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Sommario del 16/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Incendi in Portogallo, dolore e solidarietà di Francesco

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Papa Francesco ha espresso in un telegramma il proprio cordoglio per le vittime provocate dalla serie di gravissimi incendi che hanno colpito alcune aree del Portogallo. Moltissimi gli sfollati e ingente il disastro naturale causato dalle fiamme. Il servizio di Alessandro De Carolis

“Coraggio”, la “speranza cristiana” via dia “consolazione”. Francesco cerca di arginare con la forza della sua solidarietà il dolore del dramma che da giorni scuote i villaggi della catena montuosa della Serra da Arada, zona montuosa in Portogallo, dove circa 900 Vigili del fuoco stanno battagliando contro gli incendi che hanno ucciso tre persone, causato migliaia di sfollati e incenerito 100 mila ettari di foreste. Centinaia i roghi dall’inizio della settimana, moltissimi ancora quelli attivi. “È una lotta impari – ha detto un responsabile delle operazioni – perché non dipende solo da noi, le condizioni meteorologiche sono un fattore importante, noi facciamo del nostro meglio”. Migliora invece la situazione nell’isola di Madeira, tenuta sotto controllo. “Costernato” da queste notizie, il Papa ha espresso “solidarietà e vicinanza spirituale” agli sfollati, gratitudine per chi lotta contro le fiamme e levato una preghiera di pronta guarigione dei feriti e di cordoglio per le vittime. Il suo messaggio, a firma del segretario di Stato Pietro Parolin, è stato letto ieri, Solennità dell’Assunta, durante le celebrazioni per la Madonna del Monte, Patrona di Funchal.

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Papa: area del Mediterraneo luogo di accoglienza per i migranti

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“Cultura dell’accoglienza” e “solidarietà” nei confronti dei migranti in particolare. Papa Francesco ha auspicato che un “rinnovato impegno” in favore di questi valori possa maturare tra i giovani partecipanti all’incontro “Mediterraneo - Un mare di ponti”, svoltosi a Santa Maria di Leuca, in provincia di Lecce. Nel messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, Francesco – si legge – “incoraggia a considerare la presenza di tanti fratelli e sorelle migranti un’opportunità di crescita umana, di incontro e di dialogo tra culture e religioni, come anche un'occasione per testimoniare il Vangelo della carità”.

Lo scorso 14 agosto, nella cittadina pugliese è stato presentato, alla presenza e con la benedizione di mons. Vito Angiuli, vescovo di Santa Maria di Leuca, un documento per rilanciare il sogno del Mediterraneo come Arca di Pace e luogo dove costruire ponti di solidarietà.

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Tratta. Suor Rita: Francesco, alleato della dignità femminile

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“Maria ci porta anche a pensare alle donne sopraffatte dal peso della vita e dal dramma della violenza, alle donne schiave della prepotenza”. Così ha detto il Papa all’Angelus di ieri, durante il quale ha rivolto una preghiera perché le donne perseguitate, private della loro dignità, vittime della tratta di esseri umani, possano ritrovare una vita di pace, giustizia e amore. Eugenio Murrali ha chiesto a suor Rita Giaretta, di "Casa Rut", a Caserta, una riflessione sulle parole del Pontefice: 

R. – Sono state parole che ci hanno toccato profondamente nel cuore e nella vita, perché sentiamo che c’è un pastore, un padre, un Papa, che ha accolto, ha capito il dramma che stanno vivendo, purtroppo, ancora oggi, sempre di più, tante donne. Il Papa ha un messaggio forte, di vicinanza, però muove un richiamo anche alla responsabilità, o forse all’irresponsabilità, degli uomini, alla loro cupidigia. C’è un bisogno, ora, di costruire relazioni nuove. Spesso noi insieme guardiamo, ascoltiamo l’Angelus del Papa a mezzogiorno e ho visto, ho sentito vibrare gli sguardi, i cuori di queste ragazze. Ne avevamo bisogno, ecco. Sentiamo che il Papa è un alleato.

D. – Chi sono queste donne che arrivano nella vostra comunità?

R. – Oggi, soprattutto, sono giovani donne, a volte anche minorenni, che arrivano in particolare dall’Africa subsahariana, soprattutto dalla Nigeria. Ma tempo fa abbiamo avuto anche parecchie ragazze dall’Est, dall’Albania, dalla Romania e dalla Moldavia. Oggi, però, con tutti questi flussi migratori, moltissime di loro sono ragazze giovanissime nigeriane. A volte arrivano portando in grembo un figlio, magari frutto di violenza, di stupri vissuti durante il viaggio. Penso alla traversata del deserto. Penso al tempo, poi, che sono costrette a vivere in Libia. Quasi nessuna ha il coraggio di parlare delle sua storia, di quei viaggi disumani. E una volta arrivate qui in Italia, pensando si potesse realizzare questo sogno di speranza, di vita diversa, si ritrovano di nuovo in un inferno. Quindi, sono proprio donne macerate, massacrate nei loro corpi, avvilite nella loro dignità, senza sorrisi, con i volti spenti. Ma che bello vedere poi, pian piano, giorno dopo giorno, che ritorna quel sorriso. Quando io sento una ragazza che dice “mamma” – perché così ti chiamano soprattutto le ragazze africane, perché siamo donne che si prendono cura della loro vita fino in fondo – allora, che bello, che brivido sentirsi dire “mamma”. Ecco, questa fecondità spirituale, piena, che restituisce vita.

D. – Come entrano in contatto con voi?

R. – Queste ragazze arrivano, a volte, anche con nostra grande sorpresa. Le vie sono le più svariate: può essere la polizia che, facendo una retata o girando per le strade, incontra una ragazza che poi capisce che è la vittima di questa situazione di sfruttamento e quindi ce la porta, possono essere altre associazioni. Ma molte ultimamente stanno arrivando con il passaparola, perché ormai la nostra realtà opera da più di 20 anni in questa missione. C’è un tam-tam anche tra loro e a volte apriamo la porta al mattino per uscire e troviamo lì una ragazza seduta sul gradino che sta aspettando che apriamo la porta. Magari ha solo una borsetta accanto o un sacchettino dell’immondizia, dove ha messo dentro qualcosina. Guarda con questi due occhi che vedi tristi di una tristezza infinita e chiede: “Help, help, help... Aiutami, aiutami...".

D. – C’è una storia felice che vuole raccontare? Una storia in cui siete riuscite a ridisegnare il sorriso sul volto di queste ragazze?

R. – Sarebbero tante le storie felici, tante, tante. Ma quella che più mi è cara è proprio quella di una ragazzina quindicenne, una ragazzina albanese che, quando è stata portata qui dai Carabinieri, abbiamo scoperto da un gesto, da come teneva un peluche in braccio, che probabilmente era anche madre, aveva avuto un figlio. Sono riuscita a dirgli: “Ma tu hai avuto un figlio?”. E lei, guardandomi, con le lacrime: “Sì, però non so dov’è”. Questo figlio era già finito in una rete di vendita, qui nel nostro casertano. Abbiamo ampliato la denuncia con i Carabinieri e siamo riusciti a ritrovare questo bambino, che era nato da appena qualche mese. Poi, il giudice – che poteva pensare che la ragazza fosse anche lei complice di non aver accolto il figlio, di averlo messo in vendita e lasciato in mano a questa banda – ha capito che la ragazza non c’entrava niente ed era doppiamente vittima: vittima sulla strada, vittima poi perché rimasta incinta si era trovata costretta a lasciare questo figlio. Insomma, l’ha affidata alla nostra comunità. Assieme a questa ragazzina abbiamo fatto un cammino stupendo. Ecco, a distanza di anni – sono passati dieci anni – oggi è una mamma felice, è sposata con un ragazzo italiano che le vuole un mondo di bene e ha avuto anche un’altra bambina.

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Oggi in Primo Piano



Yemen. Nuovo raid su un ospedale di Msf, 11 morti e 19 feriti

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Ieri pomeriggio, nello Yemen un raid aereo ha colpito l'ospedale di Abs sostenuto da Medici senza frontiere. Unidici le vittime, tra le quali anche un membro della ong, e una ventina i feriti. Il bombardamento è avvenuto nel nord del Paese, in una zona controllata dai ribelli Houti, che accusano del raid la coalizione araba a guida saudita intervenuta nel Paese a sostegno delle forze presidenziali. Per Msf si tratta di un attacco inaccettabile. Questa, ricordano, è la quarta struttura dell'Organizzazione medica colpita in Yemen negli ultimi 12 mesi. Nell'Abs Hospital al momento del bombardamento c'erano circa cento pazienti. Elvira Ragosta ha intervistato Federica Nogarotto, direttrice del Supporto alle operazioni per Medici senza frontiere: 

R. – Stiamo parlando di un ospedale che era il principale centro sanitario in funzione in tutta l’area occidentale del governatorato di Hajjah. Medici senza frontiere è presente in quell’ospedale da luglio 2015 e quest’anno abbiamo curato più di 4.500 pazienti. I pazienti erano aumentati, soprattutto nelle ultime 48 ore: abbiamo ricevuto infatti dalla scuola che è stata bombardata qualche giorno fa 28 pazienti tra i 6 e i 15 anni – stiamo parlando di bambini – di cui 10 sono arrivati in ospedale che erano già morti e 28 erano feriti.

D. – I ribelli houthi che controllano la regione di Hajjah hanno attribuito la responsabilità del raid alla coalizione a guida saudita, che nel frattempo ha annunciato l’apertura di un’inchiesta indipendente. Voi come ong avevate più volte condiviso con le parti in conflitto le coordinate gps dell’ospedale…

R. – Avevamo e continuiamo a condividere sempre tutte le coordinate gps di tutti gli ospedali in cui lavoriamo. Inoltre, a maggio c’era stata una risoluzione delle Nazioni Unite che chiedeva di porre fine agli attacchi contro le strutture mediche che dovrebbero essere – in teoria – protette dal diritto internazionale umanitario. In meno di 12 mesi, solo in Yemen, questo è il quarto ospedale! Quindi, vediamo quali sono le tragiche conseguenze del bombardamento di un ospedale, perché un ospedale che è in funzione, che è pieno di pazienti, dove abbiamo staff sia nazionale sia internazionale, è stato bombardato in una guerra che non mostra, appunto, nessun rispetto per le strutture mediche e per i pazienti.

D. – Quante sono le strutture sanitarie che supportate nel Paese?

R. – Nel governatorato di Hajjah, quello dove siamo stati colpiti ieri, aiutiamo anche in altri 11 ospedali e centri sanitari. E poi abbiamo altri 18 ospedali nel resto del Paese.

D. – Com’è la situazione umanitaria?

R. – Questa ultima ondata di guerra, in questi ultimi due anni, ha reso la popolazione molto debole e molto vulnerabile. Dal punto di vista sanitario, lo Yemen non era – neanche prima di quest’ultima ondata di guerra – tra i Paesi con la maggiore capacità di risposta sanitaria, e parliamo proprio di aspetti basilari, come la malnutrizione, le vaccinazioni… Chiaramente, nel momento in cui le strutture sanitarie, gli ospedali, sono nel mirino degli attacchi, tutto ciò si indebolisce ancora di più. Tra l’altro, questa è una popolazione che vive in un mondo abbastanza moderno, quindi con le malattie del mondo moderno e quindi, per esempio, con le malattie croniche, quelle che abbiamo anche noi – disfunzioni cardiache, diabete – che quindi dipendono da medicinali che dovrebbero essere presi tutti i giorni perché sono malattie croniche per tutta la vita. Ora, manca tutto l’approvvigionamento di questi medicinali, che già si stava limitando prima e ora sta diventando sempre meno perché non possono entrare i medicinali all’interno del Paese.

D. – C’è difficoltà a reperire, oltre a medicinali e attrezzature, anche aiuti di tipo medico?

R. – Certo, ci sono moltissime difficoltà. Sono poche le organizzazioni internazionali che possono e hanno degli accordi con il governo e a cui e permesso importare questo tipo di medicinali. Altrimenti, non è possibile…

D. – Al momento, l’ospedale di Abs è stato evacuato. Cosa accadrà ora al personale, ai pazienti, alle attrezzature e ai materiali?

R. – I pazienti sono stati evacuati e stiamo cercando di trasportarli negli ospedali più vicini della zona, che possano attenderli. Il personale – sia internazionale sia locale – lo stiamo evacuando, chiaramente. Prima sulla capitale e poi fuori dal Paese, a seconda delle loro nazionalità. L’ospedale verrà – si spera – rimesso nelle condizioni di poter, pian piano, con il tempo, operare. E’ chiaro che qua non stiamo parlando di un piccolo danneggiamento, ma si tratta di danni abbastanza consistenti, per cui si tratta praticamente di doverlo ricostruire.

D. – La speranza e l’appello di Medici senza frontiere…

R. – L’appello è di smettere tutti gli attacchi contro i civili e contro gli ospedali. Il fatto che diventi una forma  l’attacco a infrastrutture civili è assolutamente intollerabile.

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Usa. Afromericano ucciso dai poliziotti, proteste a Milwaukee

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Ennesima recrudescenza di violenza negli Stati Uniti, dove a Milwaukee, l’uccisione di un afroamericano da parte di un poliziotto ha scatenato nuovi scontri fra la comunità nera e gli agenti. Il sindaco ha istituito il coprifuoco per i minorenni della città. Alla ribalta della cronaca anche l’assassinio di un imam a New York. Arrestato il sospetto e già si punta il dito al clima di odio razziale alimentato dal candidato alle primarie di parte repubblicana, Donald Trump. Un’analisi sulle specificità di questi episodi e sul clima che si repira negli Stati Uniti, Paola Simonetti l'ha chiesta a Giampiero Gramaglia, giornalista, consigliere dell’Istituto Affari Internazionali: 

R. – C’è un passato di tensione tra la comunità nera e la polizia di Milwaukee, ma non più spesso e più tragico dei passati che esistono in altre città degli Stati Uniti. E ci sono specificità di questo episodio che lo rendono, agli occhi dell’opinione pubblica americana, meno inaccettabile di altri, anche molto recenti e che sono stati all’origine di questa estate calda di tensioni razziali. Il fatto che il giovane ucciso fosse noto alla polizia, autore già di numerosi reati, armato e con una pistola con pallottole in canna, e il fatto che il poliziotto che l’ha ucciso non solo fosse un nero, ma fosse anche un ragazzo come lui… Ci sono elementi particolari, in questi episodio, che lo differenziano da altri. C’è anche il fatto che la tensione è esplosa, sì, in modo molto violento anche a Milwaukee, ma ha contagiato meno di altre volte il resto dell’America. Questo perché il movimento dei neri probabilmente ha colto la differenza e la valenza diversa di questo episodio rispetto ad altri.

D. – La polizia statunitense usa davvero spesso una forza sproporzionata contro i neri nello specifico o è la prassi, come dire, più generalizzata, magari contro una violenza diffusa in modo trasversale?

R. – La tendenza della polizia negli Stati Uniti a usare una violenza che noi giudichiamo – noi europei – tendiamo a giudicare sproporzionata e diffusa, come è diffusa nella società americana la tendenza a ricorrere alla violenza in modo sproporzionato rispetto a quello che noi considereremmo normale o accettabile, l’uso delle armi da fuoco è prassi corrente mentre da noi è fatto eccezionale… Però, il presidente Obama ha detto una frase, nel luglio scorso, che è corretta: “La comunità nera e – lui ha aggiunto – anche la comunità ispanica, sono tuttora oggetto di discriminazioni da parte delle forze dell’ordine americane nel modo in cui vengono fronteggiate e contrastate”.

D. – Però, c’è ora anche la notizia di questo imam e del suo assistente che sono stati uccisi a New York, ma in molti stanno puntando il dito contro il clima di odio razziale innescato dalla campagna elettorale di Trump contro la comunità islamica, ma non solo: contro le comunità immigrate. Tu che ne pensi?

R. – Il delitto di New York, anche a giudicare dalle informazioni che abbiamo finora sulla persona arrestata ritenuta responsabile, non avrebbe motivazioni di odio razziale. E' possibile che si tratti di un musulmano che ha ucciso un musulmano ed è possibile che si tratti di motivi personali o inerenti a logiche interne alla comunità. Però, il segnale d’allarme venuto dalle comunità musulmane d’America che c’è un clima di tensione nei loro confronti è indubbio. Le incitazioni all’intolleranza che vengono da Donald Trump e che anche una parte dei conservatori moderati rimproverano a Donald Trump contribuiscono senz’altro a rendere più teso in questo momento il clima delle relazioni fra religioni e delle relazioni tra componenti etniche negli Stati Uniti.

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Aleppo, vicina intesa Usa-Russia. Jet Mosca schierati in Iran

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Russia e Stati Uniti sono vicini a un accordo su operazioni congiunte per liberare Aleppo dalla morsa dell’assedio. Il ministro della Difesa russo, Shoigu, spiega che l’obiettivo è far tornare le persone nelle loro case. Più cauti i toni del dipartimento di Stato Usa, secondo cui non vi è ancora nulla da annunciare. Intanto, per la prima volta jet di Mosca si sono partiti da basi iraniane per colpire obiettivi di diversi gruppi jihadisti. Il servizio di Marco Guerra: 

I contatti tra americani e russi per mettere a punto un’azione comune per liberare Aleppo sono regolari, ha spiegato il ministro della Difesa russo, Serghiei Shoigu. Secondo la Cbs, colloqui diretti tra le due parti continuano a Ginevra e non esiste una scadenza, ma l'auspicio è di raggiungere un’intesa prima che il presidente Obama e quello russo Putin si incontrino i primi di settembre per il G20. L’accordo riguarderebbe solo Aleppo ma rappresenterebbe comunque un punto di svolta nell’ottica di tutto il conflitto in Siria, rispetto al quale Usa e Russia finora si sono schierati su posizioni quasi opposte. Sempre più stretta intanto la cooperazione tra Mosca e Teheran. La Russia ha schierato bombardieri in Iran, nell'aeroporto Hamadan, che sono entrati in azione oggi colpendo depositi, campi d'addestramento e posti di comando dei miliziani che operano nella zona di Aleppo. Sulla possibile collaborazione tra Stati Uniti e Russia sentiamo il parere di Alberto Negri, esperto dell'area mediorientale per “Il Sole 24 Ore:

R. – Stati Uniti e Russia stanno negoziando da mesi sulla questione siriana. Il problema non è questo, ma capire cosa si vuole fare davvero dopo dell’Is. Gli Stati Uniti avevano già proposto alla Russia una soluzione di spartizione in zone di influenza tra il centronord a Bashar al Assad, alla Siria e all’Iran, cioè al cosiddetto “asse della resistenza”, e il nord sotto l'influenza degli Stati Uniti. La realtà è che la tregua ad Aleppo, se ci fosse veramente, sarebbe veramente qualcosa che andrebbe a beneficio della popolazione, ma poi sul problema della sistemazione siriana credo che le questioni siano ancora più complesse e soprattutto sarà molto complesso stabilire cosa fare dell’Is dopo la sua sconfitta militare.

D. – I jet militari russi stanno partendo dall’Iran…

R. – Certamente un coinvolgimento diretto dell’Iran come piattaforma, come base per i bombardamenti russi in Siria in qualche modo introduce un ulteriore elemento che ci fa capire quale sia oggi il tipo di alleanza che c’è tra Mosca e Teheran. E' un’alleanza molto forte quella che in pratica ha portato con l’intervento russo del 30 settembre 2015 all’arrivo di truppe russe in Siria e al salvataggio del regime di Bashar al Assad. Indica che comunque nulla in quella regione, in quell’area si farà senza Mosca, tanto meno senza l’Iran.

D. – Lo Stato islamico è in ritirata su molti fronti. I peshmerga hanno conquistato alcune città nel nord della Siria e il governo iracheno avanza verso Mosul…

R. – La  guerra in Siria e la guerra in Iraq sono due situazioni diverse: in Iraq la coalizione che sta combattendo è a guida comunque americana e in qualche modo sostiene il governo sciita di Baghdad. In Siria ci sono due coalizioni: una a guida russa che sostiene Bashar al Assad e l’altra a guida americana che ha come alleati i curdi siriani e una parte delle milizie arabe. Quindi, si capisce molto bene che da una parte la conquista di Iraq capitale del Califfato in Siria e dall’altra parte l’assedio a Mosul sono due cose molto diverse. In Siria c’è in corso una sorta di "grand prix", di gran premio per arrivare per primi alla conquista di Raqqa. Certamente, il problema dei curdi è evidente: non hanno mai conquistato neppure Kirkuk dopo la caduta di Saddam Hussein, quindi è inimmaginabile che oggi possano conquistare Mosul e strapparla alle mani del Califfato e controllare un’area a grande maggioranza araba e sunnita. Questo è il problema vero della questione: le conquiste militari che verranno fatte sul Califfato determineranno anche una possibile sistemazione politica futura ritagliando delle zone di influenza. Inoltre, c’è la questione di riciclare i jihadisti del Califfato, ci stanno provando con il solito sistema. Jabhat Al Nusra, affiliata di al Qaeda, ha cambiato nome e lì confluiranno una parte di jihadisti transfughi del Califfato.

D. – Si parla tanto dell’offensiva finale su Raqqa e Mosul. Parliamo comunque soprattutto, per la seconda, di una grande citta di quasi due milioni di abitanti. È immaginabile un attacco senza prevedere decine di migliaia di vittime anche tra i civili?

R. – Infatti, nessuno ha detto che oggi stanno facendo un’offensiva su Mosul: ci sono voluti mesi per riconquistare Ramadi e poi anche Falluja, figuriamoci Mosul. Oltre tutto si tratta di una zona minata, difficile da controllare. Prima di conquistare Mosul devono rendere sicure le retrovie. Chi poi, soprattutto? L’esercito iracheno di Baghdad con il supporto magari anche degli americani, magari delle milizie sciite? Quindi, si capisce molto bene che si tratta di un’operazione delicata per il controllo di una città così ampia, così grande. Quella di Raqqa è una situazione diversa. È da tempo che si trova sotto pressione delle truppe siriane e anche dei russi. Raqqa è una città che, se venisse conquistata, comunque darebbe a chi se la porta a casa in qualche modo una certa legittimazione sul piano internazionale. Ecco perché c’è questa concorrenza fra la coalizione a guida americana e quella a guida russa.

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Gaza. P. Abusahlia: ricostruzione ferma, la gente è stremata

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Nessuna ricostruzione per la striscia di Gaza e un aumento demografico che pare non avere alcuno sbocco. E’ la situazione a due anni dall’ultima campagna militare israeliana nella Striscia, contro il lancio di razzi da parte dei miliziani di Hamas. La popolazione vive nell’isolamento e nella frustrazione e la minaccia di una nuova guerra è sempre più forte. Gabriella Ceraso ha raccolto la drammatica testimonianza e l’appello a non dimenticare questa realtà, del direttore della Caritas Gerusalemme, padre Raed Abusahlia

R. – Dopo la fine della guerra, l’8 agosto 2014, la situazione va peggiorando. Ci sono due milioni di persone nella più grande prigione a cielo aperto. Tutti sanno che avranno bisogno di cinque anni e di cinque miliardi di dollari per ricostruire quello che è stato distrutto in 52 giorni. I soldi non sono arrivati, i nostri amici israeliani non lasciano entrare la materia prima per ricostruire, forse hanno paura che queste materie possano essere utilizzate da Hamas per costruire questi tunnel. Quindicimila mila case sono state completamente distrutte. Non hanno neanche tolto le macerie e anche per fare queste operazioni sono necessari duemila camion. Ma il problema è questo: dove mette la Striscia di Gaza che è un piccolo pezzo di terra di 360 km quadrati dove vivono due milioni di persone, la più alta densità del mondo?

D. – Un milione di abitanti ha meno di 14 anni. Quindi, tanti giovani e tante nuove nascite…

R. – Io non so che cosa faranno questi poveri! Non troveranno lavoro! Il rapporto dell’Onu che si chiama “Gaza nel 2020” dice che se la situazione continua in questo modo, Gaza non sarà visibile e in questi primi sei mesi abbiamo avuto 24.194 nascite. Questo vuol dire che per il 2016 avremo almeno 50 mila nascite. E tra tre quattro cinque anni avremo bisogno di altre 50 scuole. Dove mettere questi bambini? Nessuno può uscire qui a Gaza. La gente è delusa, è triste e depressa. Tre guerre: 2008, 2012, 2014 e niente è cambiato nella nostra vita quotidiana dunque a cosa servono queste guerre?

D. – Perché lei dice che c’è il timore che una nuova guerra cominci?

R. – Secondo me entrambe le parti, Hamas e Israele, si preparano alla prossima guerra. Aspettano la scintilla che fa bruciare tutto.

D. – Sappiamo che tanti cristiani di Gaza sono andati via e non sono ritornati…

R. – Nel Duemila, c’erano cinquemila cristiani, prima della guerra del 2014 erano 1.313, oggi sono 1.100, perché ogni volta che Israele dà permessi ai cristiani a Natale e a Pasqua quelli che escono vengono qui a Betlemme, vanno a Gerusalemme o a Ramallah e non tornano. Il 34% delle famiglie di Gaza non ha nessuna fonte di reddito. Almeno il 45% delle persone è disoccupato, l’elettricità arriva cinque ore al giorno, l’acqua non è potabile perché è salata perciò i nostri cristiani dicono: “Se noi possiamo uscire da Gaza a cosa serve tornare in una grande prigione?”

D. – Vogliamo lanciare un appello che sia anche una speranza?

R. – Noi non possiamo perdere la speranza. Aspettiamo la nostra risurrezione che verrà. Prima di tutto, i palestinesi e gli israeliani devono mettersi intorno a un tavolo negoziale e arrivare alla soluzione del conflitto o almeno a un cessate-il-fuoco e poi la comunità internazionale deve fare pressioni per aiutare le parti a fare la pace

D. – Credo sia importante soprattutto non dimenticare quest’area anche grazie alla sua testimonianza…

R. – Noi siamo in uno stato di emergenza continuo da 68 anni. Il cuore dei conflitti nel mondo è qui a Gerusalemme... Se loro vogliono la pace a Washington, a Parigi, a Bruxelles, in Iraq, in Siria, nel mondo arabo, devono fare la pace a Gerusalemme. Gerusalemme è la porta della pace e la porta della guerra.

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Filippine, i vescovi a Duterte: fermare omicidi extragiudiziali

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Nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte ha rimosso 150 tra politici, magistrati e militari per presunti legami con i narcotrafficanti. La lotta alla droga è una della priorità del nuovo presidente, ma i suoi metodi sono spietati. Nelle ultime settimane sono state uccise dalla polizia più di 300 persone solo perché sospettate di spacciare. La Chiesa filippina ha lanciato una campagna di protesta contro quelli che sono veri e propri omicidi compiuti dalle forze dell'ordine al di fuori di ogni legge e con l'appoggio delle massime autorità dello Stato. Michele Raviart ne ha parlato con padre Sebastiano D’Ambra, missionario nell’isola di Mindanao: 

R. – Il presidente Duterte, che è stato eletto da poco, vuole estirpare questa piaga della droga che c‘è nelle Filippine. In effetti, è un grosso problema. Lo stile che usa è forte: in qualche modo sta facendo pulizia e molti, per paura, si sono già arresi. Finora, lui sta mantenendo una linea dura. Credo che da quando è iniziato, solo due mesi fa, le persone uccise siano tra 300 e 500, quindi una cosa molto grave. Infatti c’è un movimento della Chiesa cattolica contro questo che fa appello al comandamento di non uccidere.

D. – Abbiamo detto che molta gente si sta costituendo, ma è anche vero che ci sono persone che sono uccise solo perché sospettate di spacciare. Come avvengono questi omicidi? Come vengono legittimati?

R. – La polizia usa una strategia, dice: se voi reagite, noi uccidiamo. Però, qualche volta creano la situazione e così la polizia dice: “Lui ha reagito e noi abbiamo sparato”. Però, questa è una finzione perché alla fine sappiamo che quello è il metodo. Ci sono diverse voci: per esempio, una senatrice sta facendo molto contro questo atteggiamento del presidente.

D. – La Chiesa si è detta contraria a questi che sono considerati dei veri e propri omicidi extragiudiziali con una campagna…

R. – Sì, la Conferenza episcopale si sta manifestando contro questa realtà con questa sua campagna. Però, a mio avviso, nelle prossime settimane qualcosa cambierà, speriamo in bene. Cioè, da una parte speriamo che il pugno forte contro la droga continui ma secondo i criteri della giustizia. La violenza chiama violenza, ci sono metodi diversi per riportare l'ordine. Questo è più veloce, ma a lungo andare avrà gravi conseguenze, a mio avviso.

D. – Gran parte della popolazione sostiene Duterte che, ricordiamo, ha affermato anche che per lui i diritti umani non sono importanti…

R. – Il sostegno a Duterte era arrivato al 91%, quindi piuttosto alto. Però, leggevo in questi giorni che già comincia a perdere quota, perché la gente prende coscienza di questa realtà. E poi, il presidente deve affrontare altri problemi: adesso sta facendo dei passi per vedere come dare una risposta a questi gruppi ribelli. Vorrebbe introdurre il federalismo che è un’idea buona, ma non sappiamo come venga implementato. Vuol cambiare la Costituzione, ma vedremo come e quando… Quindi, ci sono tante cose che bollono in pentola. Certamente, quella più vistosa è questa campagna contro la droga, con le uccisioni che ci sono quasi tutti i giorni.

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L'arte dei rifugiati, le opere del progetto "Refugee Scart"

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Una squadra di dieci rifugiati che raccoglie plastica dalle strade di Roma e la ricicla, realizzando tessuti e oggetti. E’ il  progetto "Refugee Scart", attivo nella capitale dal 2011, patrocinato dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che mira a restituire dignità a queste persone che divengono inoltre attive nel contribuire al bene comune. Marta Facchini ne ha parlato con la co-fondatrice del progetto, Marichia Simicik Arese: 

R. – "Refugee Scart" è un piccolo progetto. L’idea iniziale era quella di cercare di aiutare giovani ragazzi arrivati in Italia, dando loro un senso di dignità e uno scopo al loro viaggio. Per cui, ho immaginato la possibilità di aiutarli generando con loro un piccolo reddito: riciclando immondizia raccolta per le strade di Roma, scatole di plastica lasciate dai supermercati o dai negozi, e iniziando a fare degli oggetti di riciclo. Tutti i soldi che arrivano dalla vendita ritornano, nella loro totale interezza, ai rifugiati stessi.

D. – Possiamo dire che questa sia quasi una metafora di vita: trasformarsi per inventarsi di nuovo…

R. – Semplicemente, il progetto unisce due cose: la solidarietà e la cura per l’ambiente. La solidarietà, perché attraverso questo progetto i ragazzi in grande difficoltà riprovano un senso di appartenenza e ritrovano anche una nuova dignità, perché attraverso il loro lavoro stanno contribuendo al benessere e alla pulizia di Roma e quindi al benessere di tutti i suoi abitanti. Sono riusciti a riciclare, in cinque anni, più di 15 tonnellate di "plasticaccia"... Quindi, un enorme contributo alla città. E questo contributo li fa sentire fieri del loro lavoro, perché stanno pulendo la città. Gli oggetti che creiamo poi non hanno altro materiale, sono solamente fatti di immondizia, per cui tutto il reddito che viene generato ritorna a loro, non esistendo un costo dei materiali. I materiali sono pura immondizia che raccogliamo per le strade di Roma. Non solo contribuiscono al bene comune, aiutando la città di Roma ad essere più pulita, ma hanno anche deciso di donare una parte del loro reddito per aiutare altri più bisognosi di loro. Hanno donato un totale di 5 mila euro in tre anni al Poliambulatorio medico di Emergency a Castel Volturno, vicino a Caserta. Sono dieci ragazzi che, a poco a poco, sono usciti dai centri di accoglienza, sono riusciti a prendere in affitto i loro piccoli appartamenti, non vanno più alle mense, ma riescono a comprarsi il loro mangiare e sono entrati in un processo di integrazione che ridà loro dignità.

D. – Unite alcune delle più importanti sfide del nostro tempo: la migrazione, l’integrazione e la cura dell’ambiente…

R. – Penso che la combinazione di ecologia e solidarietà sia una combinazione unica e vincente. I rifugiati sono impegnati nel creare questi oggetti di artigianato e imparano meglio la lingua, imparano ad esprimere la loro creatività, imparano a lavorare con metodo e intanto generano reddito e contribuiscono alla pulizia della città.

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Friuli: a Illegio una mostra racconta il viaggiare dell'uomo

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È indubbiamente una periferia, Illegio, piccolo borgo di montagna in provincia di Udine, abitato da 350 persone. Lo è a maggior ragione perché sta in quel territorio del Friuli, la  Carnia, dove da decenni continua una grave emorragia di abitanti e di intelligenze. Per questo ciò che sta accadendo ad Illegio dal 2004, grazie all’impegno del locale Comitato di San Floriano, sa di miracoloso ed è l’arrivo di migliaia di persone, arrivo che mette in moto tutta un’economia, richiamate dalla bellezza, del luogo e della mostra d’arte che il borgo propone ad ogni estate. “Oltre. In viaggio con cercatori, fuggitivi, pellegrini”,  il soggetto di quest’anno. L’esposizione racconta la storia del viaggiare umano, attraverso un percorso di quarantacinque dipinti dal Quattrocento al Novecento, provenienti da trenta collezioni d’Europa. Da Lorenzo Monaco a Botticelli, da Bassano a Francesco Guarino, da Bruegel a Jordaens. Resterà aperta fino al 9 ottobre. Al microfono di Adriana Masotti, ascoltiamo don Alessio Geretti, viceparroco ad Illegio e curatore della mostra: 

R. – Questo soggetto è nato da suggestioni e stimoli contenuti nella Sacra Scrittura e nelle grandi pagine della letteratura antica. Il primo grande uomo di fede della Bibbia, con cui Dio inizia una vera e propria storia dell’alleanza e della salvezza, Abramo, si trova a rispondere a un invito divino, che è quello di “mettersi in cammino”, di partire. Ma così poi si continua in tutte le pagine della Bibbia fino agli apostoli, quando l’invito di Gesù a credere in Lui si traduce in quel: “Seguimi”. Quindi, per noi credenti, viaggiare e credere sono sinonimi. Questo però è anche comune a quelle pagine della letteratura antica - basti pensare all’”Odissea” - che raccontano la condizione umana in generale come una condizione di itineranza. Questo è il motivo di fondo per cui abbiamo pensato che fosse un tema capace di toccare il cuore di tutti. Ma nello stesso tempo anche qualcosa dell’attualità ci stimola, perché è evidente che le grandi migrazioni della nostra stagione e le scene, a volte angosciose, di profughi e fuggitivi che abbiamo visto e che vediamo in continuazione, ci interpellano. E anche qui, ricordarci che la stessa famiglia di Gesù è stata profuga o che nella letteratura antica Enea, il fondatore della grande civiltà romana, era un profugo: questo ci aiuta forse a guardare a quello che sta accadendo con un occhio meno prevenuto, più intelligente.

D. – Si può andare “oltre” in tanti modi e la scelta delle opere indica proprio un percorso e le diverse facce dell’essere in cammino, che lei già ha citato…

R. – Sì, la mostra raccoglie le opere nelle sale accostando anche con criterio storico-artistico i vari oggetti d’arte, in modo che tavole del primo Quattrocento fiorentino o capolavori del Barocco fiammingo possano essere a confronto tra loro, ad esempio. Ma il criterio precedente a questo è di carattere iconografico. E dunque, per categorie di viaggiatori e per iconografie correlative, la mostra procede raccontando prima dei pellegrini della Bibbia e della storia cristiana fino al Medioevo; poi dei cercatori che si muovono per impulso divino, celeste, misterioso; quindi raccontando dei profughi, dei fuggitivi di vario genere; raccontando per concludere, di quell’estremo viaggio che è verso l’oltre più oltre che ci si possa immaginare: cioè l’aldilà, con il viaggio dantesco per esempio, e quello di Orfeo per recuperare l’amatissima Euridice.

D. – Qualche esempio di autori le cui opere sono esposte a Illegio?

R. – Solo per ricordarne alcuni, ve ne sono di grandissimi: per esempio Sandro Botticelli, con una Adorazione dei Magi che viene dagli Uffizi di Firenze. Si può pensare a Jacob Jordaens, che è con Peter Paul Rubens uno dei due più importanti esponenti del Barocco fiammingo; e Jordaens ha dipinto un gigantesco Fuga della Sacra Famiglia verso l’Egitto per la regina Cristina di Svezia, che dalla Svezia è arrivato a Illegio. Si può pensare a Jan Brueghel, il figlio di Peter il Vecchio, che ha dipinto una squisita e fantasiosissima tavoletta nella quale si vede la discesa di Orfeo agli Inferi. Si può pensare a Lorenzo Monaco, il fiorentino Pietro di Giovanni che poi diventa camaldolese prendendo il nome di Lorenzo, che ha lasciato un testamento spirituale nell’ultima opera da lui dipinta, che vediamo nella mostra a Illegio: questa è un Miracolo di San Nicola per salvare i pellegrini che venivano ad incontrarlo e venerarlo nella sua Chiesa a Mira in Oriente.

D. – E in quanto a visitatori, come sta andando la mostra quest’anno?

R. – Sta andando molto, molto bene. È in crescita rispetto alla mostra dello scorso anno, che già è stata uno dei nostri migliori risultati. Quest’anno, per adesso, abbiamo un 15% di visitatori in più. E credo che nel nostro piccolo paese – in questo graziosissimo borgo alpino che è Illegio, dove vivono solo 350 simpatici abitanti – quest’anno arriveremo a 30mila visitatori circa.

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Nella Chiesa e nel mondo



Milwaukee, l'arcivescovo: la violenza non è mai giustificabile

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“La rabbia ed il dolore sono certamente comprensibili, ma la violenza non è mai giustificabile come risposta”: scrive così mons. Jerome Listecki, arcivescovo di Milwaukee, negli Stati Uniti, in una nota diffusa dopo le violente proteste scoppiate in città a seguito dell’uccisione di un giovane afroamericano da parte di un poliziotto. Negli scontri sono rimaste ferite otto persone: un ragazzo di 18 anni e sette agenti, e sono stati effettuati 14 arresti. Intanto, dalle ore 22.00, è scattato il coprifuoco per i minorenni.

La protesta è un diritto, la violenza no
Mons. Listecki esprime il suo dolore per l’accaduto, per i disordini, gli incendi ed i saccheggi che hanno devastato la città, in particolare il quartiere di Sherman Parck, “già economicamente in difficoltà”. “Protestare è un diritto per ogni americano – scrive il presule – ma bruciare, sparare contro la legittima autorità e saccheggiare non lo è. E coloro che hanno commesso queste azioni hanno ferito quella comunità i cui interessi sostengono di rappresentare”.

Appello alla pace
Al contrario, spiega l’arcivescovo di Milwaukee, ciò che occorre è “sostenere la famiglia, rilanciare l’economia e contrastare il crimine”, perché questa è “la formula per disinnescare una mentalità” violenta. Di qui, il richiamo del  presule a “risvegliare la fede in Gesù Cristo e nel Vangelo”, fonte “dell’unica vera trasformazione che cambia il cuore e la mente” dell’umanità. Infine, mons. Listecki prega per le famiglie e le forze dell’ordine coinvolte negli scontri e lancia un appello “per la pace nella comunità di Milwaukee e in tutto il mondo”. (I.P.)

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Appello dei religiosi dell’Uganda: basta violenze in Sud Sudan

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Porre fine alla violenza che sta devastando il Sud Sudan: è quanto chiedono, con un appello congiunto, i leader religiosi dell’Uganda, che invitano la comunità internazionale ad intervenire con urgenza nel Paese africano confinante. Da diverso tempo, infatti, il Sud Sudan ha visto il riaccendersi degli scontri tra i sostenitori del presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e quelli dell’ex vice presidente Riek Machar, di etnia nuer. Questo nonostante l’accordo di condivisione del potere raggiunto ad agosto 2015.

Garantire la riconciliazione in Sud Sudan
“La comunità internazionale – si legge nella dichiarazione congiunta presentata dall’arcivescovo John Baptist Odama, presidente dei vescovi ugandesi – deve fare tutto ciò che le compete per garantire la riconciliazione in Sud Sudan, fornendo anche aiuti ed assistenza medica alla popolazione”. “Come buoni vicini – prosegue il testo – sentiamo il dovere e l’obbligo di stare accanto alla popolazione sud sudanese in questo momento difficile e di esprimere la nostra preoccupazione per la situazione”.

Tante vite innocenti andate perdute
Per conto della Acholi Religious Leaders Peace Initiative (Arlpi), i leader religiosi esprimono, infine, “tristezza e profondo dolore” per il conflitto che sta infuriando a Juba, in particolare per “la violenza in cui sono andate perdute molte vite innocenti e per i numerosi sfollati”. Fondata nel 1997 in risposta al conflitto scoppiato nel nord dell’Uganda, oggi l’Arlpi è impegnata nella promozione della pace e della riconciliazione. A carattere interconfessionale, l’organismo riunisce esponenti cattolici, anglicani, ortodossi, pentecostali e musulmani. (I.P.) 

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Messico: celebrata la prima Giornata della gioventù cattolica

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“Rivitalizzarsi nel cuore della missione”: questo il tema della prima Giornata dell’adolescenza e della gioventù cattolica indetta in Messico dai vescovi locali. L’evento si è svolto domenica 14 agosto.

Vivere la fede e la speranza
Per l’occasione, mons. Juan Armando Pérez Talamantes, membro della "Dempaj", la Dimensione episcopale messicana per la Pastorale degli adolescenti e dei giovani, ha diffuso un messaggio in cui sottolinea che la Giornata ha rappresentato, per i ragazzi cattolici del Paese, un’occasione per esprimere “la loro gioia e la loro fede in Cristo”. Celebrato l’evento “con grande speranza”, mons. Pérez suggerisce ai giovani di mettere in pratica le opere di misericordia.

Non credere alla “divano-felicità”
Quindi, il rappresentante della "Dempaj" ricorda alcuni punti salienti dei discorsi rivolti da Papa Francesco ai giovani di tutto il mondo, come quando li ha esortati a essere la ricchezza dei loro Paesi, a non lasciarsi rubare la speranza, a non credere alla "divano-felicità" che porta alla solitudine e all’apatia, bensì a uscire per condividere l’amore e la misericordia con tutti, manifestando impegno, fiducia, accoglienza, compassione e capacità di fare grandi sogni. Infine, il presule affida i giovani e gli adolescenti del Messico alla Vergine di Guadalupe.

I giovani, priorità della Chiesa e della società
Da ricordare che l’istituzione di una Giornata nazionale dell’adolescenza e della gioventù cattolica è stata decisa dalla Conferenza episcopale messicana a novembre 2015, al termine della 99.ma Assemblea Plenaria. La Giornata, da tenersi nella prima domenica successiva al 12 agosto, vuole essere il riconoscimento che i vescovi danno al fatto che i giovani sono una priorità non solo per la Chiesa stessa, ma anche per l’intero Paese.

Formare famiglie stabili
Numerose, infatti – ricordano i presuli – sono le sfide che devono affrontare i ragazzi messicani: secolarizzazione, formazione, sfiducia nel sistema socioeconomico e nella politica, disgregazione della famiglia e relativismo morale. A tutto questo, la Chiesa locale cerca di rispondere andando incontro ai ragazzi nei loro spazi e ambienti naturali come la scuola, incoraggiandone il servizio in parrocchia e aiutandoli a formare famiglie stabili, che siano il risultato di matrimoni basato su sani principi. (I.P.) 

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Zambia. Celebrazioni per i 125 anni del cattolicesimo nel Paese

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“125 anni di amore di Dio e di misericordia”: questo il motto con il quale la Conferenza episcopale cattolica dello Zambia (Zccb) ha lanciato le celebrazioni per i 125 anni del cattolicesimo nel Paese. L’arrivo dei primi missionari cattolici nella nazione africana, infatti, risale all’agosto del 1891. Le celebrazioni commemorative dureranno un anno e si concluderanno il 15 luglio 2017 a Lusaka.

Le sfide del Paese e la risposta del Vangelo
Presentando l’iniziativa, mons. Ignatius Chama, arcivescovo di Kasama, ha ricordato le numerose sfide affrontate dai primi missionari nel Paese: “Hanno trovato  un popolo impaurito, giovani ridotti in schiavitù, persone accusate di stregoneria e vittime di omicidi rituali, ragazzi senza una scuola in cui studiare, malati senza alcun ospedale in cui curarsi, situazioni di incesto e poligamia, spose bambine, omicidi tribali”. Ma proprio di fronte a tutto questo, i missionari non si sono arresi – ha aggiunto mons. Chama – e hanno portato alla popolazione locale “la Buona Novella del Regno di Dio, la speranza di vivere in modo dignitoso e sicuro”.

Il dramma della stregoneria
Tuttavia – ha sottolineato ancora il presule – anche oggi lo Zambia deve affrontare molte difficoltà: “Abbiamo ancora casi di matrimoni precoci, ritenuti addirittura, in alcuni casi, un elemento fondamentale della cultura e del costume nazionale. Abbiamo ancora la schiavitù della poligamia, le accuse di stregoneria e la caccia alle streghe che, purtroppo, possono portare all’uccisione di persone innocenti”.

Allarme per i minori che non riescono a scolarizzarsi
E ancora, l’arcivescovo di Kasama ha ricordato che, nel Paese, “tanti bambini non riescono ad andare a scuola a causa delle grandi distanze e dalla mancanza di infrastrutture, mentre donne e ragazze vengono costrette a prostituirsi per sbarcare il lunario”. Infine, nell’ambito dell’Anno giubilare, la Zccb auspica una visita del cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, nel prossimo mese di novembre. (I.P.)

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Irlanda, è sulla misericordia la Novena alla Vergine di Knock

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“Misericordiosi come il Padre”: ha lo stesso motto del Giubileo straordinario della misericordia, la tradizionale Novena alla Vergine di Knock, in Irlanda. Iniziata il 14 agosto, e fino al 22, l’iniziativa prevede numerose celebrazioni e seminari di approfondimento, ospitati presso l’omonimo Santuario mariano.

In programma, celebrazioni e seminari di approfondimento
In particolare, sabato 20 agosto mons. Philip Boyce, vescovo do Raphoe, terrà una relazione intitolata “Il nome di Dio è misericordia”, mentre il giorno seguente mons. Kevin Doran, vescovo di Elphin, approfondirà il tema “La gioia del Vangelo” e padre Richard Gibbons, rettore del Santuario di Knock, rifletterà su “L’impegno nella misericordia”. E ancora, i seminari analizzeranno questioni specifiche, tra cui: la guarigione delle persone vittime di dipendenze; il perdono; l’amore di Dio nella vita familiare; le opere di misericordia corporali intese come una sfida dell’epoca contemporanea.

Nel 2013, Irlanda consacrata al Cuore immacolato di Maria
Particolarmente caro ai fedeli irlandesi, il Santuario mariano di Knock è stato costruito nel XX secolo sul luogo in cui, nel 1879, la Vergine Maria apparve ai fedeli, assieme a San Giuseppe e a San Giovanni Evangelista. Il luogo di culto è stato visitato anche da San Giovanni Paolo II nel 1979. Il 15 agosto del 2013, la Basilica ha ospitato la solenne consacrazione dell’Irlanda al Cuore Immacolato di Maria. (I.P.) 

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India. Morto mons. Cheenath, simbolo dei martiri dell'Orissa

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Mons. Raphael Cheenath, arcivescovo emerito di Cuttack- Bhubaneshwar e simbolo del martirio cristiano nella regione indiana dell’Orissa, è deceduto il 14 agosto a Mumbai. Aveva 82 anni ed era ricoverato in ospedale. Il presule era stato pastore della Chiesa dell’Orissa proprio durante il periodo dei "pogrom" organizzati dai gruppi radicali e paramilitari indù e aveva sempre invocato giustizia per le vittime cristiane.

Instancabile il suo impegno in difesa dei cristiani
ll compianto arcivescovo “ha guidato l’arcidiocesi di Cuttack Bhubaneshwar nel periodo più traumatico per la Chiesa cattolica indiana – ha detto il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale cattolica locale, citato da AsiaNews – combattendo senza sosta le battaglie legali in favore delle vittime e dei sopravvissuti”. Per questo, mons. Cheenath “aveva ricevuto minacce di morte” e, terminato il suo incarico pastorale, si era trasferito a Mumbai.

Appello per porre fine alle conversioni forzate all’induismo
Nato nel 1934 in Kerala, cresciuto in una famiglia cattolica insieme a dieci fratelli, mons. Cheenath era divenuto sacerdote nel 1963 ed era stato nomitato vescovo di Sambalpur nel 1974. Undici anni dopo, era divenuto arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar, dove era rimasto per 26 anni, promuovendo la crescita della comunità e lo sviluppo sociale. In particolare, dopo i massacri anticristiani avvenuti nel 2008, il presule si era battuto per la pubblicazione di un memorandum per rivendicare i diritti delle vittime e dei sopravvissuti, chiedendo anche un risarcimento per i feriti e le vedove, un aiuto per la ricostruzione delle Chiese e delle case religiose andate distrutte e la fine delle conversione forzate all’induismo.

Le origini dei massacri in Orissa
Divampate tra il 2007 ed il 2008, in seguito all’omicidio del leader indù, Laxamananda Saraswati, e di quattro suoi seguaci, le violenze anticristiane a Kandhamal, distretto nello Stato indiano di Orissa, hanno provocato circa 100 vittime ed oltre 50 mila sfollati. In loro memoria, la Conferenza episcopale indiana ha indetto una “Giornata dei martiri”, da celebrarsi ogni anno il 30 agosto, scegliendo come data il giorno successivo al martirio di San Giovanni Battista. Inoltre, è stato avviato il processo di Beatificazione delle vittime. (I.P. – AsiaNews)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 229

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.