Logo 50 Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 09/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Strage Quetta. Francesco: insensata e brutale violenza

◊  

Un “insensato e brutale atto di violenza”. Papa Francesco è stato scosso dal sanguinoso attentato avvenuto ieri a Quetta in Pakistan, dove un kamikaze si è fatto esplodere in un ospedale facendo strage di una settantina di persone, subito rivendicata dal sedicente Stato islamico.

In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, Francesco si dice “profondamente addolorato” per l’accaduto e assicura preghiere stringendosi idealmente “ai parenti delle vittime, alle autorità e all'intera nazione”.

inizio pagina

Messico, tempesta fa decine di vittime. La preghiera del Papa

◊  

Papa Francesco ha espresso cordoglio e invitato alla solidarietà per le vittime e i superstiti della tempesta tropicale abbattutasi sul Messico, che ha fatto decine di vittime e centinaia di sfollati in alcuni Stati. Il servizio di Alessandro De Carolis

Da “Earl” a “Javier”, un uragano e una tempesta tropicale, due nomi diversi che per il Messico significano comunque tragedia. Quella che si è abbattuta prima sullo Stato di Puebla e su Veracruz, la “coda” dell’uragano Earl è stata una catastrofe di pioggia e vento, che ha fatto oltre 40 morti, tra cui non pochi ragazzini. Frane sulle montagne, strade e ponti malridotti e soprattutto sfollati - 200 nello Stato di Puebla e 1.200 in quello di Veracruz. Per chi ha perso la vita e per chi scampato tra “gravi danni” si è levata la voce di Papa Francesco, che in un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, esprime affetto “per l’amato popolo messicano”, preghiere di suffragio per le vittime e un incoraggiamento alla solidarietà rivolto in particolare alle autorità del Paese. Intanto, la tempesta tropicale Javier ha sferzato la località turistica di Cabo San Lucas, all'estremità della Bassa California messicana, con venti intorno agli 80 chilometri orari e raffiche sui 100. Le previsioni danno la violenza del fenomeno in attenuazione per le prossime ore.

inizio pagina

Giornata popoli indigeni. Papa: la loro identità è minacciata

◊  

"Chiediamo che vengano rispettati i popoli indigeni, minacciati nella loro identità e nella loro stessa esistenza". E' il tweet che Papa Francesco ha lanciato dal suo account @Pontifex in coincidenza con la Giornata internazionale dedicata alle popolazioni native. E in particolare nel grande Pese latinoamericano che in questi giorni è al centro dell'attenzione per le Olimpiadi di Rio, "Survival International", movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, ha lanciato la campagna "Fermiamo il genocidio in Brasile". Michele Ungolo ha intervistato Alice Farano di "Survival Italia": 

R. – “Survival International” ha lanciato in occasione delle Olimpiadi di Rio 2016 la campagna “Fermiamo il Genocidio in Brasile” per prevenire lo sterminio dei popoli indigeni del Paese e denunciare le gravi violazioni dei diritti umani in atto. È una campagna che ha tre obiettivi urgenti, emblematici di tre situazioni diverse. Il primo obiettivo è quello di porre fine alle violenze e al furto di terra dei Guaraní del Brasile, che sono a rischio genocidio. Gran parte delle loro terre, infatti, sono state derubate per far spazio ad allevamenti di bestiame o a piantagioni di canna da zucchero e soia. La tribù si trova quindi a vivere ai margini delle strade, in accampamenti di fortuna, dove dilagano malnutrizione, malattie e purtroppo anche molte violenze da parte dei sicari al soldo degli allevatori. Per questo, “Survival” chiede al governo del Brasile di intervenire per fermare le violenze e rispettare i diritti territoriali dei Guaraní, demarcando le loro terre. Il secondo obiettivo importante è invece quello di proteggere la terra della tribù incontattata dei Kawahiva: una tribù dell’Amazzonia brasiliana che non ha contatti con il mondo esterno e uno dei popoli più vulnerabili del pianeta. Purtroppo, i Kawahiva vivono in fuga ormai da molti anni perché le loro terre sono state invase dai taglialegna, che stanno abbattendo la foresta a un ritmo vertiginoso. Sono estremamente vulnerabili a malattie e a violenze e quindi rischiano l’estinzione. “Survival” ha già ottenuto, grazie alla presenza dei sostenitori dell’opinione pubblica internazionale, che il ministro della Giustizia firmasse un decreto di demarcazione della terra dei Kawahiva. Tuttavia, il decreto non è stato ancora attuato e spetta ora al Dipartimento brasiliano agli Affari indigeni rendere esecutiva la demarcazione. Fino a quando ciò non accadrà, purtroppo non potremo dire che i Kawahiva sono protetti.

D. – Quali sono le difficoltà maggiori di questi popoli?

R. – Purtroppo, in tutto il mondo i popoli indigeni vengono molto spesso sottoposti a violenza genocida, schiavitù e razzismo nel nome del progresso e della civilizzazione. Ma è un progresso presunto: in realtà, il fine è quello di poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro. Sono popoli, in realtà, estremamente contemporanei: hanno stili di vita molto diversi, ma hanno un valore e vanno ad arricchire la diversità umana.

D. – Quindi, possiamo dire che sono dei popoli, delle tribù, che rimangono fedeli a quelle che sono le loro tradizioni e la loro cultura…

R. – Assolutamente. Sono dei popoli che hanno degli stili di vita straordinariamente diversi, ingegnosi, ricchi di conoscenze, tradizioni e visioni del mondo alle quali sono molto legati. Hanno un profondo legame con la loro terra, che hanno vissuto e gestito per millenni, e le prove dimostrano che sanno anche prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. Una cosa importante da dire, però, è che sono delle società contemporanee esattamente come noi: anche loro, come noi, si sono evoluti e si sono adattati ad un ambiente in continua trasformazione. Non sono quindi affatto delle reliquie di un passato lontano, come delle volte purtroppo si vuole far credere.

D. – Cosa potrebbe bastare per aiutare queste popolazioni così emarginate ed escluse dalla società?

R. – È fondamentale che i popoli indigeni vedano rispettato il loro diritto alla terra. Quando hanno la loro terra, possono prosperare e vivere tranquillamente. Per questo, è importante dire che si può fare qualcosa: si può intervenire per fermare le violazioni dei diritti umani e chiedere il rispetto dei diritti indigeni.

inizio pagina

Oggi su "L'Osservatore Romano"

◊  

Messaggio da Auschwitz: intervista di Gianluca Biccini al cardinale Kurt Koch sulla visita del Papa al campo di sterminio.

Tremila numeri del periodico “Vida Nueva"”: gli articoli di Lucetta Scaraffia, del direttore Jorge Oesterheld, di Antonio Pelayo, di Pablo d’Ors e dell’arcivescovo di Barcellona, Juan José Omella Omella.

Ospedali sotto le bombe in Siria.

Riflesso del Cristo resuscitato: fratel Alois sulla Chiesa nell’esortazione “Amoris laetitia”.

inizio pagina

Oggi in Primo Piano



Bagno di sangue in Etiopia. Polizia uccide 100 manifestanti

◊  

In Etiopia, sono state represse duramente dalla polizia le manifestazioni dello scorso fine settimana. I gruppi etnici degli Oròmo e degli Amhara erano scesi in piazza, nella capitale Addis Abeba e in diverse altre zone del Paese, rivendicando maggiori diritti. Secondo Amnesty International, sono oltre 100 le vittime e centinaia le persone arrestate e a elevato rischio di tortura. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ne parla al microfono di Elvira Ragosta

R. – Sono scese in piazza centinaia e centinaia di persone in modo del tutto pacifico per rivendicazioni politiche ma anche di giustizia, diritti umani e per la fine della repressione, che va avanti dalla rivoluzione del 1991.

D. – A scendere in piazza, in diverse zone, gli Oromo e gli Amhara, due tra i principali gruppi etnici del Paese, che insieme rappresentano il 60% della popolazione, composta da 94 milioni di persone. Quali nello specifico le rivendicazioni?

R. – Le proteste si sono svolte nella regione di Oromia – che dal novembre scorso è interessata da manifestazioni, da quando il governo ha annunciato un nuovo piano regolatore che ingloberebbe nel maxi distretto della capitale parti delle terre degli Oromo – e dal luglio di quest’anno la situazione è precipitata anche nella regione di Amhara. Qui c’è una rivendicazione di tipo territoriale da parte di un comitato per l’autodeterminazione del Wolkait, che è un distretto della regione del Tigray e che prima della rivoluzione del ’91 apparteneva per l’appunto all’Amara, e qui vorrebbero riportarlo. E’ stato arrestato uno dei leader di questo comitato per l’identità e l’autodeterminazione del Wolkait e questo ha dato luogo a proteste di massa. Tanto nella regione di Amara quanto in quella di Oromia, ma anche nella capitale Addis Abeba, è da tempo che si scende in piazza in maniera pacifica.

D. – Che informazioni avete sulle persone arrestate?

R. – Quello che risulta ad Amnesty International è che oltre al bagno di sangue che c’è stato con oltre 100 morti, il numero degli arresti sia persino superiore: diverse centinaia, pare, trattenuti in centri di detenzione non ufficiali, in isolamento, senza contatti con il mondo esterno e dunque ad elevato rischio di tortura.

D. – Queste manifestazioni erano state vietate per impedire alle persone di organizzarsi e il governo aveva anche bloccato l’accesso a Internet. Quali sono i timori di Amnesty sul rispetto dei diritti umani nel Paese?

R. – Il governo di Addis Abeba non si fa problemi da anni, da decenni anche, nell’usare la forza e metodi brutali e anche in questo caso forme più sottili di repressione, come il blocco di Internet, per impedire ogni forma di dissenso. Nonostante questo, le persone sono scese in strada e la risposta che è stata data con pallottole vere contro manifestanti inermi è stata spaventosa.

D. – C’è la possibilità che, nonostante la repressione delle manifestazioni, il governo poi conceda parte delle rivendicazioni dei manifestanti?

R. – La speranza intanto è che non ci sia un ulteriore bagno di sangue e che la repressione non prosegua. Ma non c’è molto ottimismo. L’auspicio è che anche i leader regionali dell’Unione Africana – Paesi che hanno rapporti importanti con l’Etiopia – convincano le autorità intanto a non usare più le armi, le armi da fuoco contro i manifestanti, e poi a cercare una via negoziale per soddisfare queste richieste.

D. – A proposito di questo, c’è stata una reazione da parte delle organizzazioni regionali o dell’Unione Africana?

R. – A quanto ci risulta non ancora. Tra l’altro, questo bagno di sangue è rimasto abbastanza sconosciuto per diverse ore, perché sull’ultimo fatto grave, avvenuto domenica 7, Amnesty International è riuscita a raccogliere queste informazioni soltanto nella serata di lunedì. Quindi è possibile, è auspicabile anzi, che ci sia una presa di posizione da parte dell’Unione Africana, ma al momento non risulta.

D. – Quali sono le informazioni che ricevete sulle condizioni, al momento, all’interno del Paese?

R. – E’ una situazione che va via via peggiorando: uso della tortura, manifestazioni represse nel sangue, un clima di censura nei confronti della stampa, impossibilità di svolgere attività politica, carcere per ogni forma di opposizione di natura parlamentare, che riguardi richieste di riforme politiche. La situazione è questa. Ci sono ancora molti attivisti per i diritti umani che coraggiosamente riescono a far trapelare notizie sulle violazioni di questi diritti, in un Paese che è storicamente molto chiuso e anche molto impermeabile allo scrutinio e al controllo internazionale.

inizio pagina

P. Ibrahim: Aleppo nella paura dello scontro finale

◊  

Stanno convergendo su Aleppo in una inquietante morsa di guerra. Migliaia di uomini dell’esercito siriano di Assad si preparano a quella che i media chiamano la “battaglia finale” contro le milizie che da lungo tempo controllano la città siriana ormai distrutta. Il racconto del dramma quotidiano dei civili nelle parole di padre Ibrahim, parroco di Aleppo, raggiunto telefonicamente da Luca Collodi

R. – La situazione è assai difficile, perché continuano i bombardamenti che sono stati intensificati, come sempre, durante la notte; ma ci sono ancora bombardamenti di missili che cadono su questa zona, sulle zone abitate della parte ovest della città, nella quale viviamo noi. Non sappiamo niente della situazione della guerra ma ne sentiamo sicuramente i risultati negativi. Tanta gente ha paura, manca l’elettricità, come sempre, è mancata anche l’acqua, di nuovo... Tutto è a caro prezzo e negli ultimi giorni due zone sono state evacuate e tante persone hanno dormito e continuano a dormire per le strade e nelle tende.

D. – Padre Ibrahim, le Nazioni Unite hanno chiesto una tregua umanitaria di 48 ore: ci sono le condizioni per questa tregua?

R. – Io un po’ dubito che ci saranno le condizioni per una tregua. Abbiamo sentito, seguendo un po’ le notizie, ieri e anche questa mattina, che è previsto l’arrivo di tanti militari da ogni parte verso Aleppo e quindi l’aria non è un’aria tranquilla, pacifica che prepara una tregua: questa volta potrebbe essere anche una guerra totale. L’esercito da parte sua vuole riprendere le parti che ha perso negli ultimi giorni, mentre questi gruppi militari si preparano ad avanzare ulteriormente, verso Hamadaniya e verso tutta la parte ovest della città.

D. – Lei sta parlando dei ribelli in questa circostanza: i ribelli sono controllati da gruppi jihadisti…

R. – E purtroppo è per questo che non utilizzo la parola “ribelli”. Perché oggi, per come la vediamo e la sentiamo noi, dal di dentro della città sono i jihadisti più che i ribelli quelli che prendono il timone di tutti questi gruppi di militari che sono veramente molto, molto diversificati.

D. – Come vi state organizzando, come Francescani e come parrocchia di Aleppo?

R. – E’ un miracolo che ci stiamo preparando, anche questo mese, a distribuire a partire da domani il pacco alimentare mensile a centinaia, anzi, a migliaia di famiglie che sono nel bisogno. E’ un miracolo e una provvidenza divina che abbiamo comprare tutto il materiale prima della chiusura della strada principale di Aleppo. Siamo molto soddisfatti e contenti che almeno possiamo distribuire questo pacco alimentare sostanzioso a queste migliaia di famiglie.

D. – Vi preparate all’assedio finale di Aleppo da parte dei militari di Assad?

R. – Veramente, non sappiamo cosa potrà succedere. Noi abbiamo annunciato a tutti i sacerdoti, da ieri, e lo abbiamo detto anche alla gente, che vogliamo digiunare e pregare in queste prossime 72 ore, perché la volontà della pace regni sempre e perché vinca sull’altra volontà, quella della guerra.

inizio pagina

Vertice Putin-Erdogan. Rilanciati i rapporti tra Russia e Turchia

◊  

A San Pietroburgo, in Russia, è il giorno dell’atteso incontro tra il presidente russo Putin e il suo omologo turco Erdogan. “Si apre una nuova pagina nelle relazioni” tra Russia e Turchia, ha detto Erdogan ai media russi, dopo mesi di gelo tra i due Paesi, seguiti all'abbattimento in novembre di un caccia russo da parte di due F-16 turchi. Il servizio di Marco Guerra: 

Ufficialmente ci sono i rapporti economici tra Turchia e Russia in cima all'agenda dei colloqui di oggi tra Erdogan e Putin nel Palazzo di Konstantinovsky, a sud di Pietroburgo. L'agenzia di stampa Anadolu spiega che nei colloqui si parlerà di collaborazione in progetti energetici, nel turismo, di esportazione di prodotti alimentari e industriali, di nuovi investimenti e dell'impegno reciproco per aumentare il volume degli scambi commerciali. Ma l’incontro tra i due leader ha un dato tutto politico rappresentato nel riavvicinamento di due Paesi che sono attori chiave nella regione. La crisi diplomatica tra Mosca e Ankara ha avuto un punto di svolta con il sostegno manifestato da Putin nei confronti del governo della Turchia in occasione del mancato golpe militare. E questa prima missione all’estero di Erdogan dal fallito colpo di Stato suggella l’intesa ritrovata. Ma come viene visto questo fronte comune da parte dell’Europa? Lucas Duran lo ha chiesto all’esperto dell’area e giornalista de La Repubblica, Marco Ansaldo:

R. – Lo scontro ormai aperto, conclamato, fra Erdogan e l’Occidente arriva a saldarsi adesso con quello che è il grande avversario dall’altra parte, l’avversario forte: Vladimir Putin. Il fatto che Erdogan negli ultimi tempi si stia contrapponendo nei confronti dell’Unione Europea, dell’Occidente in maniera forte, al punto di arrivare a diverse minacce come quella della reintroduzione della pena di morte, naturalmente preoccupa.

D. – Chiarendo anche gli elementi di questo timore e preoccupazione in Europa, ricordiamo che Erdogan in qualche modo ha accusato gli europei di remare contro, se così possiamo riassumere molto grossolanamente, e per altro lodava Putin che non avrebbe criticato le mosse successive al fallito golpe dello stesso Erdogan. Come vedi le cose in quanto esperto di Turchia?

R. – Sicuramente, ogni occasione di dialogo è benvenuta. Noi dobbiamo anche ricordare che Erdogan e Putin si incontrano dopo un periodo di freddezza durato dallo scorso novembre con l’abbattimento del Sukhoi russo da parte dell’aviazione turca. Erdogan usava toni molto forti, ma ha dovuto nettamente abbassare le penne di fronte a Putin. Ho letto la lettera che Erdogan inviò non più tardi di un mese fa al portavoce di Putin in cui non si scusava, ma naturalmente faceva dei grandi passi di avvicinamento nei confronti di Mosca. Oggi ne vediamo il risultato; Erdogan ha dovuto fare anche dei passi di avvicinamento nei confronti di Israele, altro Paese con cui per la questione della "Mavi Marmara" nel 2010 ci fu uno scontro formidabile. Tutto questo che cosa ha causato? I turisti russi e quelli israeliani hanno disertato completamente le coste turche. Ecco lì che arriva la necessità di un avvicinamento di Erdogan a quei Paesi che da un punto di vita internazionale possono essergli utili.

D. – Un quadro di questo tipo come si riflette poi per quanto riguarda i Paesi occidentali, europei?

R. – Questo è un punto fondamentale. Io vorrei ricordare l’asse molto forte che c’era fino a qualche anno fa, non era solo un asse Putin-Erdogan, ma Putin-Erdogan-Berlusconi. Poi per vicende diverse quest’asse che teneva molto, anche da un punto di vista finanziario-commerciale, si è rotto e oggi si ricompone l’asse tra Putin e Erdogan. Il colloquio che avverrà oggi a San Pietroburgo sarà – da quello che tutti gli osservatori considerano – un dialogo nettamente antioccidentale e antieuropeo, una sorta di una nascita di una nuova "Eurasia" spostata ad Oriente che preoccupa, nel momento in cui la Turchia, Paese candidato all’ingresso in Europa, si sposta. Però, al tempo stesso, è un alleato formidabile, irrinunciabile dell’Europa e della Nato – dal 1952 – con delle basi con 50 testate nucleari nell’istallazione che c’è a Incirlik. Oggi è un alleato formidabile dell’Europa per quanto riguarda la questione dei migranti, a cui abbiamo destinato una grande massa di denaro. Dal momento in cui questo alleato non guarda più, non ha il più il volto riverso verso questa parte, ma guarda su un altro fronte, tutto questo allora non può far altro che preoccuparci.

D. – A proposito di fronti, quello che verrà discusso oggi tra Putin ed Erdogan in Russia a San Pietroburgo quanto potrà contare anche sul fronte siriano, sul conflitto in Siria?

R. – Lì i due leader dovranno confrontarsi in maniera franca e cordiale. Hanno due posizioni completamente opposte, perché Mosca appoggia Damasco e Erdogan è uno principali avversari di Bashar al Assad. Bisognerà vedere quali sono le posizioni e quali possono essere gli eventuali punti di incontro. È molto difficile che si arrivi oggi a un’intesa, perché questo è un nodo che tra le due personalità autocratiche oggi dovrà essere affrontato in una maniera molto chiara.

inizio pagina

Immigrazione, emergenza causata anche da disinformazione

◊  

Emergenza immigrazione: dopo giorni di forte tensione a Ventimiglia il capo della Polizia, Franco Gabrielli, arrivato ieri in visita in Liguria, ha affermato che i migranti saranno portati altrove, in altri centri di assistenza, per alleggerire la pressione nell’area. Le decisioni possono essere molteplici, ma non si può fermare il desiderio di una vita migliore. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il parroco della Natività a Ventimiglia, don Rito Julio Alvarez: 

R. – Loro vogliono comunque continuare il viaggio. Di proposte se ne possono fare tante. Poi vedremo quali saranno le soluzioni concrete. Noi sappiamo che tutte le persone respinte dalla Francia vengono caricate sui bus dalla polizia di frontiera di Ventimiglia e quindi portate nei centri nel Meridione, ad Ancona o in altri luoghi. Però, noi che facciamo assistenza sappiamo che, tassativamente, dopo tre giorni sono qui di nuovo. Veramente io spero anche ci sia una soluzione definitiva: crescendo il numero dei migranti a Ventimiglia nella situazione in cui ci troviamo, è complicato e lo diventa anche per me. Noi gestiamo un gruppo piccolo nella chiesa, soprattutto donne e bambini. Alcuni giorni possono essere 40, ma se poi la sera arrivano in 50 non posso dire loro che li teniamo fuori o che non gli diamo da mangiare.

D. – L’ultima immagine, tra le tante che abbiamo, è quella di alcuni migranti che cercano di raggiungere la Francia a nuoto…

R. – Non solo a nuoto. Ieri sera stavo tornando da Nizza e ho visto due persone, nei tunnel dell’autostrada, che andavano a piedi verso la Francia. E allora tutto questo ci dice il grande desiderio di queste persone di poter continuare il loro viaggio, realizzare i loro sogni, e avere un po’ di tranquillità. Già vengono da situazioni complicate e quello che desiderano sicuramente è riavere un po’ di pace.

D. – Come si deve comportare l’Europa? C’è il rischio che si riveli, in realtà, solo una fortezza, che poi non è neanche inespugnabile…

R. – Io penso che una delle cose da fare – in questo caso parlo per l’Italia – è quella di riuscire a pensare a dei centri di accoglienza ben sistemati nei punti di frontiera, in modo che le città non si trovino tutti gli anni nella stessa situazione in cui ci troviamo a Ventimiglia. Questo succedeva già quattro, cinque anni fa, e anche l’anno scorso. Ce lo ricordiamo bene… E allora ci devono essere dei progetti nei quali coinvolgere magari loro stessi, i volontari e le associazioni. Siamo di fronte a una situazione per la quale è questa la realtà.

D. – Avendo come osservatorio privilegiato la situazione di Ventimiglia vede, anche da parte della società italiana, una volontà di integrazione, accoglienza? C’è speranza in questo senso?

R. – Io penso che, una volta che i singoli cittadini cominciano a conoscere queste persone e a scoprire un po’ la loro umanità, ci si affezioni a loro. E penso ci sia più la consapevolezza o comunque la sensibilità di accogliere e integrare. Il problema è che, quando in tutto questo insieme di cose, la situazione o l’emergenza è gestita non benissimo, è certo che questo crea malcontento dappertutto. E molti ne approfittano anche per passare delle informazioni sbagliate. Per me, nella mia esperienza con i migranti la cosa più difficile che ho trovato è la mancanza di giusta informazione: ci sono tanti siti fasulli che continuano a lanciare notizie false anche su piccoli episodi e vanno poi a strumentalizzare per dire le cose peggiori. E certamente, chi è solo in Rete e nei Social a leggere tutte quelle indicazioni prende queste informazioni sbagliate come oro colato. E tutto questo fa tantissimo male a loro, ma anche alla società.

inizio pagina

Presidenziali Usa, un testo dei vescovi richiama ai temi sociali

◊  

A tre mesi dal voto delle presidenziali americane, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti ha riproposto ai fedeli il documento: “Formare le coscienze per una cittadinanza credente”. Molti i temi toccati: la dignità della vita umana, la promozione della pace, il ruolo della famiglia, la libertà di professione, la crisi migratoria, il rifiuto di una visione consumistica e egoistica, l’incremento di politiche in favore dei poveri, con riferimento anche all’assistenza sanitaria, il "Medicare" e il "Medicaid" voluti da Obama. Queste linee guida dei vescovi americani, ricche di riferimenti a testi di Benedetto XVI e di Papa Francesco – “Caritas in Veritate”, “Evangelii Gaudium”, “Laudato Si’” − entrano nel merito di tematiche sociali cui la campagna elettorale Usa non sembra aver dato molta attenzione. Eugenio Murrali ha chiesto il significato di questa iniziativa episcopale a Massimo Teodori, esperto di politica americana: 

R. – C’è un’attenzione particolare al problema del consumo eccessivo dei beni materiali e delle risorse naturali, si sottolinea la necessità di una politica economica che sia attenta ai poveri e si dedica spazio all'immigrazione: tutto ciò insieme ai temi tradizionali della dottrina cattolica, come quello della condanna dell’aborto, del suicidio assistito e di forme di matrimonio non tradizionali. In questo senso, mi pare che ci sia un altro aspetto che il documento sottolinea: quello della condanna dell’antipolitica, in relazione alle elezioni di questo 2016, in cui le pulsioni antipolitiche, di rivolta verso la politica tradizionale, sono molto forti.

D. – Combattere per eliminare la povertà e la sofferenza per dare dignità al lavoro: tutti aspetti sociali. Forse sono stati toccati poco durante questa campagna elettorale?

R. – Mi pare che tutto lo stile del documento si richiami al fatto che, in questa campagna elettorale, non vi sia stata un’eccessiva attenzione a problemi, quali una politica rivolta alla povertà, un’attenzione rivolta ai migranti e ai bisogni degli altri piuttosto che ai propri. Insomma, nel documento dei vescovi c’è un duplice registro: da una parte, quello di chi si rivolge ai fedeli cattolici affinché difendano i loro valori, i tradizionali temi etici. Poi, dall’altra parte, si rivolge all’americano come cittadino, in quello che il documento chiama l’”ordine civile”, richiamandolo al fatto che non basta scegliere – e qui cito testualmente –  “il migliore candidato”, ma bisogna operare quotidianamente affinché la parola di Gesù sia portata nella società civile e quindi anche all’interno della contesa elettorale.

D. – Quando si parla di migranti il riferimento è forse anche più esplicito alle posizioni di Trump?

R. – Trump ha fatto una campagna contro gli immigrati, e in particolare contro quelli latinoamericani, con la proposta di costruire – un po’ assurda – un muro al confine con il Messico, ma anche fatta di dichiarazioni demagogiche, che però sottolineano un certo atteggiamento degli Stati Uniti di buttar fuori tutti i musulmani. E comunque, nelle parole di Trump, nel suo atteggiamento e nel suo stile, c’è una vicinanza o un’assonanza con l’atteggiamento dei suprematisti bianchi: cioè quelli che ritengono che per diritto divino i bianchi debbano avere il controllo della nazione.

D. – Si tocca anche il punto della pena di morte.

R. – La Chiesa è impegnata per l’abolizione della pena di morte, anche in contrasto con alcune Chiese protestanti, soprattutto quelle del profondo sud, che invece sono legate a una tradizione, la stessa dei suprematisti bianchi, che difende la pena di morte, in vigore in maniera diversa, non in tutti gli Stati Uniti. E la Chiesa è anche impegnata nel tentativo di limitare e controllare maggiormente il commercio delle armi, che poi è stata una delle battaglie che Obama non è riuscito a portare a termine.

inizio pagina

Libia. Gen. Bertolini: prudenza con l'intervento militare

◊  

Proseguono a ritmo serrato i bombardamenti statunitensi contro le postazioni dell’Isis nella città libica di Sirte. Fonti libiche sul terreno parlano di nuovi importanti obiettivi distrutti e da Tripoli il premier del governo di accordo nazionale, Fayez al Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite, ha annunciato che i bombardamenti andranno avanti ancora per un certo periodo di tempo. Nonostante l’ottimismo ostentato da Tripoli, rimangono forti perplessità su una veloce normalizzazione della Libia come conferma il generale Marco Bertolini, fino a poco settimane fa al vertice del Comando operativo interforze, intervistato da Stefano Leszczynski

R. – Non c’è ombra di dubbio: non basterà a risolvere il problema di quella manifestazione febbrile che è Sirte che, ripeto, è una realtà limitata. E poi, non sappiamo cosa andremo a fare nell’est del Paese – parlo della costa – nell’ovest e soprattutto, quello che faremo nel sud.

D. – Si sente parlare, anche con una certa leggerezza, di interventi diretti in Libia per cercare di dare una svolta alla situazione e mettere fine a questa situazione di conflitto che ormai dura da cinque anni, in buona sostanza. Secondo lei, è una cosa sensata?

R. – Senta: “interventi diretti”, a favore di chi? Questo è il problema. In Libia, non è che ci sia un governo… Sì, c’è il governo di Al Sarraj che è quello supportato dalle Nazioni Unite, però ci sono anche delle realtà diverse che prendono le distanze da Al Sarraj. Abbiamo sentito che Haftar ha criticato l’intervento statunitense… Obiettivamente, non è come un intervento in Afghanistan, dove il governo ha voluto la comunità internazionale e a questo punto la comunità internazionale – tra cui anche noi – è intervenuta a loro supporto. Qua è una situazione molto più complessa. Se intervento ci dev’essere, dev’essere un intervento risolutivo, non dev’essere un intervento che – anzi – aumenti ancora di più le differenze e le chiusure che ci sono fra le varie parti. E queste sono tutte realtà che poi si troveranno a dover governare insieme la Libia cosiddetta “liberata” o “normalizzata”. Noi dobbiamo fare in modo che arrivino assieme a elaborare una strategia, con il nostro aiuto. L’intervento militare dev’essere condotto sempre con molta attenzione e con molta prudenza.

inizio pagina

Locarno. "Le ciel attendra", due giovani nel vortice della jihad

◊  

Presentato ieri sera al Festival di Locarno il coraggioso film di Marie-Castille Mention-Schaar "Le ciel attendra", che uscirà in Francia il prossimo 5 ottobre e si spera in molti altri Paesi. Una storia attualissima e terribile, quella di due giovani ragazze che vengono reclutate dai fondamentalisti islamici, con il dramma che si apre nelle loro famiglie e il coraggio di due madri, le bravissime Sandrine Bonnaire e Clotilde Courau. Il servizio di Luca Pellegrini: 

Sonia e Melanie, 17 e 16 anni, hanno una vita agiata: scuola, amiche, divertimenti, libri e un violoncello. Ma qualcosa si incrina in loro. Cresce una ribellione che i genitori non sanno all'inizio intercettare: contro la famiglia, le istituzioni, il loro Paese, il mondo occidentale. Vanno alla ricerca di un paradiso, che il radicalismo islamico offre loro insieme a un percorso di follia, rivoluzione, utopia. Ieri sera, in una attenta Piazza Grande di Locarno, è stato proiettato "Le ciel attendra", che Marie-Castille Mention-Schaar ha cominciato a girare il lunedì dopo la strage del Bataclan in Francia. Confessa che il film è nato da un istinto, una pulsione, una urgenza. I motivi ci sono tutti. Le due ragazze, infatti, vengono carpite e assoldate dalla Jihad islamica, cambiano il loro modo di vivere, si fanno arrivare un niquab per posta, lo indossano fiere. Solo una di loro partirà per la Siria, e scomparirà. Per l'altra, appunto, quel paradiso promesso dopo il martirio e nuove stragi, quel cielo che arriva dopo l'orrore, può attendere.

E' prima di tutto un film sull'amore, quello dei genitori spesso incapaci di decifrare i segnali di una crisi e ancor più estirpare dai figli messaggi che la rete inserisce inesorabilmente nelle menti dei ragazzi, captando, ma sovvertendolo, il loro desiderio di giustizia, una ribellione a tutti i valori, la storia e la cultura dell'Occidente, mentre la famiglia è il primo vincolo da recidere. "Oggi mancano dei modelli forti - dichiara la coraggiosa regista -. I giovani continuano a cercare il senso profondo della vita, ma cominciano a capire che non lo si trova nel denaro, nell'apparenza". E, soprattutto, tiene a precisare che questo "non è un film sulla religione e sull'Islam, perché l'unica volta in cui nel film si fa cenno all'Islam è per dire che quello cui si convertono le due ragazze non è il vero Islam. Oggi, purtroppo, con tutto ciò che accade, si confondono facilmente le cose". Ci si sofferma soprattutto sulle madri: si espongono, affrontano direttamente i problemi. Nel film Sandrine Bonnaire e Clotilde Courau danno un volto a questo dolore e a questo coraggio.

inizio pagina

La Chiesa celebra santa Edith Stein, martire sotto il nazismo

◊  

La Chiesa celebra oggi la festa di santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, ebrea, filosofa, convertitasi al cattolicesimo, martire sotto il nazismo nel campo di concentramento di Auschwitz. E’ stata dichiarata patrona d’Europa nel 1998 da San Giovanni Paolo II che l’ha definita "un'eminente figlia di Israele e fedele figlia della Chiesa”. Il servizio di Paolo Ondarza: 

“Ave Crux, Spes Unica”. E’ con lo sguardo fisso alle braccia aperte di Cristo sulla croce, unica speranza, che Edith Stein affronta il martirio nelle camere a gas di Auschwitz Birkenau nel caldo agosto 1942. E’ il culmine di un lungo percorso interiore che l’ha portata dallo studio della filosofia all’impegno per la promozione umana, sociale e religiosa della donna, alla vita contemplativa nell’ordine carmelitano. Nata a Breslavia nella Slesia tedesca nel 1891, undicesima figlia di una coppia di ebrei molto religiosa, Edith si distingue da subito per l’intelligenza brillante che favorirà in lei una visione razionalistica e un giovanile distacco dalla religione. Sarà l’incontro con la fenomenologia del filosofo Husserl, di cui diviene assistente all’Università di Friburgo approfondendo il tema dell’empatia e quello con il filosofo Max Scheler, insieme alla lettura degli esercizi di Sant’Ignazio e della vita di Santa Teresa d’Avila, a far scaturire la conversione al cristianesimo.

La fede e il nazismo
Riceve Battesimo e Cresima nel 1922, contro la volontà dei genitori, ma mai rinnegherà le sue origini ebraiche: negli anni delle persecuzioni, divenuta suora carmelitana con il nome di Teresa Benedetta della Croce, abbraccia la sofferenza del suo popolo, introducendola nel sacrificio di Cristo. Dopo la "Notte dei cristalli" viene trasferita in Olanda, Paese neutrale: nel carmelo olandese di Echt mette per iscritto il desiderio di offrirsi “in sacrificio di espiazione per la vera pace e la sconfitta del regno dell’anticristo”.  Due anni dopo l’invasione nazista dei Paesi Bassi avvenuta nel 1940, viene prelevata insieme ad altri 244 ebrei cattolici, come atto di rappresaglia contro l’episcopato olandese che si era opposto pubblicamente alle persecuzioni e portata ad Auschwitz. Con lei c’è la sorella Rosa,  pure convertitasi al cattolicesimo alla quale dice: “Vieni, andiamo per il nostro popolo”. In passato aveva scritto: “Il mondo è in fiamme: la lotta tra Cristo e anticristo si è accanita apertamente, perciò se ti decidi per Cristo può esserti chiesto anche il sacrificio della vita”.

Papa Wojtyla: fu esempio di tolleranza
“Dichiarare santa Edith Stein, compatrona d’Europa – ha detto San Giovanni Paolo II - significa porre sull’orizzonte del Vecchio continente un vessillo di rispetto, di tolleranza, di accoglienza",  ma – ha aggiunto - è necessario far leva  sui valori autentici, che hanno il loro fondamento nella legge morale universale: un’Europa che scambiasse il valore della tolleranza e del rispetto con l’indifferentismo etico sui valori irrinunciabili si aprirebbe alle più rischiose avventure e vedrebbe prima o poi riapparire sotto nuove forme gli spettri più paurosi della sua storia”.

inizio pagina

Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan, la Chiesa condanna l’attentato suicida a Quetta

◊  

“Un gesto disumano che non può essere tollerato”. Con queste parole la Commissione nazionale della giustizia e della pace della Conferenza episcopale del Pakistan si unisce alla ferma condanna per l’ennesima strage avvenuta lunedì a Quetta, capoluogo del Beluchistan.

L’attentato compiuto da un kamikaze forse legato all’Isis
Un kamikaze ha lanciato un attacco contro un ospedale municipale. Il bilancio è ancora provvisorio: gli ultimi dati parlano di 74 morti e circa 200 feriti. Secondo l’agenzia di stampa tedesca Dpa, l’azione terroristica sarebbe stata rivendicata dall’Isis, ma la rivendicazione è stata smentita dai talebani pakistani. Lo Jamaat-ul-Ahrar, fazione che si è staccata dal gruppo originario di fondamentalisti, ha dichiarato di aver effettuato l’attentato e di essere responsabile dell’omicidio del giurista Bilal Anwar Kasi avvenuto sempre ieri. Fra le vittime dell’ospedale vi sono almeno 18 avvocati e giornalisti, e non è escluso che lo scopo fosse proprio quello di colpire i legali. Tutti membri dell’Associazione giuristi del Beluchistan, le vittime si opponevano all’introduzione della sharia nella provincia. Secondo media pakistani, l’attentato è il più cruento del 2016.  

L’attentato più cruento del 2016
In un comunicato, la Commissione Giustizia e Pace “condanna con forza quanto accaduto” e chiede al governo “di migliorare le misure di sicurezza, garantendo il diritto alla vita dei propri cittadini”. Intervistato dall’agenzia Asianews, mons Arshad, presidente della Commissione, ribadisce che “la Chiesa cattolica è e rimarrà sempre al fianco della popolazione, soprattutto in queste ore di sofferenza”, ricordando che Beluchistan ha subito oltre 1.400 episodi di violenza negli ultimi 15 anni. 

Anche la società civile chiede oggi più sicurezza
Anche la società civile chiede oggi più sicurezza. Il “Rwadari Tehreek”, movimento laico impegnato “per riportare la pace in Pakistan”, ha organizzato una manifestazione “aperta a chiunque, da qualunque percorso di vita. L’importante è che voglia la pace”. Samson Salamat, presidente del gruppo, spiega: “Abbiamo bisogno che l’esecutivo si svegli. L’unica risposta ad attacchi come questo è la tolleranza zero nei confronti di chi propaga il terrorismo”. La deputata Sadia Sohail aggiunge: “Sembra oramai evidente che affrontare la violenza estremista non è una priorità di Islamabad. Invece di spendere risorse ed energie su futili questioni, bisogna concentrarsi su questo”. (L.Z.)

inizio pagina

Pakistan, censimento 2017 sia più attendibile su minoranze

◊  

Gli attivisti cristiani pakistani per i diritti umani chiedono che il prossimo censimento generale della popolazione, previsto nel marzo 2017, registri dati più accurati sulle minoranze religiose ed etniche in questo Paese a netta maggioranza musulmana sunnita.

Accertare il reale peso numerico di tutte le comunità religiose
“Dati attendibili e una corretta classificazione delle religioni hanno un’importanza fondamentale per lo status dei non musulmani pakistani, ma questo non sembra essere importante nell’agenda politica nazionale”, ha denunciato Cecil Shane Chaudhry, direttore esecutivo della Commissione nazionale della giustizia e della pace della Conferenza episcopale pakistana a un convegno svoltosi nei giorni scorsi a Lahore. Da tempo i leader cristiani sostengono la necessità di un conteggio più preciso dei cittadini pakistani appartenenti a gruppi minoritari per tutelare gli interessi di queste comunità ancora discriminate e sotto-rappresentate nel Paese.

L’importanza del censimento per i diritti delle minoranze
“I risultati del censimento potrebbero avere importanti ripercussioni nella battaglia per i diritti delle minoranze, il loro status sociale e la libertà religiosa in Pakistan”, ha sottolineato nel suo intervento Peter Jacob, ex responsabile di Giustizia e Pace e attuale direttore del Centro cattolico per la giustizia sociale. Il convegno – riporta l’agenzia Ucanews – ha rilevato diverse lacune nei dati registrati dall’ultimo censimento generale del 1998, come l’assenza nei questionari di voci specifiche per alcuni gruppi religiosi tra i quali i sikh, i buddisti e gli ahmadi, una setta islamica considerata eretica. “Queste omissioni emarginano ulteriormente le comunità più piccole”, ha osservato Jacob, che ha evidenziato la necessità di formare meglio i rilevatori per ottenere dati più attendibili e completi.

Le minoranze ancora sotto-rappresentate in Pakistan
Attualmente, in Pakistan le minoranze religiose hanno diritto solo a dieci seggi riservati in parlamento, una cifra rimasta invariata dopo che nel 2008 il numero dei parlamentari è stato portato da 210 a 342. Inoltre, la legge riserva a esse il 5% dei posti di lavoro nell’amministrazione pubblica e nelle istituzioni educative, ma nei fatti questa quota non è sempre rispettata. (L. Z.)

inizio pagina

Amman, presentato progetto Caritas per emergenze umanitarie

◊  

Le emergenze umanitarie che affliggono il Medio Oriente, tra conflitti e fughe di massa dagli scenari bellici, sollecitano risposte condivise da parte di cristiani appartenenti a diverse denominazioni. Una testimonianza di questa sollecitudine umanitaria connotata da un respiro ecumenico è rappresentata dal progetto "Peer" (Preparing to Excel in Emergency Response), presentato lo scorso 8 agosto ad Amman.

Aumentare le sinergie tra gruppi cristiani per affrontare le crisi umanitarie
Il progetto, realizzato con il sostegno di Caritas Giordania e dei Catholic Relief Services (Crs), l’opera caritativa della Chiesa degli Stati Uniti per gli aiuti ai Paesi d’oltremare, si propone di aumentare le sinergie e le capacità di interazione tra gruppi cristiani che in Giordania sono impegnati nei diversi programmi per affrontare le emergenze umanitarie, rendere più efficaci e rapidi gli interventi realizzati sul campo da ogni singola realtà e comunità.

Nel progetto coinvolti anche gli ortodossi
Tra i dieci gruppi di lavoro coinvolti finora nel progetto figurano anche comunità della gioventù cristiana greco-ortodossa e ong come la Orthodox Progress Association. Nel suo intervento introduttivo, il dottor Wael Suleiman, direttore generale di Caritas Giordania, ha sottolineato che il progetto di coordinamento sosterrà la collaborazione di realtà diverse che operano soprattutto a favore dei rifugiati e delle persone che vivono in stato di necessità. All'incontro per il lancio del progetto – riferisce un comunicato di Caritas Jordan, pervenuto all'Agenzia Fides – ha preso parte anche Jocelyn Braddock, direttrice dei programmi di assistenza sostenuti da Crs Libano, che nel suo intervento ha sottolineato l'utilità e l'urgenza di coinvolgere realtà e istituzioni locali nella realizzazione dei progetti messi in campo per affrontare le emergenze umanitarie che affliggono l'area mediorientale (G.V.).

inizio pagina

Nel 2015 3.000 migranti assistiti da diocesi di Cadice e Ceuta

◊  

Nel 2015, 3.006 immigrati sono state assistiti dal Servizio Sociale della Fondazione "Tierra de Todos", centro d’assistenza e formazione della diocesi di Cadice e Ceuta (Spagna). Inoltre, riporta l’agenzia Fides, 1.633 persone sono ricevuto assistenza legale e 328 hanno sono state aiutate dal Servizio di orientamento per l'occupazione.

La maggior parte degli immigrati proviene dal continente africano
Oltre a questo, la Fondazione ha accolto 50 persone nei locali della sua sede, mentre un centinaio di famiglie di immigrati vulnerabili sono stati sostenute e aiutate con donazioni di cibo ed altro. La maggior parte degli immigrati proviene dal continente africano con una significativa presenza di persone di nazionalità marocchina.

Il vescovo di Cadice e Ceuta: situazione drammatica nello Stretto di Gibilterra
Il rapporto sulle attività del 2015 della Fondazione è stato presentato nei giorni scorsi alla presenza del vescovo di Cadice e Ceuta, mons. Rafael Zornoza Boy, che ha elogiato il lavoro svolto. Il presule ha ricordato la situazione dello Stretto di Gibilterra, dove, ha detto, “stiamo assistendo alla tragedia di coloro che vogliono attraversare illegalmente lo Stretto con barconi, gommoni” a rischio della propria vita. (L. Z.)

inizio pagina

Vescovi indiani critici su riforma fiscale: colpisce i poveri

◊  

La Chiesa indiana è preoccupata dalla nuova legge che vuole unificare il sistema di tassazione indiretta in tutto il Paese. Il Goods and Services Tax Bill   è stato approvato dalla Camera Alta del Parlamento il 3 agosto, dopo un accordo raggiunto tra i partiti e i governi statali frutto di otto anni di trattative con il Governo centrale.

Ignorati i bisogni dei più poveri
L’obiettivo dichiarato è di semplificare il sistema fiscale a vantaggio del mercato interno, delle esportazioni e dei consumatori, ma secondo i vescovi, la riforma rischia di avvantaggiare solo la minoranza più benestante del Paese. In questo senso si è espresso il segretario generale della Conferenza episcopale indiana (Cbci), mons. Theodore Mascarenhas:  “Non sono stati presi in considerazione i bisogni e le preoccupazioni dei più poveri”, ha dichiarato all’agenzia Ucan il vescovo, che si è detto scettico sulle reali intenzioni dei partiti. Alle sue parole fanno eco quelle dell’’arcivescovo di New Delhi, mons. Anil Couto: “Siamo seriamente preoccupati dall’applicazione della nuova legge e dalle sue conseguenze sulle fasce più povere della società”, ha affermato in una nota il presule.

Una tassa regressiva che avvantaggia i ricchi
Attualmente solo l’1 per cento dei cittadini indiani pagano le imposte sui redditi, che sono progressive, mentre tutti indistintamente, ricchi e poveri, pagano le tasse indirette su beni e servizi – l’equivalente dell’Iva - che possono raggiungere anche il 20 per cento del valore dei beni. Secondo mons. Mascarenhas, il governo “non deve caricare i poveri con altre tasse e dovrebbe invece studiare politiche che rendano i beni di prima necessità più accessibili”.  Anche per il padre gesuita Denzil Fernandes, direttore dell’Indian Social Institute, la riforma “favorisce i ricchi”. Essa infatti renderà, meno costosi beni come le automobili o le cene ai ristoranti, che non sono acquistati dai meno abbienti. Prima di diventare legge,  il provvedimento dovrà essere approvato dalla Camera Bassa del Parlamento federale, ratificato dai 29 Stati  indiani e quindi promulgato dal Presidente . (L.Z.)

inizio pagina

Morto mons. Daly, figura simbolo dei 'Troubles' in Nord-Irlanda

◊  

È morto l’8 agosto all'età di 82 anni, dopo una lunga malattia, mons. Edward Daly, ex vescovo di Derry, una delle figure simbolo dei 'Troubles', il conflitto nordirlandese. La fotografia che lo ritrae con un fazzoletto sporco di sangue sventolato per fermare i colpi dei paracadutisti britannici resta un’immagine indelebile del "Bloody Sunday", la strage avvenuta nel 1972 a Londonderry dove furono uccise 14 persone. Allora Daly era parroco presso la St Eugene's Cathedral della cittadina nord irlandese.

Il ricordo di mons. McKeown
“Un sacerdote esemplare al servizio di Dio e della gente, impegnato a predicare il Vangelo della pace in tempi difficili e sempre disponibile verso gli altri”.  Così lo ricorda in una nota l’attuale vescovo di Derry, mons. Donal McKeown.

I funerali l’11 agosto
Nato Belleek, nella diocesi di Clogher, il 5 dicembre 1933, mons. Daly era stato ordinato sacerdote nel 1957 ed era stato vescovo di Derry dal 1974 al 1994, quando una grave malattia lo costrinse a ritirarsi. Nonostante i problemi di salute, aveva continuato a lavorare come cappellano di un ospizio a Derry e come archivista diocesano. I funerali si terranno nel pomeriggio dell’11 agosto. (L.Z.)

inizio pagina

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 222

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.