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Sommario del 11/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa pranza coi rifugiati siriani: gioia e commozione a S. Marta

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Un momento familiare, di festa, ma anche di forte raccoglimento. Così racconta il pranzo tra Francesco e i profughi chi lo ha vissuto a Casa Santa Marta. 21 i siriani accolti dal Papa, un gruppo arrivato in Italia il 16 aprile scorso con l’aereo che riportava Francesco dalla visita all’isola greca di Lesbo; gli altri giunti in Italia a metà giugno. Adulti e minori, nove questi ultimi, tutti sono riusciti a parlare in italiano con Francesco, salvo alcuni casi in cui i traduttori per i loro genitori sono stati gli stessi bambini.

I piccoli hanno regalato al Santo Padre una raccolta dei loro disegni e il Papa ha ricambiato con giocattoli e altri doni. Con Francesco e i suoi ospiti siriani, erano presenti il sostituto della Segreteria di Stato, mons. Angelo Becciu, il prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, insieme con altri membri della Comunità, il comandante del Corpo della Gendarmeria Domenico Giani e due gendarmi che hanno collaborato nel trasferimento delle famiglie da Lesbo in Italia. Francesca Sabatinelli ha intervistato Daniela Pompei, responsabile del servizio per i migranti della comunità di Sant’Egidio: 

R. – Direi che è stato un momento familiare, commovente e anche di scambio, perché i profughi hanno avuto l’occasione di poter parlare con il Papa. Hanno parlato in italiano. Si capisce, quindi, che dal 16 aprile hanno studiato la lingua italiana. Gli hanno raccontato un pochino la loro vita: da dove sono venuti, del loro Paese, delle loro città, ma anche di ciò che stanno facendo a Roma. Poi lo hanno ringraziato, perché ha salvato la loro vita. I bambini, pian piano, hanno preso un po’ di confidenza con l’ambiente e con il Papa e hanno cominciato a giocare, a ridere, a scherzare e questo ha divertito molto anche il Santo Padre. Effettivamente è stato un clima familiare.

D. – Francesco era già stato con loro nel viaggio che li ha portati dall’isola di Lesbo in Italia. Quindi, li ha rivisti adesso dopo quel rientro...

R. – Sì. Gli ultimi, invece, dell’ultimo arrivo del 16 giugno, li ha visti oggi per la prima volta. Ha incontrato di nuovo, quindi, quelli di Lesbo. Abbiamo, infatti, con loro e con il Papa, ricordato quel viaggio: l’aereo, le lasagne e la richiesta dei profughi se ci fosse il maiale, per mangiarne poi tre piatti ognuno! Anche questo è stato commovente. Poi alcuni profughi hanno raccontato di essere preoccupati per la Siria, per la guerra e che la Siria è un Paese di convivenza. Molti di loro gli hanno detto di avere tantissimi amici cristiani e pure musulmani e di non capire la guerra che ha cambiato la vita dei siriani.

D. – Francesco cosa ha detto loro?

R. – Francesco ha con-partecipato alla sofferenza. Ha raccontato anche che quando è stato a Lesbo ciò che lo aveva colpito moltissimo erano i disegni dei bambini, che mostravano bimbi che affrontavano il mare. Anche oggi sono stati regalati al Papa, da parte dei bambini, dei disegni che hanno fatto loro, in cui si vedono bambini in mare, ma anche, negli ultimi, bellissimi, le case e la bellezza di avere la casa e non più sotto le bombe. Loro hanno raccontato il dramma dell’assedio di Aleppo, dei loro parenti che non possono uscire. Hanno raccontato di come la guerra abbia cambiato la loro vita ed anche la vita di tanti siriani e di come abbiano percepito  una rinascita nell’essere qui in Italia, una seconda nascita. La prima bella speranza è stata quell’aereo che hanno preso. La seconda – hanno detto – è stata oggi: l’incontro con il Papa.

D. – Cosa stanno facendo queste persone adesso, a parte appunto studiare l’italiano così bene da poter sostenere la conversazione con Papa Francesco?

R. – I bambini, oltre a studiare la lingua, sono andati a scuola e si stanno preparando per fare corsi più approfonditi. Uno dei ragazzi si è iscritto all’istituto odontotecnico e si sta preparando questa estate per sostenere l’esame di ammissione al secondo anno e non al primo. Alcuni genitori vogliono continuare a studiare, quindi stanno vedendo per il riconoscimento dei titoli di studio, per iscriversi all’Università, altri stanno cominciando a pensare di cercare un lavoro. Lo hanno anche detto che lavoravano e che erano abituati a lavorare. Hanno tutti quanti i documenti in regola a questo punto e questo è importante. Noi li stiamo seguendo anche da questo punto di vista.

D. – Si sono detti un ‘arrivederci’ con il Papa?

R. – Loro lo sperano molto. C’è stata una piccola conversazione sul cibo. Gli hanno parlato del cibo siriano e il Papa ha detto che in Argentina ci sono molti siriani e libanesi e che quindi ha avuto modo di gustare il loro cibo. E qualcuno ha aggiunto: “Allora la prossima volta prepareremo noi un grande pasto siriano per il Papa!”. Non so se sarà possibile, però ovviamente erano contentissimi. Poi i bambini sono stati molto felici, perché hanno ricevuto tutti un regalo. Loro gli hanno poi regalato – come ho detto – un  album di loro disegni bellissimi, commoventi. Anche per me è stato un momento molto toccante e commovente, effettivamente: un momento bello. Abbiamo partecipato come i profughi a questo momento di contentezza molto profondo, anche nell’idea di pregare insieme per la pace. Pur essendo la gran parte musulmani, ci sono anche due cristiani – un cattolico e un siro-ortodosso – , insieme si è parlato di questo valore profondo della preghiera per la pace. E il Papa ha ricordato anche la veglia, fatta tre anni fa in Piazza San Pietro, come un momento di preghiera per l’amata Siria.

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Si mobilitano le Caritas del mondo: solidarietà concreta per i siriani

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“E’ inaccettabile che tante persone inermi debbano pagare il prezzo del conflitto, della chiusura del cuore e della mancanza di volontà di pace dei potenti”. Con queste parole domenica scorsa Papa Francesco è tornato a parlare di Siria, riportando l’attenzione del mondo sull’agonia del Paese e in particolare sulla città di Aleppo, stretta tra bombardamenti e mancanza di cibo, acqua ed elettricità. Da oggi ci sarà una tregua di tre ore al giorno e convogli umanitari potranno arrivare ai civili. Del tutto insoddisfatta l'Onu che chiede 48 ore, mentre tutta la Chiesa è mobilitata e la Caritas ha attivato un fondo di emergenza sulla scia degli appelli del Papa alla preghiera ma anche ad una concreta solidarietà. Il servizio di Gabriella Ceraso

Dialogo, pace, sollievo per la popolazione sofferente. Il cuore e il pensiero di Papa Francesco sono da mesi rivolti alla guerra che, superato il quinto anno, continua senza sosta in Siria, crocevia di interessi internazionali che nulla hanno a che vedere con il bene della popolazione inerme. Russia e Turchia dicono di avere creato una base per il dialogo e l'azione politica comune, ma finora sul terreno non ci sono novità. Nel giorno in cui, per tre ore, dalle 10 alle 13 locali, Aleppo respira e riceve aiuti, almeno nella sua parte occidentale sotto il controllo del regime, si spara a Damasco, a Latakia, bombe piovono sulla provincia di Idlib e su Raqqa dove le vittime sarebbero una trentina. Ma la stessa Aleppo Est, in mano all’opposizione, è totalmente isolata e colpita da raid che userebbero anche gas tossici. I 15 medici rimasti nella zona orientale lanciano un appello al presidente Usa Obama perchè i bambardamenti cessino e i 300mila civili intrappolati siano messi in sicurezza. Tre ore di tregua non bastano, sostiene l’Onu, che ne chiede almeno 48 e la Caritas impegnata a livello internazionale, lo conferma. Ne abbiamo parlato con Paolo Beccegato, responsabile dell'area internazionale di Caritas italiana:

R. – Non abbiamo mai cessato di chiedere uno stop a questa guerra che non ha alcun senso. Da poco Papa Francesco ha lanciato un appello per la pace in Siria, sostenuto da Caritas Internationalis che chiedeva sostanzialmente tre cose: il cessate-il-fuoco immediato su tutto il Paese, perché di fatto la tregua, quelli che l’hanno sottoscritta, non l’hanno osservata; secondo: corridoi umanitari in entrata e in uscita, e terzo – per noi il punto più importante – è quello della preghiera, perché tutta la comunità internazionale si attivi in modo più efficace per bloccare questa guerra.

D. – In quel videomessaggio il Papa diceva: “Uniamo le forze a tutti i livelli”. La Caritas sta operando proprio in questo senso?

R. – Sì: noi lavoriamo dal basso, sostenendo Caritas Siria e tante altre realtà che lavorano al fianco della popolazione. La popolazione non è solo vittima, ma in qualche modo è strumentalizzata. Il prendere di mira minori, donne, popolazione civile, diventa un modo per combattere la guerra e questo è inaccettabile da tutti i punti di vista, soprattutto dal punto di vista umano.

D. – Un fondo di emergenza: è una novità di questo momento in particolare? Voi come contribuite e cosa siete riusciti a fare finora?

R. – La Caritas Siria sta chiedendo di costituire un fondo di emergenza e noi abbiamo accettato questa idea per venire incontro alla situazione particolare della città di Aleppo, dove anche gli ospedali sono stati presi di mira. E questo fondo di emergenza si sta costituendo e quindi tutte le Caritas del mondo contribuiranno per fornire poi, di fatto, cibo, assistenza sanitaria, istruzione, alloggi e protezione alla popolazione civile. Ovviamente non basta l’aiuto dall’esterno: se poi sul terreno non si riesce a distribuirlo quotidianamente, tutte le operazioni sono bloccate. Quindi, di giorno in giorno si cercano i canali possibili per aiutare la popolazione.

D. – Vi rendete conto se e in che misura la voce del Papa, così costante, così continua ha peso o meno su questa situazione?

R. – Noi abbiamo la percezione che abbia un peso molto rilevante, sia dal basso – la popolazione lo vede come “la” voce, l’unica voce che in qualche modo va a rompere gli schemi costituiti – ma anche dall’alto, perché tutti hanno sulla coscienza questa situazione. Perché questa non è la guerra “in” Siria, è una guerra internazionale dove tantissime superpotenze sono coinvolte. Quindi questa voce in qualche modo scuote le coscienze di tutti … Il problema è che le posizioni non si smuovono, cioè sostanzialmente tutti restano bloccati sulle loro posizioni e non fanno quel “di più” per sbloccare la situazione. Questo è il problema, e che ormai dura da quasi sei anni: a marzo dell’anno prossimo, in particolare, ricorderemo l’ennesimo anniversario della guerra più cruenta, più letale che viene combattuta oggi nel mondo contemporaneo.

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Esequie di mons. Daly. Il Papa: ha servito la pace e la giustizia

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Si sono svolte oggi pomeriggio nella Cattedrale di Sant’Eugenio a Derry, in Irlanda del Nord, le esequie di mons. Edward Daly, vescovo emerito della città, spentosi l’8 agosto all'età di 82 anni, dopo una lunga malattia. A presiedere la celebrazione, mons. Donald McKeown, attuale vescovo di Derry. All’inizio della Messa, mons. Amaury Medina Blanco, incaricato della Nunziatura apostolica in Irlanda, ha letto un messaggio inviato da Papa Francesco.

Il Santo Padre, esprimendo il proprio cordoglio per la scomparsa del presule, ha ricordato il suo “generoso” ministero episcopale “al servizio della pace e della giustizia”. Quindi ha manifestato la sua vicinanza alla famiglia e alla comunità di Derry.

Mons. Daly è una delle figure simbolo dei 'Troubles', il conflitto nordirlandese. La fotografia che lo ritrae con un fazzoletto sporco di sangue sventolato per fermare i colpi dei paracadutisti britannici resta un’immagine indelebile del Bloody Sunday, la strage avvenuta nel 1972 a Londonderry  dove furono uccise 14 persone. Allora Daly era parroco presso la St Eugene's Cathedral della cittadina nord-irlandese. Il vescovo di Derry, mons. Donal McKeown, lo ha definito “un sacerdote esemplare al servizio di Dio e della gente, impegnato a predicare il Vangelo della pace in tempi difficili e sempre disponibile verso gli altri”.  

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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A tavola con Francesco: pranzo a Casa Santa Marta per i ventuno profughi siriani giunti da Lesbo.

Un articolo di Ferdinando de la Iglesia Viguiristi dal titolo "Nella 'Populorum progressio" l'omaggio del Papa: cinquant'anni dalla morte di Louis-Jospeh Lebret.

La sublime semplicità di Eckersberg: Solene Tadie recensisce la prima retrospettiva, a Parigi, dedicata al pittore danese.

Il cuore fragile di san Gennaro: Fabrizio Bisconti sugli interventi di restauro nella Cripta dei vescovi delle catacombe napoletane a Capodimonte.

La religione del giorno: Hermann Geissler su John Henry Newman e la denuncia della perenne insidia della mondanità spirituale.

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Oggi in Primo Piano



Libia, continua la battaglia per Sirte: ore contate per l'Is

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In Libia continua l’assalto a Sirte, roccaforte dei jihadisti dello Stato Islamico nel Paese. Per le forze libiche la città è riconquistata al 70% mentre continua il sostegno dell’aviazione americana e dei britannici. Confermata dalla Farnesina anche la presenza di forze speciali italiane, con compiti di supporto e di addestramento. Il servizio di Michele Raviart

“Sirte sarà liberata in due giorni, dopo aver ripulito la città dalle bombe, dagli ordigni e dalle mine lasciate dai jihadisti”. Lo afferma il portavoce del generale libico Al-Ghasri, il giorno dopo la conquista del Centro Ouagadougou, quartier generale dello Stato Islamico nella città. Almeno sedici i miliziani libici uccisi negli scontri di ieri, mentre si ignora il numero delle vittime dei jihadisti, che rimangono assediati in tre aree residenziali e in una villa vicina al mare. Postazioni bombardate da oltre trenta raid americani, che insieme ad altri Paesi occidentali stanno sostenendo lo sforzo militare dell’esercito libico e delle milizie fedeli al governo. Tra questi anche l’Italia, che ha inviato alcune decine di uomini dei corpi d’élite per svolgere operazioni a Tripoli, Misurata e Bengasi. Una risposta all’aiuto chiesto dal premier libico Al-Serraj, ha spiegato il ministro degli Esteri italiano Gentiloni, per dei soldati che rispondono direttamente al presidente del Consiglio e ai servizi segreti.

Lo sforzo internazionale si sta dimostrando decisivo per sconfiggere l’Is, afferma Massimo Campanini, professore di Islamistica e storia dei Paesi islamici all’Università di Trento: 

R. – E’ evidente che l’intervento militare può essere risolutivo e questo ci conduce in qualche modo a chiederci ancora una volta come mai si sia aspettato così a lungo a intervenire in maniera decisa. Questo, non solo in Libia ma anche in Siria e nel Nord dell’Iraq. Questo dimostra anche il fatto che l’Is, dal punto di vista militare, sul campo è destinato alla sconfitta, cioè non ha la forza militare per poter resistere effettivamente a una coalizione internazionale. E questo, naturalmente, può essere pericoloso nella misura in cui chi non ha la forza militare per resistere sul campo, più facilmente poi ricorre al terrorismo.

D. – Dando per scontato poi – ma lo dicono le stesse forze militari libiche – che lo Stato islamico sparirà dalla Libia, almeno questa è l’intenzione: qual è il futuro della Libia senza lo Stato islamico?

R. – Credo che lo Stato islamico non sia mai stato veramente in grado di determinare le condizioni e l’evoluzione della Libia, a prescindere da un coinvolgimento internazionale. Ma comunque rimangono in ogni caso in piedi i problemi costituzionali e istituzionali della Libia: la Libia è un Paese che è stato cucito insieme, a causa del colonialismo, che precedentemente non esisteva; e quindi è evidente che si ripropongano i problemi di sempre: trovare e rifondare un sentimento nazionale che non è mai esistito. Gheddafi teneva insieme i vari spezzoni della Libia inventando una repubblica delle masse che coagulava degli elementi tribali che non erano mai stati univoci e quindi anche questo problema rimane un problema aperto.

D. – Allo stato attuale, l’intervento delle forze occidentali è stato decisivo. Perché ora e in che modo stanno contribuendo al sostegno del governo libico?

R. – Questo ruolo degli americani e dei britannici è decisivo, cioè io non credo che l’esercito libico da solo sarebbe stato in grado di estirpare questa presenza. E’ anche ovvio che le potenze occidentali vorranno avere un guadagno da questo, quindi probabilmente vorranno tenere sotto controllo soprattutto quella risorsa fondamentale che è il petrolio libico. La Libia, tra l’altro, ha un petrolio di ottima qualità, perché è uno dei petroli più puri che ci siano in Medio Oriente. Quindi, oltre ad averne tanto è anche un petrolio puro. Io penso che un intervento occidentale, poi, vorrà essere remunerato, quindi vorrà cercare di condizionare le potenziali evoluzioni dello Stato libico.

D. – Qual è il ruolo dell’Italia in tutto questo? Vediamo che il ministro degli Esteri Gentiloni ha per la prima volta confermato la presenza di forze speciali…

R. – E’ evidente: l’Italia ha un passato coloniale in Libia, oltre ad avere degli interessi relativi al petrolio con l’Eni, fin dai tempi di Enrico Mattei; e in prospettiva questo, secondo me, vuol dire due cose. E cioè, da una parte consolidare gli interessi storico-economici che il nostro Paese ha tradizionalmente in Libia e dall’altra parte garantire una proiezione mediterranea alla politica estera italiana, perché l’Italia ha sempre, tradizionalmente – e deve avere, dal punto di vista geopolitico – una proiezione mediterranea.

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Sudan, i ribelli d'accordo su una roadmap per la pace

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Se nel Sud Sudan rimane alta la tensione a causa dei contnui scontri tra l’esercito regolare del presidente Salva Kiir e le milizie del suo antagonista Riek Machar, nel Sudan la situazione sembrerebbe aver trovato la via della pace. Infatti, i principali gruppi ribelli sudanesi hanno firmato una tregua, promossa dall’Unione Africana, per porre fine ai conflitti nelle tre principali regioni: Darfur, Nilo Azzurro e Sud Kordofan. "La priorità assoluta è fermare le guerre e fornire aiuti umanitari alle popolazioni colpite", è scritto in un comunicato firmato dal gruppo di sudanesi che hanno firmato l’intesa. In questi anni, decine di migliaia di persone sono state uccise e milioni sono state costrette a lasciare le loro abitazioni nelle tre regioni colpite dalla guerra. Sull'intesa ascoltiamo il commento del padre comboniano Giulio Albanese, direttore delle riviste delle Pontificie Opere Missionarie, al microfono di Michele Ungolo: 

R. – Tutto va preso con il beneficio di inventario anche perché poi bisogna vedere se si riesce a passare dalle parole, dalle buone intenzioni ai fatti. 

D. - Cosa accade in questo momento in Sudan e nel Sud Sudan? 

R. - Se mettiamo insieme il Nord e il Sud, il Sudan ricopre una superficie di circa due milioni e 500mila chilometri quadrati; quando era unito era il più grande Paese africano. Ora è chiaro che in alcune zone c’è una relativa calma, in altre c’è una grande instabilità. Chiaramente le zone più nevralgiche sono quelle petrolifere, penso a tutta la zona dell’Upper Nile per non parlare poi della capitale del Sud Sudan, Juba, perché anche lì la situazione certamente è tesa. Nel Sud, se si vogliono davvero fare le cose sul serio bisognerebbe procedere ad un’opera di smilitarizzazione di quelle componenti più riottose all’interno dei due schieramenti. La verità è che a pagare il prezzo più alto è la povera gente, penso soprattutto ai civili, donne, anziani, bambini … Ci troviamo di fronte a generazioni e generazioni di sud-sudanesi che sono nati, cresciuti, alcuni di loro addirittura già morti, nel corso di decenni di guerre civili. Questa è una maledizione che si sta procrastinando nel tempo.

D. - In Sud Sudan quali sono le speranze di pacificazione?

R. - In questi giorni si è parlato della presenza di un contingente delle Nazioni Unite che in una maniera o nell’altra potesse rappresentare e costituire un’ulteriore forza di interposizione rispetto a quello che è il contingente già presente oggi in Sud Sudan. Il problema è che il governo di Juba non ne vuole sapere e questo dimostra che non c’è la volontà politica. Il vero problema di fondo è che sta crescendo la presenza dei militari ugandesi. In altre parole, l’esercito regolare di Kampala sta prendendo sempre di più il controllo di alcuni posti strategici del Sudan meridionale. La vera rivalità è rappresentata da queste “antiche ruggini” tra il presidente Salva Kiir  il suo rivale Riek Machar. Finché questi due signori non si mettono in testa che devono farsi da parte, chiaramente la situazione rimarrà sempre molto, molto precaria.

D. - Che cosa porta l’uomo a farsi la guerra dove ci sono bambini che possono essere colpiti?

R. - Purtroppo quando ci si trova in un contesto bellico si afferma l’egoismo, la violenza, la riottosità, quindi c’è tanta umanità dolente che viene immolata sull’altare dell’egoismo. Ma è chiaro che non ci sono giustificazioni. La verità è che molti ragazzi vengono arruolati, costretti ad imbracciare un fucile e tutte quelle che sono le considerazioni legate al buonsenso saltano nel momento in cui ci si trova in situazioni dove gli interessi di parte prendono drammaticamente il sopravvento. Ma questo è vero per il Sudan e per tutte le periferie del mondo. Come diceva il grande Carlo Levi: la sola ragione della guerra è di non avere ragione, perché dove è ragione non v’è guerra; che le guerre vere ed efficaci sono solo le guerre ingiuste e che le vittime innocenti - donne, anziani e bambini - sono le più utili e di odor soave al nutrimento degli dei. E questa è idolatria, perché la guerra purtroppo è la risultante dell’idolatria.

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Cile, incendiata chiesa: si cerca di sabotare dialogo con i Mapuche

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In Cile, un’altra chiesa è stata incendiata nella regione dell’Araucanìa, abitata dagli indios Mapuche. Ce ne parla Sergio Centofanti

Salgono a 17 le chiese, cattoliche e protestanti, attaccate quest’anno nel contesto della protesta degli indigeni che rivendicano i territori ancestrali, espropriati dai colonizzatori e oggi nelle mani dei latifondisti. Ma c’è chi dubita fortemente che questi attentati incendiari siano opera dei Mapuche, che la Chiesa difende e sostiene. I principali leader nazionali del gruppo etnico hanno condannato questi atti che vanno a colpire il dialogo in corso tra autorità e indigeni per risolvere la questione. Ascoltiamo in proposito Luis Badilla, giornalista cileno e direttore de Il Sismografo:

R. – Quello che si sta dicendo è che il dialogo - che registra un progresso seppur lento e graduale in quella regione dell’Araucanía, dove c’è un conflitto sulle terre da molto tempo - non piace a determinati settori agricoli, sociali, proprietari terrieri sostanzialmente, e che lo scopo di questi attacchi sarebbe quello di riprendere le prime azioni dei Mapuche di anni fa come metodo per destabilizzare questo dialogo, questi progressi che si sono registrati negli ultimi anni.

D. – I vescovi dicono che questi attacchi alle chiese colpiscono la stessa comunità dei Mapuche…

R. – Certo, lo hanno sempre detto, anche perché la Chiesa cattolica cilena da almeno un secolo è molto presente in quella regione. I Mapuche sono cattolici e la Chiesa ha una pastorale specifica per l’etnia Mapuche - noi abbiamo avuto anche vescovi di etnia Mapuche - e la Chiesa ha chiamato a distinguere i primi attentati incendiari, che si potevano attribuire ai Mapuche, e quello che invece adesso viene chiamato come l’impianto anarchico-socialista di gruppi politici estremisti. E al riguardo si ricordano fatti concreti e specifici di gruppi politici che hanno sfruttato la questione.

D. – Qual è la situazione dei Mapuche e quali sono le loro rivendicazioni?

R. – L’etnia Mapuche chiede che lo Stato cileno si riconosca come bi-nazionale, quindi che accetti anche come parte integrante della sua struttura istituzionale la nazionalità Mapuche. Ciò significa poi che tutti abbiano parità di diritti ed opportunità. L’altra questione è forse la più importante: nel 1880 - come data di riferimento - i Mapuche sono stati "sconfitti" dalla società cilena derivata dalla colonizzazione spagnola e sono stati costretti a vivere in una determinata regione, appunto l’Araucanía, e da lì in poi sono stati sottoposti a condizioni di vita infra-umane. Dunque, sono stati espropriati delle loro terre: il problema di fondo, quindi, sono le terre. Sono stati espropriati delle loro terre in modo violento.

D. – Quali sono gli interessi che girano sui territori dei Mapuche?

R. – Giganteschi, perché sono le terre migliori del Cile. Hanno un clima mediterraneo, dove si può coltivare una gran quantità di prodotti agricoli; sono terre poco urbanizzate; sono terre in pianura. Sono, quindi, forse, le migliori terre del Cile, che non ha molte terre agricole. Il Cile è molto lungo, però per la metà è deserto e per l’altra metà è ghiaccio. La zona centrale, il Centro-Sud, dove si trova l’ Araucanía, è la terra più ricca, dove è possibile tra l’altro la coltivazione intensiva e al tempo stesso l’allevamento intensivo. Sono terre sulle quali hanno posto gli occhi anche le multinazionali, non solo i proprietari terrieri cileni.

D. – Cosa potrebbe e cosa dovrebbe fare di più il governo per risolvere la questione Mapuche?

R. – Quello che sta dicendo la Chiesa cattolica. Primo, non cedere a nessun tipo di ricatto, sia che provenga eventualmente da minoranze Mapuche violente sia che provenga da proprietari terrieri con interessi politici o ideologici: non cedere, continuare ad approfondire, intensificare il dialogo con questa etnia che è il 12 per cento della popolazione cilena, non è una piccola minoranza; un dialogo intenso, continuo, serio. Seconda cosa, la prevenzione. Questa è un’altra cosa che va detta. Non è possibile che dopo cinque anni, con oltre 30 chiese bruciate, in Cile, la giustizia, le forze dell’ordine, la polizia, i diversi governi non siano riusciti a fare chiarezza. Quindi lì c’è una debolezza da superare e quella debolezza va superata soprattutto con un lavoro di prevenzione.

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Spagna: le condizioni di Ciudadanos per un governo coi Popolari

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Il comitato esecutivo del Partito popolare spagnolo deciderà il 17 agosto se accettare le condizioni poste dal partito Ciudadanos per formare un governo guidato da Mariano Rajoy. E' quanto è emerso ieri al termine di un incontro tra lo stesso Rajoy e Albert Rivera, leader di Ciudadanos, che ha posto sei condizioni per far parte di una coalizione. Le richieste riguardano la trasparenza e lotta alla corruzione. La Spagna è ancora senza esecutivo, dopo che negli ultimi nove mesi si sono svolte due elezioni politiche, i cui risultati non hanno consentito la formazione di maggioranze di governo. Il servizio di Marco Guerra

Legalità, trasparenza, corruzione e rinnovamento della classe politica. Questi i temi al centro delle sei condizioni poste da Ciudadanos e sulle quali dovranno esprimersi i vertici del Partito popolare. Se le richieste saranno accolte potrebbe sbloccarsi la fase di ingovernabilità che va avanti dalle elezioni del 20 dicembre 2015, a seguito delle quali si è formato il parlamento spagnolo più frammentato nella sua storia. Il ritorno al voto anticipato del 26 giugno scorso ha poi ripresentato la stessa situazione malgrado l’incremento dei voti per i Popolari. Resta infatti indispensabile anche l’appoggio dei Socialisti che contano su 85 seggi al Congresso dei deputati. Il leader del Partito socialista Pedro Sanchez rimane sulla linea del ‘no’, malgrado alcuni dirigenti storici premino almeno per una posizione di astensione. Pressioni in nome della governabilità anche da Rajoy che, in caso di mancato accordo, evoca i fantasmi della terza tornata elettorale in meno di un anno. Per un’analisi sentiamo Antonio Villafranca, responsabile del Programma Europa dell'Istituto degli studi di politica internazionale (Ispi):

R. – Le richieste di Ciudadanos sono abbastanza comprensibili: le hanno definite “richieste di rigenerazione democratica”. Potrebbero essere abbastanza facilmente accettate dalla direzione generale del Partito popolare, con l’eccezione forse dell’ultima delle richieste, che riguarda il caso Barcenas, l’ex senatore tesoriere che ha coinvolto i leader politici del Partito popolare, incluso lo stesso Rajoy. La richiesta è quella di creare una commissione di inchiesta. Le altre richieste riguardano essenzialmente il fatto che nessuna persona condannata per corruzione possa poi ricoprire una carica pubblica. Quindi, tutto in realtà si sta giocando sulla lotta alla corruzione e alla trasparenza; su questa – ovviamente – ha puntato molto Ciudadanos come forza di centrodestra – ma con una posizione molto netta, nel senso di una maggiore trasparenza e pulizia all’interno della classe politica spagnola.

D. – Dopo quest’apertura di Ciudadanos, a che punto è il cammino per formare un governo di coalizione in Spagna? Per Rajoy la strada è ancora tutta in salita: ci sono segnali di una possibile svolta?

R. – La strada è assolutamente in salita; perché, anche se si mettessero insieme, come sembra dopo l’ultima apertura di Rivera, il Partito popolare e Ciudadanos raggiungerebbero 169 seggi. Per la maggioranza assoluta, ne sono necessari 176. Questo vuol dire che Rajoy ha assolutamente bisogno che i Socialisti si astengano nella seconda votazione, quando è sufficiente la maggioranza semplice. Ciò vorrebbe dire creare un governo di minoranza: un governo estremamente debole, che per ciascun atto dovrebbe cercare l’appoggio dei Socialisti: un appoggio che sarebbe tutt’altro che semplice. Quindi è una strada assolutamente in salita; e non è neanche da escludere il ritorno, per la terza volta, alle urne.

D. – Il segretario dei Socialisti, Pedro Sánchez, resta contrario a un’alleanza di governo, malgrado le pressioni di alcuni dirigenti storici come lo stesso Zapatero. Quindi, dal Partito Socialista non dobbiamo aspettarci una possibile apertura per un’alleanza di governo?

R. – Finora Sanchez l’ha sempre esclusa. D’altra parte, il Partito socialista spagnolo si trova nella posizione più delicata; da un lato, perché nel caso in cui avesse fatto, anche già in passato – nelle precedenti tornate elettorali – un’alleanza con il Partito popolare, la base non l’avrebbe capito. Non c’è la stessa cultura politica che possiamo, ad esempio, trovare in Germania. Dall’altro lato, i Socialisti sono schiacciati da Podemos, che ha tolto voti ai Socialisti. Quindi è una posizione veramente complicata per i Socialisti, che in effetti sembrano non sapere bene cosa fare e si spaccano al loro interno. Il leader dei Socialisti chiede invece un ammorbidimento delle opposizioni nei confronti di Rajoy; ma al momento è una situazione di stallo, e non sembra neanche che al momento ci sia, da parte dei Socialisti, una disponibilità anche soltanto ad astenersi al prossimo voto, che potrebbe essere tra fine agosto e settembre.

D. – La minaccia di un ritorno alle urne è realistica o si tratta di pressioni sulla classe politica per arrivare alla formazione di un governo?

R. – In realtà, all’indomani del secondo voto, tutte le forze politiche avevano escluso il ritorno alle urne. Tuttavia, per come le cose si stanno mettendo, se non c’è l’accordo con Ciudadanos; e soprattutto, se non c’è l’attenzione da parte dei Socialisti, obiettivamente non vedo altre possibilità per la creazione di un governo. Quindi, volenti o nolenti, gli spagnoli sarebbero quasi costretti a tornare ancora una volta alle urne. Quello che è emerso dalla precedente tornata elettorale è comunque una crescente volontà di stabilità politica da parte degli spagnoli. Non è un caso che il primo partito, quello di Rajoy – il Partito popolare – abbia raccolto ad esempio quattordici seggi in più rispetto alla tornata elettorale precedente.

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Zambia al voto tra tensioni politiche e crisi economica

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Elezioni generali nello Zambia, dove gli elettori sono chiamati a rinnovare il parlamento, la presidenza della Repubblica e ad esprimersi attraverso un referendum su alcuni emendamenti alla Costituzione. Il Paese, situato al centro dell’Africa australe, dopo anni di stabilità e di crescita, deve affrontare questo tornata elettorale in un clima di tensioni politiche e in piena stagnazione economica dovuta al crollo del prezzo del rame. Il servizio Marco Guerra: 

Una tensione senza precedenti  ha segnato la campagna elettorale che ha portato al voto generale dell'11 agosto in Zambia. La stessa commissione elettorale ha chiesto più volte lo stop alle violenze e ha sospeso le attività politiche in alcune aree del Paese. L’opposizione ha denunciato numerosi attacchi e il bavaglio ai media locali imposto dal governo, tuttavia anche secondo gli osservatori internazionali il voto potrà svolgersi in modo regolare. I candidati più accreditati sono il presidente uscente Edgar Lungu, che è stato in carica solo per un anno e mezzo, e l’uomo d'affari Hakainde Hichilema, leader del partito d’opposizione Partito Unito per lo Sviluppo Nazionale. Lungu, che guida il partito di governo ‘Fronte patriottico’, è entrato in carica nel gennaio 2015 dopo la morte del presidente Michael Sata nell’ottobre del 2014.

Hichilema è tutta l’opposizione hanno cercato di cavalcare il clima di malcontento per un economia che, negli ultimi due anni, è cresciuta ben al di sotto delle attese per via del crollo del prezzo del rame, materia prima di cui lo Zambia è il secondo esportatore del continente africano. Per l’anno in corso è prevista una crescita del 3,7 percento del Pil a fronte di un’inflazione che supera i 20 punti percentuali.

I sondaggi prevedono un testa a testa tra i due principali candidati. E nelle scorse settimane i vescovi del Paese hanno lanciato un appello ad un voto pacifico "armandosi" solo della scheda elettorale. Lo Zambia ha una popolazione di 16 milioni di abitanti ed è definita come una nazione cristiana dalla stessa Costituzione del 1996. È cristiano infatti quasi il 90% della popolazione dello Zambia, di cui il 20% cattolici. Nel quadro regionale dell’Africa Australe resta un Paese considerato stabile.

Per un commento sul contesto politico ed economico dello Zambia abbiamo raccolto l’analisi dell’africanista Raffaele Masto

R. -  Stranamente per lo Zambia – e dico stranamente perché lo Zambia è un Paese abbastanza stabile politicamente almeno fino ad ora, un Paese in cui i presidenti che perdono le elezioni lasciano il posto a chi ha vinto - questa campagna elettorale è stata forse la più violenta della storia recente del Paese. Violenta perché c’è stata una forte opposizione tra il Fronte patriottico del presidente in carica Edgar Lungu e i suoi rivali dell’Unione per lo sviluppo del suo rivale, il presidente Hichilema. Campagna elettorale segnata appunto da violenze anche per la tendenza del presidente in carica a reprimere, a fare pressioni, per esempio anche sui media, perché non ci fossero contestazioni al suo operato. Questa tendenza del presidente in carica ha creato un clima veramente surriscaldato. In realtà il vero motivo di questa campagna elettorale così tesa è il fatto che lo Zambia, uno dei “Paesi miracolo” dal punto di vista economico in Africa, in realtà sta vivendo una forte crisi economica e chi paga di più queste situazioni è chi è al potere.

D. - Si tratta di elezioni generali e si vota anche per decidere su alcuni emendamenti alla Costituzione. Perché questo voto è importante? Che cosa viene chiesto ai cittadini?

R. - Principalmente l’articolo sul quale viene chiesto un emendamento è quello che riguarda la maggioranza per ottenere la vittoria nelle elezioni,  il 50 percento come è un po’ dappertutto. Su questo Egdar Lungu si è fortemente opposto, secondo molti proprio perché lui teme di non raggiungere questo risultato.

D. - Quali sono le sfide che aspettano il nuovo presidente dello Zambia e il nuovo parlamento? Chi andrà ai vertici dello Stato quali temi troverà nell’agenda di governo?

R. - Questo è il vero tema elettorale alla fine. Lo Zambia, Paese tra i più virtuosi del continente africano sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico, in questi anni ha conosciuto una crescita quasi a due cifre della sua economia e poi improvvisamente, come sempre avviene, cambia il vento, c’è la crisi economica e cadono i prezzi delle materie prime sui mercati internazionali. Ricordiamo che lo Zambia è tra i  maggiori esportatori al mondo di rame,  materia prima fondamentale anche oggi come lo era cento anni fa quando si diffondeva l’elettricità e la luce. Il suo prezzo sui mercati internazionali non è più quello di un tempo. Uno dei motivi della crisi economica del Paese è questo, e quando  - questo accade in molti Paesi africani che fanno fatica a diversificare quando hanno una risorsa che può risolvere i problemi della loro economia - cade il prezzo, allora cominciano i problemi. È un po’ il caso dello Zambia che dovrà affrontare principalmente questo problema e dovrà saper rispondere alle delusioni di una popolazione che vedeva nello sviluppo economico, nella crescita e nella stabilità del Paese, una possibilità di raggiungere i livelli di benessere più alti di quelli che invece ha in questo momento.

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Social Forum: Nord e Sud insieme per un altro mondo possibile

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“Un altro mondo è necessario, insieme diventa possibile”, questo il tema del 12.mo Forum Sociale mondiale aperto a Montreal, in Canada, per la prima volta in un Paese ricco e industrializzato. Questo sembra aver penalizzato la partecipazione di massa e di conseguenza l’interesse dei media, oltre a porre in discussione i grandi temi nell’agenda dei lavori, che inaugurati martedì proseguiranno fino a domenica. Il servizio di Roberta Gisotti: 

La Marcia d’apertura nel Parco Lafontaine ha subito rivelato pochi partecipanti - circa 15 mila - rispetto alle precedenti edizioni, a partire dal primo storico Forum nel 2001 a Porto Alegre in Brasile. La scelta di un Paese ricco ha voluto ricucire, rispetto al passato, la frattura Nord-Sud, per affermare che le rivendicazioni di ingiustizia sociale toccano il mondo intero. Ma il Sud povero è rimasto penalizzato, troppo caro - ha commentato qualcuno - viaggiare nel Nord dei ricchi e troppo difficile ottenere i visti in Canada: il 70 per cento delle richieste sarebbe stata rifiutata, hanno denunciato gli organizzatori. E se è presto parlare di fallimento di questo grande raduno mondiale nato come contraltare ai Forum economici del mondo industrializzato, alle direttive dell’Organizzazione mondiale del commercio, alle riunioni del G7 eccetera, va però registrata l’evoluzione dei movimenti noglobal e di protesta sociale ed anche il ripensamento di talune priorità e modalità di presenza ed intervento per incidere nelle politiche dei Paesi.

Resta il grande tema di fondo delle diseguaglianze sociali che vede il 70 per cento della popolazione mondiale vivere con meno di 10 dollari al giorno. E aumenta la consapevolezza di una crescita distruttiva e la lotta al capitalismo che la incarna, contro “un sistema economico basato sulla super-produzione e sul super-consumo” - è stato detto - “direttamente responsabile del cambio climatico” che minaccia il Pianeta e tutti i suoi abitanti. Ma si affermano anche i temi delle guerre incessanti e delle crescenti migrazioni, con i risvolti di odii sociali, xenofobia e razzismo, del traffico di esseri umani e delle energie pulite. 

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Chiara d'Assisi, povera per scelta, innamorata del Vangelo

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La Chiesa oggi ricorda Santa Chiara di Assisi, vergine e fondatrice delle Clarisse: appena diciottenne, nella disapprovazione della famiglia paterna, seguì Francesco abbandonando ogni ricchezza e dedicandosi totalmente alla preghiera. Per aver contemplato sulle pareti della sua cella in una  notte di Natale  i riti che si svolgevano nella Porziuncola è stata dichiarata da Pio XII protettrice della televisione. Paolo Ondarza

Domenica delle Palme 1211. Il silenzio della notte nella campagna di Assisi è rotto dai passi veloci di Chiara, 18 anni. Sa di andare contro la ricca e amata famiglia, ma Dio ha messo in lei il desiderio di vera libertà: vuole essere povera. Quella fuga da ogni sicurezza è l’epilogo di un percorso iniziato sette anni prima quando è spettatrice di un fatto sconvolgente: un giovane ricco, si spoglia dei vestiti, li restituisce al padre e abbraccia Madonna Povertà. E’ Francesco. C’è lui quella notte ad attenderla alla Porziuncola: le taglia i capelli, le fa indossare un saio di lana grezza e le trova riparo in un monastero benedettino.

La luce di Chiara attira altre donne, tra cui la madre e le sorelle: presto saranno una cinquantina. Francesco le chiama “Povere dame” e dispone per loro il piccolo monastero di San Damiano dove ricevette l’invito “Va e ripara la mia casa”. Tra il poverello e Chiara c’è piena comunione, lei si definisce la “sua pianticella” e accompagna la missione dei frati nel mondo con le preghiera incessante insieme alle consorelle. Forte e determinata è la prima donna a scrivere una Regola e ad ottenere l’approvazione papale di questo ardente desiderio: “osservare il Vangelo”.  

La malattia segna i suoi ultimi 30 anni, ma mai recide il contatto gioioso con il Signore nella preghiera: "Niente è tanto grande – scrive – quanto il cuore dell’uomo, lì nell’intimo abita Dio”. Instancabile adoratrice dell’Eucaristia provoca la fuga dei saraceni da Assisi. Muore l’11 agosto 1253 sul nudo pavimento di San Damiano. Sulle labbra l’ultimo rendimento di grazie: “Tu Signore, che mi hai creata, sii benedetto”. Ai funerali partecipa una quantità di popolo mai vista e solo due anni dopo è proclamata santa. 

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi Sud Sudan: governo collabori con comunità internazionale

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Il governo di transizione del Sud Sudan collabori con la comunità internazionale per risolvere le sfide della nazione: è l’auspicio di mons. Erkolano Lodu Tombe, vescovo di Yei. Rivolgendosi ai fedeli durante una celebrazione eucaristica presieduta nella Cattedrale della città, il presule ha incoraggiato i rappresentanti politici a lavorare insieme all’Unione africana per porre fine al prolungato conflitto nel Paese.

Dare speranza alla pace
Da diverso tempo, infatti, il Sud Sudan ha visto riaccendersi gli scontri tra i sostenitori del presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e quelli dell’ex vice presidente Riek Machar, di etnia nuer. Questo nonostante l’accordo di condivisione del potere raggiunto ad agosto 2015. Di qui il richiamo di mons. Lodu Tombe anche agli stessi partner internazionali, affinché aiutino la nazione “a trovare soluzioni alla crisi” e diano ai cittadini “la speranza alla pace ed alla sicurezza”.

Le origini del conflitto
Le origini del conflitto in Sud Sudan risalgono al 2013, dopo un fallito colpo di Stato ai danni di Kiir, che ha costretto oltre 2 milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case. Secondo dati dell’Unicef, circa 16mila bambini sono stati arruolati forzatamente nel conflitto armato, mentre la situazione umanitaria è sempre più critica. (I.P.)

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Zambia: appello dei vescovi per elezioni pacifiche e trasparenti

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Urne aperte oggi, 11 agosto, in Zambia, per le elezioni sia legislative che presidenziali. A sfidarsi per la poltrona di capo dello Stato, nove candidati, tra cui il presidente uscente, Edgar Lungu, e il suo principale sfidante, Hakainde Hichilema. In programma anche il referendum costituzionale riguardante la modifica dell’articolo 79 della Carta fondamentale per aggiungere ai diritti “civili e politici”, già specificati, anche quelli “economici, sociali, culturali ed ecologici”.

Il voto è un diritto-dovere da esercitare in modo libero e pacifico
In vista di questa importante tornata elettorale, la Conferenza episcopale locale ha reiterato il suo appello a votazioni “pacifiche, credibili e trasparenti”. “La democrazia – si legge nel messaggio diffuso dai presuli – richiede, in primo luogo, che tutti i cittadini esercitino il loro diritto di voto in un ambiente libero e pacifico. Per questo, noi Pastori esortiamo tutti gli elettori a votare”. “Mai stancarsi di votare! – è il monito dei vescovi – L’apatia servirà solo a dare maggiori possibilità agli opportunisti”.

L’identikit del candidato ideale
Quindi, senza dare indicazioni specifiche di voto, i presuli ricordano che i candidati ideali dovrebbero essere “competenti sul piano politico, economico e sociale; coraggiosi nel dire la verità; attenti alla giustizia sociale; desiderosi di lavorare per il bene comune invece che per il proprio interesse; disposti a mettere il potere al servizio dei poveri e dei meno privilegiati; aperti al dialogo, all’onestà, all’integrità, alla trasparenza ed alla responsabilità nei confronti dell’elettorato”.

Vigilare sullo svolgimento del voto
Al contrario, sottolinea la Chiesa di Zambia, non sono da tenere in considerazione candidati “arroganti, propensi ad usare la violenza, disonesti, corrotti, capaci di abusi di potere e di malversazione, coloro che hanno interessi etnici o di parte piuttosto che nazionali e comuni”. I vescovi auspicano, poi, che tutte le organizzazioni incaricate di monitorare lo svolgimento delle elezioni siano “adeguatamente preparate”, “indipendenti e libere da manipolazioni”, così da “dare alla popolazione informazioni veritiere”.

Appello ai giovani: siate artefici di un Paese migliore!
Un ulteriore appello viene rivolto ai mass-media affinché seguano “i principi etici della correttezza e della verità” nell’informazione, assicurando “una copertura mediatica completa e corretta per tutti i partiti politici”. Anche i giovani vengono chiamati in causa: a loro, la Chiesa in Zambia chiede di “essere artefici di un Paese migliore, agenti di pace e di riconciliazione”, rifiutando di “essere utilizzati come strumenti di violenza da parte di politici senza scrupoli”.

Costruire la pace
Infine, i vescovi reiterano l’esortazione a tutti i cittadini a “comprendere che il voto è un diritto-dovere fondamentale” ed “è anche un dovere cristiano”. Per questo, è importante votare “in spirito di onestà, evitando brogli”. L’auspicio è che l’intero Paese si impegni “a costruire la pace, evitando ogni forma di violenza”. (I.P.)

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Religiose Usa: campagna elettorale sia libera da odio e paura

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Una campagna elettorale libera dalla “retorica dell’odio e della paura” e improntata a un “dialogo rispettoso” con gli avversari. È quanto chiedono 5.671 religiose americane in una missiva consegnata lunedì scorso ai candidati alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

Non demonizzare l’avversario
“Chiediamo semplicemente che tutti coloro che aspirano a dirigere il Paese si astengano da un linguaggio irrispettoso, disumanizzante e demonizzante” e di “cercare il bene comune, di desiderare solo il bene per gli altri e di presentare le proprie verità con convinzione, ma anche con umiltà”, si legge nella lettera scritta dalla Leadership Conference of Women Religious (Lcwr), un’organizzazione che rappresenta circa l’80 per cento delle 49mila religiose negli Stati Uniti.

Il fine della politica è il perseguimento del bene comune
Il testo – riferisce l’agenzia Cns - ricorda l’esortazione rivolta da Papa Francesco ai membri del Congresso degli Stati Uniti , nel settembre 2015,  “a salvaguardare e a garantire la dignità” dei cittadini americani “nell’instancabile ed esigente perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica”.

Non si può lasciare che vincano le voci dell’odio e della paura
Per le religiose americane, purtroppo, la politica oggi è invece sempre più condizionata “da interessi particolari e caratterizzata da una retorica meschina”, in un sistema “paralizzato dall’estremismo ideologico e da un eccessivo spirito partigiano”. “Troppo spesso i contendenti fanno appello agli istinti più bassi e soffiano sul fuoco delle paura che distruggono il tessuto della nazione”, denuncia la lettera, senza indicare esplicitamente gli eccessi e gli attacchi verbali dei candidati che stanno segnando questa campagna elettorale.  “Non possiamo lasciare che vincano le voci dell’odio e della paura”, concludono le religiose. (L.Z.)

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India: celebrato “Black Day” contro la discriminazione dei dalit

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La comunità cristiana “non chiede alcun favore speciale, ma solo giustizia, uguaglianza e protezione per le minoranze, garantita dalla Costituzione del Paese”. Con queste parole, il card. Oswald Gracias, presidente della Conferenza episcopale indiana (Ccbi), ha ricordato le ragioni del “Black Day”, il giorno di protesta celebrato nel Paese il 10 agosto di ogni anno, contro le discriminazioni nei confronti dei così detti “fuori casta”, in particolare quelli cristiani.

La legge attuale
La data – spiega l’agenzia AsiaNews - ricorda il 10 agosto del 1950, quando il presidente dell’India approvò l’art. 3 della Costituzione sulle caste. La legge riconosce ai membri delle caste vari diritti, ma il terzo paragrafo della norma specifica che non può essere membro di questi gruppi “chi professa una religione diversa dall’induismo”. Nel 1956 e nel 1990 sono stati introdotti emendamenti per estendere la categoria anche a buddisti e a Sikh, mentre ne sono tuttora esclusi i cristiani e i musulmani. Grazie a questa legge, i dalit indù hanno facilitazioni di tipo economico, educativo e sociale, con quote di posti di lavoro assegnati nella burocrazia.

Discriminazioni violano i principi costituzionali
I dalit cristiani e islamici hanno da tempo tacciato di illegalità la norma, che viola principi costituzionali fondamentali come l’uguaglianza, il divieto di discriminazioni per la propria fede e la libertà di scegliere la propria religione. Da ricordare che i dalit cristiani sono circa due terzi della comunità cristiana nazionale, che conta per il 2,3% della popolazione totale.

Celebrare la Giornata in ogni diocesi
In occasione del 66.mo anniversario della legge, la Ccbi ha quindi invitato tutti i cattolici ad osservare “il Black Day nelle rispettive diocesi e istituzioni” e ad utilizzare i social media per sensibilizzare la società sull’argomento. “Gli indicatori della sviluppo dei dalit cristiani – continua il card. Gracias – mostrano discriminazioni di tipo sociale, economico, politico e culturale, che portano a differenze nei salari e nel grado di povertà, a difficoltà nelle opportunità e nell’accesso a risorse e servizi. Il governo deve interrompere questa differenza di trattamento”. (I.P.)

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Corea Sud: la Chiesa ricorda le persecuzioni anti-cattoliche

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“Martirio e misericordia”: su questo tema l’arcidiocesi di Seoul promuove, dal 24 agosto al 30 ottobre, un ricco programma di appuntamenti culturali per celebrare il Giubileo in concomitanza con il 150° anniversario delle persecuzioni anti-cattoliche di Pyong-in. Gli eventi saranno ospitati nella Cattedrale di Myeong-dong e nell’arcivescovado. 

Un ricco programma di eventi
L’iniziativa rientra nello Anno speciale indetto dall’arcivescovo della capitale, card. Andrew Yeom Soo-jung, per commemorare l’ultimo grande martirio del XIX secolo dei cattolici coreani, perseguitati ed uccisi a migliaia tra il 1866 e il 1872 a causa della loro fede. Il programma prenderà il via con un seminario e l’inaugurazione di una mostra dell’Associazione degli artisti cattolici locali in cui saranno esposte una sessantina di opere incentrate sul tema della misericordia e del martirio. Dal 4 al 9 settembre l’Associazione Teatrale Cattolica di Seoul si esibirà in una rappresentazione sul martire Joseph Im Chi-baeg.  Seguirà, il 29 settembre, l’Oratorio "Father Thomas Choi Yang-eop, the Apostle of Love!" e i "Vesperae Solennes de Confessore, K.339” di Wolfgang Amadeus Mozart eseguiti dall’Aquinas Choir and Saint Kim Tae-gon Choir.  A concludere, dal 27 al 30 ottobre, la terza edizione del Festival del cinema cattolico dal titolo “Life Together” con in programma una cinquantina di film, documentari, corto-metraggi e film di animazione.

L’ultima grande persecuzione contro i cattolici coreani del XIX secolo
I massacri di Pyong-in furono l’ultima grande persecuzione contro la Chiesa in Corea prima della concessione ai cattolici della libertà di culto nel 1884, un secolo dopo la conversione al cattolicesimo di Lee Seung Hun, primo battezzato coreano che diede il via all’evangelizzazione del Paese. Le persecuzioni del XIX secolo costarono la vita a più di 10mila martiri, pari a circa la metà dei cattolici dell’epoca. Di questi martiri, 79 sono stati beatificati da Pio XI nel 1925; altri 24, uccisi nel  1866, sono stati beatificati da Paolo VI nel 1968; 103, tra i quali padre Andrea Kim Taegon, sono stati canonizzati da San Giovanni Paolo II nel 1984 e 124, tra i quali Paul Yun Ji-Chung, sono stati beatificati da Papa Francesco il 16 agosto 2014, durante il viaggio apostolico nella Repubblica di Corea. (A cura di Lisa Zengarini)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 224

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.