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Sommario del 08/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Nunzio a Damasco: popolazione siriana devastata da guerra per procura

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Non si fermano i combattimenti ad Aleppo, dove infuria la battaglia tra le forze ribelli e l’esercito di Assad che assedia la città. Centinaia i morti in questi giorni. A pagarne le conseguenze sono i civili e soprattutto i bambini come ha denunciato ieri il Papa all’Angelus che ha puntato il dito contro “la mancanza della volontà di pace dei potenti” in una guerra che dura da oltre 5 anni. Sulle parole del Papa, ascoltiamo il commento del nunzio in Siria, mons. Mario Zenari, raggiunto telefonicamente  a Damasco da Sergio Centofanti: 

R. – Il Papa adopera delle parole forti: “E’ inaccettabile - dice - che tante persone inermi, civili e soprattutto tanti bambini paghino il prezzo di questo conflitto”. E qui vorrei ricordare anche il continuo richiamo delle Nazioni Unite ai belligeranti, il grave obbligo che hanno i belligeranti di rispettare il diritto umanitario internazionale, a cominciare dalla protezione dei civili … Ban Ki-moon non cessa di ripetere che anche la guerra ha delle regole … Purtroppo, per quanto riguarda la protezione dei civili, si è rivelato un fallimento in questi cinque anni e mezzo di guerra: se pensiamo che quotidianamente sono colpiti ospedali, scuole, mercati popolari, addirittura campi profughi, chiese, moschee; se pensiamo che la popolazione civile innocente è stata più volte ormai nel corso degli ultimi tre anni vittima, per esempio, dell’arma chimica: la comunità internazionale ha accertato, purtroppo, l’uso di questa arma chimica anche se non ha ancora individuato i colpevoli; poi ancora vorrei ricordare la popolazione civile inerme, innocente, vittima dell’arma della fame: se pensiamo alle circa 600 mila persone assediate e poi ancora ai circa cinque milioni che vivono in località di difficile accesso a causa della guerra; ancora, vorrei ricordare la popolazione civile in alcune zone vittime dell’arma della sete: pensiamo ad Aleppo dove qualche mese fa sono state chiuse le condutture dell’acqua; pensiamo ancora ai medicinali, alle volte anche questi usati come arma: in alcune località è vietato l’accesso ai medicinali, agli strumenti chirurgici … E poi tra queste vittime civili – come ben ricorda il Papa – ci sono i bambini: e qui fino a un anno fa, le statistiche parlavano di circa 14 mila vittime tra i bambini e i minorenni morti in Siria, ai quali poi vanno aggiunti quelli morti nelle traversate del mare, alcuni di questi bambini morti per fame, diversi mutilati … Ho visto in più di un’occasione a Damasco, ancora due giorni fa, bambini che andando o tornando da scuola sono stati colpiti da schegge di mortai, che hanno avuto arti amputati … Ho visto un altro bambino con un occhio trapassato da una scheggia, un altro ha avuto il fegato trapassato da una scheggia … quanti ne ho visti! E poi ancora questi bambini in certe località e anche in certi campi profughi sono soggetti ad abusi sessuali, le bambine a matrimoni precoci; abbiamo il triste fenomeno dei bambini-soldato, abbiamo più di due milioni di bambini non scolarizzati … Quindi, direi che questo richiamo del Papa è molto, molto opportuno …

D. – Il Papa ha parlato di mancanza di volontà di pace dei potenti …

R. – Qui si tocca con mano come purtroppo la Siria sia divenuta un campo di battaglia per interessi geopolitici regionali e internazionali. Sempre di più è diventato evidente che è una guerra per procura; è una guerra molto complicata e qui si esigerebbe – come dice anche il Papa – una volontà più forte, più decisa da parte dei potenti per poter calmare questa terribile guerra.

D. – Qual è la situazione dei cristiani?

R. – La situazione dei cristiani dipende dalle zone in cui si trovano; sono esposti, come tutti, a queste sofferenze. Per quanto riguarda le zone tenute dallo Stato islamico, non abbiamo più comunità, come a Deir Ezzor, come a Raqqa: lì i cristiani sono partiti ancora prima che arrivasse lo Stato islamico. Abbiamo tre parrocchie tenute da Francescani nel Nord Ovest, nella zona di Idlib: è una zona molto, molto “calda”, una zona sotto il dominio di quello che fino a quale giorno fa si chiamava “al Nusra”. Lì vive circa un migliaio di cristiani: sopravvivono; hanno la possibilità di frequentare la chiesa, di pregare, ma non possono manifestare all’esterno la loro fede né con le croci né con il suono delle campane. Questa è la zona più “calda” in cui stanno vivendo i cristiani in Siria. E poi c’è la zona di Aleppo nella zona ovest, che è sotto il controllo dell’esercito: però, l’ho visitata un mese e mezzo fa, alla fine di maggio; questi nostri quartieri cristiani sono posti proprio sulla linea di demarcazione e lì ho visto le nostre cattedrali, come anche quelle ortodosse, distrutte: una cosa impressionante. Quindi, i cristiani delle nostre comunità di Aleppo sono attualmente quelli più esposti a tiri di mortai e bombe.

D. – Quali sono le prospettive per la Siria, oggi?

R. – Difficile prevedere perché il conflitto è andato assumendo ogni anno aspetti particolari, complicazioni … Sono implicate diverse parti e questo è quello che lo rende molto difficile. All’inizio appariva una guerra civile, che già è una catastrofe; ma a questa si è aggiunta poi una guerra per procura, è subentrata poi un’altra guerra a complicare tutto ed è questa guerra dell’Isis, di Daesh, dello Stato islamico che ha portato ancora sofferenze enormi. E a questo proposito, parlando della sofferenza dei civili, vorrei ricordare quello che le Nazioni Unite, soprattutto in queste zone – anche in Siria, dove c’è questo Stato islamico – parlano ormai di un genocidio della popolazione yazida ad opera dell’Isis, dove in alcune zone le donne e le ragazze addirittura sono vendute e comperate al mercato come fossero delle bestie: a che punto siamo arrivati! A che punto la popolazione civile paga le terribili conseguenze di questa guerra così complicata!

D.- Il Papa ha anche invitato a essere vicini alla Siria: ma come essere solidali con il popolo siriano?

R. – Ieri il Papa ha usato un’arma: noi abbiamo quest’arma in cui crediamo; ed è l’arma, anzitutto, della preghiera. E’ stato un bel momento, quando ha chiamato tutti a pregare in silenzio e poi a pregare insieme la Vergine Maria per la pace. Crediamo in quest’arma della preghiera. E poi la solidarietà: la solidarietà fattiva per venire incontro a questa sofferenza e a questa povertà che cresce di giorno in giorno; la solidarietà che fa sì che non si dimentichi questa tragedia che stanno soffrendo tanti nostri fratelli e sorelle.

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Papa su Instagram: account Franciscus supera i 3 milioni di follower

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L’account del Papa su Instagram “Franciscus” ha superato i 3 milioni di follower. Il Pontefice era sbarcato il 19 marzo scorso sul nuovo social lanciato nel 2010 e basato essenzialmente sulla condivisione di foto e video. Il primo post lo ritraeva in ginocchio in preghiera con la scritta: “Pregate per me”. “Inizio un nuovo cammino, in Instagram – aveva twittato - per percorrere con voi la via della misericordia e della tenerezza di Dio”.

A differenza di quanto accade su Twitter, dove il Papa ha un account in 9 lingue diverse, su Instagram ve ne è solo uno ufficiale. I post sono comunque accompagnati da brevi testi nelle varie lingue.

Il prefetto della Segreteria per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò, nell’occasione del lancio dell’iniziativa, aveva detto ai nostri microfoni che “l’idea è proprio quella di raccontare un Pontificato attraverso le immagini per far entrare nei gesti di tenerezza e di misericordia tutte le persone che vogliono accompagnare o che sono desiderose di conoscere il Pontificato di Papa Francesco”.

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Papa, tweet: se in una famiglia c’è dialogo le tensioni si risolvono

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex. Questo il testo: “Quando in una famiglia c’è il dialogo, le tensioni si risolvono bene”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il prezzo del conflito in Siria: all'Angelus il Papa denuncia la mancanza di volontà di pace dei potenti.

Un articolo di Paolo Vian dal titolo "Amore della storia e desiderio di Dio": in italiano la cronaca dell'abbazia cassinese di Leone Marsicano.

L'ultimo fotogramma: Emilio Ranzato sui grandi finali della storia del cinema.

Giuseppe Fiorentino sulla mappa del signor Selden: il commercio delle spezie, una carta perduta e il Mar Cinese meridionale.

Vediamoci all'AperiBibbia: Silvia Guidi sulla convivialità cristiana ai tempi di internet.

Gianfranco Ghirlanda sui criteri di discernimento nella lettera "Iuvenescit ecclesia"

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Oggi in Primo Piano



Pakistan: attentato colpisce ospedale, oltre 70 morti

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In Pakistan, oltre 70 persone sono morte e decine sono rimaste ferite in seguito all'esplosione di una bomba avvenuta nell'ospedale di Quetta, capoluogo del Balochistan. In base a quanto si è appreso, l'esplosione, causata probabilmente da un attentatore suicida, è avvenuta dopo l'uccisione di Bilal Kasi, presidente dell'Ordine degli avvocati del Balochistan, la cui salma era stata portata nello stesso ospedale. Dopo l'attentato, alcuni uomini armati hanno aperto il fuoco dentro la struttura colpendo anche giornalisti e avvocati riuniti sul posto. Tra i feriti c'è anche l'ex presidente dell’Ordine, Baz Mohammad Kakar. Gli avvocati pachistani da tempo sono nel mirino dei terroristi locali, che hanno avviato una campagna di assassini mirati. L’attentato finora non è stato rivendicato, ma le autorità ritengono che possa essere opera di al-Qaeda o dei guerriglieri separatisti che operano al confine con l'Afghanistan e l'Iran. Il premier, Nawaz Sharif, ha condannato l'attentato e ha detto che "non permetterà a nessuno di perturbare la pace". Sulla matrice di questo attacco, ascoltiamo l’inviato del Sole24Ore Alberto Negri, al microfono di Maria Carnevali:

 

R. – È difficile da dire in questo momento quale sia la matrice dell’attentato, che ne segue altri contro gli avvocati avvenuti in queste settimane, e nessuno di questi è stato rivendicato. La questione di Al Qaeda è evidente: Quetta è una delle città dove c’è sempre stata una forte presenza di Al Qaeda, come fortissima è la presenza dei Talebani in quell’area: addirittura a Quetta avrebbe sede il Consiglio della Shura dei Talebani. E poi c’è l’ipotesi – la terza – dei guerriglieri separatisti: il separatismo del Balochistan è un fenomeno che dura dagli anni ’70. Ora, è difficile vedere ed individuare quale sia la matrice, però io penso che prevalga la prima ipotesi: quella di Al Qaeda e comunque del terrorismo islamico, visto anche che sembra che questo attentato sia stato portato avanti da un attentatore suicida, quindi un po’ nello stile del terrorismo e della guerrigliera islamica dei Talebani e soprattutto di Al Qaeda.

D. – Nell’ospedale, al momento dell’attacco, vi era la salma del presidente dell’Ordine provinciale degli avvocati del Balochistan; infatti il maggior numero di vittime è composto da giornalisti e avvocati. Sono loro l’obiettivo?

R. – Sono stati già l’obiettivo del terrorismo negli anni passati, non soltanto di Al Qaeda, ma anche dei Talebani in tutto il Pakistan. Questo anche perché le associazioni degli avvocati di solito sono quelle che, in qualche modo, cercano di far rispettare il quadro legale e istituzionale del Paese. E in più, molto spesso hanno preso posizioni di stampo laico e secolarista nei confronti degli estremisti islamici e dei gruppi radicali. Questo spiega perché sono l’obiettivo.

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Giappone: imperatore Akihito pronto ad abdicare

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L'82.enne imperatore del Giappone Akihito ha espresso, in un messaggio televisivo alla nazione, “preoccupazione riguardo le possibili difficoltà che potrà incontrare in futuro a svolgere le sue funzioni imperiali”. Non ha parlato esplicitamente di abdicazione, ma ha lasciato intendere di voler abdicare per ragioni di età. Il servizio di Amedeo Lomonaco

私が考えるとき...

“Quando penso che il mio livello di forma fisica sta gradualmente diminuendo, sono preoccupato che possa diventare difficile per me svolgere i miei doveri come simbolo dello Stato con tutto me stesso come ho fatto finora”. Con queste parole l’imperatore Akihito si è rivolto alla nazione. E’ il secondo messaggio televisivo in 27 anni di regno. Il primo fu cinque giorni dopo il devastante tsunami dell'11 marzo 2011, che causò il disastro nucleare di Fukushima. In quel caso fu un richiamo all’unità.

Abdicazione non prevista nella Costituzione nipponica
In questo nuovo messaggio televisivo le sue parole hanno i toni dell’abdicazione. Ma per poter abdicare serve una modifica della Costituzione. Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha detto di prendere “con serietà” le parole dell’imperatore. “Riflettendo l'attuale stato dei doveri pubblici dell'imperatore, la sua età e il peso dei suoi impegni - ha affermato il premier nipponico - dobbiamo considerare cosa è possibile fare”. 

Akihito, 125.mo imperatore
Akihito è il 125.mo imperatore del Giappone. E’ il primo figlio maschio dell'imperatore Hirohito. E’ salito al trono nel 1990. Sulla scena internazionale, hanno ricevuto vasta eco, in particolare, le sue scuse alla Corea e alla Cina per i danni e le sofferenze causate dall’occupazione giapponese. A succedergli sul trono dovrebbe essere il figlio maggiore, il principe Naruhito, primo in linea di successione.

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Thailandia: approvata la nuova Costituzione voluta dai militari

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In Thailandia, la nuova Costituzione voluta dalla giunta militare è stata approvata ieri con oltre il 60% dei voti. Il nuovo testo rafforza il ruolo politico delle forze armate, al potere con il colpo di Stato del 2014. Il servizio di Sergio Centofanti: 

La Thailandia, letteralmente “Paese degli uomini liberi”, si affida sempre di più ai militari. L’affluenza del 55% non è stata quella auspicata dal generale e primo ministro Prayuth Chan-ocha, ma il voto premia l’uomo forte del Paese. La nuova Costituzione prevede un Senato interamente nominato dai militari e una magistratura, legata alla giunta, con un maggior controllo sulla politica.

Questo risultato spiana la strada alle elezioni del 2017 che in teoria dovrebbero riportare alla democrazia. Protesta l’opposizione fedele all’ex premier auto-esiliata, la signora Thaksin Shinawatra, che rappresenta le classi medio-basse, ridotta al silenzio in una campagna elettorale in cui era sostanzialmente vietato promuovere il "No": oltre 120 persone sono state arrestate perché hanno infranto il divieto.

La Thailandia è un Paese di 67 milioni di persone e una Monarchia parlamentare, l’anziano sovrano Bhumibol ha 88 anni: l’economia è una delle più floride dell’Asia, fondata sul turismo e sull’agricoltura, la disoccupazione è appena all’1%. I militari promettono stabilità e lotta contro la corruzione. In 84 anni ci sono stato ben 18 colpi di Stato, un vero record mondiale.

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Ventimiglia, visita di Gabrielli. Caritas: proteste pretestuose

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E’ in Liguria il capo della Polizia, il prefetto Gabrielli che a Sanremo ha reso omaggio alla salma del poliziotto Diego Turra, morto sabato per infarto mentre era in servizio per le possibili manifestazioni dei "no borders". Dopo la morte dell’agente, a Ventimiglia, dove la tensione sembra rientrata, i "no borders" avevano preferito dar vita a un presidio anziché all'annunciata manifestazione a difesa dei migranti che si trovano nel centro della città ligure e che cercano di attraversare il confine con la Francia. Sei gli arresti di ieri al confine, diversi gli oggetti contundenti sequestrati. La protesta dei "no borders" è dannosa e pretestuosa: è la convinzione di Maurizio Marmo, direttore di Caritas Ventimiglia-Sanremo, al microfono di Francesca Sabatinelli

R. – In queste ultime settimane, sono passate da Ventimiglia migliaia di persone. Abbiamo cercato di proporre soluzioni per far sì che i migranti e la città possano convivere con questa situazione e che i primi possano avere un’accoglienza dignitosa. È stato  aperto un centro d’accoglienza gestito dalla Croce Rossa con la quale collaboriamo anche noi. Pensiamo che questa possa essere una risposta importante e positiva. Purtroppo, c’è chi non la considera significativa e che quindi ritiene di dover lottare per l’apertura della frontiere in modo “antagonistico”, quindi si rischia un po’ di vanificare quello che si sta facendo.

D. – A oggi ritiene soddisfacente l’accoglienza dei migranti? Lei più di una volta ha denunciato le condizioni in cui queste persone venivano lasciate…

R. – Sì, in questo campo i posti sono stati incrementati nel corso di questi giorni. Poi, comunque, la Prefettura ha deciso di accogliere di far entrare tutti i migranti che erano in attesa anche all’esterno, per cui si è in parte risolta la situazione. In precedenza c’erano anche 100, 200 migranti che non avevano accesso ai servizi minimi soprattutto quelli igienici, quindi una doccia o l’acqua potabile, quella sì che era una situazione deplorevole, perché il campo non poteva ancora contenere tutte le persone che invece ci sono in questi giorni. Poi, successivamente il numero è aumentato e si è deciso comunque di far accedere tutti e quindi sicuramente la situazione è migliorata. Nel frattempo, ci si sta organizzando sempre meglio all’interno del campo per poter poi implementare anche altri servizi.

D. – Una delle denunce dei "no borders" è rivolta al centro in cui è le persone, si dice, sono malnutrite, insultate, sequestrate… Tutto questo a lei non risulta?

R. – Direi che sono accuse o infondate o comunque un po’ esagerate ed eccessive, nel senso che poter accogliere al meglio 400-500-600 persone non è semplicissimo, per cui possono indubbiamente esserci delle difficoltà e delle carenze. Su quello cerchiamo anche noi di sollecitare dei cambiamenti e dei miglioramenti, ma in modo costruttivo, mentre ci sembrano pretestuose queste loro affermazioni e soprattutto farle in un modo che secondo noi crea disagio sia ai migranti che alla città. All’interno del campo, si è attivato un servizio di informazione legale, di orientamento, per far conoscere meglio la normativa europea – anche noi riteniamo che la Convenzione di Dublino sia inadeguata, ma comunque al momento è in vigore – e quindi le conseguenze che una loro scelta può avere, come ad esempio la possibilità per gli eritrei di beneficiare della "relocation", anche se con i difetti, con le lentezze che ha questo meccanismo, oppure la possibilità di chiedere asilo in Italia. Quindi, si cerca di dare informazioni e poi chi è intenzionato a proseguire il viaggio lo potrà fare comunque, ma vorremmo dare maggiore consapevolezza alle persone. Chiaramente, anche noi siamo per l’apertura delle frontiere per far sì che le persone possano chiedere l’asilo nel Paese in cui vogliono perché magari hanno familiari, per motivi di vicinanza culturale o per altre ragioni. Quindi, chiediamo un cambiamento delle regole di Dublino, però nel frattempo si può dare comunque una risposta che definiamo “umanitaria”, di vicinanza alle persone in viaggio. Abbiamo conosciuto tante persone, tanti ragazzi che sono pacifici, che fuggono dalle guerre, soprattutto dal Darfur, i due terzi delle persone che stanno passando sono sudanesi e cercano solamente una vita migliore. Pensiamo sia fondamentale dar loro una mano e un aiuto e lo facciamo in collaborazione con la Croce Rossa all’interno nel campo. Stiamo anche continuando, presso la chiesa di Sant’Antonio l’accoglienza delle famiglie, delle mamme, dei bambini, perché la chiesa è più vicina alla stazione, al centro città quindi, per le famiglie, è più agevole arrivare e avendo appunto numeri alti al campo è ancora utile che ci sia questo tipo di servizio. Quello che cerchiamo di fare è di essere disponibili un po’ a 360 gradi rispetto alle esigenze attuali della città.

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Scuola. Manifestazioni contro l'esodo dei docenti del Sud

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Manifestazioni e sit-in oggi in varie città del sud Italia da parte dei docenti neoassunti in ruolo – se ne stimano circa 30-40 mila – chiamati a prendere servizio lontano da casa in seguito alla legge sulla Buona Scuola del governo Renzi. I sindacati denunciano un “esodo vergognoso” che sta “depauperando il sud Italia”  a causa di un algoritmo che spedisce gli insegnanti con punteggio più alto lontano dalla propria terra, senza tener conto delle situazioni personali, familiari e dei tanti anni passati nella scuola. Sulle ragioni della protesta, Paolo Ondarza ha sentito Stefano Cavallini, presidente regionale del sindacato Anief Campania: 

R. – Molti pensano, e questo ce lo vuole far pensare il Ministero, che i docenti non vogliano prendere servizio lontano da casa. In parte è vero, però questa cosa si sapeva perché il contratto la prevedeva. Quello che il ministro non comprende, o fa finta di non comprendere, è che in queste mobilità ci sono vari errori: colleghi con pochi punti che sono andati molto più vicino alla loro sede di residenza rispetto a persone con punteggi altissimi.

D. – Perché è accaduto questo? Perché quest’anomalia che va a penalizzare chi ha il punteggio più alto?

R. – Tutti i sindacati, noi compresi, hanno mandato al Ministero una serie di nominativi con eventuali anomalie per quanto riguarda questa mobilità. Quest’ultima è stata fatta da un software che ha gestito la mobilità di circa 70 mila persone. Il Ministero non ha mai chiarito quale fosse la procedura che il software ha seguito. Per il Ministero va tutto bene e non c’è stato nessun errore, invece ci sono stati degli errori proprio nella valutazione delle domande.

D. – Imputabili al sistema informatico?

R. – Tecnicamente imputabili anche alle persone fisiche che hanno validato le domande.

D. – E siccome dietro ai numeri ci sono le persone, vogliamo fare qualche esempio: chi è il prototipo dell’insegnante che viene penalizzato? Si parla di donne over 35, sposate e molto spesso con figli, che si vedono costrette a dover abbandonare la loro terra e la loro famiglia…

R. – Per esempio, ho avuto un colloquio con una collega di Napoli: suo marito è stato trasferito d’ufficio e fa parte delle Forze Armate, a lei non le è stata riconosciuta la priorità di cui ha diritto ed è andata a finire a Brescia.

D. – Come mai questa questione riguarda specificamente i docenti del Meridione, del sud Italia?

R. – Perché molti del Meridione sono già emigrati negli anni precedenti nelle province del nord. Molti, che già si trovavano nelle province del nord, hanno richiesto di rientrare. A questi, si è aggiunto un massiccio numero di docenti messi in ruolo l’anno scorso. Sommando i vecchi con i nuovi, si ha un numero molto elevato di persone che cercano di trasmigrare verso il Sud. C’è da dire che fino all’anno scorso le persone che sono rientrate nelle loro terre d’origine erano in percentuale meno del 5%.

D. – Secondo contratto, la mobilità avrebbe dovuto svolgersi tenendo conto di un criterio di merito…

R. – Tecnicamente, piuttosto che di un criterio di merito, di un criterio di servizio: più le persone avevano servizio e più acquisivano punteggio. Oltre a questo si aggiungevano anche dei punti relativi al proprio iter accademico: persone che avevano più titoli avevano quindi un punteggio più alto. Il contratto prevedeva che la mobilità si dovesse avere rispettando il punteggio derivante da tutto questo: quindi, chi aveva più punti doveva “scegliere” dove andare per primo. È questo che è venuto a mancare in molti casi.

D. – Si profila un inizio di scuola “caldo”…

R. – Più che caldo, burrascoso. Anche perché – lei lo sta vedendo – è iniziato tutto da alcune città: Napoli, Palermo, Bari e si sta diffondendo a macchia d’olio.

D. – Dopo le manifestazioni e i sit-in di oggi e di questi giorni, cosa pensate di fare?

R. – Il Ministero ha iniziato dicendo che andava tutto bene e che non c’erano errori. Poi, è venuto a più miti consigli, affermando che, nei casi in cui si fossero riscontrati degli errori, con un tentativo di conciliazione il Ministero avrebbe mandato una nota interna ai vari ambiti territoriali per conciliare con queste persone. Tecnicamente, quindi, il Ministero si è reso conto che ci sono degli errori venuti fuori dal sistema e sta cercando di porvi rimedio. Bisogna però vedere quando si farà.

D. – Ossia, quando si porrà rimedio…

R. – Esatto. Si prevede un inverno di ricorsi. Il ministro ha detto poi un’altra cosa molto grave: ossia bloccare per tre anni la mobilità. Ci troveremo quindi persone che avevano diritto di stare in province più vicine, che saranno per tre anni lontane e non si potranno muovere. Un’ultima cosa vorrei dire: nessuno – nemmeno dal Ministero – parla degli studenti. Perché, se ci saranno dei cambiamenti per quanto riguarda i docenti, le ricadute ci saranno anche sugli studenti. Se nel corso dell’anno un docente lascerà i propri alunni, a pagarne le conseguenze saranno gli studenti.

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Marcinelle: 60 anni fa la tragedia che uccise 262 minatori

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Sono passati 60 anni dalla tragedia di Marcinelle, in Belgio, dove, nella miniera del Bois du Cazier, persero la vita 262 persone. E' la mattina dell' 8 agosto 1956: un errore umano, una scintilla e poi l'incendio divampa, condannando a morte gli uomini e gli animali che lavorano nei pozzi, profondi oltre 900 metri. Per la maggior parte le vittime sono italiane, 136 uomini, emigrati in cerca di lavoro e dignità, arrivati per estrarre carbone in Vallonia dopo l'accordo che Belgio e Italia avevano stipulato nel 1946. Oggi, il sito di Bois du Cazier è iscritto nella lista Unesco, per il suo alto valore simbolico. Molte le commemorazioni nei due Paesi. Eugenio Murrali ha intervistato Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera e autore del libro "La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956": 

R. – Sono stato come “invaso” da queste voci di vedove, di orfani e di sopravvissuti che mi parlavano dell’8 agosto 1956. Volevano farsi ascoltare, volevano raccontare la loro storia. Avevano questa percezione di un oblio.

D. – Chi erano gli italiani che lavoravano al Bois du Cazier?

R. - Erano giovanissimi – ventenni o poco più – provenienti da tutte le regioni italiane, in maggioranza dal Centro. Molti partivano dall’Abruzzo, perché avevano esperienza di miniera. Erano, naturalmente, figli di contadini, gente che al paese non aveva quasi nulla e che vedendo questi manifestini – che allora venivano appesi in tutti i comuni e ai portoni delle chiese dei piccoli paesi italiani – partivano, prendevano il treno, arrivavano a Milano, dove effettuavano le visite mediche nei sotterranei della stazione e poi da lì prendevano il treno per andare a Charleroi. Quando arrivavano lì, in realtà venivano mandati subito in miniera. Erano ragazzi spesso sposati che avevano famiglia, avevano figli. La famiglia in un primo momento rimaneva al paese, poi  raggiungeva chi era partito in modo che potesse ricostituirsi un nucleo familiare più o meno solido e felice. Vivevano perlopiù nelle baracche, anche se questi manifestini promettevano degli appartamenti veri e propri. In realtà i nostri minatori, una volta arrivati in Belgio, andavano a finire nelle baracche che un tempo erano abitate dai prigionieri di guerra. Quindi, avevano una vita molto difficile, non solo per il lavoro, ma anche per la qualità dell’alloggio, la qualità esistenziale.

D. – Lei ha studiato i documenti relativi alla tragedia, le testimonianze dei famigliari, il comportamento delle autorità italiane e belghe. Cosa ne è emerso?

R. – Ne è emerso che, per quanto riguarda le autorità italiane, c‘è questo grande buco nero, questo risentimento molto forte da parte dei sopravvissuti e delle vedove per quel famoso accordo-capestro e scellerato che fu fatto nel 1946 tra il governo italiano e il governo belga. Prevedeva uno scambio tra uomini e merci: per mille minatori italiani che fossero partiti per il Belgio, sarebbero arrivate in Italia due tonnellate e mezzo di carbone. Quindi, un vero e proprio scambio tra uomini e merci. Poi, ci sono i fatti che hanno fatto seguito la catastrofe: mentre Re Baldovino si è recato lì immediatamente, le autorità italiane non si sono fatte vedere, forse per questo grande senso di colpa che riguardava proprio l’accordo del 1946, in quanto sapevano che in realtà era un accordo piuttosto scellerato. Quindi, da questo punto di vista la rabbia, il risentimento delle persone colpite è anche molto comprensibile. Per quanto riguarda il Belgio, loro hanno vissuto con la gogna di un razzismo molto forte che hanno dovuto subire per circa un decennio, cioè dal 1946 al 1956. Poi, con la tragedia tutto è cambiato e questo lo dicono molti dei testimoni, nel senso che i belgi, a quel punto, hanno capito che gli italiani davvero erano andati lì a lavorare, sì per guadagnare, per conquistare un certo benessere per sé, ma anche per tirare su le sorti di un Paese, il Belgio, ma dell’Europa direi, che in quel momento aveva bisogno di loro.

D. – Nei giorni seguenti alla tragedia, c’è stato un sentimento di attesa: i parenti erano lì che speravano di poter rivedere i loro cari. Lei ha potuto registrare questi racconti?

R. – Ho registrato soprattutto le testimonianze dei parenti, degli orfani, che allora erano proprio dei bambini o dei ragazzini e anche quelle dei soccorritori che sono spesso agghiaccianti. Le vittime sono morte bruciate. Nel giro di qualche ora, poi, sono arrivati i pompieri che hanno buttato giù una tale quantità di acqua, che i pochi minatori che si erano salvati dal fuoco sono rimasti vittime dell’acqua. Sono stati trovati animali, cavalli, a 400, 500, 975 metri sotto terra, dove è accaduto l’incidente. Sono rimasti anche loro coinvolti nell’incidente e sono morti lì sotto. Erano delle carcasse gonfie d’acqua. I soccorritori hanno raccontato persino alcuni aspetti purtroppo lugubri della dinamica dell’incidente. Io ho raccolto tutte le testimonianze di coloro che si trovavano in superficie e dei pochi che, invece, hanno avuto il coraggio incredibile di scendere per cercare di salvare il salvabile.

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Al Santuario di S. Gabriele la 36.ma Tendopoli dei giovani

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Al via da domani al Santuario di San Gabriele, in provincia di Teramo, la 36.ma Tendopoli dei Giovani. All’evento, dal titolo “La misericordia si è fatta tenda”, prenderanno parte centinaia di ragazzi provenienti da Italia, Venezuela e Colombia. Previsti incontri con personalità del mondo della religione e della cultura mentre nella giornata conclusiva del 13 agosto sarà presente il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. Federico Piana ne ha parlato con padre Francesco Cordeschi,  organizzatore e storico fondatore della Tendopoli: 

R. – I ragazzi sono sistemati in tende oppure nei locali adiacenti al Santuario che sono stati messi a nostra disposizione. Il principio ispiratore che sostiene la Tendopoli è che i ragazzi devono essere educati a vivere nelle precarietà e nell’essenzialità che sono due elementi fondamentali. All’interno di questi, ci sforziamo di far arrivare ai giovani la percezione della gratuità di tutte le cose belle che hanno a casa o che Dio ha dato loro a cui a volte non si pensa. La mancanza di acqua calda, di alcuni servizi primari, dovendosi adattare alle circostanze che una vita di itineranza e di nomadismo dà loro, possono orientarsi e chiedere aiuto al Signore. Poi la tenda di per sé è un luogo educativo biblico per eccellenza, perché Dio si è rivelato nella tenda – Dio parla al suo popolo nella tenda, cammina con la tenda insieme al suo popolo – e soprattutto il tema della misericordia: Dio porta la sua misericordia la sua tenda, Lui è dento di noi con la sua misericordia, ha posto la sua dimora dentro il nostro cuore e i ragazzi devono percepire questo.

D. – I giovani tornano un po’ cambiati dalla tendopoli?

R. – La bellezza della Tendopoli è stata questa: da un lato, abbiamo avuto diversi giovani che si sono fatti religiosi. Ci sono tanti sacerdoti e suore! Questa è la benedizione più bella che mi ha dato e che ci ha dato, è la conferma che stiamo lavorando nel nome del Signore. Oltre a questo abbiamo molti ragazzi, ci sono tantissime coppie che, anche se non partecipano più alla Tendopoli perché non possono venire, il giovedì non mancano mai alla festa della famiglia con noi. Le coppie sono una bella testimonianza di cristianità. La differenza che c’è rispetto agli altri anni è questa: mentre nei primissimi anni dove arrivavamo a numeri molto più grandi – ora siamo sulle 500 persone, mentre prima siamo arrivati 1.200-1.600 ragazzi – c’era un ricambio molto più ampio, la gente era meno motivata, veniva un po’ qui per campeggiare. Adesso, quelli che vengono hanno una forte motivazione e cerchiamo anche di farli crescere sotto l’aspetto spirituale.

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S. Domenico di Guzmán, il predicatore mendicante del Vangelo

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Contemporaneo di San Francesco e come lui pronto ad abbracciare la povertà nel più puro stile evangelico, il Santo spagnolo Domenico di Guzmán, del quale ricorre oggi la memoria liturgica, è una delle figure più grandi della storia della Chiesa. Fu il fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, noti come Domenicani, e soprattutto un umile e instancabile apostolo del Vangelo. Il servizio di Alessandro De Carolis

Quando muore, circondato da quell’affetto grande e genuino che solo chi si è speso sempre per gli altri suscita attorno a sé, il letto che accoglie il suo ultimo respiro non è il suo. Perché Domenico di Guzmán, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, una cella sua, nel convento, non ce l’ha.

Niente di strano per un uomo che per 51 anni non ha mai tenuto nulla per sé se non il Vangelo da annunciare ovunque fosse necessario. Quando da ragazzo – lui, originario di un villaggio spagnolo di montagna, nella Vecchia Castiglia – si trasferisce per studio a Palencia, verso la fine del 1200, e qui assiste alle rovine che guerre e carestia stanno provocando, non ci pensa su due volte a vendere gli oggetti che ha in stanza e perfino le sue preziose pergamene per avere qualcosa da dare ai poveri. Il gesto ovviamente stupisce e scandalizza ma anche la replica di Domenico non è da meno: “Come posso studiare su pelli morte, mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?”; "fratelli", il ragazzo vede questo nelle ombre umane che lottano contro la miseria e loro servirà per il resto della sua vita.

Diventato sacerdote a 24 anni viene scelto dal vescovo di Osma per accompagnarlo in un delicato incarico diplomatico in Danimarca. In quel periodo di viaggi Domenico scopre la sua vocazione più viscerale: annunciare Gesù a chi non ne ha mai sentito parlare. Papa Innocenzo III gli indica dove: la Francia, nella zona dell’Albigese, teatro dell’eresia dei catari. Tra intensi colloqui privati e dibattiti pubblici, trattative e penitenze e l’immancabile sollecitudine verso i poveri, trascorrono circa 15 anni.

Lo stile generoso, il coraggio e la fede solida di Domenico sono una calamita che attrae. Alcuni amici gli chiedono di condividere questa sua vita e il futuro Santo finisce per maturare l’idea che da tempo ha in cuore: dare alla predicazione una struttura, una organizzazione. Nell’ottobre del 1215 va a sottoporre il progetto a Papa Innocenzo, che gli concede il proprio benestare. Nasce l’Ordine dei Frati Predicatori, che dall’agosto di due anni dopo cominciano a distribuirsi in tutta Europa.

Bologna è la città che ospita i primi due Capitoli generali dell’Ordine, in cui vengono definite le pietre angolari del carisma: la predicazione, appunto, la povertà – “sposata” anche dal suo contemporaneo Francesco d’Assisi – ma una povertà mendicante, aspetto questo per la prima volta legato a un Ordine clericale, lo studio e ovviamente la missione. Ma Bologna è anche l’approdo finale dell’avventura di Domenico di Guzmán, che si spegne il 6 agosto 1221. E il 3 luglio 1234 Gregorio IX proclama Santo questo apostolo che il religioso domenicano dell’800, Lacordaire, definì “tenero come una mamma, forte come un diamante”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi Usa: difendere vita, famiglia e poveri

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“Tenere in considerazione la dimensione morale ed etica della politica”: è l’invito che arriva dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti attraverso il documento intitolato “Formare le coscienze per una cittadinanza fedele”. Diffuso sul sito web dei vescovi Usa, il dossier informativo arriva mentre nel Paese prosegue la campagna elettorale per le presidenziali che vede sfidarsi il repubblicano Donald Trump e la democratica Hillary Clinton. Il voto per eleggere il successore di Barack Obama alla Casa Bianca si terrà l’8 novembre.

Il richiamo alla Dottrina sociale della Chiesa
Suddiviso in tre parti, il documento episcopale si apre con un’ampia riflessione sulla Dottrina sociale della Chiesa in generale; segue, nella seconda parte, una sintesi delle posizioni dei vescovi Usa sulle principali tematiche etiche, quali la difesa della vita, la promozione della pace e della giustizia economica, la tutela dei minori e della libertà religiosa, la salvaguardia del Creato.

Non guardare alle ideologie dei singoli partiti, ma al bene comune di tutti
Quindi, nella terza parte, i presuli analizzano “gli obiettivi della vita politica: le sfide per i cittadini, i candidati ed i pubblici ufficiali”. In primo luogo, il documento invita a non guardare “ai partiti o alle ideologie”, quanto piuttosto “a tutto ciò che protegge o minaccia la dignità umana”. Di qui, il richiamo ai candidati a puntare innanzitutto al bene comune e non agli interessi particolari di partito, così da permettere all’intera nazione di svilupparsi. E per fare questo, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti suggerisce dieci punti che le autorità politiche, e tutta la società, non devono trascurare.

Difesa della vita in tutte le sue fasi
Al primo posto, i vescovi pongono la difesa dei più deboli, ribadendo il loro no all’aborto e sottolineando la necessità di fornire alle donne che si trovano alle prese con una gravidanza difficile “il sostegno necessario per prendere una decisione in favore della vita”. Dalla difesa del nascituro lo sguardo dei presuli si allarga alla difesa della vita in generale e per questo viene ribadita la necessità di non ricorrere a eutanasia e suicidio assistito per affrontare la malattia e la disabilità, di non distruggere gli embrioni umani in nome della ricerca, di non praticare la pena di morte per combattere la criminalità e non ricorrere, in modo imprudente, alla guerra nelle controversie internazionali.

Tutelare famiglia e matrimonio, fondamento della società
Come terzo punto, poi, i vescovi Usa chiedono di “proteggere la concezione fondamentale del matrimonio come unione fedele ed indissolubile tra un uomo ed una donna, in quanto istituzione centrale della società”. Forte anche “la promozione della complementarietà dei sessi ed il respingimento della falsa ideologia del ‘gender’”, attraverso un migliore sostegno morale, sociale ed economico alla famiglia, affinché i genitori siano aiutati dallo Stato a crescere i propri figli “nel rispetto della vita e secondo solidi principi morali”. Al quarto posto, la Chiesa statunitense pone l’auspicio di “una riforma globale dell’immigrazione” che offra ai migranti un percorso di cittadinanza, “impedendo la separazione delle famiglie, garantendo l’integrità dei confini, rispettando lo Stato di diritto ed affrontando i fattori che scatenano l’emigrazione dai Paesi d’origine”.

Sconfiggere fame e povertà
Dedicato alla povertà è, invece, il quinto punto in cui i presuli richiamo la necessità di garantire ai cittadini un lavoro dignitoso, salari giusti e assistenza adeguata soprattutto ai più vulnerabili. L’obiettivo primario sarà anche quello di “superare la fame e l’indigenza nel mondo”, attraverso la riduzione del debito estero per i Paesi in via di sviluppo. E ancora: il sesto punto si sofferma sull’assistenza sanitaria e chiede che essa sia rispettosa della vita, della dignità umana e della libertà religiosa, mentre il settimo punto ribadisce l’opposizione della Chiesa statunitense a “politiche che riflettono pregiudizi, ostilità verso gli immigrati, fanatismo religioso ed altre forme di ingiusta discriminazione”.

Porre fine a persecuzione dei cristiani in Medio Oriente
Infine, gli ultimi tre punti del documento episcopale chiedono alle famiglie, alle strutture economiche ed al governo di “sconfiggere la povertà, perseguire il bene comune e salvaguardare il Creato, nel pieno rispetto delle persone, dei loro diritti ed in accordo con le loro convinzioni religiose”. Si ribadisce, inoltre, l’importanza di stabilire e rispettare “i limiti morali” per l’uso della forza militare, esaminandone gli scopi ed i costi, soprattutto umani, con un’attenzione speciale “alla ricerca di una soluzione responsabile ed efficace per porre fine alla persecuzione dei cristiani e di altre minoranze religiose in Medio Oriente”. Il documento si conclude con un appello a tutto il mondo affinché “venga perseguita la pace e custodita l’umanità”. (A cura di Isabella Piro)

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Cile. Appello del card. Ezzati a superare individualismo e divisioni

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“Possiamo essere fratelli e siamo in grado di collaborare e costruire insieme una grande nazione”: così l’arcivescovo di Santiago del Cile, il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, è intervenuto sabato scorso alla festa della Vergine di Copacabana, celebrata dai boliviani residenti a Santiago per rendere omaggio alla loro Patrona nel giorno della loro festa nazionale.

Guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide
Forte, in particolare, l’appello del presule ad “eliminare i motivi di conflitto e, soprattutto, a portare avanti le questioni che ci uniscono, in modo che tutti i nostri popoli ottengano la dignità di figli di Dio e possano raggiungere il benessere che tutti noi desideriamo”. La ricorrenza della Vergine di Copacabana – spiega l’agenzia Sir - viene celebrata nella capitale del Cile da circa 14 anni, alla presenza di migliaia di persone, e vede anche una processione solenne che si conclude in Plaza de Armas.

Combattere l’individualismo restando uniti
“Ciò che ci deve guidare – ha ribadito il card. Ezzati - è l’amicizia civica, che ci fa riconoscere fratelli, eredi e costruttori della stessa storia che guarda al futuro”. “La storia passata – ha aggiunto - è una maestra di vita che ci aiuta a costruire migliori relazioni tra di noi, il che significa condividere il destino comune che abbiamo in America Latina”. Di qui, l’invito conclusivo del presule a considerare che “vale la pena, in un momento in cui la cultura è molto segnata dall’individualismo, poter vivere manifestazioni come questa, che evidenziano la nostra vocazione di grande popolo latinoamericano”. (I.P.)

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Nicaragua: questione gender a Congresso nazionale su famiglia e vita

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Dal 19 al 21 agosto, l’antica città coloniale di León, sarà la sede del  primo Congresso Nazionale sulla Vita e la Famiglia organizzato dalla Conferenza Episcopale del Nicaragua. Centinaia di delegati religiosi e laici di tutte le diocesi del Paese, rifletteranno  sulle problematiche e le sfide della famiglia nicaraguense alla luce della recente Esortazione Apostolica Post sinodale Amoris laetitia di Papa Francesco. L’evento è stato presentato in conferenza stampa da mons. Bosco Vivas Robelo, vescovo di León e presidente della Pastorale per la famiglia e la vita dell’episcopato, insieme a don Marcos Diaz Prado, membro del comitato organizzatore del congresso.

La famiglia è importante per tutta la società
Il congresso analizzerà le difficoltà che oggi attraversa la famiglia nicaraguense. “Vediamo come negli ultimi anni - ha detto mons. Vivas – il matrimonio e la famiglia vengano continuamente attaccate e questo risulta molto evidente nei messaggi che ci arrivano dai mezzi di comunicazione”. Il presule ha anche ricordato che il tema della famiglia non è importante solo per la Chiesa, ma anche per la società in generale e per questo il congresso rifletterà soprattutto sulla struttura stessa delle famiglie.  Sebbene il Nicaragua sia una delle nazioni in cui si presentano meno casi di separazioni e divorzi della regione centroamericana, mons. Vivas ha ribadito che proprio per questo è importante “rafforzare questo vincolo d’amore che mantiene viva l’unione familiare”

Al centro dei lavori anche la diffusione dell’ideologia gender
Mons. Vivas Robelo ha spiegato che Papa Francesco, nella sua esortazione Amoris laetitia, ha tracciato un percorso molto dettagliato e chiaro delle sfide della famiglia nel mondo intero. Per questo i partecipanti all’incontro potranno assistere a diverse conferenze, tavole rotonde e seminari su tematiche come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso o la diffusione dell’ideologia gender che si affaccia in maniera subdola già dalla prima infanzia. Infine, i delegati insieme ad specialisti della Pastorale per la vita e la famiglia avranno modo di proporre un documento orientativo e allo stesso tempo le linee d’azione da applicare in ogni realtà sociale ed ecclesiastica del Paese. (A cura di Alina Tufani)

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Card. Marx: Europa combatta globalizzazione dell’indifferenza

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Un invito all’Europa affinché combatta “la globalizzazione dell’indifferenza”: a lanciarlo è stato il card. Reinhard Marx, presidente della Conferenza episcopale tedesca, nonché della Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea), intervenuto alla 85.ma “Settimana dell’Università di Salisburgo”, che si conclude oggi. Nel suo intervento - riportato dall’agenzia Sir - il porporato ha messo in luce due tendenze riscontrabili attualmente in Europa: “Da un lato, una società in tensione, dall’altro un raffreddamento comune del vivere insieme nella solidarietà”. E questo è il risultato di quella ‘globalizzazione dell’indifferenza’, così spesso stigmatizzata da Papa Francesco.

Sviluppare sentimento europeo di appartenenza
L’attuale progetto europeo, ha sottolineato ancora il card. Marx, manca di un sentimento di amore e appartenenza ed è per questo che “l’Europa è chiamata a sviluppare una nuova sintesi culturale di una comunità viva. Si tratta di una capacità che il continente ha sempre avuto, come lo stesso Papa Francesco ha ricordato nel suo discorso al conferimento del Premio Carlo Magno”, lo scorso 6 maggio in Vaticano.

Chi conosce Gesù non può essere un fondamentalista
“Chi conosce Gesù Cristo non può mai essere un fondamentalista – ha aggiunto il card. Marx – Pagine del Vangelo come quelle che narrano l’episodio del Buon Samaritano o le Beatitudini sono storie che appartengono alla vicenda culturale dell’Europa, non solo ai cristiani”. Di qui, il richiamo conclusivo del porporato a tutti i fedeli, affinché non rinuncino “alla visione cristiana dell’uomo come componente di libertà”. (I.P.)

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Marcinelle. Mons. Bettoni ricorda dramma dei migranti

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“Ogni anno, l’otto agosto, è un momento importante e significativo per le comunità di origine straniera del Belgio, per la comunità italiana e per il Belgio stesso”. A dirlo è don Gianbattista Bettoni, referente delle Missioni cattoliche italiane in Belgio, ricordando la tragedia avvenuta 60 anni fa, l’8 agosto 1956, nella miniera di Marcinelle dove morirono 262 persone a causa di un incendio. Tra loro, 136 erano italiani. Dal 2001, questo dramma viene commemorato con una speciale “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”.

I rintocchi della campana “Madre degli orfani”
“Un dramma dell’emigrazione italiana”, aggiunge il sacerdote che sottolinea poi come quest’anno ricorra non solo il 60.mo anniversario della tragedia, ma anche il 70.mo del patto bilaterale tra Italia e Belgio che nel 1946 diede “un nuovo inizio” alla migrazione degli italiani in Belgio. L’accordo, infatti, prevedeva, per l’Italia, l’invio di manodopera in cambio di carbone. Per commemorare i minatori defunti, viene fatta suonare la campana detta “Madre degli orfani”: 262 rintocchi accompagnati dai nomi delle vittime. Ulteriori dieci rintocchi sono, poi, in memoria di altri disastri minerari o tragedie sul lavoro

Presente il presidente del Senato, Pietro Grasso
La cerimonia solenne viene accompagnata da canti corali e dalla deposizione di corone di fiori davanti al monumento che ricorda tutti i minatori. Numerose le autorità presenti – riferisce l’agenzia Sir - tra cui il presidente del Senato italiano Pietro Grasso, il quale ha ribadito il “dovere di  ridurre le diseguaglianze e le marginalità che rendono le nostre società più vulnerabili al fondamentalismo e all'illegalità”. Presenti inoltre l’ambasciatore e i consoli italiani, i sindaci delle comunità colpite dalla sciagura, e le associazioni di ex minatori sia del Belgio che dalla vicina Francia.

Le origini della tragedia
Secondo le ricostruzione, l'incidente – avvenuto al Bois du Cazier, la miniera di carbone  a Charleroi - fu dovuto ad una disattenzione: un ascensore partì quando non era ancora il momento, rompendo i condotti dell'olio, dei tubi dell'aria compressa e dei cavi elettrici e provocando il micidiale incendio sotterraneo che, assieme all'inefficienza delle vie di fuga e ai ritardi dei soccorsi, avrebbe portato alla morte 262 minatori. (I.P.)

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Karnataka, Santuario di San Lorenzo elevato a Basilica minore

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Momenti di festa per i fedeli del Karnataka, in India: il Santuario di San Lorenzo ad Attur, nella diocesi di Udupi, è stato elevato a Basilica minore, dopo aver ottenuto l’apposito decreto da parte della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Alla cerimonia, che si è svolta il 1.mo agosto – riferisce l’agenzia AsiaNews – hanno partecipato più di 15mila fedeli. Oltre 200 tra cardinali, vescovi e sacerdoti hanno concelebrato il rito.

Un onore per tutto il Paese
Il card. Baselios Cleemis, presidente della Conferenza episcopale indiana, ha detto: “Questo è un luogo di miracoli e attirerà migliaia e migliaia di devoti”. “L’elevazione a Basilica minore – ha aggiunto il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai - non è un onore solo per la diocesi di Udupi, ma anche per lo Stato e tutta l’India”. Il Santuario, infatti, attrae ogni anno moltissimi fedeli di ogni confessione, che vengono qui per pregare e richiedere l’intercessione di San Lorenzo.

Presenti anche le autorità statali
Tra di loro vi è anche il ministro Pramod Madhwaraj che ha dichiarato: “ Questo è un momento di gioia per tutto lo Stato. La Basilica minore di San Lorenzo non è solo per i cattolici, ma per tutti. Le persone visitano il luogo sacro perché quando chiedono pace e benedizione le loro preghiere vengono ascoltate”.

Un luogo di armonia tra le religioni
La presenza di numerosi leader politici alla cerimonia dimostra come questo sia un luogo di armonia tra le religioni. Mons. Bernard Moras, arcivescovo di Bengalore, ha spiegato il significato del termine ‘basilica’: “Si tratta di un nome che indica una ‘casa splendida e regale’. Infatti, veniva usato dai primi cristiani quando celebravano la Messa nei palazzi reali dei sovrani”.

22.ma Basilica minore dell’India, la 2.a in Karnataka  
“Nel mondo – ha aggiunto – esistono 1.742 basiliche minori, di cui 21 in India. Questa è la 22.ma e la seconda nello Stato del Karnataka dopo la basilica di St. Mary nella capitale”. Infine, ricordando che San Lorenzo viene venerato come il martire dei poveri, il card. Gracias ha sottolineato l’importanza che la Chiesa non dimentichi mai i più bisognosi. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 221

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.