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Sommario del 20/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il nunzio in Iraq: tanti soldi per le armi, pochi per le persone

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Le “popolazioni che in tante parti del mondo sono vittime innocenti di persistenti conflitti”, gente che “non ha peso nell’opinione pubblica”. Ne ha parlato il Papa nella festa dell’Assunta, il 15 agosto scorso, invocando compassione, comprensione, pace e concordia. Tra loro ci sono milioni di profughi iracheni, ridotti alla fame, provati nella fede e separati dalle famiglie, a causa della guerra. “Una situazione difficile, in cui i cristiani sono pronti a impegnarsi”: è quanto spiega al microfono di Gabriella Ceraso il nunzio apostolico in Iraq, mons. Alberto Ortega Martín

R.- Sì, c’è la difficile situazione umanitaria per il numero grandissimo di sfollati che sono circa tre milioni e mezzo, in una situazione di crisi economica forte e con tante sfide che il Paese deve affrontare. Purtroppo le Nazioni Unite si sono impegnate, ma la richiesta di soldi è stata coperta soltanto in parte, non arriva nemmeno alla metà dei bisogni presentati. Come il Papa ha denunciato tante volte, si usano tanti soldi per le armi e non si usano nella stessa misura per la persona concreta e i suoi bisogni.

D. - Cosa accade delle famiglie? Sappiamo spesso che chi va via, chi viene e chi esce dalla città prima tenute dall’Is, poi subisce anche a livello famigliare una divisone: gli uomini vengono controllati in una certa maniera separandoli dalle donne e dai bambini. È una realtà che riguarda anche l’Iraq …

R. - Sì, è una situazione un po’ delicata perché in alcune zone quando escono questi sfollati - perché c’è l’attacco dell’esercito delle altre forze -  hanno paura che tra questi ci siano anche dei terroristi, dei membri dell’Is. Sotto questo aspetto è stato effettuato un controllo per evitare che escano in mezzo alla popolazione civile anche i membri dell’Is o gente collegata a loro. Stanno cercando di portare avanti indagini ma purtroppo non sempre è stato fatto con l’attenzione e con il rispetto dei diritti che andrebbe seguito in queste situazioni particolari. A livello famigliare si creano delle situazioni difficili. Per le donne e per i bambini è facile uscire, per gli uomini a volte devono fare questi controlli che con il tempo cercheranno di effettuare al meglio possibile perché ci sono state alcune critiche e infatti è stata anche aperta un’inchiesta per verificare e trovare il modo migliore per portare avanti queste azioni di controllo.

D. - Voi come Chiesa riuscite ad arrivare a raggiungere i campi profughi? Sappiamo che spesso, lo dice anche Amnesty, sono privi di tutto...

R. - Si cerca di fare il più possibile tramite la Caritas, adesso a poco a poco molti di loro, soprattutto cristiani, sono in case affittate che erano pensate per una famiglia e invece ce ne sono due o tre, ma almeno hanno un tetto. Certo hanno bisogno ancora di aiuto per l'affitto e per mantenersi, per il cibo e i beni di prima necessità ...l'ideale, e ci sono già progetti al riguardo, è fare in modo che possano guadagnarsi uno stipendio e integrarsi di più. Ma grazie a Dio in questi campi ce ne sono sempre di meno.

D. - Ci può dire quale è la situazione in generale dei cristiani?

R. - Hanno sofferto tanto. A Mosul e nella zona della Piana di Ninive, tutti se ne sono andati. Molti sono andati all'estero, tanti in Kurdistan. Purtroppo è diminuita la presenza cristiana nel Paese, ma tanti restano ancora anche a Baghdad. E noi cerchiamo di incoraggiarli e dar loro speranza perchè pensiamo che la loro presenza sia importantissima non solo per la Chiesa, ma anche per la società. D' altra parte se vogliono rimanere hanno bisogno di sicurezza, di lavoro, di un'abitazione.

D. - La prossima tappa di cui tanto si parla per l'Iraq è l'offensiva su Mosul, ancora roccaforte dell'Is.Ci sono timori che questa offensiva possa aggravare ancor di più la situazione umanitaria. E' così?

R. - A livello umanitario si aspetta una crisi molto forte e si fanno preparativi perchè non si può improvvisare la risposta. Nello scenario più prevedibilie potrebbe esserci anche un milione di sfollati in pochissimo tempo. Una situazione di emergenza che non ha pari nella storia recente. Sarà una grandissima sfida.

D. - Lei è arrivato da pochi mesi ad abbracciare questo popolo e questo Paese. Che idea si è fatto del suo presente e del suo futuro?

R. - E' un Paese che ha tante possibilità, come capacità è ricco, ma purtroppo vive una situazione di crisi .E la grande sfida, mi accorgo sempre di più, è la riconcilizione: a parte il cercare di sconfiggere l'estremismo, occorre andare alla radice, per costruire insieme una società in cui tutti hanno un posto, dove lavorano insieme, dove c'è dialogo. In questo si gioca il futuro del Paese e a questo futuro i cristiani, pur numericamente in minoranza, vogliono offrire un contibuto indispensabile.

D. - Da parte delle autorità sente che c'è collaborazione?

R. - E' un momento difficile a livello istituzionale: vogliono cambiare il governo e ci sono difficoltà anche in Parlamento, è per questo che dico che la sfida grande è la riconcilizaione, a cominciare dalla classe politica che dovrebbe dare un esempio di collaborazione per il bene comune, perchè è l'unico modo per portare avanti il Paese 

D. - Quindi lei si sarà  reso conto anche del peso che la Chiesa ha nel Paese? 

R. - Si sotto questo aspetto, fa soprattutto da modello, da esempio da incoraggiamento e successivamente forse anche offrendo gente capace di dare il suo contributo. I cristiani sono sempre chiaramente artefici di pace, ricchezza, sviluppo ed è un ruolo che vogliono svolgere insieme alle persone di altre religioni 

D. - Lei che obiettivi si è posto arrivando in Nunziatura?

R. - Cercare di imparare il più possibile, imparare anche dalla testimonianza di questi cristiani stupendi, che hanno perso tutto per mantenere la loro fede; e cercare di mostrare la vicinanza molto vera del Santo Padre e della Chiesa. Vicinanza, preoccupazione e aiuto, e poi incoraggiare anche con una buona parola le autorità a collaborare insieme e a favorire la pace.

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Conferenza Istituti secolari. Braz de Aviz: semi di Vangelo nel mondo

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Si apre questa domenica a Roma, presso il Salesianum, l’Assemblea generale della Conferenza mondiale degli Istituti secolari. Due i temi principali: la formazione e l’identità. Oltre 140 i partecipanti provenienti da tutto il mondo. Ad aprire i lavori sarà il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Federico Piana lo ha intervistato: 

R. – Prima di tutto noi pensiamo a questo aspetto: la formazione, soprattutto per essere discepoli di Gesù, poi essere veramente fedeli al carisma ed essere inseriti nel contesto della cultura attuale. Questo si fa soprattutto rivedendo il primo sguardo di Gesù verso di noi quando ci ha chiamato alla nostra vocazione. Allora questo aspetto è importante. Secondo aspetto della formazione: la vita fraterna che è fondamentale per la comunità anche per coloro che hanno una vocazione che non implica un legame di vita comunitaria come il caso degli istituti secolari. Il terzo aspetto della formazione: tutta la questione dell’autorità e dell’uso dei beni, che per noi è una visione soprattutto di servizio e di comunione dei beni. In questo senso allora riprendere queste strade nella formazione è importante. Altro aspetto sul quale insistono molto  - ed hanno ragione – poggiati sulle parole di Papa Francesco, è la questione dell’identità degli istituti secolari che è di tipo secolare, cioè la consacrazione in mezzo al mondo. È una consacrazione, a volte, fatta insieme, altre volte da soli, nella specificità delle varie vocazioni, nel lavoro normale, però in mezzo al mondo, cioè come un fermento, come qualcosa che dovrà dall’interno muovere questo seme del Vangelo che fa crescere la società. Mi sembra che questa sia un’assemblea veramente importante.

D. - Tra i temi che verranno discussi c’è la laicità come luogo naturale per la formazione…

R. – Certo, perché il loro luogo di realizzazione della vocazione non è inserito in una struttura clericale o di congregazione, ma nella vita normale della famiglia e del mondo.

D. – Al centro dell’assemblea anche la riscoperta del valore di una vocazione evangelica che non cerca visibilità o efficienza …

R. - Qui possiamo ricordare una parola degli ultimi Papi, anche di Papa Francesco: noi non imponiamo l’evangelizzazione a nessuno; noi possiamo solo testimoniare la vita cristiana e la vita cristiana vissuta diventa attraente, attrae le persone. In questo senso anche per gli istituti secolari questo è il punto che farà la differenza, cioè la testimonianza vera della Sequela Christi e della sequela della propria consacrazione.

D. - Durante questi lavori si avrà la possibilità di una riflessione pin vista del 70.mo anniversario della Provida Mater Ecclesia, la Costituzione Apostolica degli istituti secolari firmata da Pio XII nel 1947. Che riflessione si potrà fare su questo documento?

R. - Io penso che si riprenderà soprattutto la novità di questa vocazione perché era proprio in quel periodo con Pio XII che è venuto più in evidenza questo tipo di consacrazione laicale inserita nel mondo e anche a livello individuale. Questa è una novità che è venuta fuori in quel momento. Prima c’erano state alcune esperienze anche dei santi in questa direzione, però lì si era consolidata veramente questa novità. Partendo allora dalla Provida Mater si potrà passare a al nostro contesto attuale, ovviamente diverso, sono passati 70 anni, e si potrà approfondire questa identità secolare e questa Sequela Christi nel mondo.

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Madre Teresa. Papa nomina il card. Pulić inviato a Skopje

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Papa Francesco ha nominato il cardinale Vinko Pulić, arcivescovo di Sarajevo, in Bosnia ed Erzegovina, suo inviato speciale alla celebrazione che si terrà a Skopje, in Macedonia, l’11 settembre 2016, a conclusione della giornata di ringraziamento per la canonizzazione della Beata Madre Teresa di Calcutta.

In Ciad, il Pontefice ha nominato mons. Edmond Djitangar arcivescovo di N’Djamena, sollevandolo, in pari tempo, dalla cura pastorale della Diocesi di Sarh.. Il prsule, 63 anni, è nato il 2 novembre 1952 in Bekoro (Diocesi di Doba), 37 di sacerdozio, essendo stato ordinato sacerdote il 30 dicembre 1978, e 24 di episcopato, essendo stato eletto Vescovo della Diocesi di Sarh l’11 ottobre 1991  e consacrato il 2 febbraio 1992. Dopo aver frequentato il Seminario Minore St. Pierre di Sarh, ha completato gli studi di Filosofia e Teologia presso il Seminario Maggiore di Nkolbison (Yaoundé) e Koumi (Burkina Faso). Ha, poi, conseguito la Licenza in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico (Roma). Ritornato in Ciad nel 1985, oltre al servizio pastorale in alcune parrocchie, ha svolto gli incarichi di docente di Sacra Scrittura, Direttore del Centro diocesano di Formazione per i Catechisti, Vicario Generale di Sarh.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Incarnazione mistica nel povero: il discorso in parte inedito di Paolo VI durante l’ultima udienza a Madre Teresa.
Gian Paolo Salvini su Dio a modo mio: inchiesta sulla religiosità giovanile.

Enzo Bianchi su una mostra dedicata all’artista bosniaco Safet Zec.

Zero Gesù: Alberto Fabio Ambrosio su una canzone che parla in profondità.

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Oggi in Primo Piano



Siria. Scontri curdi-lealisti a Hasakah, emergenza ad Aleppo

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Si allargano in Siria gli scontri nella regione nord-orientale di Hasakah fra le truppe governative e le milizie curde dell’Ypg (Forze di difesa del popolo), considerate alleate dei curdi separatisti del Pkk che operano in Turchia. Ankara avverte: sì ad Assad in fase di passaggio, ma non nel futuro del Paese. Bombardamenti, inoltre, sono stati segnalati da Idlib, nel nord-ovest, fino a Daraya, alle porte di Damasco, mentre l’Osservatorio siriano per i diritti umani traccia un bilancio: oltre 100 morti nell’ultima settimana ad Aleppo. Roberta Barbi: 

È un nuovo fronte di guerra, di fatto, in un Paese già tanto martoriato, quello che si è aperto negli ultimi giorni nell’estremo nord-est della Siria, ad Hasakah, controllata dalle forze curde dell’Ypg, sostenute dagli Stati Uniti, ritenute le più efficaci nella lotta al sedicente Stato islamico. Per due giorni consecutivi hanno denunciato bombardamenti compiuti nei dintorni della città dai governativi che in oltre cinque anni di conflitto finora avevano evitato di prendere di mira direttamente i curdi. “Damasco inizia a vedere i curdi come una minaccia”, tuona il governo di Ankara che promette di attivarsi, nei prossimi sei mesi in Siria, per evitare che il Paese venga diviso su basi etniche. La Turchia, infatti, considera i curdi siriani un pericoloso alleato dei separatisti curdi turchi, e proprio sul Pkk ricadono le accuse di Damasco di aver provocato le violenze degli ultimi giorni ad Hasakah.

Intanto la Russia, che due giorni fa si era detta disponibile a un cessate il fuoco di 48 ore ad Aleppo, ieri ha lanciato missili da crociera dalle sue navi nel Mediterraneo contro Aleppo dove – secondo una stima dell’Osservatorio siriano per i diritti umani – dall’inizio dell’escalation di violenza del 31 luglio, sarebbero 442 i civili uccisi, tra cui 97 minori, 108 i morti totali nell’ultima settimana. Sempre secondo l’Osservatorio, in poco meno di un anno l’intervento russo nel Paese avrebbe causato più morti dell’Is. Mosca, inoltre, nega di aver preso parte, la sera di giovedì scorso, ai combattimenti sul quartiere residenziale di al-Katerji, nella parte orientale della città, in cui sono morti 5 bambini e 3 adulti.

Proprio qui sarebbe stato girato il video sul piccolo Omran, 5 anni, la cui storia ha commosso il mondo. Il bimbo è stato miracolosamente estratto vivo dalle macerie della sua casa e soccorso e con ferite lievi nell’ospedale M10 dove resta il fratello maggiore in gravi condizioni. Proprio sulla parte orientale di Aleppo accende i riflettori l’Unicef, denunciando il peggioramento delle condizioni di accesso all’acqua potabile: almeno centomila i bambini a rischio malattie da acqua contaminata, mentre più di 8 milioni sono i bimbi che necessitano aiuti umanitari in Siria e nei Paesi limitrofi, oltre 300mila nati fuori come rifugiati.

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I vescovi: profughi a Nauru, inaccettabile politica australiana

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La Chiesa in Australia ha lanciato un forte appello al governo di Canberra in difesa dei diritti e della dignità di alcune centinaia di profughi deportati a Nauru, una sperduta isola del Pacifico, da dove è impossibile fuggire. I migranti sono abbandonati a se stessi o sottoposti ad abusi e maltrattamenti, in particolare i minori. Salvatore Tropea ha intervistato padre Maurizio Pettenà, direttore dell’Ufficio cattolico australiano per i migranti: 

R. – Il governo, attraverso il ministro dell’Immigrazione, Peter Dutton, ha escluso la possibilità di dare accoglienza in Australia ai circa 854 rifugiati. Alla Chiesa cattolica, ma anche ad altre organizzazioni, interessa e preoccupa soprattutto il fatto che oltre la metà delle accuse che stanno emergendo siano relative ad abusi a vario livello perpetrati contro i bambini. Quindi, attraverso l’ufficio competente della Conferenza episcopale dei vescovi dell’Australia, la Chiesa ha mandato un messaggio al ministro dell’Immigrazione, nel quale afferma che bisogna guardare alla situazione che si è creata a Nauru e fare il possibile per ridurre la sofferenza. Quello che a noi interessa soprattutto è che la risposta del governo – qualsiasi esso sia – a coloro che cercano asilo in Australia rispetti in primo luogo la dignità umana. È un problema complesso, che richiede una risposta adeguata; ma quest’ultima deve essere più umana. In ogni caso, attraverso la Conferenza episcopale, abbiamo chiarito che siamo contrari a qualsiasi forma di detenzione prolungata e a tempo indefinito. E siamo contrari a una detenzione “offshore”, ossia al di fuori dell’Australia, perché questa lede la dignità della persona. Ed è invece di importanza imperativa che la dignità della persona umana venga sempre posta in primo piano. Riteniamo che l’approccio attuale del governo australiano sia moralmente inaccettabile. Il ministro dell’Immigrazione ha detto che non c’è nessuna fretta di chiudere questi centri; ma noi, come Chiesa, insistiamo invece sul fatto che una soluzione sia trovata il prima possibile.

D. – Quali sono le alternative più fattibili e concrete per aprire le porte a chi richiede asilo?

R. – Abbiamo detto che ci sono comunità cattoliche, religiose, e gruppi in Australia ­– e questo lo abbiamo sempre chiarito – che hanno offerto assistenza a coloro che sono “autentici” rifugiati. Noi abbiamo quindi chiesto al ministro che si faccia tutto il possibile per trovare quanto prima un Paese sicuro, dove queste persone possano continuare a vivere con dignità, in maniera umana, secondo quello che è l’insegnamento del Vangelo, la tradizione e l’insegnamento cattolico-sociale della Chiesa. Perché portare avanti questa situazione diventa inaccettabile da un punto di vista umano. Noi proponiamo quindi delle soluzioni alternative: per esempio, bisogna coinvolgere le nazioni interessate in una riflessione reciproca sui luoghi in cui si possano stabilire dei centri di sicurezza e nei quali possano essere convogliate le persone che devono cercare asilo da un’altra parte. In tal modo, queste persone sanno che ci possono essere dei centri nei quali la loro richiesta possa essere esaminata e in cui sia possibile ricevere velocemente una valutazione. Bisogna uscire fuori dall’interesse politico; dal guardare al rifugiato solo come una “liability” – “ci guadagno o ci perdo” – ed entrare invece in un altro tipo di discorso: quello che tutti insieme dobbiamo fare, è concentrare la possibilità di riflessione e di azione sulla persona umana, che poi per noi cristiani diventa l’immagine di Dio. In questo momento non ci sono vie alternative. Noi stiamo insistendo proprio sul fatto che il Vangelo della misericordia è il cuore che accetta le miserie umane come politica alternativa. Sono convinto che prendere l’alternativa del Vangelo, della Dottrina Sociale della Chiesa, come politica alternativa, possa aiutare in quella riflessione, riconducendola al di fuori della sola “liability” politica e riportare il discorso su un campo etico.

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Giornata della zanzara: attenzione su malaria, febbre gialla e zika

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Ricorre oggi il “Mosquito day”, la Giornata mondiale della zanzara. Un’occasione per mantenere alta l’attenzione su un insetto vettore di malaria, zika e febbre gialla. Ogni 2 minuti nel mondo un bambino sotto i 5 anni muore di malaria, malattia che miete ogni anno 430 mila vittime. Debellata in Europa nel 2015, la malaria resta ancora molto diffusa in Africa. Il servizio di Elvira Ragosta

Era il 20 agosto del 1897 quando il medico inglese Ronald Ross scoprì il ruolo della zanzara come vettore della malaria. L’impresa valse a Ross il Premio Nobel, anche se per anni la scoperta è stata oggetto di contesa con l'Italia: il medico e zoologo Giovanni Battista Grassi era giunto, infatti, alla stessa conclusione. E’ lunga, dunque, 119 anni la lotta della scienza contro questa malattia che colpisce ogni anno 430 mila persone. Debellata definitivamente in Europa nel 2015, anno in cui non è stato registrato neanche un caso, la malaria resta un pericolo per alcune zone dell’Africa e recentemente anche per il Venezuela. Crisi economica e cambiamenti climatici i fattori che caratterizzano le zone maggiormente interessate dalla trasmissione. Non solo la malaria: le zanzare trasmettono anche altri virus, da zika alla febbre gialla. Nel 2015 un’epidemia di zika si è diffusa in America Latina e ha recentemente fatto registrare alcuni casi anche in Florida. Il professor Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive presso l’Istituto Superiore di Sanità italiano:

R. – Negli ultimi anni la situazione invece di migliorare è andata peggiorando, un po’ perché la malaria è un flagello globale che non si riesce a contenere in alcun modo nonostante gli sforzi fatti in molti Paesi e anche perché alcune gravi malattie infettive come dengue, zika e chikungunya sono arrivate per la pima volta negli ultimi decenni addirittura negli ultimi anni – come zika – in America Latina e lì hanno trovato intere popolazioni suscettibili. Questo ha portato la diffusione di gravi epidemie.

D. - La malaria è diffusa soprattutto in Africa ma di recente ha colpito anche il Venezuela, primo Paese al mondo ad averla debellata nel 1961. Cosa ci dice questa nuova diffusione?

R. - Il caso del Venezuela è un po’ la conseguenza, probabilmente dei cambiamenti climatici, ma soprattutto di problemi sociali che hanno portato alla mancanza di campagne di controllo delle zanzare. Purtroppo il vaccino, che è stato a lungo studiato, ha dimostrato un’efficacia solo parziale nei confronti della malaria e quindi dobbiamo sicuramente ricorrere a campagne di controllo delle zanzare e a trattamenti che non sempre sono particolarmente efficaci per porre sotto controllo questo problema che è davvero rilevante a livello mondiale.

D. - Quanto è importante la prevenzione, ma soprattutto quanto costa?

R. - La prevenzione vaccinale sarebbe quella davvero più efficace e a più basso prezzo. Il problema è che mettere a punto un vaccino contro un parassita così complesso come quello della malaria non è facilissimo. Ci sono voluti anni di studi per ottenere un risultato solo parzialmente positivo - anche se incoraggiante - così come per quanto riguarda gli altri virus trasmessi da zanzare come la dengue, contro la quale abbiamo un vaccino relativamente efficace e così come il chikungunya e la zika che sono malattie neglette - o per lo meno erano neglette fino a pochi mesi o anni fa - e nei confronti dei quali non era stata fatta molta ricerca.

D. - A proposito di prevenzione. Nei prossimi giorni partirà una delle più grandi campagne di vaccinazione mai condotte in Africa per evitare che si espanda l’epidemia di febbre gialla che ha già fatto 500 morti tra la Repubblica Democratica del Congo e l’Angola. Anche qui quanti passi da fare ancora?

R. - Questo è stato un evento in parte inaspettato. Ritenevamo che la febbre gialla fosse abbastanza sotto controllo contenuta in focolai rurali, selvatici, Invece è arrivata nelle città africane e lì ha cominciato a fare centinaia di morti. Quindi in questo caso abbiamo un vaccino a disposizione che è particolarmente efficace e disponibile fin dagli Anni ‘30. È l’unico modo evidentemente per contenere questa grave epidemia.

D. - Poi nel 2015 l’epidemia di zika in America Latina, un virus particolarmente pericoloso per le donne in gravidanza perché provoca gravi malformazioni al feto. L’allarme ora si è diffuso anche negli Stati Uniti, nella zona della Florida …

R. - È un po’ inaspettato anche questo evento zika. Alcuni decenni fa in America Latina era comparsa la dengue che poi si è diffusa ed è diventata endemica. Solo due o tre anni fa l’America Latina è stata raggiunta dalla chikungunya un altro virus trasmesso da zanzare che ha dato dei focolai epidemici particolarmente importanti ed adesso zika, che ora è arrivata in Florida ed ha cominciato a trasmettersi in maniera autoctona, cioè da zanzare locali. Per fortuna il focolaio sembra sia tenuto abbastanza sotto controllo.

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Meeting Rimini, 70 anni Repubblica: unità più forte delle diversità

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Una mostra per dire la necessità di un impegno unitario per il bene del Paese al di là delle differenze: è l’esposizione dedicata dal Meeting di Rimini ai settant'anni della Repubblica italiana sul tema “L'incontro con l'altro”. All’inaugurazione è intervenuto ieri il presidente Mattarella sottolineando l’importanza di riconoscere i momenti in cui bisogna essere uniti per affrontare le difficoltà. Una mostra che non nasconde i lati bui della storia della Repubblica. Luca Collodi ne ha parlato con Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà che ha curato l’evento: 

R. – Nella mostra non si nega nulla: si parla del periodo della Guerra Fredda, si parla delle stragi, si parla delle Brigate Rosse, si parla della lacerazione dell’Italia … Ma questo dimostra che la forza dell’Italia, come dice la mostra, è l’incontro con l’altro. Cioè, se avessimo fatto come adesso, che uno prende a sportellate l’altro, lo vuole in galera, pensa che l’avversario sia un nemico da abbattere, l’Italia si sarebbe sfasciata mille volte. Invece, persone di ideologie diverse, di culture diverse fin dall’inizio, nei momenti difficili si sono messe intorno a un tavolo e hanno detto: “Cosa facciamo, insieme? Che strada facciamo in comune?”. Perché la forza di un’identità è la capacità di stare con gli altri, di costruire con gli altri. Questo, che oggi viene chiamato “inciucio”, è invece la forza culturale. La differenza tra l’inciucio e il compromesso virtuoso, che è all’origine anche della Costituzione, è l’idea che io faccio un compromesso per il bene comune, perché possa servire tutto il popolo.

D. – In questi 70 la politica ha contribuito a fare l’unità d’Italia, a dare un’identità e a far dialogare parti diverse dell’Italia …

R. – Come documentiamo nella mostra, senza la politica il popolo sarebbe stato escluso. Ricordiamoci che nel ’46 per la prima volta si vota a suffragio universale, votano le donne e i partiti hanno avuto una funzione fondamentale di tirare dentro la vita pubblica parti della popolazione che erano assolutamente fuori. La forza di questi partiti, diversamente da altri - pensiamo ai comitati elettorali americani che non hanno mai tirato dentro gran parte della popolazione - noi invece abbiamo avuto una politica partecipata. Dobbiamo recuperare questa idea.

D. – Una storia che ha messo insieme anche credenti e non credenti …

R. – Certamente. Perché il desiderio del bene, di verità, di bellezza e di giustizia, il senso religioso di cui  parlava Giussani, mette insieme gli uomini di buona volontà di cui parlava Giovanni XXIII, e possono costruire insieme. Lo scopo del cattolico non è lo Stato confessionale: prima di Papa Francesco lo diceva spesso Ratzinger … E quindi, si può costruire insieme, credenti e non credenti, per il bene comune …

D. – Oggi questo percorso sembra interrotto …

R. - … e se non lo riprendiamo, l’Italia è morta. Invece, ci vuole gente che costruisca ponti, come dice Papa Francesco, scommettendo sul rimettere insieme ideali e innanzitutto facendo vivere questi ideali. Perché l’alternativa non è, come nel ’48, comunismo o cattolicesimo; l’alternativa è il nichilismo: nessun ideale per molta gente.

D. – Rischia di morire anche l’Europa, se non applica questo metodo?

R. – L’Europa lo dimostra: l’Europa ha sbeffeggiato Giovanni Paolo II sulle radici cristiane; dovrebbe riflettere sul perché ha dato il Premio Carlo Magno a Papa Francesco. Se non c’è un ideale, si torna all’Europa dell’Ottocento. Non si fanno più le guerre come un tempo, ma si fanno le guerre economiche adesso … non c’è un motivo per stare insieme.

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Al Meeting una mostra sul restauro della Basilica della Natività

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Il Meeting di Rimini propone un’altra interessante mostra sul restauro, in corso da tre anni, della Basilica della Natività a Betlemme. Un restauro che vede la partecipazione delle tre confessioni cristiane che gestiscono il luogo di culto: cattolici, greco-ortodossi e armeni apostolici. Luca Collodi ha sentito il coordinatore dei lavori, Giammarco Piacenti

R. – Credo che le condizioni della Basilica fossero talmente difficili, in questo momento, che le tre confessioni che sono lì avevano veramente voglia di metterla a posto e di fermare questo terribile degrado.

D. – Che tipo di lavori vengono fatti sulla Basilica?

R. – Intanto, togliendo la pioggia che si infiltrava dal tetto: era un disastro vero. Quando si verificavano le “bombe d’acqua”, la chiesa si riempiva d’acqua e la portavano fuori con le pompe. Poi sono stati restaurati gli intonaci parietali, i mosaici parietali del periodo crociato, che sono, tra l’altro, veramente meravigliosi; abbiamo finito adesso il nartece e abbiamo iniziato il lavoro delle colonne, per le quali l’Autorità nazionale palestinese ha lanciato una campagna di raccolta fondi che si intitola: “Adotta una colonna”.

D. – Un lavoro che mette insieme anche persone di diverse fedi e di diverse realtà …

R. – Ci sono tanti ragazzi che lavorano, da parte palestinese, che sono nel nostro gruppo, sono di religione musulmana; comunque, la Basilica di Betlemme ha sempre ricevuto grande rispetto da parte della religione musulmana: è storico, questo; è sempre stata preservata, non è mai stata distrutta da loro né da tutte le invasioni che ha subito.

D. – I pellegrinaggi sono comunque aperti, nonostante i lavori all’interno della Basilica …

R. – E’ stata una delle cose che noi abbiamo cercato di portare avanti fin dall’inizio: abbiamo lavorato la notte pur di non chiudere la chiesa nemmeno un giorno.

D. – Che previsioni ci sono, per terminare i lavori?

R. – I lavori dovrebbero terminare in meno di tre anni: crediamo che possa essere rispettata una tempistica di questo tipo.

D. – I vostri lavori che cosa hanno portato in più alla conoscenza storica?

R. – Questi lavori sono stati l’occasione per uno studio molto più approfondito sulla chiesa dal punto di vista storico, archivistico, archeologico e sono venute fuori tante novità importanti. Una di queste è il settimo angelo, che è la più evidente; ma ci sono tanti piccoli particolari storico-artistico che sono interessantissimi.

D. – Ci sono pericoli per i pellegrini in Terra Santa, oggi?

R. – Non c’è nessun pericolo per i pellegrini in Terra Santa. Noi siamo giù da tre anni: non è mai stato toccato uno straniero. I pellegrini possono visitare tutta la Terra Santa senza nessun tipo di problema.

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Olimpiadi, quando il campione va sul podio del cuore

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Undicimila atleti di 206 nazioni, oltre 300 eventi sportivi di 28 diverse discipline. Sono i numeri che sintetizzano la 31.ma Olimpiade dell’era moderna, che si conclude questa domenica a Rio de Janeiro. Moltissimi i momenti esaltanti regalati dalle imprese dei campioni più celebrati, ma altrettante sono le storie interessanti che un evento globale come i Giochi Olimpici riesce sempre a regalare. Il servizio di Alessandro De Carolis

Cosa resterà negli occhi quando l’addetto alle luci piomberà nel buio lo Stadio Maracanã di Rio de Janeiro e le Olimpiadi passeranno dalla diretta tv ai ricordi?

Record di "periferia"
I lampi accecanti dei record certamente, il sale di ogni competizione – su tutti il “triplete” di Usain Bolt, l’unico atleta capace di sfidare la fisiologia dell’invecchiamento e stravincere trentenne a Rio come a Pechino otto anni fa – e in generale le imprese sportive premiate dagli oltre 800 ori, argenti e bronzi totali finiti al collo degli olimpionici. Tra cui, menzione d’obbligo, quelli conquistati dai campioni di Vietnam, Kosovo, Figi, Singapore e Porto Rico, al loro primo oro della storia e nel caso di Figi e Kosovo al primo successo in assoluto: medaglie “umane” perché figlie di nessuna potenza geosportiva, successi di “periferia” di quelli che piacerebbero a Papa Francesco. Insomma, la memoria dei miliardi di telespettatori, e delle centinaia di migliaia di tifosi che in due settimane hanno riempito gli spalti degli stadi e degli impianti carioca, conserverà ciò che gli sarà più caro di questa 31.ma edizione. Noi scegliamo due storie finite senza alloro, perché le rispettive protagoniste hanno conquistato il podio della nostra ammirazione.

Vincere cadendo
La prima è la storia di pista e solidarietà che ha fatto il giro del mondo, una stella dello spirito di Olimpia che ha riportato i Giochi indietro di duemila anni, quando la gara si sostituiva alla guerra. E la guerra di gambe e gomiti nella batteria dei 5000 donne che a metà gara lascia malconce a terra la neozelandese Nikki Hamblin e l’americana Abbey D’Agostino – la prima che inciampa, la seconda che le frana addosso storcendosi un ginocchio – finisce con la vittoria delle sconfitte, che si rialzano e aspettandosi e sorreggendosi l’una con l’altra arrivano zoppicando sulla linea del traguardo tra gli applausi dello stadio. Si può cadere e perdere una gara, ma sono state Nikki e Abbey, con il loro gesto, a dimostrare che, cadendo, si può tagliare le gambe a quel modo commerciale e antiumano di intendere lo sport, per cui vali tanto quanto rendi altrimenti il tuo sudore e i tuoi sacrifici non meritano né attenzioni né chance.

Piccola grande atleta
La seconda storia, meno nota, è quella di Gaurika Singh, nuotatrice del Nepal, che il suo record a Rio l’ha firmato figurando come l’atleta più giovane dell’Olimpiade. Gaurika ha 13 anni e 255 giorni e la sua gara nei 100 dorso ha rischiato di non farla mai perché l’anno scorso si trovava con la famiglia al quinto piano di un palazzo di Kathmandu quando in pochi secondi una violentissima scossa di terremoto ha polverizzato la città uccidendo 9 mila persone. La mamma di Gaurika ha salvato la figlia e il fratello Sauren lanciandoli sotto un tavolo e poi fuggendo con loro lungo le scale del palazzo rimasto in piedi per miracolo. Gaurika, che da allora ha donato tutti i premi delle sue vittorie al Fondo per la ricostruzione del Nepal, è arrivata a Rio dove non ha vinto nessuna medaglia. Ma la nostra campionessa di umanità di queste Olimpiadi “umane” di Rio resta lei, 13 anni e una vita per dimostrare che il cuore d’atleta non è solo una malattia ma in tanti casi una benedizione.

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Il commento di don Sanfilippo al Vangelo della Domenica XXI T.O.

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Nella 21.ma domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui un tale chiede a Gesù se siano pochi quelli che si salvano. Il Signore risponde:

“Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”. 

Su questo brano evangelico ascoltiamo una breve riflessione di don Gianvito Sanfilippo presbitero della diocesi di Roma: 

Quando Dio ci elegge ad essere suoi figli esercita la sua paternità aiutandoci a crescere, esortandoci nelle difficoltà, indicandoci la via della Verità e illuminando le nostre ingiustizie. Anche la persona che gli è gradita, infatti, commette errori quotidianamente, ma Egli sempre invita i propri figli a riconoscere il peccato e a rialzarsi, guarda con fiducia al bene che possiamo compiere. Talvolta, però, siamo lenti nel tornare a Lui, e dopo innumerevoli esortazioni pone davanti a noi la porta stretta della correzione, per tornare ad amare. Ecco allora qualche rimprovero, un’umiliazione al lavoro, tensioni in famiglia, qualche difficoltà di salute. Non dobbiamo spaventarci, è il Signore che ci educa per evitarci il peggio; la prova, è vero, lì per lì non piace, ma passerà aiutandoci a riflettere sul nostro operato e spingendoci a tornare a ciò che gli è gradito. È meglio accettare la porta stretta dell’obbedienza e della correzione piuttosto che correre il rischio di essere annoverati fra coloro che si dicono impegnati - e possono essere anche sacerdoti, vescovi, operatori di carità, grandi oratori - ma essere sepolcri imbiancati, lodati dagli uomini, internamente senza amore. Chi si sottomette a Lui docilmente diviene un collaboratore della Salvezza, portando al cielo una discendenza di ogni lingua, popolo e nazione.

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Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan: Senato inizia revisione legge contro blasfemia

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Le istituzioni pakistane hanno deciso di esaminare la questione dell'uso improprio della legge sulla blasfemia. La Commissione per i diritti umani del Senato del Pakistan – riferisce l’agenzia Fides - ha annunciato, infatti, una serie di incontri per discutere la questione con esperti legali, studiosi di religione e di altri organi competenti, come il Consiglio dell'ideologia islamica.

Uno sviluppo incoraggiante per i cristiani
“È uno sviluppo incoraggiante per i cristiani pakistani - commenta Alexander Aftab Mughal, attivista cristiano impegnato per la difesa delle minoranze religiose in Pakistan - Le organizzazioni che tutelano i diritti delle minoranze religiose hanno chiesto da tempo al governo di fermare l'uso improprio della legge di blasfemia”. Scopo della riunione, ha specificato la Commissione del Senato, non è stato quello di chiedere modifiche alla legge, bensì di garantirne l'equa attuazione, poiché nell'80% dei casi di imputati per blasfemia, risulta esserci un uso improprio di questa legge, che finisce per colpire persone innocenti.

Presentata la proposta di possibili emendamenti
Intanto, la Commissione nazionale per i diritti umani, organismo governativo, ha presentato una relazione su possibili emendamenti alla legge. Tra le modifiche proposte, vi è quella affidare le indagini sui casi di blasfemia esclusivamente ad un Sovrintendente di polizia, e non a semplici agenti. Inoltre, si pensa di escludere i Tribunali di primo grado, facilmente influenzabili dai gruppi fondamentalisti islamici, dal compito di giudicare i casi di blasfemia e di affidarli a giudici ad hoc. Un altro provvedimento suggerito è la punizione severa per chi formula false accuse. Infine, si raccomanda che la legge rispetti e tenga conto di una persona che si scusa, nega l'accusa o esprime un sincero pentimento.

Suggerite consultazioni con studiosi di religione
La maggior parte dei membri della Commissione per i diritti umani del Senato pakistano ha sostenuto la proposta di rivedere l'uso improprio della legge. È stato anche proposta una serie di consultazioni da avviare con studiosi di religione, così come di esaminare il funzionamento della legge sulla blasfemia in altri Paesi islamici.

Il caso di Asia Bibi
Da ricordare che in Pakistan, il reato di blasfemia è citato nell'articolo 295c del Codice penale e contempla la condanna a morte. Inoltre, l'accusatore non ha l'onere di provare ciò che dice. La legge è stata introdotta dal presidente Muhammad Zia-ul-Haq, in carica dal 1977 al 1988, ed è entrata in vigore nel 1986. Emblematico, in questo contesto, il caso di Asia Bibi: cattolica, condannata a morte nel 2010, la donna è in carcere proprio per effetto della legge sulla blasfemia. (I.P.)

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Mons. Gassis: migliaia di sud-sudanesi in fuga verso il Nord

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La perdurante guerra civile in Sud Sudan sta costringendo migliaia di sud-sudanesi, che dopo l’agognata indipendenza conquistata dal Sud Sudan il 9 luglio 2011 avevano lasciato Khartum, a tornare in Sudan. A denunciarlo è mons. Macram Max Gassis, vescovo emerito di El-Obeid,  in visita nei giorni scorsi in Svizzera su invito dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre.

La drammatica situazione della popolazione in Sudan e Sud Sudan
Dopo l’accorato appello a non dimenticare il Sud Sudan lanciato due settimane fa alla comunità internazionale da mons. Barani Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio, anche mons. Gassis richiama ancora una volta l’attenzione sulla drammatica situazione della popolazione del Paese, che a luglio ha visto riaccendersi gli scontri tra i sostenitori del presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e quelli dell’ex vice presidente Riek Machar, di etnia nuer, nonostante l’accordo di condivisione del potere raggiunto il 26 agosto 2015.  

La guerra alimentata dal tribalismo e dalla corruzione
“Sembra un paradosso, ma la mancanza di sicurezza, cibo, lavoro, scuole e servizi sanitari sta costringendo molti sud-sudanesi che nel 2011 avevano visto nel Sud Sudan una sorta di terra promessa, a tornare al nord”, afferma il presule, che punta il dito contro il tribalismo e la corruzione:  “Finché  persisterà questo cancro – afferma - l’Africa non avrà mai la pace e non potrà svilupparsi”. In questo contesto, per mons. Gassis, un segno di speranza è rappresentato dalla presenza nella Chiesa di tante etnie diverse impegnate nell’unico obiettivo della riconciliazione in collaborazione con il Consiglio delle Chiese del Sud Sudan (Sscc) e il Consiglio interreligioso per la pace (ICPI). Inoltre, sottolinea, “quelli che seminano la morte nella regione non sono che una minoranza”.

Il “cinismo” dell’Europa
Quanto alle responsabilità della comunità internazionale, mons. Gassis non manca di denunciare il “cinismo” dell’Unione Europea che, per fermare i flussi migratori dall’Africa sub-sahariana, non esita fornire al regime di Khartum apparecchiature sofisticate per il controllo delle frontiere e a stanziare finanziamenti per la costruzione di centri di detenzione per immigratiti in Sudan: “È assolutamente immorale che alcuni paesi democratici europei flirtino con regimi che hanno sangue sulle loro mani”. (A cura di Lisa Zengarini)

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Vescovi del Madagascar: classe dirigente è inadeguata

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"Dateci dei pastori degni di fiducia!”. È un duro atto di accusa quello lanciato dai vescovi malgasci in un messaggio diffuso in occasione del 56° anniversario dell’indipendenza del Paese. Nel documento, diffuso al termine di una riunione straordinaria della Conferenza episcopale del Madagascar (CEM) ad Antananarivo, i presuli denunciano l’inadeguatezza della classe dirigente locale di fronte ai gravi problemi dell’isola che, dopo il drammatico colpo di Stato del 2009, fatica ancora a trovare una nuova stabilità politica e istituzionale, restando ai margini della recente crescita economica dell’Africa orientale.

Qualche segno di speranza
“Come il profeta Ezechiele - si legge nel testo citato dall’agenzia Cathnews - abbiamo pietà per il nostro popolo che sembra un ‘gregge senza pastore’ a causa del succedersi fino ad oggi di regimi che non hanno saputo trarre lezioni dagli errori del passato e che sono la causa delle nostri mali”. Per i vescovi, tuttavia, non è persa ogni speranza, perché – affermano – negli ultimi tre anni il Madagascar ha saputo riscoprire “la sua saggezza: la tolleranza, la solidarietà e il fihavanana (termine malgascio con il quale si indica il valore dell’amicizia, ndr ) e ha riconquistato la fiducia della comunità internazionale”.

Una classe dirigente inadeguata per risolvere i problemi di un Paese malato
Resta comunque la dura constatazione di un Paese “malato” governato da un regime inefficiente e da una classe dirigente “che resta con le mani in mano”, in cui promesse ingannevoli mescolate a bugie hanno aperto la porta alla violenza, mentre “la vita e la dignità umana non sono più rispettate, i poveri non sono protetti, e i giovani sono abbandonati all’anarchia”.

La Chiesa minacciata
A ciò si aggiunge la confusione spirituale alimentata da chi incita i credenti alla divisione e usa la religione a scopi politici. In questo contesto, a preoccupare l’episcopato è anche l’accresciuta insicurezza della Chiesa. Nel Paese, infatti, si moltiplicano, nell’indifferenza generale, le aggressioni e le minacce contro il personale religioso, insieme ai furti e agli atti di vandalismo contro le proprietà ecclesiastiche. Inoltre l’opera della Chiesa è resa sempre più difficoltosa da ostacoli burocratici per la concessione dei visti ai missionari stranieri e delle autorizzazioni per la costruzione di nuovi luoghi di culto.

I mali del Paese: insicurezza, corruzione e assenza di uno stato di diritto
Il messaggio si sofferma quindi sulla perdurante crisi politica ed economica del Paese. In particolare, i vescovi denunciano l’inefficienza degli organi preposti al controllo della legalità; la povertà dilagante; lo sfruttamento indiscriminato delle risorse nazionali ai quali si accompagnano l’insicurezza, la corruzione diffusa, l’assenza di un vero stato di diritto.

L’invito a non arrendersi e a restare solidali
Secondo i vescovi malgasci, non spetta alla Chiesa proporre un modello di organizzazione politica e di governo del Paese: “La sua missione è di insegnare, sensibilizzare le persone a perseguire sempre il bene comune con spirito di servizio”. In questo senso, essi propongono tre soluzioni per uscire dalla crisi: ricordare che il potere è al servizio della Nazione: ristabilire una collaborazione seria tra lo Stato e le Chiese per fare regnare la giustizia; educare i cittadini a valori fondamentali come l’onestà, la dedizione, la carità, la dignità umana e la preoccupazione per l’interesse generale. Per riportare il Paese verso una sana alternanza democratica - aggiungono - occorre inoltre garantire il rispetto della legge e istituire organismi di controllo indipendenti. Il messaggio conclude quindi con l’invito a tutti i cittadini malgasci “a non arrendersi, ma a restare solidali”, senza farsi manipolare da chi vuole creare tensioni per conquistare il potere. (A cura di Lisa Zengarini)

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Uganda: Caritas studia una road map per la lotta all’Aids

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In Uganda, il 38,9 per cento dei giovani è a rischio Aids, il che ne fa la categoria più vulnerabile dell’intera popolazione. Per contrastare questi drammatici dati, la Caritas locale ha organizzato un seminario dedicato alla lotta contro il virus Hiv: l’evento, in programma a Kisungu, vicino Entebbe, si è concluso ieri, 19 agosto, dopo due giorni di lavori. Oltre trenta i partecipanti, provenienti da nove diocesi del Paese, tutti responsabili, a livello locale, di vari programmi di informazione e sensibilizzazione sull’argomento.

Necessario un cambiamento nel comportamento
Al centro dei lavori – si legge sul sito dell’Amecea, l’Associazione dei membri delle conferenze episcopali dell'Africa orientale, di cui l’Uganda fa parte – c’è stata “la consapevolezza che il cambiamento di comportamento è fondamentale per modificare il trend dell’Aids in Uganda”. In quest’ottica, l’obiettivo primario della Caritas ugandese è stato quello di “sviluppare una road map per indirizzare tutti gli attori, a livello comunitario, diocesano e nazionale, verso una collaborazione attiva, così da cambiare realmente il comportamento e l’atteggiamento dei giovani nei confronti del virus Hiv, alzando il loro livello di attenzione in relazione ai rischi del contagio”.

Responsabilizzare le singole diocesi
“Il seminario – ha spiegato Helen Chanikare, membro della Caritas ugandese – mirava anche a responsabilizzare le singole diocesi nell’affrontare, a livello comunitario, la sfida contro l’Aids”. Di qui, l’invito a “condividere le esperienze e ad analizzare i problemi emergenti nella prevenzione e nella cura della malattia”. Ma non solo: l’incontro, ha voluto tracciare anche una valutazione sui progetti diocesani già in corso in questo settore. Un focus speciale, infine, è stato dedicato alla questione della comunicazione e dell’informazione sul virus Hiv. (I.P.)

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Appello Chiesa di Malta: no abusi edilizi, salvaguardare ambiente

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“Il guadagno di pochi è forse al di sopra del bene di tutti?”: questa la domanda che apre la nota della Commissione episcopale per l’ambiente (Ka) della Chiesa cattolica di Malta. Nel documento, si fa riferimento ai progetti edilizi, attualmente in corso, per le zone di Mriehel e Sliema e che prevedono la costruzione di veri e propri grattacieli. Si tratta di progetti che “presentano ancora un certo numero di domande senza risposta e di dubbi da chiarire – scrive la Ka – soprattutto in relazione al loro impatto sulla qualità della vita dei cittadini maltesi”.

Dare priorità al bene comune, non al guadagno di pochi
Sottolineando, quindi, come in questo caso “il bene comune non stia ricevendo la priorità che merita”, la Commissione episcopale per l’ambiente richiama quanto già detto nei mesi scorsi, ovvero che non si tratta di “cercare di fermare il ‘progresso’, quanto piuttosto della necessità di sviluppare nuove idee e di mettere a frutto la creatività per ottenere ugualmente lo sviluppo, ma con un minor consumo del territorio”. Per questo, la nota episcopale afferma che “prima di prendere una decisione su qualsiasi progetto, bisogna considerarne meticolosamente tutti i relativi effetti sull’ambiente”, ad esempio le ripercussioni sul traffico locale e sulla qualità di vita delle persone.

Sviluppo umano e sociale sia sano e fecondo
Ma non solo: la Commissione episcopale maltese si chiede: “La costruzione di questi edifici è davvero necessaria? O forse ci si è dimenticati del gran numero di appartamenti vuoti sulla nostra isola?”. Di qui, il richiamo a quanto scrive Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si’ sulla cura della casa comune”: “È giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone, i quali a loro volta costituiscono la possibilità di uno sviluppo umano e sociale più sano e fecondo”. (n.116).

Tutelare la qualità della vita dei cittadini
Il monito della Chiesa di Malta, inoltre, è a non cedere al “gioco psicologico” di chi propone un progetto edilizio chiaramente inaccettabile, per poi modificarlo parzialmente ed ottenerne, così, l’approvazione, anche senza rispettare pienamente il piano regolatore. Ma “non è questa l’innovazione a cui dovremmo aspirare”, scrive la Ka. Di qui, l’appello alle autorità competenti affinché “tutelino la qualità della vita di tutti” i cittadini maltesi.

Allarme per possibili ripercussioni sul sistema fiscale del Paese
Inoltre, spiega la Commissione episcopale, “la costruzione di grattacieli desta preoccupazione anche per la politica fiscale nazionale che ne potrebbe risultare compromessa”. Infatti, “se un numero considerevole di appartamenti o di uffici nei nuovi edifici rimane invenduto o sfitto, i promotori del progetto potrebbero costringere il governo ad adottare misure specifiche per tutelare gli investitori da problemi fiscali. Ma ciò potrebbe avere effetti negativi sull’intero mercato immobiliare maltese e persino sull’economia di tutta la nazione”. In quest’ottica, la Ka ribadisce, come già avvenuto nei mesi scorsi, “la necessità urgente di uno studio nazionale sul mercato immobiliare”. 

Dare voce a chi non ha voce
“Le isole di Malta – prosegue la nota – sono la nostra casa comune, con una loro identità e una loro cultura che i nostri avi hanno ottenuto lavorando instancabilmente”. Per questo, è importante “riflettere e ripensare ad un modo più sensato” per sviluppare il settore edilizio. Infine, la Ka ricorda la lettera diffusa recentemente dai sacerdoti di Sliema e Balluta in cui si lancia l’allarme contro il rischio di degrado ambientale della zona, a causa delle nuove costruzioni. “Questa iniziativa – conclude la Commissione – possa essere fonte di ispirazione per altri gruppi o parrocchie che hanno a cuore il bene delle loro comunità: non si astengano mai dal parlare in nome di chi raramente viene ascoltato da coloro che prendono le decisioni relative alla qualità della sua vita”. (I.P.)

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Deceduto mons. Cauwelaert, il più anziano vescovo europeo

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È deceduto all’età di 102 anni mons. Jan Van Cauwelaert, vescovo emerito di Inongo, nella Repubblica Democratica del Congo, religioso della congregazione del Cuore Immacolato di Maria (missionari di Scheut). Era il vescovo europeo più anziano e il secondo, sempre per ordine di età, dell’intero collegio episcopale dopo lo statunitense Peter Leo Gerety che di anni ne ha compiuti 104 lo scorso 19 luglio.

Nato in Belgio, era stato il primo vescovo di Inongo
Il presule – riferisce L’Osservatore Romano – è morto il 18 agosto presso l’ospedale universitario di Jette, in Belgio, il suo Paese d’origine. Mons. Van Cauwelaert, infatti, era nato ad Antwerpen il 12 aprile 1914 ed era stato ordinato sacerdote il 6 agosto 1939. Eletto alla Chiesa titolare di Metropoli di Asia il 6 gennaio 1964, era stato nominato vicario apostolico di Inongo, allora Congo belga. Il successivo 25 marzo aveva ricevuto l’ordinazione episcopale. Quindi il 10 novembre 1959, con l’erezione della diocesi, era divenuto primo vescovo di Inongo.

Aveva partecipato al Concilio Vaticano II
Il 12 giugno 1967, al momento della rinuncia al governo pastorale della diocesi, gli era stata assegnata la Chiesa titolare di Uccula, alla quale aveva poi rinunciato il 12 ottobre 1976 divenendo vescovo emerito di Inongo. Aveva preso parte al Concilio Vaticano II. Le esequie saranno celebrate alle ore 10.30 di venerdì 26 agosto nella Chiesa di San Guiberto a Schilde, nelle Fiandre. Il presule sarà sepolto nel cimitero Scheutisten, sempre a Schilde.

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Creato a Mumbai il logo ufficiale della canonizzazione di Madre Teresa

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È una designer di Mahim, un quartiere di Mumbai, in India, ad aver realizzato il logo ufficiale della canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, che avverrà in Vaticano il prossimo 4 settembre. Lo riferisce l’agenzia AsiaNews.

L’importanza della carità
Karen Vaswani nee D’Lima è una cattolica della parrocchia di Nostra Signora delle Vittorie a Mahim. Ha iniziato la sua carriera come designer 21 anni fa e oltre al suo lavoro professionale, offre il suo servizio di designer anche a molte parrocchie della città, tutto “per la Gloria di Dio”, secondo lo spirito di Madre Teresa. “Non ho mai incontrato Madre Teresa di persona – spiega – ma ho sempre ammirato il suo lavoro e sono stata spesso coinvolta in impegni di carità, proprio con la mia esperienza professionale”.

Gioia e gratitudine
Sposata e madre di una figlia, Karen racconta: “L’arcidiocesi di Calcutta mi ha contattato e mi ha chiesto di disegnare il logo per le celebrazioni della canonizzazione della Madre a Calcutta. A Suor Prema, la superiora generale delle Missionarie della carità e a Padre Brian Kolodiejchuk, il postulatore, è piaciuto molto, così hanno deciso di adottarlo anche per l’uso internazionale. Sono molto felice e colma di gratitudine per questo”.

Tema del logo: amore tenero e misericordioso di Dio
Karen ha impiegato tre giorni a realizzare il logo su Madre Teresa. “Il tema indicato dal Vaticano – spiega ancora – era ‘Portatori dell’amore tenero e misericordioso di Dio’. Così ho deciso di lavorare su una posa classica di Madre Teresa, che tiene in braccio, con amore, un bambino”. “Ho preferito usare – aggiunge Karen – uno stile molto semplice di grafica e solo due colori, così tutti i mass-media, ad ogni livello, possono utilizzarlo con facilità”.

Semplicità del disegno, ma potenza del significato
Infine, la donna sottolinea di aver pregato molto, sia prima che durante e dopo il lavoro: “Anzitutto ho ringraziato Dio per avermi dato questa opportunità; poi ho pregato per avere la grazia e la Sua guida per creare un logo che fosse insieme semplice e potente, che parlasse da sé”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 233

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.