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Sommario del 19/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Meeting Rimini. Papa: ci si salva insieme col dialogo tra chiare identità

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È il dialogo l’unica chiave per fare breccia nel cuore umano, chiuso soprattutto oggi da una “insicurezza esistenziale che ci fa avere paura dell’altro”. Lo afferma Papa Francesco nel Messaggio inviato, a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, al 37.mo Meeting per l’amicizia tra i popoli organizzato a Rimini da Comunione e Liberazione con il titolo “Tu sei un bene per me”. Il servizio di Alessandro De Carolis

Questo è un titolo “coraggioso”, riconosce il Papa. Dire “Tu sei un bene per me” stride e tanto tra le paure del mondo attuale, dove si alzano barriere e si dice si salvi chi può ciascuno badando a sé. È un titolo “coraggioso”, afferma il Papa nel Messaggio ai partecipanti al 37.mo Meeting di Comunione e Liberazione, perché va in “senso opposto” sia a una generale tendenza umana per cui tante volte gli altri “diventano qualcosa di superfluo, o peggio ancora un fastidio, un ostacolo", sia al senso di precarietà della nostra epoca, in cui la pace e la sicurezza di nazioni e popoli è minacciata.

Da solo chi si salva?
Se si cede alla tentazione dell’individualismo, ripete Francesco, si finisce per cogliere delle persone “soprattutto i limiti e i difetti” e ciò indebolisce, osserva, “il desiderio e la capacità di una convivenza in cui ciascuno possa essere libero e felice in compagnia degli altri con la ricchezza delle loro diversità”. Ma di “fronte al cambiamento d’epoca in cui tutti siamo coinvolti – si chiede il Papa – chi può pensare di salvarsi da solo e con le proprie forze?”.

Nessuno è perso definitivamente
Questa, sottolinea, è “la presunzione che sta all’origine di ogni conflitto tra gli uomini”, che invece il Vangelo rovescia giacché, ribadisce Francesco, “il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia, perché non considera alcuna persona come perduta definitivamente”. E qui, il Papa richiama una volta di più la parabola del figlio prodigo il quale, mentre pascola tristemente i porci consapevole di aver tradito la fiducia del suo genitore, non sa che invece suo padre “tutte le sere sale sulla terrazza per vedere se torna a casa e spera, malgrado tutto e tutti”. “Come cambierebbe il nostro mondo – esclama Francesco – se questa speranza senza misura diventasse la lente con cui gli uomini si guardano tra di loro!”.

Dialogo, identità e apertura
Per tradurre in vita questa fiducia c’è, annota il Papa, “una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo”. Un valore del quale il Papa individua i vantaggi: “Ci fa riconoscere – dice – la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo”. Insomma, sostiene Francesco, il dialogo è ricchezza e non impoverimento purché, indica, ogni incontro implichi “la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità, a mettersi nei panni dell’altro per cogliere, al di sotto della superficie, ciò che agita il suo cuore, che cosa cerca veramente”.

Non la potenza delle cose ma la mitezza dell’amore
Dunque, “questa è la sfida davanti alla quale si trovano tutti gli uomini di buona volontà”. Conclude Francesco, che invita a considerare i “tanti sconvolgimenti di cui spesso ci sentiamo testimoni impotenti” come “un invito misterioso a ritrovare i fondamenti della comunione tra gli uomini per un nuovo inizio”. L’incoraggiamento finale ai partecipanti al Meeting è quello alla coerenza della vita di fede, basata sui Sacramenti, espressa con una “testimonianza creativa”, nella consapevolezza “che ciò che attrae, ciò che conquista e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti, ma la mitezza tenace dell’amore misericordioso del Padre”. 

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Vicario Nord Arabia: da islam moderato "no" più forte a violenza

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Sull’invito al dialogo e all’accoglienza dell’altro rivolto dal Papa nel suo Messaggio al Meeting promosso da Comunione e Liberazione, il nostro inviato al meeting Luca Collodi ha raccolto il commento di mons. Camillo Ballin, vicario apostolico dell'Arabia settentrionale, che partecipa all’incontro di Rimini: 

R. – Certamente è un tema molto attuale, soprattutto in Italia che è il Paese più esposto a ricevere queste persone che scappano da guerre e da situazioni umanamente estremamente difficili e quindi è importante che conserviamo in noi questo senso di fraternità, di comprensione dell’altro. Io vivo nei Paesi arabi da 47 anni, ho vissuto anche 10 anni in Sudan con situazioni umanamente disperate: gente che soffriva terribilmente la fame, la discriminazione sociale e religiosa … Quindi, mi rendo conto come queste persone, che vengono dal Sudan e adesso anche da altri Paesi, vogliano scappare da situazioni che sono veramente difficili. Tante volte mi sono chiesto: ma, io sono italiano, io ho una base sicura, ho la mia famiglia religiosa, la mia famiglia naturale … ma se io fossi uno di loro, cosa farei? Farei come loro, cioè cercherei di scappare da questa situazione per assicurare alla mia famiglia e ai miei figli un avvenire più umano, più sereno, più felice. Quindi, bisogna stare molto attenti a non lasciarci ideologizzare, politicizzare da queste situazioni umane veramente straordinarie e pesanti.

D. – Che cosa sta succedendo, invece, all’inizio del Terzo millennio nel mondo arabo? C’è un mondo arabo in movimento …

R. – C’è molto movimento, molta voglia di rivoluzione …

D. – Rivoluzione, di che tipo?

R. – Rivoluzione dal punto di vista sociale: le famose primavere arabe. Ma poi i fondamentalisti se ne sono impossessati e da rivoluzioni sociali sono diventate rivoluzioni fondamentaliste. Come sarà il futuro, è difficile dirlo anche perché i “moderati” non si sono mai espressi. Cioè: cosa hanno fatto, cosa hanno detto i moderati? Li abbiamo visti improvvisamente in chiesa, alcune settimane fa, dopo l’uccisione di quel sacerdote, ma per me è stato più un evento emotivo che non una vera presa di posizione contro qualche cosa. Avrei preferito un evento più laico. Non hanno mai fatto una dimostrazione civica, pubblica, per dire che l’islam non è quello là. Possiamo noi convincere il mondo che l’islam non è violento, se questi “moderati” non hanno mai fatto una dimostrazione per dimostrare al mondo che quello non è il vero islam? Occorre una presa di posizione molto più seria, molto più radicale, con interviste ai giornali e con prese di posizione anche politiche, con espressioni chiare, forti, per dire che quello non è il vero islam. Ma questo non è successo e mi sembra che non stia succedendo.

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Papa ad Assisi il 20 settembre. Sorrentino: un altro "pezzo" di pace

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Grande gioia ad Assisi per l’annuncio che il Papa il prossimo 20 settembre si recherà di nuovo nella città umbra. L’occasione è importante: l’incontro conclusivo della Giornata mondiale di preghiera per la pace organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio sul tema “Sete di pace. Religioni e culture in dialogo”. Saranno presenti, tra gli altri, il Grande Imam dell'Università islamica di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e il Primate anglicano Justin Welby. Ci sarà anche il Presidente della Repubblica italiana Mattarella. Un evento che arriva a 30 anni dalla storica Giornata di preghiera per la pace promossa da Giovanni Paolo II il 27 ottobre del 1986. Sergio Centofanti ne ha parlato con il vescovo di Assisi, mons. Domenico Sorrentino

R. – Sono passati 30 anni dalla grande iniziativa di San Giovanni Paolo II: mettere insieme tutte le voci delle religioni mondiali per un momento di preghiera innanzitutto e poi per una riflessione corale sul tema della pace. A 30 di distanza, quell’iniziativa si dimostra più che mai attuale; fu profetica e i tempi lo stanno dimostrando. Il fatto che Papa Francesco abbia deciso di venire, certamente, dà un valore aggiunto alla celebrazione di quest’anno che non vuole essere soltanto una commemorazione, un giubileo, ma vuole essere un contributo reale alla causa della pace nel nostro tempo.

D. - Il Papa stesso le ha comunicato per telefono che sarebbe venuto ad Assisi …

R. - Sì. Devo dire che ieri mi ha dato la gioia di una telefonata durante la quale mi ha comunicato questa decisione; avevamo auspicato la sua presenza, glielo avevamo chiesto da molto tempo. Ha sciolto le riserve e per noi è davvero un bel regalo che, a poco più di un mese dalla visita di qualche giorno fa alla Porziuncola, torni ad Assisi per quest’occasione così importante.

D. - Quali parole ha avuto il Papa per questo evento?

R. - Io gli ho detto un po’ quello che intendevo dire alla Diocesi e che ho comunicato anche attraverso il nostro sito. Mi ha detto che trovava le mie parole molto opportune; in qualche modo mi ha incoraggiato. Ho fatto una breve rilettura di quell’evento, ricordando che esso fu fin dall’inizio compreso come un evento di preghiera al di là, però, di ogni possibile equivoco di tipo relativista, di tipo sincretistico. È una preghiera alla quale i credenti di tutte le religioni mostrano la loro identità ma ponendosi in dialogo e in sinergia e al tempo stesso riflettono, in maniera corale, per dare il contributo delle fedi e - come si ricorderà per quanto fece Benedetto XVI nelle visita di cinque anni fa in un’occasione analoga - anche il contributo dell’umanesimo più aperto, solidale. È davvero l’ora di un messaggio forte che diamo al mondo perché si spezzi la spirale di ogni guerra e nasca un mondo più giusto, più fraterno, che sia realmente più in pace.

D. - Il Papa più volte parla di “Guerra Mondiale a pezzi” …

R. - È la verità, è sotto i nostri occhi e proprio perché è una guerra “a pezzi” è più difficile da sconfiggere. Al tempo stesso ci chiama ad un’opera di pace compiuta coralmente. Ognuno poi deve fare il suo “pezzo”. Anche la costruzione si fa "a pezzi", ma cercando di metterli insieme per un disegno corale.

D. - Una grande gioia per Assisi.  Il Papa sarà nella città di San Francesco per la terza volta nel suo Pontificato ..

R. - Se c’è un Papa che è di casa ad Assisi è proprio Papa Francesco. Tanti Papi sono passati per Assisi, ma lui è il primo Papa che ha preso il nome del nostro Santo. Sentiamo qui, come in tutta la Chiesa, che è di casa, ma qui direi che lo è doppiamente. È una grande gioia e un grazie veramente cordiale per questa sua scelta.

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"Pax vobis" motto del viaggio del Papa in Georgia

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"Pax vobis" è il motto del viaggio papale in Georgia, che si svolgerà dal 30 settembre al 2 ottobre e toccherà anche l’Azerbaigian. Le due parole, tratte dal capitolo 20 del Vangelo di Giovanni, sono riprodotte in due lingue, latino e georgiano, nel logo della visita. La scelta del tema della pace – riferisce L’Osservatore Romano – vuole sottolineare la coincidenza del viaggio con l’Anno della misericordia e rappresenta un richiamo alla pacificazione del mondo e di quella regione asiatica in particolare.

Dialogo interreligioso e speranze per la pace
Lo stesso Francesco, il 30 giugno scorso, nell’annunciare la visita durante l’Udienza giubilare, ne aveva indicato così gli obiettivi: “Da una parte valorizzare le antiche radici cristiane presenti in quelle terre – sempre in spirito di dialogo con le altre religioni e culture – e dall’altra incoraggiare speranze e sentieri di pace”. Sul logo del viaggio in Georgia è raffigurata una croce stilizzata, la cui forma ricorda la tradizionale croce di Santa Nino (Cristiana), che fu la più grande evangelizzatrice del Paese. I colori giallo e rosso richiamano quelli delle bandiere dello Stato della Città del Vaticano e della Georgia. 

Il programma del viaggio in Georgia
In Georgia, a Tbilisi, il Pontefice arriverà nel primo pomeriggio del 30 settembre. Dopo la cerimonia di benvenuto, alle 15 circa è prevista la visita di cortesia al presidente della Repubblica. Nel cortile del Palazzo presidenziale si terrà il saluto con le autorità, la società civile e con il Corpo diplomatico. Presso il Palazzo del Patriarcato ci sarà invece l’incontro con sua Santità e Beatitudine Ilia II, Catholicos e Patriarca di tutta la Georgia. L’abbraccio con la comunità assiro-caldea si terrà invece preso la chiesa cattolica di San Simone il tintore.

Subito dopo, la visita in Azerbaijan
Il giorno dopo, sabato primo ottobre, il Pontefice presiederà la Santa Messa nello stadio Meskhi, poi incontrerà sacerdoti, religiosi e religiose presso la Chiesa dell’Assunta. Toccante sarà la visita agli assistiti e con gli operatori delle opere di carità della Chiesa davanti al Centro di assistenza dei Camilliani. Quindi, la visita alla cattedrale patriarcale Svietyskhoveli di Mskheta. Domenica 2 ottobre, dopo la cerimonia di congedo dalla Georgia, Papa Francesco si sposterà in Azerbaigian. La visita in questi due Paesi, infatti, rientra in un viaggio pontificio nella regione caucasica che ha avuto la sua prima tappa in Armenia nel giugno scorso. (I.P.)

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Papa, tweet: dove c’è amore c’è anche comprensione e perdono

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Papa Francesco ha lanciato oggi un tweet dal suo account @Pontifex: “Dove c’è amore – scrive – lì c’è anche comprensione e perdono”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Nei panni dell'altro: nel messaggio per il Meeting di Rimini il Papa invita al dialogo.

Potrò mai rivedere Littlemore?: Mary Birgit Dechaut su Newman e l'amore per i poveri.

Quell'ultima virtù: Fabrizio Bisconti sul rito della sepoltura in Caravaggio.

Il ritorno del cane sciolto: Gabriele Nicolò sulla statua di Orwell alla Bbc.

In una sera di fine estate: Gianluca Blancini sull'intuizione di fratel Roger.

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Oggi in Primo Piano



Siria, immagini shock. Quirico: non scuotono la politica

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“Basta indignarsi per foto shock, occorre chiedere con forza ai governi la pace”. E’ il commento dell’Unicef di fronte all’immagine che sta facendo il giro del mondo a simboleggiare il dramma della Siria in guerra: è il volto insanguinato del piccolo Omran, estratto vivo dalle macerie di Aleppo, dove si attende ancora l’entrata in vigore della tregua di 48 ore stabilita ieri. Il servizio di Gabriella Ceraso

Ci saranno 48 ore alla settimana di tregua in Siria e due direttrici di ingresso degli aiuti umanitari ad Aleppo, ma non si sa ancora da quando. Questa è la realtà nonostante il "sì" di Mosca allo stop ai bombardamenti e la pressione dell’Onu che da ieri ha interrotto l’azione umanitaria della propria task force per scuotere l'azione politica. Sono in corso contatti tra Turchia e Stati Uniti sul conflitto e sul futuro di Assad, mentre dipenderebbe dal ritrovato asse Ankara- Mosca il bombardamento da parte di Damasco contro i curdi, nel nord della Siria, soldati alleati di Assad contro l’Is ad Aleppo. Dunque, a nulla per ora sono valse le ultime drammatiche immagini: il volto insanguinato del piccolo Omran, emerso dalle macerie e seduto nell'ambulanza, simbolo di un conflitto ignorato da più di cinque anni. Scalpore o ipocrisia? E poi quanto durerà l’ondata emotiva? Ne abbiamo parlato con  Domenico Quirico, inviato de La Stampa e conoscitore della realtà siriana:

R. – I cinque anni della guerra siriana formano una galleria di immagini tremende e spesso anche più terribili del bambino, che per fortuna è ancora vivo. Mi chiedo perché non siamo riusciti raccontando, fotografando e filmando, a trasformare questa tragedia così immensa e così profonda in coscienza collettiva? Penso ad altre guerre, per esempio al Vietnam… Probabilmente, perché la qualità del nostro racconto è minore e poi perché l’impatto sulla coscienza collettiva degli strumenti che noi utilizziamo si è rarefatto.

D. – C’è anche un po’ l’elemento di atrocità, talmente frequente, al quale praticamente siamo quasi assuefatti?

R. – Il limite dell’orrore è stato superato mille volte. La convivenza quotidiana con il dolore, questo è il nocciolo della tragedia siriana: la durata nel tempo e la profondità della sofferenza.

D. – Quindi,, la durata di una guerra che ci ha sfinito, che ha sfinito il popolo, ha sfinito l’opinione pubblica nel senso che ha consumato qualsiasi forma di sensibilità e che non riesce a sfondare i canali della politica, della diplomazia?

R. – Non è che ha sfinito l’opinione pubblica, non ha mai acceso la scintilla dell'opinione pubblica, che è una cosa diversa. Mi domando cosa siamo diventati, se una tragedia come quella siriana ci lascia indifferenti – parlo dell’Occidente... Una volta eravamo in grado di mobilitarici per vicende come quella siriana o addirittura meno tragiche. Quali sono i nostri punti di riferimento? Perché non abbiamo più la voglia di indignarci?

D. – A questo punto verrebbe da pensare che c’è un fronte di resistenza e di mancato coinvolgimento anche nel volere una tregua...

R. – In Siria, c’è una serie di guerre una infilata nell’altra e ci sono attori che perseguono finalità diverse. Molti o forse tutti hanno interesse che questo non si fermi, non soltanto la Russia…  E poi c’è un altro elemento, secondo me ancora più importante: in Siria nessuno ormai controlla più niente. C’è una sorta di meccanismo automatico della guerra. Come ipotesi o possibilità di intervento non c’è più diplomazia. Chi fa diplomazia? E su che cosa?

D. – E proprio sulla questione degli interessi che si intrecciano, c’è un elemento abbastanza inquietante che forse scaturisce da questo accordo-riavvicinamento Erdogan-Putin-Assad degli ultimi giorni. Sarebbero partiti dei raid proprio da parte del regime di Assad sui curdi nel nord, quegli stessi curdi che combattono con Assad ad Aleppo…

R. – I turchi sono ossessionati dai curdi, cioè dall’impedire che questi costituiscano uno Stato che faccia da richiamo per tutti i curdi, compresi quelli che arrivano in Turchia, e poi i curdi hanno anche un'ambizione, neanche tanto segreta, di riprendersi Aleppo, una città che fa parte delle loro ambizioni ottomane, mettiamola così. E comunque in Siria tutto è molto mobile: quello che c’è oggi, domani mattina potrebbe essere diverso. Nessuno controlla più niente.

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Ucraina: scontri nel Donbass, si rischia escalation conflitto

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Nuova fiammata di violenze nel Donbass, la regione dell’Ucraina orientale contesa tra Kiev e gli indipendentisti filo-russi. Negli scontri delle ultime 48 ore sono morti almeno 5 soldati ucraini e altri 14 sono rimasti feriti. Il presidente ucraino Poroshenko lancia l’allarme per una possibile escalation del conflitto e invasione da parte russa. Da parte sua il presidente russo Putin, in Crimea per una riunione del Consiglio di Sicurezza del suo Paese, ha replicato che l'Ucraina sta destabilizando la regione perché non è in grado di attuare gli accordi di Minsk. Tuttavia, il leader del Cremlino ha detto di sperare che prevalga il buon senso: "Non vogliamo interrompere le relazioni con Kiev". Il servizio di Marco Guerra: 

Da parte di Kiev si registrano un numero record di attacchi, quasi un centinaio, in maggioranza con artiglieria di grosso calibro; dal canto loro i separatisti denunciano bombardamenti contro le proprie postazioni a Donetsk e Gorlivka. Il presidente Poroshenko, parlando ad un gruppo di militari, ha detto che “la probabilità di un'escalation del conflitto è notevole”. Inoltre Poroshenko non ha escluso “un'invasione completa russa in tutte le direzioni” per far fronte alla quale sarà eventualmente imposta la legge marziale. Una settimana fa, Poroshenko aveva messo in massima allerta l'esercito dopo che il presidente russo Putin aveva accusato Kiev di preparare una campagna di attentati contro la Crimea.

Le crisi ucraina continua a dividere la comunità internazionale. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha ribadito che al momento non ci sono le condizioni per revocare le sanzioni economiche dell'Ue contro la Russia, ricordando l’annessione della Crimea da parte di Mosca. Merkel ha poi detto di lavorare con il presidente francese François Hollande “con tutte le forze” per l'attuazione, “malgrado le difficoltà”, dell'intesa di Minsk. Sul rischio reale di un guerra su vasta scala, ascoltiamo il parere di Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana ed esperto dell’area:

R. – Strategicamente, dal punto di vista militare, un’invasione russa dell’Ucraina è inconcepibile, sarebbe un disastro per la Russia, e non credo che al Cremlino siedano dei totali incompetenti. Certamente, bisogna rilevare che negli ultimi tempi – nelle ultime settimane – quello che era un conflitto a bassa intensità sta aumentando di intensità. Tutti i giorni ci sono bombardamenti, feriti, morti, da un lato e dall’altro della barricata. Quindi, mentre Poroshenko naturalmente esagera “pro domo sua”, bisogna che la comunità internazionale stia molto attenta a quello che succede nel Donbass.

D. – Infatti, sul terreno continua la guerra a bassa intensità, con fiammate sempre più violente. E ieri ci sono state altre vittime negli scontri tra i militari di Kiev e i separatisti…

R. – La situazione è molto grave e pesante. È una situazione su cui nessuno – né gli ucraini né i russi – può tacere. Gli indipendentisti possono naturalmente lavarsene le mani. Per spararsi, fare la guerra e ammazzarsi reciprocamente bisogna essere in due e tutti devono assumersi la propria quota di responsabilità per quello che sta succedendo nel Donbass negli ultimi mesi.

D. – Ma che ne è dell’attuazione degli accordi di Minsk, che sembravano dover risolvere questa controversia?

R. – Il cosiddetto accordo “Minsk 2” è morto, e da lungo tempo; anche se nessuno, nella comunità internazionale, vuole riconoscerlo, perché nessuno ha poi un’idea su cosa fare di qui in avanti. "Minsk 2" è morto perché, come si vede sul terreno, è vero che sono state ritirate le armi più pesanti ecc., però si continua comunque a sparare e a morire. Questo è un primo punto di fallimento. Ma "Minsk 2" è un fallimento anche dal punto di vista politico, perché la premessa politica dell’accordo era che l’Ucraina avrebbe approvato delle riforme costituzionali che permettessero di concedere alle regioni del Donbass uno statuto di larga autonomia. Tuttavia, questa cosa in Ucraina non è successa; quando questo tipo di provvedimento è arrivato in Parlamento non si è riusciti neanche ad arrivare a discuterne tanta era l’ostilità generalizzata. Quindi, di fatto, il governo ucraino ha firmato un accordo che non è in grado di implementare o, per essere ancora più pessimisti, che non ha alcuna intenzione di attuare. È ovvio quindi che "Minsk 2" non sarà mai realizzato e il tentativo di continuare a insistere su quest’accordo non può che provocare ulteriori tensioni.

D. – Anche sul fronte diplomatico è una fase di stallo: Angela Merkel non vede alcun motivo per revocare le sanzioni economiche dell’Ue alla Russia. Quindi, la questione ucraina continua a dividere l’Ue da Mosca?

R. – Le sanzioni non sono certo quello che mette in ginocchio Mosca, che ha problemi economici diversi dovuti al crollo del prezzo del petrolio, come sappiamo bene. Attualmente, il mantenimento delle sanzioni di cui parla la Merkel serve soprattutto a non certificare il fallimento di "Minsk 2", l’incapacità della comunità internazionale di trovare una soluzione, e l’incapacità di proporre agli interlocutori di questa crisi – ucraini e indipendentisti russi – una soluzione che sia accettabile da tutti. Allo stato attuale, credo che solo due dei protagonisti della crisi possano dire di aver raggiunto i propri obiettivi: da una parte gli Stati Uniti, perché hanno insediato un governo amico a Kiev, una zona importantissima dal punto di vista strategico per l’esportazione energetica della Russia e per le importazioni energetiche dell’Europa: hanno quindi un cuneo molto importante lì. E l’altro protagonista che in qualche modo ha portato a casa quello che più o meno poteva voler desiderare è la Russia: quest’ultima, con la questione della Crimea e del Donbass, si è scavata un accesso ampio e diretto al Mar Nero, che era ciò di cui aveva veramente bisogno. L’idea che la Russia possa volersi prendere tutta l’Ucraina è una sciocchezza senza pari. Quindi – sicuramente – a questo punto il Cremlino può dirsi abbastanza soddisfatto. Resta il fatto che chiunque sia soddisfatto o si dica insoddisfatto, in Ucraina, nel Donbass, c’è gente che spara e che muore.

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Yemen: Msf, evacuato lo staff da sei ospedali del nord

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Medici senza frontiere (Msf) ha deciso di evacuare il personale da sei ospedali che sostiene nel nord dello Yemen, dopo una serie di bombardamenti aerei che hanno colpito quattro di queste strutture in meno di un anno. Lo ha annunciato l'organizzazione, fornendo un bilancio aggiornato dell'ultimo di questi attacchi, avvenuto lo scorso 15 agosto sull'ospedale Abs: 19 morti e 24 feriti. La coalizione militare araba guidata dall'Arabia Saudita si è detta rammaricata per la decisione e ha annunciato il tentativo di convocare un incontro urgente con l’organizzazione. Marina Tomarro ha raccolto il commento di Roberto Scaini di Medici senza frontiere: 

R. – È una scelta difficilissima, non da un punto di vista tecnico ma umano, perché sappiamo benissimo che sono zone dove ci sono necessità in termini umanitari e medici inimmaginabili, e quindi dove è necessaria la nostra presenza. Il perché sia stata presa questa decisione piuttosto pesante è che è evidente che non sono più garantite le norme del diritto umanitario internazionale: una molto semplice è che gli ospedali e i centri di cura non devono essere bersaglio di attacchi armati. Purtroppo, questo non è successo solo il 15 agosto, lasciando dei morti e feriti sul campo. Nel solo Yemen è il quarto attacco a strutture sanitarie supportate da Medici senza frontiere, per cui noi siamo testimoni diretti. Questo non vuol dire però che abbiamo abbandonato la popolazione. Continuiamo chiaramente a supportare in remoto le strutture sanitarie e speriamo di poter ritornare il più presto possibile.

D. – Cosa vuol dire questo per la popolazione?

R. – Avere un maggiore accesso alle cure. Faccio l’esempio dell’ultimo ospedale attaccato e distrutto e che quindi non può più operare: se una madre vuole andare a partorire e avere un parto sicuro, non c’è più un altro posto disponibile. Il punto è che non è possibile trovare un ospedale a 10 km da un altro che è stato distrutto. Non è possibile. Sono pochissimi gli ospedali rimasti aperti per motivi tecnici e che non sono stati distrutti per gli attacchi diretti alle strutture sanitarie. Non c’è accesso alle cure: anche la malattia più “banale” diventa mortale.

D. – Cosa si sarebbe potuto fare maggiormente per evitare tutto questo?

R. – Rispettare le regole. È un po’ strano che anche durante la guerra ci siano delle regole, ma queste sono sancite e firmate. E questo non sta assolutamente succedendo. Continuiamo a chiederci come un ospedale possa essere inteso alla stregua di un bersaglio militare. E continuiamo a chiederci come possa essere un errore, che forse potrei accettare se fosse la prima volta. Tutte le strutture sanitarie sono segnalate con le coordinate Gps. Quindi, è necessario rispettare quello che va rispettato: un posto dove le persone vanno a curarsi, ci  chiediamo veramente come un ospedale possa essere un bersaglio.

D. – La coalizione militare araba si è detta molto dispiaciuta e ha affermato che è necessario un incontro urgente con Msf: lei cosa ne pensa? Può essere una soluzione?

R. – Nel momento in cui ci si siede intorno ad un tavolo, se quello che si dice viene poi rispettato questa può essere una soluzione. Purtroppo, però, degli incontri ci sono già stati ripetutamente in passato. E in questi incontri sono state date precise garanzie: se si rispetta quello che si dice, questo è un grande passo. E, ripeto, noi siamo disponibili a ritornare perché è quello che vogliamo fare. Perché l’emergenza umanitaria c’è, e lo sappiamo benissimo. Vogliamo tornare, ma abbiamo bisogno di garanzie oneste.

D. – Qual è la condizione umanitaria del Paese in questo momento?

R. – Non c’è assolutamente accesso ai fabbisogni primari: cibo, acqua, ecc. Il numero di bambini malnutriti è in costante aumento, non c’è più accesso alle cure né per i casi acuti né per le patologie croniche, come un semplice diabete o ipertensione, che non viene più curata. Gli ospedali sono rimasti pochi, quindi la popolazione deve affrontare dei lunghi spostamenti per raggiungere i pochi ospedali aperti. E spesso una popolazione che era già povera prima, ora lo è ancora di più e non ha i mezzi neanche per pagare un trasporto per raggiungere i centri di cura. Adesso le patologie sono in aumento esponenziale, perché ci sono popolazioni che chiaramente devono abbandonare le città sottoposte agli attacchi, si devono sposare in zone dove la situazione è relativamente più tranquilla. Abbandonando le loro case vanno a vivere senza alcuna protezione e alle volte senza neanche una tenda. Ci sono campi di rifugiati dove hanno giusto due legni o un telo per proteggersi da acqua e freddo. Noi facciamo anche servizi di cliniche mobili, ma la condizione è quella che ci sia la sicurezza per poter operare. E ormai è diventato un circolo vizioso: la situazione nello Yemen è veramente difficile per la popolazione civile.

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Ddl diritto asilo. Hein (Cir): richiedenti restino tutelati

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In Italia, un nuovo disegno di legge, anticipato dal ministro della Giustizia Orlando, prevede l’eliminazione del grado di Appello per i richiedenti asilo che abbiano già ricevuto il diniego da parte del giudice. Una misura pensata per cercare di sfoltire le procedure e i tribunali ingolfati dai molti ricorsi, ma che appare una limitazione per i diritti di chi richiede la protezione internazionale. Salvatore Tropea ha chiesto il parere di Christopher Hein, portavoce del Cir, il Consiglio Italiano per i Rifugiati. 

R. – Al momento, si tratta solamente di un disegno di legge, non ancora di un provvedimento legislativo in atto. Attualmente, c’è una prima istanza amministrativa sulle richieste di protezione internazionale presso le Commissioni territoriali. Nel caso di una risposta negativa o non soddisfacente per il richiedente, c’è la possibilità di fare un ricorso al Tribunale civile. Questo rimane comunque così com’è attualmente, solo che la procedura presso il Tribunale potrebbe cambiare, nel senso che non necessariamente la persona viene audita personalmente – così almeno la proposta del ministro Orlando. L’idea è di sostituire questo secondo grado con una commissione indipendente ai fini di abbreviare innanzitutto tutta la procedura che effettivamente attualmente è molto lunga. Quindi, diciamo che in questo ci sono luci e ombre. Dal punto di vista del rifugiato, del richiedente asilo, tutto ciò che accorcia i tempi di attesa per avere finalmente una risposta e quindi alla chiarezza sul proprio futuro, ben venga, sempre e quando le garanzie essenziali, le garanzie di procedura non siano diminuite: su questo, si possono avere dei dubbi, però non penso che neanche il ministro Orlando pensi veramente di abolire del tutto una seconda istanza.

D. – Un’altra novità riguarda l’attuale “rito sommario di cognizione”, che verrebbe sostituito da un “procedimento camerale”: salterebbe quindi l’udienza, tranne che in casi particolari. A cosa potrebbe portare questo ulteriore cambiamento?

R. – Quello che si prevede è che i giudici decidano sulla base di un video che viene fatto in sede della prima audizione presso la Commissione territoriale che, naturalmente, è preoccupante perché la persona non avrebbe più, di regola, la possibilità di esporre davanti al giudice i motivi per i quali ritiene di avere bisogno di protezione. Quindi, questo sarebbe una diminuzione di una garanzia e per questo io mi auguro che, così come è scritta, la proposta non passi.

D. – Qual è l’alternativa per consentire ai richiedenti asilo di poter ricorrere all’appello senza allo stesso tempo intasare ancora di più i processi e snellire le procedure?

R. – Mi sembra positivo, nella proposta, di istituire delle sezioni speciali presso i Tribunali civili che si occupino appunto solo dei ricorsi sul diritto d’asilo, naturalmente anche con un potenziamento del personale non solo giudicante ma anche amministrativo presso i Tribunali, che è assolutamente necessario.

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Mineo (Ceis): Cannabis ancora più pericolosa, non legalizzarla

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“Evitare che i ragazzi entrino in contatto con la criminalità organizzata”. Il capo dell’Anticorruzione Raffaele Cantone giustifica così la sua apertura a una legalizzazione controllata della Cannabis. Contrario Silvio Garattini, farmacologo e direttore dell'Istituto Negri, perché l’uso di questa sostanza è dannoso. Alessandro Guarasci ha sentito Roberto Mineo, presidente del Centro italiano di solidarietà don Mario Picchi (Ceis): 

R. – Abbiamo l’articolo 32 della Costituzione italiana che dice chiaramente che lo Stato deve tutelare la salute dei propri cittadini, quindi dovrebbe essere bypassato a livello di legge e quindi la salvaguardia della salute pubblica non esiste più.

D. – Quali potrebbero essere gli effetti anche sul sistema sanitario nazionale, in caso di una legalizzazione?

R. – Sarebbero devastanti, perché si verrebbe a creare – come già abbiamo avuto prova con la legalizzazione del gioco d’azzardo che ha provocato il gioco d’azzardo patologico – un esercito di nuovi dipendenti che comunque andrebbero a ricadere sul sistema nazionale sanitario e non solo, e quindi il costo sociale andrebbe ad aumentare veramente a livelli esponenziali. Non vedo quale sia l’utilità, anche sotto questo profilo. Bisogna uscire un attimo dagli schemi mentali stereotipi di demagogia del post ’68. Io sono convintissimo che non si ridurrà assolutamente la pressione della criminalità organizzata su questo fronte, perché si creerà un mercato parallelo con costi minori…

D. – Ma a livello italiano lei nota un calo di tensione nella lotta agli stupefacenti?

R. – Sicuramente. Da diversi anni, purtroppo, il nostro Stato italiano non interviene in maniera decisa per quanto riguarda la lotta al narcotraffico, e soprattutto nell’informazione e nella prevenzione rivolta ai nostri giovani e la nostra popolazione, per quanto riguarda la pericolosità delle sostanze stupefacenti. La cannabis ha effetti veramente devastanti, perché non è più la cannabis degli anni Ottanta ma è stata geneticamente modificata e quindi il principio attivo del tetracannabinolo è stato portato a livelli molto molto alti, parliamo del 70-80%.

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Giornata umanitaria: la testimonianza di un operatore Caritas

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Il 19 agosto si celebra la Giornata mondiale umanitaria per ricordare quanti, ogni giorno, aiutano milioni di persone in tutto il mondo, affrontando spesso pericoli e avversità. La Giornata è stata scelta dall’Assemblea generale dell'Onu in ricordo dell’anniversario del bombardamento della sede delle Nazioni Unite a Baghdad nel 2003, in cui morirono 22 persone, ed è dedicata in particolare a coloro che rischiano la vita al servizio degli altri. Ma cosa vuol dire essere un operatore umanitario? Marina Tomarro ha raccolto la testimonianza di Giuseppe Pedron, da dieci anni in Sri Lanka come coordinatore dell'Asia meridionale per la Caritas Italiana: 

R. – Innanzitutto, significa fare una professione con passione e, facendo ciò, mettersi al servizio: ovvero l’importante, per quanto ci riguarda, è mantenere un approccio sempre vicino alle persone e non dimenticarsi mai che il lavoro che facciamo deve essere per il beneficio delle persone, di chi soffre, gli ultimi, i poveri e gli emarginati. E questo significa essere disponibili, ma competenti, perché il cuore da solo non basta e nemmeno solo la testa. Spesso trovare il giusto mix tra le due cose non è semplice, ma questa è la sfida che ci troviamo di fronte ogni giorno e ogni volta che facciamo le varie attività a cui ci porta il nostro lavoro.

D. – Come nasce l’idea di diventare un operatore umanitario?

R. – Per quanto mi riguarda nasce da un sogno: conoscere l’Asia e dedicarmi agli ultimi e a chi aveva bisogno. E quindi è una strada segnata, quella verso questa professione, che si costruisce giorno dopo giorno; una scelta che poi nel mio caso è stata condivisa anche da mia moglie Cristina, dalla nostra famiglia. Siamo tutti insieme e questa diventa veramente una pienezza di vita.

D. – Quanto ha influito la fede in questa scelta lavorativa e di vita?

R. – La fede ha influito molto nel desiderio di essere vicini alle popolazioni più emarginate e quindi di essere testimonianza di presenza evangelica. È una fede che nel tempo è maturata e che produce un cambiamento nella vita degli altri e nella propria. 

D. – Quali sono i vostri compiti? Cosa fate in Sri Lanka?

R. – Il nostro compito è quello di accompagnare nello specifico Caritas Sri Lanka nel percorso di crescita e autonomia; essere indipendenti nello svolgere i programmi; lavorare con i partner in tutta l’Asia; concordare le strategie; decidere come spendere al meglio i soldi che i donatori danno a beneficio delle persone emarginate, affinché vengano spesi bene, in maniera efficace, e portino beneficio alle popolazioni in maniera funzionale e trasparente. Questo significa una varietà di compiti: dalla progettazione, la verifica, fino al rapporto con i partner, insieme con la conoscenza e la visita di tutte o di molte delle realtà di povertà. Si pensi ultimamente al Nepal terremotato: il nostro compito è quello di andare dalle comunità, capire le problematiche e costruire dei percorsi di ricostruzione e riabilitazione.

D. – Quali sono le urgenze di queste popolazioni che lei aiuta?

R. – In generale, direi che l’urgenza è quella di integrare gli emarginati e quindi far sì che gli ultimi, che non sono solo poveri emotivamente ma anche di possibilità – ossia chi si trova in situazioni di estrema povertà o con poche possibilità di contatto con altre realtà – possano far parte della società. La società non vuole vedere l’esistenza della povertà e preferisce invece seguire i soldi.

D. – Ci sono state situazioni in cui avete avuto paura, timore o dubbi?

R. – Sì, dubbi sull’efficacia del nostro lavoro e su come viene fatto ne abbiamo – per fortuna! – spesso. E questo ci aiuta a perfezionarci, a interrogarci e a pensare strategie diverse. Abbiamo anche paura qualche volta; penso recentemente alla seconda scossa di terremoto in Nepal: proprio in quei giorni ero a Katmandu. E quindi sì, c’è la paura fisica, dell’insicurezza; e soprattutto in questo modo si percepisce la paura delle popolazioni. Perché poi noi torniamo nei nostri posti, siamo al sicuro, abbiamo la possibilità di prendere un aereo e ripartire; ma c’è invece chi vive in questa povertà tutti i giorni. La paura della guerra poi: durante quella in Sri Lanka – indubbiamente – abbiamo condiviso, anche se per pochissimo, l’insicurezza delle popolazioni sotto le bombe nelle trincee. E spesso ci sono varie situazioni in cui ci si trova a contatto con l’estrema povertà, che ci interroga e ci mette a disagio.

D. – Come siete accolti dalle popolazioni locali?

R. – Normalmente molto bene. L’accoglienza iniziale è di apertura. Poi il fatto di vivere insieme, di condividere e di stare per mesi o anni in un posto, ci aiuta a stringere anche relazioni e a vedere quindi sia l’accoglienza, ma anche la difficoltà nell’integrare culture e modi di fare diversi.

D. – Tutta la vostra famiglia è in Sri Lanka. Ma i figli come vivono questa situazione?

R. – Vivono anche loro la difficoltà, a volte, di essere stranieri in una terra, nonostante ci siano nati e parlino perfettamente la lingua. D’altro canto, però, vivono l’esperienza dello stare con i bambini del villaggio e quindi della libertà di molte cose. Anche per loro questa è una bella esperienza, di sicuro di apertura e anche di creazione di una identità culturale che poi si farà nel tempo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Congo. Massacro di Beni, vescovi: un atto deprecabile

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“Condanniamo senza riserve questi atti deprecabili e chiediamo alle autorità congolesi, garanti della sicurezza delle persone e dei loro beni, di fare quanto in loro potere per fermare questo ciclo di atrocità”: è quanto scrivono i vescovi della Repubblica Democratica del Congo in un comunicato a firma del presidente della conferenza episcopale, mons. Marcel Utembi, arcivescovo di Kisangani, in seguito al massacro di Beni perpetrato, nella notte fra il 13 e il 14 agosto, da un gruppo armato che ha ucciso indiscriminatamente uomini, donne e bambini.

Azioni concrete per individuare autori del massacro
I presuli esortano le autorità ad “avviare azioni concrete per individuare gli autori di questi massacri, permettere e facilitare un'inchiesta indipendente e obiettiva” e chiedono “il fermo impegno della Monusco" (la Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo) e della “comunità internazionale a contribuire alla ricerca di una soluzione duratura a questa tragedia”. Esprimendo poi la loro fraterna vicinanza al vescovo di Butembo-Beni, mons. Melchisédech Sikuli, formulano le loro condoglianze ai familiari delle vittime assicurando la loro preghiera. (T.C.)

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Card. Bo: è l'ora che il Myanmar ricominci unito e in pace

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La “Conferenza Panglong del XXI secolo” che si terrà il prossimo 31 agosto “è un pellegrinaggio di pace. Incoraggio tutti i compatrioti, uomini e donne, ad affrontare questo cammino con speranza. È un momento storico e un’opportunità di significato immenso per la nostra gente”. Così il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha salutato il Convegno incentrato sui dialoghi di pace che il governo birmano, guidato dalla Lega per la democrazia (Nld), sta organizzando con l’esercito e tutti i gruppi etnici che da anni combattono per l’autonomia nel Paese. Il Myanmar è infatti composto da oltre 135 etnie che hanno sempre faticato a convivere in maniera pacifica, in particolare con il governo centrale e la sua componente di maggioranza birmana.

La pace è possibile
La Conferenza, ricorda il porporato in un messaggio indirizzato a tutti i cittadini e citato dall’agenzia AsiaNews, è la prima da quella del 12 febbraio 1947, che “fece nascere il Myanmar e che fu firmata da quattro gruppi etnici: Bamar, Chin, Kachin e Shan. Il generale Aung San (allora capo del governo e padre dell’attuale leader della Nld, Aung San Suu Kyi - ndr) ebbe la sagacia di vedere che la pace era possibile”. Purtroppo, “la sua morte prematura (fu assassinato a luglio dello stesso anno - ndr) mandò una nazione allo sbando e gli eventi seguenti portarono un dolore indescrivibile per la nostra gente”.

Il contesto attuale
Per questo, il card. Bo ritiene che la prossima Conferenza di Panglong “debba servire come fondamento per costruire la pace”. Dalla presa del potere lo scorso primo aprile, la Nld e Aung San Suu Kyi hanno lavorato senza sosta per ottenere la disponibilità al dialogo di tutte le parti in causa, dichiarandosi favorevoli alla creazione di uno Stato federale e inclusivo. Per evitare una recrudescenza dei conflitti, a ottobre 2015 la giunta militare al governo aveva avviato colloqui di pace che hanno portato alla firma di un cessate-il-fuoco nazionale con otto gruppi etnici armati minoritari. Manca ancora, però, una pace duratura, tanto che l’esercito continua a combattere in più zone.

Il Myanmar rinasca in una nuova alba di riconciliazione
Ora, scrive il card. Bo, il popolo del Myanmar è “molto incoraggiato dallo spirito della Nld e dei suoi leader. Milioni di cuori hanno sostenuto Aung San Suu Kyi alle elezioni”. Ma, afferma l’arcivescovo di Yangon, un ruolo fondamentale nei colloqui lo deve avere l’esercito: i militari “che hanno avuto il plauso di tutto il mondo per aver trasferito il potere in modo pacifico, possono infatti giocare una parte storica nell’unire i gruppi armati e favorire dialoghi diretti con il governo”. Di qui, l’appello del card. Bo alla preghiera ed alla speranza per il futuro del Paese: “Permettiamo al Myanmar – conclude – di rinascere in una nuova alba di pace. Iniziamo oggi questo pellegrinaggio di pace”. (I.P.)

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Colombia. Vescovi: al referendum voto "consapevole" sulla pace

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Nessuna indicazione specifica per il "sì" o per il "no", ma solo l’invito a un voto secondo coscienza: è quello lanciato dalla Conferenza episcopale della Colombia in vista del referendum, in programma nei prossimi mesi, sull’accordo di pace siglato recentemente a L’Avana tra il governo e le Farc, le Forze armate rivoluzionarie.

Dalla Chiesa nessuna indicazione di voto
In una nota diffusa sul loro sito web, i vescovi di Bogotà rispondono chiaramente ad alcuni mass media che danno la Chiesa schierata a favore del "sì". “In alcun modo - scrivono i presuli - esortiamo i colombiani a votare per il sì o per il no. Per questo, saremo grati ai mezzi di comunicazione sociale ed a chi opera nell’opinione pubblica se eviteranno qualsiasi messaggio equivoco che travisi la posizione chiara che l’episcopato ha sul referendum”.

Rispettare la volontà del popolo
I presuli ricordano quanto già affermato nei mesi scorsi, al termine della loro 101.ma Assemblea plenaria: “Esortiamo il popolo colombiano a partecipare alla consultazione sugli accordi di L’Avana in modo responsabile, con un voto informato e secondo coscienza, che esprima liberamente la sua opinione come esercizio effettivo della democrazia e con il dovuto rispetto per ciò che, alla fine, deciderà la maggioranza”.

I punti-chiave dell’accordo de L’Avana
Da ricordare che l’intesa raggiunta a Cuba il 23 giugno scorso, dopo quattro anni di negoziati, pone fine a più di 50 anni di conflitto tra il governo colombiano e le Farc. Punti centrali dell’accordo sono il cessate-il-fuoco, la consegna delle armi da parte delle Forze rivoluzionarie in cambio della loro trasformazione in un movimento legale, la creazione di una commissione speciale per sostenere la riconciliazione nazionale, il risarcimento per le vittime e l’istituzione di un tribunale speciale per perseguire e punire i responsabili dei crimini commessi durante il conflitto armato. Per essere valido, il referendum dovrà raggiungere il quorum del 13% degli aventi diritto al voto. (I.P.) 

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Gabon, elezioni presidenziali, appello vescovi: speranza per il futuro

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“Se avete la memoria del passato e il coraggio per il presente, sarete la speranza del futuro”. Inizia con una citazione delle parole pronunciate il 31 luglio da Papa Francesco alla Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia il messaggio dei vescovi del Gabon in vista delle prossime elezioni presidenziali il 27 agosto.

La campagna elettorale in un clima di tensione
La data del voto è stata annunciata il 6 giugno dalla Commissione elettorale autonoma e indipendente (Cenap) e la campagna elettorale è iniziata il 13 agosto in un clima di forti tensioni, dopo l’annuncio della ricandidatura del presidente uscente, Ali Bongo Ondimba, del Partito democratico gabonese, al potere dal 2009, dopo la morte del padre, Omar Bongo Ondimba. La sua candidatura è contestata dai tre candidati dell’opposizione: Jean Ping, già presidente della Commissione dell’Unione africana, Guy Nzouba Ndama, ex presidente dell’Assemblea nazionale, e l’ex premier Casimir Oyé Mba, che lo accusano di essere un figlio adottato e di essere nato in Nigeria.

Una novena di preghiera per invocare la pace nel Paese
In questo clima si inserisce il messaggio rivolto dal presidente della Conferenza episcopale gabonese, mons. Mathieu Madega Lebouakehan, agli elettori, ai candidati e alle istituzioni gabonesi. Il documento sottolinea l’importanza “storica” di questo voto per il Gabon, che potrebbe voltare pagina dopo quasi 50 anni di potere ininterrotto del Partito democratico gabonese, chiedendo l’aiuto di Dio per la pace nel Paese. A questo scopo i vescovi gabonesi hanno indetto dal 18 al 26 agosto una Novena di preghiera del Rosario, che si concluderà ogni giorno con una celebrazione eucaristica per invocare il dono della pace e il perdono dei peccati di tutti i gabonesi. La novena è stata preceduta, dal 12 al 15 agosto, da un pellegrinaggio nazionale al Santuario di Nostra Signora dell’Equatore di Sindara e da una preghiera di intercessione alla vigilia dell’Assunzione. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 232

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.