una Lettera pastorale?

R. – Perché è un evento per noi di particolare importanza come Chiesa di Assisi, ma è anche l’occasione buona per dire una parola illuminante su una dimensione che oggi non sempre è compresa. Quando si parla dell’Indulgenza, talvolta non si sa più di che cosa veramente si tratti. Ho voluto, con parole semplici, spiegarlo a tutti e l’ho spiegato in questa maniera: noi siamo destinatari della misericordia di Dio, che arriva a noi in diversi modi e direi anche in diverse tappe. C’è la misericordia fondamentale, che è il perdono dei nostri peccati: pensiamo alla Parabola del Figliol prodigo. Il figlio torna a casa e trova l’abbraccio e il bacio del Padre: questo è il Dio misericordioso che perdona il nostro peccato. Ma il peccato ha anche un’altra dimensione, della quale facciamo esperienza ma alla quale non sempre poniamo mente, e cioè: è una malattia dello Spirito, perché ogni volta che pecchiamo ci allontaniamo, oltre che da Dio, da noi stessi, ci allontaniamo dagli altri, si generano in noi delle ferite, ferite che possono essere anche cicatrizzate ma tante volte, come viene la malattia, devono essere anche ulteriormente curate, tenute sotto controllo … Ecco, tutto questo nella nomenclatura classica della teologica veniva e viene chiamato come la realtà delle pene temporali, che talvolta vengono intese come se ci fosse un Dio che dall’esterno ci attribuisce delle pene per farci scontare i nostri peccati.

D. - E invece oggi …

D. - Oggi, l’approfondimento teologico che è stato anche ripreso dal Magistero, ad esempio dal Catechismo della Chiesa cattolica, ci aiuta a capire che la pena del peccato è frutto del peccato stesso. Il peccato porta la pena di se stesso, perché ogni volta che pecchiamo ci facciamo del male, ci sentiamo male e in noi si generano dei processi, dei dinamismi che poi ci spingono a peccare ulteriormente a peccare e questo naturalmente ci allontana da Dio, rende inquieti noi stessi, genera la frattura con gli altri … Ecco, è una realtà molto penosa che va curata o guarita. E per tutto questo c’è bisogno dell’impegno personale, ovviamente; ma senza una particolare grazia del Signore non ce la faremmo. E questa è la grazia che l’Indulgenza ci garantisce per l’intercessione efficace della Chiesa, che fa perno sulla sua implorazione al Padre sui meriti infiniti di Cristo, sui meriti dei Santi che da Lui scaturiscono e con quella autorevolezza sponsale e materna insieme, chiede al Signore – come appunto fece San Francesco – chiede al Signore quella grazia speciale che possa aiutare ciascuno di noi a lasciarsi curare davvero dalle sue ferite, dalle sue piaghe e a diventare in sostanza bello dentro, perché in una figliolanza di Dio che ritorna splendida, ritorna capace di governare le nostre passioni, le nostre fatiche interiori e in questo senso ci procura la gioia interiore, quella che Francesco chiamava “il paradiso”, che non è soltanto il paradiso dell’aldilà: il paradiso, per un cristiano, incomincia anche nell’“aldiquà”, perché è Dio stesso in noi. E più il nostro cuore si apre a Lui, più noi facciamo esperienza di paradiso, sentiamo la bellezza di quell’espressione colorita che Francesco disse: “Voglio mandarvi tutti in paradiso”. Ecco, vuole mandarci tutti, Francesco, nella gioia di Dio, ma questa gioia richiede un risanamento del nostro spirito, l’Indulgenza e la grazia che ci consentono appunto questo processo di guarigione.

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Oggi in Primo Piano



Accoltellamento a Londra. Polizia: no matrice terroristica

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Gran Bretagna. Misure di massima sicurezza a Londra dove ieri sera una cittadina americana è morta e almeno cinque persone sono rimaste ferite in un attacco a colpi di coltello avvenuto in pieno centro. Arrestato il giovanissimo aggressore sul quale la polizia afferma di non aver trovato legami con il terrorismo di matrice islamica. Le indagini comunque proseguono ed è allerta pure in Italia. Il servizio di Giada Aquilino

Russell Square, a due passi dal British Museum. Nella tarda serata di ieri un uomo armato di coltello ha iniziato a insultare e minacciare i passanti. Quindi, ha aggredito mortalmente un’americana di 60 anni e ferito altre persone. La Polizia metropolitana ha arrestato l’aggressore, un diciannovenne con problemi mentali, norvegese di origini somale. Bloccato con l’uso di un taser, il ragazzo è stato dimesso dall’ospedale dove ha trascorso la notte piantonato ed è stato preso in custodia dagli agenti con l’accusa di omicidio. Secondo gli investigatori, il disagio mentale potrebbe essere “un fattore significativo” e “sostanziale” nel quadro dell’accaduto: non è esclusa l’ipotesi “terroristica”, anche se non ci sono “evidenze” di radicalismi islamici. Il sindaco Sadiq Khan ha esortato i londinesi a rimanere “calmi e vigili”. L'aggressione è avvenuta nella stessa area dove il 7 luglio 2005 scoppiò una delle bombe esplose in contemporanea nella capitale britannica. Proprio ieri le autorità avevano deciso di rafforzare la vigilanza armata. Lo stesso è accaduto a Roma, dopo la diffusione di un video di minacce del sedicente Stato Islamico (Is) con immagini di Piazza Navona: zone di massima sicurezza allestite attorno al Colosseo, vigilanza estesa nell'area di San Pietro, sotto osservazione chiese in periferia, centri commerciali e luoghi di ritrovo. A Varese, arrestato un siriano di 23 anni per terrorismo. Indagati tre imam genovesi. Espulso dal milanese un pakistano, ex capitano della nazionale azzurra under 19 di cricket.

Anche se la pista terroristica negli ultimi fatti di Londra non appare prioritaria, a colpire nei recenti attentati in Europa sono stati soprattutto ragazzi, direttamente o indirettamente ispirati alla propaganda del sedicente Stato Islamico. Perché dunque l’estremismo islamico sembra aver così presa sui giovani? Risponde Arturo Varvelli, responsabile dell’Osservatorio terrorismo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), intervistato da Giada Aquilino: 

R. - È un sostituto all’ideologia, cioè una sorta surrogato di ideologie del passato che erano capaci di penetrare nel quotidiano e insieme nella vita delle persone dal punto di vista ideologico. Quindi, una volta cadute queste ideologie, soprattutto il confronto tra est e ovest che le portavano avanti e le rispecchiavano anche nelle scelte delle società, queste persone sentono una sorta di ‘nichilismo’, non hanno valori. Lo Stato islamico offre loro un’identità, un sistema valoriale, con un’ideologia radicale che in qualche maniera punta alla mente delle persone.

D. - Quello mentale può essere un disagio su cui i jihadisti puntano?

R. - A loro non interessa molto se ci sia un vero processo di radicalizzazione razionale: in molti casi si tratta di persone razionali, altre volte c’è una grande parte di disagio psichico e anche su questo punta il Califfato. Non interessa molto chi sia a compiere e in quali condizioni, ma è importante l’atto. Tale atto viene ad un certo punto rivendicato, se c’è ad esempio una sorta di giuramento, che il Califfato chiede a chi compie l’attentato. Non è necessario che ci siano dei legami diretti tra lo Stato Islamico e la persona che lo compie, ma è sufficiente che questo sia fatto in nome dell’Is.

D. - In queste ore si è parlato di una sorta di intelligence dell’Is impegnata a esportare il terrorismo in Europa. Come funzionerebbe?

R. - Funziona basando tutto sulla propria propaganda che è un arma molto forte dello Stato islamico ed è fondata soprattutto sulla creazione di un mito: il Califfato. I Califfati esistevano nel passato, sono stati in qualche maniera plagiati al volere di Al Baghdadi e di questo gruppo terroristico e vengono strumentalizzati, diventando uno strumento per una scalata al potere che è innanzitutto all’interno del mondo islamico. L’Is cerca di rappresentare sé stesso come il vero paladino dell’islam. Sappiamo che naturalmente non è così. C’è una battaglia all’interno dell’islam e c’è una battaglia che viene fatta anche al di fuori dell’islam proprio per la conquista della leadership dell’islam stesso con una visione naturalmente radicale e violenta.

D. - Oltre che in Gran Bretagna e in Francia, anche in Italia cresce l’allerta. Sotto sorveglianza pure chiese di periferia, centri commerciali e luoghi di ritrovo. Perché sono divenuti obiettivi sensibili?

R. - Sono facilmente vulnerabili, sono attaccabili e sono obiettivi per i quali abbiamo visto nel recente passato si è riuscito a far poco. Si riesce a intervenire poco velocemente, poco rapidamente, perché è alto il numero delle persone esposte a questi attacchi. Sono i cosiddetti "soft target" e rappresentano una sorta di adattamento del gruppo jihadista all’elevarsi della soglia di attenzione e di contrasto nei loro confronti. Non è più necessario puntare a grandi obiettivi simbolici - l’attentato dell’11 settembre 2001 fu il primo di una serie di attentati di questo tipo - ma si può ottenere lo stesso risultato puntando a obiettivi minori che comunque sono in grado di terrorizzarci, cioè di mettere del terrore nelle nostre vite e di far sì che i nostri comportamenti non siano più gli stessi di prima. Nessuno può, naturalmente, dirsi a rischio zero. Sappiamo benissimo che non abbiamo le stesse condizioni socioeconomiche, non abbiamo le stesse seconde e terze generazioni, non abbiamo la stessa vulnerabilità di Francia, Belgio, della stessa Gran Bretagna. Sappiamo però che nessun Paese si può dire incolume da questo fenomeno, purtroppo, globale.

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Sud Sudan: continua emergenza umanitaria, 60 mila in fuga

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Rimane alta la tensione in Sud Sudan, dove secondo le Nazioni Unite durante gli scontri del mese scorso a Juba le forze governative hanno ucciso e violentato dei civili. Il presidente Salva Kiir ha destituito cinque ministri vicini all’oppositore Riek Machar, mentre continua l’emergenza umanitaria. In 60 mila sono fuggiti dal Paese, per una guerra che rischia di accentuare la compente etinica. Per un punto sulla situazione Michele Raviart ha raggiunto a Juba padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei comboniani in Sud Sudan: 

R. – Negli scontri che ci sono stati sicuramente un migliaio di persone sono morte, anche se il governo tende a parlare sempre di 300 morti. Dopo questo, logicamente con la fuga dell’opposizione e quindi di Riek Machar, c’è stato un cessate-il-fuoco, che ancora c’è a Juba. Però gli scontri continuano fuori da Juba, ad un centinaio di chilometri da qui… E’ difficile capire veramente fino in fondo quale sia la verità di questi due gruppi in questo momento.

D. – Per il Sud Sudan si chiede un impegno maggiore da parte della Comunità internazionale. Quali sono i rapporti con il governo?

R. – C’è una tensione del governo nei confronti della Comunità internazionale in genere, che sta cercando di dialogare con il governo e che cerca di riportare al tavolo delle trattative anche Riek Machar. Anche se il governo ha nominato un altro vice presidente, Taban Deng, dicendo che era temporaneo fino a quanto sarebbe tornato Riek Machar: invece il presidente ha annunciato che il nuovo vice presidente era Taban Deng. E questo ha complicato ancora di più la situazione, perché questo vuol dire che c’è una grande divisione anche nell’opposizione. E’ chiaro che si sta cercando di non accettare più quello che era l’accordo che era stato firmato da Riek Machar e Salva Kiir per il governo. Loro non hanno mai accettato fino in fondo questo accordo del 2015.

D. – A livello umanitario l’Onu ha lanciato vari allarmi in questi giorni: da un lato si parla di 5 milioni di persone che rischiano di morire, dall’altro di 11 mila persone che non riescono ad avere gli aiuti dell’Onu, perché non riescono a registrarsi ai campi. Qual è la situazione?

R. – Sono ormai due anni che siamo sempre in questa situazione di emergenza massima: tra i 3 e 5 milioni sono ancora oggi a rischio fame per la guerra, quella precedente e oggi ancora di più, perché le risorse diventano sempre di meno. Le Ong sono sparite quasi tutte da qui, sono rimaste pochissime. Poi c’è una situazione assurda dell’economia e delle finanze, che è saltata tutta: qui si cambia un dollaro a 60 pound e, se facciamo riferimento a 6-7 mesi fa, si cambiava un dollaro per 3. L’inflazione, in questo momento, è la più alta al mondo: più del 300 per cento di inflazione.

D. – Quali sono i rischi di escalation per questa guerra, in cui è componente anche una profonda divisione etnica?

R. – Se il Sud Sudan ritorna ad essere ancora una polveriera, come lo è già, ma diventa sempre più etnica e non soltanto fra due tribù ma anche con altre, è quasi genocidio, come è stato il Rwanda. Se in Rwanda c'erano due etnie e basta, qui ce ne sono 64 di etnie, ma le più importanti sono esattamente Nuer e Dinka, che sono grandi come numeri. E’ difficile il dialogo con questi leader, perché questi non sono leader politici, questi sono dei militari.

D. – Qual è il ruolo della Chiesa locale in Sud Sudan, che – ricordiamo – proprio in questi giorni ha fatto un appello a non dimenticare il Paese?

R. – La Chiesa sta cercando di dare soprattutto messaggi di speranza alla gente, ma cerca anche di dare protezione, perché in questo momento le uniche speranze per la gente sono rappresentante dalla chiese: la gente scappa nei cortili delle chiese e sono migliaia e migliaia… E questo vuol dire protezione, ma vuol dire anche assistenza, vuol dire anche cibo, cercando di aiutare al massimo che si può.

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Aleppo sotto assedio. Mons. Audo: siamo tutti in pericolo

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Nuovi drammatici scontri nella periferia di Aleppo. L'esercito fedele al regime di Bashar al-Assad continua ad avanzare costringendo i ribelli ad abbondonare importanti fette territoriali nella periferia metropolitana. La battaglia è concentrata nel lato sudoccidentale, dove i ribelli hanno lanciato un’offensiva che in tre giorni non ha visto progressi significativi. Le truppe del governo avrebbero occupato l’altopiano di Telat al-Mahoroukat e le cittadine di Khweriz e al-Amriyeh. Con la copertura dei raid russi, i militari sono avanzati nella zona sotto il controllo degli insorti, riconquistando le colline e diversi villaggi. Nei cruenti combattimenti si contano le vittime tra i quali diversi bambini. L'assedio ad Aleppo non accenna a placarsi, i cittadini sono costretti a vivere in condizioni disperate e a fare i conti con la scarsità di cibo e acqua. Michele Ungolo ne ha parlato co il vescovo di Aleppo, mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo: 

R. – Dopo aver chiuso la strada chiamata “Il castello”, che va verso la Turchia, sono un buon numero i gruppi armati che attaccano e c’è pericolo adesso a entrare in Aleppo per la strada che si chiama “Ramuse”.

D. – Da una parte l’esercito di Assad, dall’altra i ribelli: continua dunque la lotta per accaparrarsi il territorio nella periferia di Aleppo. Qual è in questo momento la situazione?

R. – Ognuno cerca di tagliare la strada all’altro gruppo perché non abbia sostegno in cibo e resistenza.

D. – Il nemico più ostico, appunto, per i civili è la fame, in questo momento...

R. – Sì. Normalmente ci sono minacce ovunque, da tutte e due le parti. Non si deve parlare di una parte soltanto, è una spirale di guerra. L’atteggiamento saggio della Chiesa e del Santo Padre deve aiutare la Siria a trovare una soluzione politica, non c’è una soluzione militare.

D. – Quanto è difficile riuscire a sopravvivere in questa situazione?

R. – E’ veramente molto difficile, veramente, perché tutti siamo in pericolo. Ho amici che sono andati ad Aleppo lunedì. Volevano tornare ad Aleppo, non sono riusciti a entrare, c’erano bombardamenti dappertutto. E’ una situazione di insicurezza e di violenza, oltre a una situazione di povertà tremenda: tutti sono diventati poveri, tutti i prezzi sono moltiplicati per 10, tutto è caro a causa della svalutazione della lira siriana. E poi non c’è lavoro.

D. – Quale potrebbe essere una soluzione per porre fine a questa strage?

R. – Tutto il popolo è stanco: questa è la verità. Per quanto riguarda la soluzione politica, basterebbe non vendere armi, non sostenere i gruppi armati per interessi politici, rispettare la realtà siriana, l’unità della Siria, la legalità della autorità siriana: questo è il vero cammino verso la pace.

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Femminicidio. Gandolfini: scuola educhi, ma no a gender

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La scuola educhi ad estirpare la violenza. Così il ministro dell’Istruzione Giannini in seguito ai due ultimi brutali casi di femminicidio in Italia. Dura la condanna del presidente Grasso che ha parlato di “squallidi criminali e schifosi assassini”. Sulla stessa linea il Comitato Difendiamo i nostri figli che questa mattina a Roma ha inviato una delegazione di fronte al ministero delle Pari opportunità per chiedere che le attese linee guida sull’educazione di genere, prevista dal comma 16 delle legge sulla Buona Scuola, siano rispettose delle richieste del Family Day e non veicolino invece l’ideologia gender. Al microfono di Paolo Ondarza il presidente Massimo Gandolfini si sofferma sulla piaga del femminicidio: 

R. – Innanzitutto, una fermissima condanna di tutte queste forme criminali di violenza in cui si sfrutta la sopraffazione del corpo maschile, la forza maschile, nei confronti delle donne. Non esiste nessuna giustificazione a questi atti di violenza disumana, follia lucida, follia voluta, programmata. Quest’ultimo fatto di questa donna bruciata mette in evidenza come in realtà c’era tutto un programma per arrivare a compiere quello che è stato compiuto. Per cui, una condanna assoluta e totale dei due gesti efferati di questi giorni e di tutti quelli, purtroppo numerosi – più di cento –, che si sono perpetrati nei giorni scorsi.

D. – Casi come questi di donne uccise da parte di uomini mettono in luce la grave emergenza educativa. In questa ottica come si contrasta il fenomeno del femminicidio?

R. – Rientra esattamente nelle forme di violenza sessuale e di discriminazione per orientamento sessuale, per identità sessuale. E’ chiaro che questo entra esattamente nel terreno educativo della scuola, che è la seconda agenzia educativa; la prima - voglio sottolinearlo - è la famiglia. Il nostro Comitato, che è intitolato “Difendiamo i nostri figli”, non vuol fare la guerra a nessuno: né al ministro del Miur Giannini né al ministro Boschi, in quanto titolare delle Pari Opportunità. Noi vogliamo collaborare. Se la finalità è quella di togliere di mezzo il femminicidio, la violenza contro le persone, siamo assolutamente d’accordo. Però, nel momento in cui, invece, si parla di educazione all’orientamento, all’identità di genere, non si intende questo: s’intende quella filosofia gender, che nasce negli Stati Uniti per la quale non esistono due generi, due sessi, ma esistono due sessi e un numero imprecisato di generi. Cosa c’è sotto? Che educheremo i nostri figli a dire: “Voi avete un sesso – maschile o femminile – ma il genere di appartenenza dipende dal vostro desiderio e dalla vostra libera scelta”. Questo è assolutamente inaccettabile.

D. – Quindi sta dicendo che il rischio è che si vada a travisare anche il concetto di quell’alleanza uomo-donna necessario per contrastare il fenomeno, ad esempio, del femminicidio, veicolando la cosiddetta ideologia gender, che è stata denunciata anche dal Papa in Polonia?

R. – Esatto. Allora, citando il suo predecessore, Benedetto XVI, il Papa ha detto: “Chi è che porta avanti questa ideologia di gender? Evidentemente il grande capitale”. Lui dice che dietro ci sono i soldi. E’ per questo che noi dobbiamo difendere i deboli. E non c’è forse nessuno più debole al mondo se non i bambini. Allora, come si può dire ad un bambino che può scegliere il suo orientamento sessuale? La scuola non deve confondere: deve aiutare; deve dare certezze; e contemporaneamente deve veicolare l’idea che maschio e femmina non sono due nemici l’uno contro l’altro armati; hanno delle differenze e differenze non vuol dire diseguaglianze. Purtroppo, il messaggio che viene veicolato è che c’è un antagonismo. Dobbiamo dire che questi atti di femminicidio sono degli atti criminali e come tali non devono trovare nessuna, neanche lontana, minima giustificazione. Ma il bello della natura è che l’uomo e la donna sono complementari: uno aiuta l’altra; sono portatori di differenze specifiche, che messe insieme fanno la bellezza dell’umano. Allora, i bambini devono essere allevati a questi valori: non al valore del contrasto tra maschio e femmina, ma a vedere che queste differenze sono meravigliose e costituiscono – ripeto – non delle diseguaglianze, ma anzi, delle differenze su un’unica uguaglianza, che è quella della dignità della persona umana.

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Ama: anticorruzione apre istruttoria. Solidoro neo amministratore

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L’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone ha aperto una istruttoria sull’Ama, la municipalizzata dei rifiuti di Roma capitale. L’attenzione dell’Anac è concentrata soprattutto sugli appalti per la gestione dei ciclo dei rifiuti. Intanto, dopo le irrevocabili dimissioni di Daniele Fortini, in polemica con l’assessore all’ambiente Paola Muraro, il M5s ha scelto a capo dell’azienda Alessandro Solidoro, con non poche contestazioni da parte delle opposizioni. La situazione rifiuti per le strade di Roma appare insostenibile, ma non si deve parlare di emergenza afferma Loredana Musmeci, esperta dell’Istituto Superiore di Sanità, al microfono di Francesca Sabatinelli: 

R. – Nell’immaginario collettivo, quando si parla di emergenza rifiuti si pensa a quella che fu l’emergenza, nei vari anni, nella città di Napoli, in generale nella regione campana. Non siamo in questa situazione. I rifiuti, comunque, vengono raccolti, anche se con frequenze non appropriate. I rischi connessi possono essere legati fondamentalmente ai rifiuti putrescibili, quindi alla parte organica dei rifiuti, che si degrada dando origine ad odori sgradevoli e a colaticci. Quindi, esiste sicuramente una situazione di percezione del rischio da parte della popolazione. In termini di rischi reali, ci può essere un aumentato rischio per la formazione di bioraesol. Alle goccioline di umidità, quindi, vengono adesi dei microrganismi che si generano nel processo putrefattivo. Ma questo riguarda le immediate vicinanze del rifiuto abbandonato. Quindi è un rischio molto limitato. Le persone non è che si rotolano o vengono a contatto diretto con il rifiuto abbandonato.

D. – Da più parti si evoca un altro rischio per la salute dei cittadini, legato all’aumentata presenza di animali nelle strade, essenzialmente ratti, ma anche blatte…

R. – Certo, può costituire un rischio e indubbiamente può essere un veicolo di malattia, di infezioni. Specialmente i ratti. Fare la derattizzazione potrebbe essere utile, certamente. Pensiamo, comunque, al fatto che si tratta pur sempre di sostanze tossiche che vengono immesse nell’ambiente. Direi che preferirei che venissero raccolti i rifiuti, piuttosto che fare la derattizzazione. In attesa, però, che si risolva questa situazione, sicuramente, nelle aree con maggior presenza di ratti o blatte, un intervento di disinfezione potrebbe essere utile.

D. – Quale aspetto preoccupa maggiormente voi esperti dell’Iss?

R. – Ci preoccupa questo sistema che si sta diffondendo in Italia, questa idea che anche i rifiuti si possano gestire senza impianti. Perché questo ci preoccupa? Perché vuol dire che le emergenze saranno continue e costanti. Per i rifiuti, anche dove è possibile effettuare le raccolte differenziate più spinte, i porta a porta - parlo di rifiuti urbani - anche arrivando a raccolte differenziate estremamente spinte, dicevo, avremo sempre bisogno di qualche impianto, perché non sarà mai tutto recuperabile al cento per cento, perché avremo degli scarti, dei rifiuti sporchi, che non sono recuperabili, perché anche una volta che abbiamo recuperato il rifiuto, e abbiamo generato nuova materia – materia prima secondaria da rifiuto – questa è legata anche ad un mercato specifico. E quindi accade che ci sono dei momenti di maggior richiesta, oppure dei momenti di minor richiesta, e quindi non sempre tutti gli impianti di recupero possono recepire gli stessi quantitativi di rifiuti. C’è, quindi, una fluttuazione nel mercato e quindi nella gestione del rifiuto. Dovremo sempre, dunque, pensare a degli impianti di stoccaggio definitivo, che può essere una discarica, o impianti di trattamento di altro tipo, dove avviare quei rifiuti che non sono recuperabili in generale o in quella fase particolare dell’oscillazione del mercato. E poi ci sono impianti che siamo costretti ad avere sul territorio. Se facciamo una raccolta spinta anche dell’umido, ne dobbiamo fare compost, lo dobbiamo trattare affinché il processo degradativo avvenga in una situazione controllata, e quindi occorre un impianto. Sono anche questi degli impianti che vengono percepiti con disturbo dalla popolazione, perché sicuramente emettono degli odori non gradevoli. Quando, però, parliamo di impianti di gestione dei rifiuti, dobbiamo pensare che siamo nel 2016 e ci dobbiamo confrontare con le tecnologie oggi disponibili. Non dobbiamo pensare agli impianti degli anni ’90, ’80, che emettevano chiaramente delle sostanze pericolose. Oggi, la tecnologia, nell’ambito della gestione dei rifiuti, ha fatto passi da gigante. Quindi, quando parlo di un impianto di incenerimento, bisogna distinguere tra vecchia generazione e nuova generazione. Un impianto di compostaggio: vecchia generazione e nuova generazione. Non esiste una grande città europea, una capitale, che non abbia un inceneritore, con recupero del calore. Ed è possibile vedere in tempo reale i dati emissivi. Ci sono situazioni in cui l’aria d’ingresso è peggiore dell’aria emessa da quell’impianto, anche in alcune realtà del Nord Italia, come ad esempio Bolzano. Certo, bisogna ristabilire un rapporto fiduciario tra la popolazione e gli organi di controllo, e questi debbono controllare. Si deve, cioè, rimettere in piedi la catena.

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Presentata la prima indagine sul Servizio civile nazionale

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E’ stata presentata questa mattina presso la Sala stampa del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’indagine curata da ISFOL dal tema: “Il Servizio civile nazionale fra cittadinanza attiva e occupabilità”. La ricerca rappresenta la prima indagine conoscitiva rivolta ai giovani che hanno prestato questo servizio. Salvatore Tropea ha intervistato l’on. Luigi Bobba, Sottosegretario al Ministero del lavoro e delle politiche sociali: 

R. – Questa indagine è originale perché riguarda un campione dei 28mila giovani che sono partiti fra il 2015 e il 2016. Sostanzialmente ci sono quattro dati principali. Il primo è questo: chi sono questi giovani? Sono prevalentemente donne, più presenti nel sud e nelle isole e appartenenti ad una fascia di popolazione medio-alta con un buon titolo di studio. Qual  è la loro motivazione? Questo è il secondo dato. È una motivazione prevalentemente di tipo personale: acquisire più competenze, provare comunque ad aprire delle relazioni. Il terzo dato rilevato è che si tratta di giovani molto interconnessi e anche fortemente propensi ad una mobilità anche verso altri Paesi. Il quarto dato è che questi giovani sono anche molto presenti in associazioni di volontariato.

D. - Le domande per prestare servizio civile sono in aumento tra i giovani?

R. - Quest’anno ne avremo circa 42mila. Quindi ci troviamo in un percorso di crescita: dai 15mila del 2014 ai 35mila dell’anno passato, ai 42mila di quest’anno. Rispondere a tutti i giovani che volontariamente scelgono di fare il servizio civile in modo positivo con un “Sì” è ancora un obiettivo da raggiungere, ma la strada però è stata imboccata. Adesso la percorreremo anche con maggiore decisione, grazie alla riforma del servizio civile e ai decreti legislativi che sono in corso di preparazione.

D. - Quanto è importante oggi il servizio civile in Italia e cosa si può ancora fare per migliorarlo?

R. - Intanto disporre le risorse perché tutti i giovani che lo chiedono lo possano fare. Secondo, garantire una triennalità della programmazione del servizio civile in modo che anche gli enti che ingaggiano questi giovani abbiano una prospettiva di non breve periodo e dunque investano anche sulla formazione delle persone che seguono i giovani nei progetti. Terzo, aprire una prospettiva europea, che la legge ci consente di fare, proprio per sentirsi insieme pienamente cittadini partecipi attivi del Paese, ma anche in una dimensione europea.

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Rio 2016. Berruti: sia festa dello sport senza macchie del doping

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Al countdown delle Olimpiadi mancano 24 ore per arrivare allo scadere. A Rio de Janeiro, si fanno le prove generali della cerimonia di apertura di un evento che sta per catalizzare l'attenzione di miliardi di telespettatori sul pianeta. Come ogni quattro anni, i cronisti si preparano a raccontare i record degli atleti per aggiornare gli annali dei cinque Cerchi olimpici, che conservano le imprese delle trenta edizioni precedenti, tra le quali spicca quella di Livio Berruti, vincitore della medaglia d'oro nei 200 metri alle Olimpiadi del 1960 a Roma. Al microfono di Giancalo La Vella, l'ex velocista rievoca l'atmosfera dell'edizione di 56 anni fa: 

R. – Diciamo che sono state un po’ un’apoteosi di umanità, di colori, di amicizie, di sorrisi, in cui non c’era nessun tipo di discriminazione, né di tipo etnico né di tipo confessionale né di tipo economico. Era stata, dunque, una bella festa dello sport, dove tutti ci sentivamo uguali e soprattutto non c’era quella diffidenza – che ora aleggia in tutte le attività sportive – quel dubbio se la persone che incontri è pulita o no. Siamo stati fortunati, diciamo così. E poi, era un momento bello per l’Italia, che stava rialzando la testa dopo le batoste della guerra. In un certo modo, abbiamo quindi aiutato un poco una nazione stremata dalle vicende guerresche a rialzarsi e ad avere una presenza ammirata in campo internazionale.

D. – Riscendiamo un attimo in pista, in quella finale e non solo, anche nella semifinale, dove hai eguagliato il record del mondo e hai chiaramente mandato in visibilio non soltanto gli italiani, ma gli sportivi, gli ammiratori di tutto il mondo. Che cosa bisogna fare per presentarsi ad una Olimpiade e andare a medaglia? Sicuramente la tua è stata una preparazione che è iniziata molto prima…

R. – Certo. Bisogna avere un atteggiamento di curiosità, vedere fin dove si può arrivare senza farsi stritolare dalla tensione e dal timore di non farcela. Bisogna appunto affrontare questi momenti belli con uno spirito un po’ goliardico, senza dare troppa importanza a quello che accade. Perché se uno si fa prendere dall’emozione della gara, dalla tensione della gara ovviamente rimane bloccato e non riesce a rendere al massimo. Avere, quindi, curiosità, disponibilità a confrontarsi con tutti e, soprattutto, avere la voglia di gareggiare con la gioia, con il sorriso, con la sensazione di sentirsi in un mondo dove tutti siamo uguali, dove solo il migliore vince, dove c’è la meritocrazia che domina e non i sotterfugi, che purtroppo accadono anche nello sport.

D. – Tu hai fatto cenno chiaramente al doping, che è un po’ il male dello sport di oggi. Com’è riuscito a insinuarsi nelle maglie anche dei campionissimi, di quelli che forse non avrebbero bisogno di aiuti per vincere? Tu hai detto: “Ai nostri tempi non c’era questo problema”…

R. – Purtroppo, ormai siamo schiavi del risultato, della vittoria a tutti i costi, e quindi un campione quando è già affermato ha questa estrema esigenza di mantenere sempre un livello superiore di rendimento e più vai avanti nel tempo e più questo diventa difficile. Quindi, per cercare discretamente di mantenere quello che gli altri si aspettano da te a volte fai di tutto pur di rispettare queste previsioni. L’atleta, infatti, quando è in gara è una persona piuttosto fragile.

D. – Come vedi queste Olimpiadi di Rio che, come abbiamo visto, sono già nate tra le polemiche, proprio per l’esclusione di gran parte della squadra russa per motivi di doping accertati nelle precedenti edizioni? Un’Olimpiade che parte insomma con il piede giusto o no?

R. – Ormai le Olimpiadi sono diventate un fatto talmente enorme, talmente al di fuori del puro fatto sportivo… Ormai, sono diventate un fatto di valore politico, di valore sociale, di valore economico. E’ ovvio, quindi, che diventa difficile riuscire a mantenere un certo equilibrio. Purtroppo, poi, Rio è una città talmente enorme, talmente piena di scompensi sociali, oltre che economici, che diventa difficile riuscire a rendere tranquilla una competizione. D’altra parte, penso che ormai le Olimpiadi siano talmente grandi che hanno bisogno di essere disseminate in diverse città. Non si può più dare a una società il compito di organizzare tutte le gare olimpiche, bisogna suddividerle. Come ha detto il Cio già in passato: suddividere le gare olimpiche in diverse località, perché ormai le Olimpiadi sono una vetrina delle capacità imprenditoriali, delle esperienze turistiche, dei valori culturali di una nazione. Quindi, è giusto che molte città siano coinvolte in questa vetrina di natura ormai mondiale.

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San Giovanni M. Vianney, il Santo Curato della misericordia

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La Chiesa ricorda oggi la figura del Curato d‘Ars, San Giovanni Maria Vianney, straordinaria figura di sacerdote e di confessore, vissuto in Francia nella prima metà dell’Ottocento e proclamato “patrono dei parroci”. Alessandro De Carolis ne tratteggia il profilo in questo servizio: 

Una vita con addosso l’odore delle sue pecore, pecore piuttosto in male arnese, e anzi soffuso di sfumature più acri, visto che per le sue pecore sacrificava del suo oltre il sacrificabile, come scambiare il pane fresco che gli procurava la perpetua con i tozzi secchi di un povero e dormire sul pavimento finendo ammalato perché un altro povero potesse godere di un materasso, il suo.

È una vita fatta di tante vite quella di Giovanni Maria Vianney. Il giovane che impara ad amare Gesù quasi prima di imparare a parlare e che poi, lui ragazzino di campagna, suda sette camicie per diventare sacerdote – ci riuscirà solo a 30 anni grazie alla pazienza infinita di un prete amico – perché di imparare il latino proprio non se ne parla. L’umiltà cucita addosso come uno dei suoi umilissimi vestiti, sacerdote armato di cilicio e penitenze fatte al posto dei suoi penitenti in un’epoca in cui molte tonache erano state colluse col Terrore francese – che predicava con la ghigliottina libertà e fraternità e perseguitava a morte chi predicava la carità in nome di Dio – Giovanni Maria diventa il “santo curato” che poi passerà alla storia trascorrendo 40 anni nascosto in un paesino minuscolo anche nel nome, Ars, 35 km a nord di Lione, che raggiunge a piedi nella nebbia del gennaio 1818.

Giovanni Maria Vianney ha 32 anni, una fede che è un braciere acceso e 230 anime da accudire che a malapena si sono accorte del suo arrivo, che sì frequentano la Messa alla domenica – anche se molti stanno nei campi – e ancor più frequentano le osterie che circondano la chiesa, coi fumi del vino ingerito che ispirano azioni ben poco morigerate. Ma quell’oscuro paesino di tre lettere sta per trasformarsi, nella storia della Chiesa e non solo, in un modello. Il nuovo curato si batte dal pulpito e per le strade contro le piaghe, specie quella dell’ubriachezza generalizzata, che rovina intere famiglie, ottenendo una vistosa riduzione del fenomeno, assieme ad altri miglioramenti sociali, compreso un solido argine contro le bestemmie, che ad Ars fioriscono sulle labbra dei bambini come semplici filastrocche.

Il curato d’Ars è battagliero, non fa sconti, ma ha una generosità e una pietà inesauribili, che unite alla sobrietà da cui mai deroga, lo rendono figura amata dai suoi parrocchiani e stimata dai più. Ma dove il Curato affina la sua futura santità è nel metro quadro del suo confessionale. Vi passa ore, saltando spessissimo i pasti e riducendo il sonno, ascoltando, ammonendo, consigliando, assolvendo. Per la Chiesa diventerà un maestro del Sacramento della Riconciliazione. Le sue confessioni non sono mai troppo lunghe perché, dice, bisogna dare spazio a tutti.

Occorre “evitare – afferma con estrema schiettezza – tutte quelle accuse inutili, tutti quegli scrupoli che fanno dire cento volte la stessa cosa, che fanno perdere tempo al confessore e snervano quelli che sono in attesa di confessarsi”. Tanto l’essenziale, ricorda a tutti, è “evitare ogni simulazione: che il vostro cuore sia sulle vostre labbra. Voi potete imbrogliare il vostro confessore, ma ricordatevi che non imbroglierete mai il buon Dio, che vede e conosce i vostri peccati meglio di voi”. Quel ministro della misericordia scioglie i cuori anche più induriti anche per la sua magistrale delicatezza che gli fa rivelare un giorno la “ricetta”. A chi si confessa, dice, do “una piccola penitenza, e io faccio il resto al posto loro”.

La sua fama si espande oltre in confini del suo riserbo. Nel 1840 diviene quotidiano un servizio di carrozze fra Ars e Lione e poi sulla linea Parigi-Lione. Il numero dei pellegrini arriva a 80 mila all’anno, contando solo coloro che si servivano di mezzi pubblici. Muore, sfinito, il 4 agosto 1859 alle 2 della notte. San Pio X lo proclama Beato nel 1905, Pio XI lo canonizza nel 1925 e quattro anni dopo lo definirà “patrono dei parroci”. Nel 2009, nel 150.mo della sua morte, Benedetto XVI indice un Anno sacerdotale dedicandolo alla sua figura, “vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Giappone: 10 giorni per la pace, in ricordo di Hiroshima e Nagasaki

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“La costruzione della pace inizia da noi stessi”: si apre così il messaggio che la Conferenza episcopale del Giappone ha diffuso in vista della commemorazione delle vittime dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, avvenuti il 6 ed il 9 agosto del 1941. Da 35 anni, infatti, la Chiesa nipponica celebra, dal 6 al 15 agosto, dieci giorni per la pace, un’iniziativa nata dopo l’appello alla riconciliazione lanciato da San Giovanni Paolo II proprio ad Hiroshima, il 25 febbraio 1981.

Pregare ed agire per la pace
“Dobbiamo pregare per la pace, imparare a pensare alla pace ed a fare tutto ciò che è necessario ad essa”, si legge nel messaggio a firma di mons. Joseph Mitsuaki Takami, arcivescovo di Nagasaki e presidente dei vescovi. “La pace nel mondo è andata in frantumi – sottolinea il presule – ed è costantemente minacciata da avvenimenti come la guerra in Siria, il terrorismo fondamentalista, i conflitti armati per il controllo delle risorse”. Il pensiero del vescovo va poi alle tante persone, “tra cui donne e bambini”, che vengono uccise, ferite, costrette alla fuga, “private di una vita normale e della vita stessa”. Di qui, l’appello alla preghiera affinché si giunga “alla riconciliazione e lo spirito di pace si diffonda in tutto il mondo”.

Non si può restare indifferenti di fronte alla violenza
Auspicando, quindi, “un mondo senza armi nucleari”, anzi “un mondo senza alcun tipo di armi e di violenza”, la Chiesa di Tokyo richiama l’importanza di tutelare il bene comune ed i più vulnerabili della società, come scritto da Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2016. In quest’ottica, i vescovi sottolineano che “non si può restare indifferenti di fronte ad omicidi, discriminazioni basate su nazionalità, cultura o sesso, violenze domestiche, manifestazioni di odio o molestie sessuali” che si verificano in Giappone e di fronte alle quali bisogna “prendere misure adeguate”. L’esortazione è anche a “non abbassare la guardia” in relazione alle leggi sulla sicurezza nazionale ed alla proposta di modifica della Costituzione “che coinvolgeranno inevitabilmente il popolo giapponese in un ciclo di violenza”.

Valorizzare la dignità di ogni essere umano
Il riferimento di mons. Takami è chiaro: il 30 marzo scorso, infatti, è entrata in vigore una nuova legge che consente al Giappone di impiegare le proprie forze armate in missioni militari all'estero, segnando un cambiamento epocale rispetto alla Costituzione nazionale, che vieta espressamente l'uso delle forze armate nipponiche al di fuori dei confini nazionali. Di qui, il richiamo della Chiesa nipponica al significato cristiano della parola pace che implica “la valorizzazione della dignità della vita di ciascuno e lo sviluppo di rapporti di prossimità con Dio e con gli altri”.

Non c’è pace dove c’è emarginazione
“Dobbiamo sforzarci di non escludere nessuno, ma amare, perdonare ed accettare l’altro”, perché “non c’è pace là dove qualcuno è emarginato, dominato, privo di rispetto o discriminato”. Infine, la Conferenza episcopale giapponese ricorda che “bisogna iniziare a costruire la pace dentro di noi. Tutti possiamo farlo e tutti dobbiamo farlo, perché questa è la via sicura per realizzare la pace in tutto il mondo”. (I.P.)

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Morto mons. Bianchi, Assistente generale Azione Cattolica

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È deceduto ieri, 3 agosto, dopo lunga malattia, mons. Mansueto Bianchi, vescovo emerito di Pistoia e assistente generale dell’Azione Cattolica italiana. Aveva 67 anni. “Soffriamo enormemente per questa perdita - afferma mons. Fausto Tardelli, vescovo di Pistoia - ma ci conforta la stupenda testimonianza di fede, di speranza e di carità dolcissima che ci ha dato in questi lunghi e interminabili mesi di ospedale”. Pur “duramente provato”, infatti, mons. Bianchi è stato “sempre sereno e con una grande pace nel cuore, affidato completamente a Gesù”.

Punto di riferimento importante
Unanime il cordoglio dell’Azione cattolica italiana: “In questi anni – si legge in una nota – tutti coloro che hanno avuto la possibilità di incontrare mons. Bianchi, hanno trovato in lui un punto di riferimento discreto e rispettoso, ma capace di offrire un contributo di grande significato; per l’amore e il riferimento costante alla Parola di Dio. Per la passione e la conoscenza della vita della realtà ecclesiale; per il desiderio di servire con coraggio la persona del Papa e il sogno di Chiesa che delineato nella Evangelii Gaudium”.

Gratitudine a Papa Francesco
L’Azione cattolica esprime, poi, riconoscenza a Papa Francesco che “in modo discreto e costante si è sempre informato delle condizioni di mons. Bianchi e al Segretario di Stato Vaticano, card. Pietro Parolin”, così come a tutti coloro che si sono presi cura del presule nel periodo della malattia.

Ministero episcopale dedicato ai poveri ed agli emarginati
Nato a Santa Maria del Colle, in provincia di Lucca, il 4 novembre 1949, mons. Bianchi era stato ordinato sacerdote il 29 giugno 1974. Nominato vescovo di Volterra il 18 marzo 2000, era divenuto poi titolare della diocesi di Pistoia il 4 novembre 2006. Dopo essere stato presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo della Conferenza episcopale italiana, ad aprile 2014 era divenuto assistente generale dell’Azione Cattolica. Centrale, nel suo ministero episcopale, “l’attenzione ai poveri, agli ammalati, ai precari, agli impauriti del domani, a quelli che non ce la fanno”. (I.P.)

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Vescovi Ucraina: sì a Giornata memoria per vittime massacri in Volynia

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L’arcivescovo di Leopoli dei Latini, mons. Mieczyslaw Mokrzycki, presidente della Conferenza episcopale ucraina, ha accolto con favore la recente decisione della Dieta polacca di istituire una giornata dedicata alla memoria delle vittime del genocidio perpetrato, durante la Seconda Guerra Mondiale, dalle truppe dell'Organizzazione di nazionalisti ucraini (Oun) e dall’Esercito insurrezionale ucraino (Upa) nell’allora Polonia orientale.

80 mila le vittime polacche dei pogrom in Ucraina durante la guerra
Tra il 1942 e il 1945, oltre 80 mila polacchi, tra cui donne e bambini, furono massacrati dai miliziani dell’Oun e dell’Upa in Volinia e nella Galizia orientale, oggi parte dell’Ucraina, nell’ambito della campagna di "pulizia etnica" condotta contro polacchi, ma anche russi, ungheresi ed ebrei. Il 22 luglio scorso il Parlamento di Varsavia ha riconosciuto che si è trattato di un genocidio e ha deciso di istituire una “Giornata della Memoria” da celebrarsi ogni anno l’11 luglio. Una decisione duramente criticata dall’attuale governo ucraino che di recente ha riabilitato il controverso leader nazionalista e filo-nazista Stepan Bandera, mentre un anno fa il Parlamento di Kiev ha dichiarato i miliziani dell’ Oun e dell’Upa "combattenti per l'indipendenza".

Il primo agosto una Messa speciale per le vittime a Melnytsia
In questo contesto - riferisce il "Servizio d’informazione religiosa ucraina" (Risu) - il primo agosto è stata celebrata una Messa speciale per le vittime polacche dei massacri presieduta da mons. Vitaly Skomarovsky, vescovo di Lutsk. La celebrazione si è svolta nel cimitero di Melnytsia, in Volinia, dove sono stati riesumati i resti di alcuni dei giustiziati, il sacerdote Václav Majewski e 17 membri dell'intellighenzia polacca.

Mons. Mokrzycki: la verità storica su questi eventi ci renderà liberi
Nell’occasione mons. Mokrzycki ha sottolineato l'importanza di rendere omaggio alle vittime: "Siamo grati a tutti coloro che parlano di questi eventi, che vogliono stare dalla parte della verità, che onorano e danno una degna sepoltura a tante persone che non hanno ancora una lapide”, ha detto il presule. Secondo quanto riportato dall’agenzia Zik, mons. Mokrzycki ha espresso un giudizio positivo sulla decisione del parlamento polacco di indire la “Giornata della memoria”: “Ritengo che questa decisione permetterà ai nostri due popoli di arrivare alla verità e la verità ci renderà liberi”, ha dichiarato. Da ricordare che da anni i vescovi cattolici dei due riti - quello latino e quello bizantino - esortano i fedeli al perdono reciproco e alla riconciliazione tra i due popoli. (a cura di Lisa Zengarini)

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Arcivescovo Monterrey: appello a conversione nella società

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Conversione e trasparenza: questi i valori auspicati dall’arcivescovo di Monterrey, mons. Rogelio Cabrera López, per tutta la società messicana. In una nota pubblicata sul sito della Conferenza episcopale del Messico, il presule sottolinea l’importanza di “una vera conversione del cuore” e di un atteggiamento cristallino che “porta a vivere con onestà”. “Non bisogna vivere nascondendo le cose, perché si prospera solo con la chiarezza”, scrive mons. Cabrera.

Rispettare giustizia e verità
“Essere onesti – aggiunge – significa comportarsi e vivere con sincerità e coerenza, nel rispetto della giustizia, della verità e del nostro prossimo”. Tutto questo, prosegue l’arcivescovo di Monterrey, rappresenta “una chiamata quanto mai urgente per tutti coloro che hanno incarichi pubblici, ai nostri governanti ed a tutte le istituzioni al servizio della popolazione”. Di qui, l’esortazione affinché ciascuno, vescovi compresi, “faccia un serio esame di coscienza”, seguendo gli insegnamenti “sempre chiari e diretti del Vangelo e senza cercare di adattarli al proprio tornaconto”.

Vivere in pienezza, secondo il Vangelo
“Se diciamo di essere impegnati nella verità, non dobbiamo aver paura di sradicare le cause della menzogna, che provoca molti danni”, aggiunge mons. Cabrera. Infine, il presule ricorda che “la conversione e la trasparenza non devono essere azioni isolate o effimere, in quanto, unite insieme, rappresentano il motore che ci spinge ad una vita in pienezza, secondo la volontà di Dio”. (I.P.)

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Vescovi Filippine: no ad abuso dei contratti di lavoro a termine

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I vescovi filippini salutano il giro di vite annunciato dal presidente Rodrigo Duterte contro l’abuso dei contratti di lavoro a termine ai quali sempre più aziende nel Paese ricorrono per aggirare il Codice del lavoro.

Un segnale di rottura con il passato
“Si tratta di un importante segnale di rottura rispetto ai governi passati piegati agli interessi delle oligarchie economiche ai danni dei lavoratori”, ha dichiarato padre Jerome Seciliano, segretario esecutivo dell’Ufficio per gli affari pubblici Conferenza episcopale (Cbcp) citato dall’agenzia Ucan.

Misure per contrastare la precarizzazione dei lavoratori
Il ricorso alle agenzie di lavoro interinale è sempre più diffuso anche nelle Filippine, perché permette alle aziende di eludere la normativa sul salario minimo garantito, sui contributi previdenziali e assistenziali e altri oneri accessori a carico dei datori di lavoro. Il risultato è la crescente precarizzazione dei lavoratori, che alla scadenza del contratto si ritrovano disoccupati e devono aspettarne un altro o rivolgersi a un’altra agenzia interinale. Il governo di Manila ha promesso che entro la fine dell’anno introdurrà misure più severe contro questi abusi e il presidente Duterte ha avvertito che ogni violazione sarà punita con la chiusura delle aziende che non rispettano la legge.

La Chiesa a fianco dei lavoratori precari
Un’iniziativa pienamente condivisa dalla Chiesa. “Questa pratica deve essere fermata, perché la gente ha bisogno di un lavoro stabile e di un salario decente e le aziende che abusano di questi contratti dovrebbero chiudere perché sono fuori-legge”, ha commentato mons. Broderick Pabillo, vescovo ausiliare di Manila e presidente della Commissione per i laici della conferenza episcopale. Nel mese di giugno la Conferenza Chiesa-Lavoro, un’organizzazione che riunisce diverse associazioni sindacali cattoliche, aveva proposto al nuovo esecutivo la convocazione di una consultazione nazionale per fare una cernita dei contratti a termine irregolari; suggerire come sanzionare gli abusi e creare meccanismi per coinvolgere direttamente i lavoratori per contrastare questa pratica. Inoltre, l’organizzazione ha suggerito di incaricare i leader sindacali di ispezionare i luoghi di lavoro per verificare le irregolarità. (L.Z.)

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Olimpiadi Rio. Appello Unicef: tutelare i bambini più vulnerabili

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“Get active for children”, ovvero “mobilitati per i bambini”: questa l’iniziativa globale lanciata dall’Unicef in occasione delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi di Rio de Janeiro, a favore dei minori più vulnerabili. “Per i bambini più indifesi del Brasile - informa una nota Unicef - è all’ordine del giorno essere esposti a violenza e sfruttamento. I grandi eventi sportivi possono esporre questi minori a rischi di violenza ancora più grandi, che comprendono lo sfruttamento sessuale e il lavoro minorile”.

Raccogliere fondi in favore dei minori a rischio
Secondo gli ultimi dati, infatti, nel Paese “ogni giorno trenta tra bambini e adolescenti vengono assassinati e più di un adolescente su tre muore per omicidio”. Attraverso l’iniziativa, “ogni volta che uno tra gli aderenti percorre 5 km a piedi o in sedia a rotelle sarà effettuata una donazione di 5 dollari brasiliani da parte di aziende”. I fondi raccolti contribuiranno a portare avanti il lavoro dell’Unicef in favore dei minori in tutto il mondo.

Possibilità di denunciare on line gli abusi sui minori
Inoltre, per aiutare a prevenire e a rispondere alla violenza sui bambini durante i Giochi Olimpici e Paraolimpici, l’Unicef ha lanciato anche una nuova versione di “Proteja Brasil”, un’applicazione che consente a coloro che sono testimoni o vittime di denunciare alle autorità episodi di violenza, abuso e sfruttamento. Le segnalazioni su tempi, luoghi e circostanze sono anonime e possono essere effettuate on line. Giunte alla 31.ma edizione, le Olimpiadi si svolgeranno dal 5 al 21 agosto, mentre le Paralimpiadi avranno luogo, sempre a Rio de Janeiro, dal 7 al 18 settembre. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 217

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.