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Sommario del 23/08/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il "grazie" del Papa alla Chiesa polacca dopo la Gmg

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Gratitudine per la cordiale accoglienza e gioia per aver fatto memoria del venerato predecessore San Giovanni Paolo II. Questi i sentimenti espressi a poche settimane dalla Giornata Mondiale della Gioventù da Papa Francesco in due diversi messaggi, datati 3 agosto e indirizzati a Mons Stanisław Gądecki, presidente della Conferenza episcopale polacca e al cardinale Stanisław Dziwisz, arcivescovo di Cracovia.

Indomita speranza
“Sono stato profondamente toccato dalla solidità della vostra fede, dall’indomita speranza che avete conservato, nonostante le difficoltà e le tragedie, e dalla fervida carità che anima il vostro cammino umano e cristiano”, scrive Francesco a mons. Gadecki, ricordando gli incontri con la Chiesa polacca. “Conservo un intenso e caro ricordo – prosegue – della solenne Celebrazione eucaristica al Santuario di Częstochowa, nel 1050 anniversario del Battesimo della Polonia, come pure della sosta commossa e orante nel campo di concentramento di Auschwitz. Grande gioia mi dà ripensare poi agli incontri con i giovani provenienti da diverse Nazioni”.

Amore a Giovanni Paolo II
Anche nel messaggio al card. Dziwisz il Santo Padre ricorda “l’entusiasmo della fede di una immensa folla di giovani provenienti dai diversi Continenti”, e ringrazia “quanti hanno lavorato per la buona riuscita di quelle indimenticabili giornate di fede e preghiera”. Il Papa esprime poi gratitudine per il profondo affetto manifestato dalla Polonia nei confronti del Successore di Pietro: “Tutto ciò – commenta – è segno di amore alla Chiesa, nel solco dell’imperituro e devoto affetto verso San Giovanni Paolo II”. Francesco incoraggia la Chiesa polacca a proseguire nel cammino di testimonianza della Misericordia divina e invoca per i giovani una stagione di “sempre più convinta adesione al Vangelo”, assicurando la sua preghiera: “Anche voi pregate per me. Di cuore vi benedico”, conclude il Santo Padre. (A cura di Paolo Ondarza)

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Papa, tweet: traffico di esseri umani è crimine contro l'umanità

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“Il traffico di esseri umani, di organi, il lavoro forzato, la prostituzione sono schiavitù moderne e crimini contro l’umanità”. Nel giorno in cui a livello internazionale si celebra la Giornata di commemorazione della tratta degli schiavi e della sua abolizione, Papa Francesco torna con un tweet a condannare un fenomeno, con tutte le sue terribili derive, già più volte stigmatizzato sin dall’inizio del suo magistero. Il servizio di Alessandro De Carolis

“Crimini contro l’umanità”. Non li definisce in altro modo, Francesco, gli abomini che alimentano il mercato della carne umana, di qualsiasi età e a qualsiasi latitudine, purché lucrosi. Il suo, più che una condanna, è un urlo sommesso contro quella che per l’ennesima volta, abbracciando alcune vittime lo scorso 12 durante un “Venerdì della misericordia”, aveva definito una “piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo”.

Crimini da perseguire
Lo scorso giugno, prendendo la parola all’incontro sul tema organizzato in Vaticano, il Papa si era appellato in particolare ai giudici presenti, perché la giustizia faccia il suo corso, libera dalle pressioni che pure condizionano, perché vecchie e nuove schiavitù vengano  sancite e perseguite come quei gravissimi crimini che sono.

Coscienza contro l’indifferenza
Anche la Chiesa, aveva affermato, “deve immischiarsi nella ‘grande politica’”, quella che riguarda i temi alti della vita umana, e contribuire a creare nella società un “moto trasversale”, “ondoso”, dalle periferie al centro e viceversa, che scuota le coscienze, vittime, anche loro, di quella “globalizzazione dell’indifferenza” che non fa più né indignare né commuovere di fronte all’orrore silenzioso di una bambina costretta a vendersi o  di un ragazzino preso come “serbatoio” di organi da vendere al migliore offerente.

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Francesco nomina mons. Holley nuovo vescovo di Memphis

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Negli Stati Uniti, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Memphis, presentata per raggiunti limiti di età da mons. J. Terry Steib, dei Padri Verbiti. Al suo posto, il Pontefice ha nominato mons. Martin D. Holley, finora ausiliare di Washington. Mons. Martin David Holley è nato a Pensacola (Florida), nella diocesi di Pensacola-Tallahasse, il 31 dicembre 1954. Ha frequentato la “Alabama State University” dove ha ottenuto il “Bachelor of Science”, specializzandosi in amministrazione (1977). Ha lavorato per diversi anni nella sezione amministrativa della Cancelleria della diocesi di Pensacola-Tallahassee. Successivamente ha svolto gli studi ecclesiastici presso il “Theological College” e l’Università Cattolica di America a Washington ed il “Saint Vincent de Paul Regional Seminary” a Boynton Beach (Florida). È stato ordinato sacerdote l’8 maggio 1987 per la diocesi di Pensacola-Tallahassee. Dopo l’ordinazione ha svolto i seguenti incarichi pastorali: Vicario Parrocchiale della “Saint Mary Parish” a Fort Walton Beach (1987-1991), Membro del Consiglio Presbiterale (1988-1991), Avvocato del Tribunale Ecclesiastico diocesano (1989-2004), Direttore del Dipartimento diocesano per le Questioni Etiche (1990-1995), Amministratore Parrocchiale della “Saint Mary Parish” a Fort Walton Beach (1991-1992), Vicario Parrocchiale della “Saint Paul Parish” a Pensacola (1992-2000), Membro della Commissione Diocesana per l’Educazione (1996-1998), Direttore Spirituale del Programma di Formazione Permanente dei Diaconi (1997-2004), Parroco della “Little Flower Parish” a Pensacola e Direttore Aggiunto per le vocazioni (2000-2004), Presidente del Consiglio Presbiterale (2002-2004). Nominato Vescovo titolare di Rusubisir ed Ausiliare di Washington il 18 maggio 2004, ha ricevuto la consacrazione episcopale il 2 luglio successivo. In seno alla Conferenza Episcopale è Membro del “Committee on Laity, Marriage, Family Life and Youth”, del “Committee on Pro-Life Activities”, del “Subcommittee on Hispanic Affairs” e del “National Collections Committee”. Come Vescovo Ausiliare di Washington è Vicario Generale per i ministri etnici non-ispanici e Membro del Collegio dei Consultori, del Consiglio Presbiterale, del Consiglio “Seminarian Review Board”, del Consiglio d’Amministrazione ed è “Chair” del Collegio dei Decani. È anche Membro della “Washington InterFaith Network”, dell’“International Catholic Foundation for the service of Deaf People” e del “Catholic Athletes for Christ”.

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P. Samir: educazione e concretezza contro l'estremismo islamico

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“Il vero Islam è tolleranza e pace: nessuna connivenza o complicità con l’Is”. L’ultima presa di posizione da parte islamica contro il fanatismo jihadista arriva al Meeting di Rimini dal Gran Mufti della Croazia, Aziz Hasanovic. Nelle stesse ore il re del Marocco, parlando ai concittadini, li ha invitati a fare fronte comune, assieme a cristiani ed ebrei, contro l’odio. Qualche giorno prima, rivolgendosi proprio al Papa in una lettera, il grande Ayatollah iraniano di Qom lo ha ringraziato per aver distinto il terrorismo dall’Islam."Sono segnali di speranza che vanno tradotti in azioni”, commenta al microfono di Gabriella Ceraso l’islamologo, padre Samir Khalil Samir

R. – La prima cosa è, direi, un atto bello che risponde al discorso del Papa che diceva che noi sappiamo che l’Islam non è, nella sua essenza, violento. E loro hanno apprezzato e cercano in varie tendenze o Paesi dell’Islam di andare in questa direzione e sono convinto che una gran parte – la maggioranza – dei musulmani acconsenta a questo, non voglia guerre e non voglia terrorismo. Ma d’altra parte, si deve dire che nel Corano ci sono parole e frasi di violenza e all’inizio del VII secolo la violenza faceva parte delle tradizioni beduine, diciamo per sopravvivere. Dunque, che l’opinione della maggioranza dei musulmani sia totalmente opposta al terrorismo credo che sia una realtà corretta, cioè è certo. E che d’altra parte l’islam non ha, non contiene alcuna violenza, non è vero. Per dire, esistono ambedue gli aspetti. Quando, infine, i musulmani in genere dicono: “Daesh e il terrorismo, non sono musulmani, non c’entrano con l’Islam”, non è esatto. Allora, si deve dire che questo esiste: la maggioranza dei musulmani non lo vuole. La soluzione, molti musulmani la propongono da tempo ed è: dobbiamo reinterpretare il Corano e la tradizione maomettana, cioè situarla nel suo contesto storico come facciamo per l’Antico Testamento. Dobbiamo leggerlo con gli occhi di oggi e del pensiero attuale e dire: quello è stato per un tempo passato. Molti musulmani lo pensano per l’Islam e dicono: non possiamo prendere alla lettera, ma dobbiamo interpretare. Posso testimoniare che loro cercano la pace, la vogliono, ma non tutti, purtroppo. Abbiamo tra le correnti attuali tra gli imam correnti estremiste – intellettualmente estremiste – all’interno dell’Islam.

D. – Ma in questo momento, sentendo queste voci, possiamo dire che c’è anche un maggior coraggio, a più voci, nel voler dire: cerchiamo di prendere le distanze da una certa realtà?

R. – Io spero che sia sincero e praticamente stabilito concretamente, cioè non solo a parole, perché tutti i musulmani in Europa dicono, per esempio: "Questo non c’entra, con noi". Però, non serve dire questo, dobbiamo dire "come" lottare contro questo terrorismo che si ispira ai testi islamici e che pretende di essere il vero islam... Dire: dobbiamo fare qualcosa contro Daesh. E’ facile dire belle parole. Ciò di cui abbiamo bisogno è prima un insegnamento opposto assolutamente alla violenza, che sia dichiarato nei libri, nell’insegnamento, nei documenti e nei fatti.

D. – Intende che è necessario anche, come per esempio ha detto il Gran Muftì della Croazia, un lavoro a livello di educazione?

R. – E’ la prima cosa.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Un voto per la Libia divisa.

Emilio Ranzato e Gabriele Nicolò sulla vita meravigliosa di Frank Capra.

Il fratello di Cosma: Giovanni Cerro su Francesco e l'incontro con il crocifisso di San Damiano.

Solene Tadie su una primizia nella Casa di Goethe.

Sincero accoglimento e attuazione pratica: il teologo Salvador Pie-Ninot sulla ricezione del magistero di "Amoris laetitia".

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Oggi in Primo Piano



Aleppo. P. Luftì: in Siria guerra di "grandi" pagata da innocenti

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“Il problema della Siria non è semplicemente un problema tra regime e oppositori, ma si è allargato fino a comprendere diverse fazioni, interessi economici, intrecci internazionali. C’è anche un problema interconfessionale, nello stesso Islam, tra sciiti e sunniti”. Lo afferma padre Firas Luftì, superiore del Collegio di Terra Santa e viceparroco della parrocchia di San Francesco ad Aleppo, che domani interverrà al Meeting di Rimini sul tema “Sperare contro ogni speranza: lavorare per la pace in Medio Oriente”. Luca Collodi ha chiesto a padre Luftì se l’appello di Staffan De Mistura per una tregua immediata di due giorni ad Aleppo sia realizzabile: 

R. – Qualsiasi possibilità di avere un po’ di tranquillità ad Aleppo, un po’ di serenità per i bambini e per le famiglie, ben venga. Nel passato, quando è avvenuta una tregua dopo un confronto bellico, sia una parte che l’altra si sono armate di più. Invece di un’occasione di pace, per un ripensamento in positivo, la tregua rischia di diventare un peggioramento. Quindi, un cessate-il-fuoco è un’emergenza, una necessità, ma risulta dall’altra parte anche una pessima occasione per armarsi di nuovo, per pianificare altri attacchi spesso più feroci dei primi. Non è quindi una soluzione definitiva del problema, del conflitto, siriano.

D. – Mons. Lufti, qual è la situazione vera sul campo ad Aleppo? Leggendo la stampa internazionale, si ha l’impressione di una descrizione secondo le convenienze politiche tra le parti in conflitto…

R. – Ogni formazione porta un punto di vista, una lettura, nel bene e nel male, che non può coprire tutto. Per chi vive sul terreno, come noi, controllato dalle forze dell’esercito siriano, vede un qualsiasi attacco dell’altra parte come un’invasione. Se l’informazione viene trasmessa dall’altra parte, vede un tentativo di liberazione e di conquista della città per il bene dei jihadisti. Quindi, stando al contesto, io direi così: i grandi stanno facendo una brutta guerra per un brutto gioco di interessi economici, politici e geopolitici. Quelli che ne pagano le conseguenze sono gli innocenti, dell’una e dell’altra parte, particolarmente i bambini e le donne. Il numero dei morti in questa guerra si aggira sulle 380 mila persone e la metà di questi sono donne e bambini. L’informazione autentica parte dalla realtà, dal vissuto, dal contatto autentico e diretto con chi soffre. Quelli che sono rimasti ad Aleppo sono veramente i più poveri. I più ricchi hanno già abbandonato, dai primissimi mesi, la città, direi tutta la Siria, e sono andati via. Intorno a noi ci sono solo i poveri e i più poveri dei poveri. 

D. – L’alleanza tra Russia, Iran e Turchia può risolvere la situazione di Aleppo e della Siria?

R. – Vede, queste decine di migliaia di jihadisti, che provengono da tutto il mondo e che appartengono a più di 40 nazionalità, passavano unicamente dalla frontiera turca e gli venivano fornite le armi. Si auspicava che la Turchia prendesse misure contro questi jihadisti e che almeno chiudesse le frontiere per non far passare tutti. La notizia che abbiamo sentito – che la Russia e l’Iran possano convincere la Turchia a prendere le giuste misure – è stata ricevuta in maniera positiva. Basta con questi jihadisti che passano armati, finanziati per combattere in Siria, sicuramente non per portare democrazia o libertà di coscienza.

D. – Certo non si tratta di una guerra di religione… 

R. – Il grande tema è quello dell’interesse economico-politico delle forze regionali, ma anche del mondo intero. Ormai, il problema della Siria non è semplicemente un problema tra regime e oppositori, ma si è allargato per comprendere diverse fazioni, interessi, intrecci. C’è un problema religioso interconfessionale, nello stesso islam, tra sciiti e sunniti. Quindi, c’è anche questa lotta tra chi vorrebbe essere il padrone del mondo islamico e prendere in mano il cosiddetto comando finale per condurre, guidare, tutto l’islam. Non è questa, però, la guerra di fondo. La guerra vera è quella degli interessi, dell’economia, delle armi che si vendono e si comprano.

D. – Padre Lufti, chi utilizza armi chimiche in Siria?

R. – Da quello che ci hanno detto, ci hanno raccontato, sono state usate qualche anno fa. Il problema sta nella verifica di chi le ha usate. Il discorso è molto delicato. Entriamo, infatti, nel campo della disinformazione o comunque della strumentalizzazione della notizia. C’è chi sta dietro a questa informazione o disinformazione, sia  per accusare davanti a tutto il mondo il governo siriano e le sue istituzioni, sia per favorire un intervento, cioè suscitare o incrementare un intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite, quindi una destabilizzazione completa: il caos. Invece sembra – anzi non sembra ma ne sono sicuro, ne sono certo – che la preghiera fatta con tanta fede da tutto il mondo cattolico, ortodosso e da molti musulmani di buona volontà in passato, grazie al Papa, abbia già scongiurato un intervento che poteva essere davvero catastrofico e tragico.

D. – C’è spazio per un appello di pace?

R. – Dal punto di vista umano, la gente, le persone che abitano ad Aleppo, in Siria, sono veramente disperate, perché in passato hanno ascoltato solo promesse o comunque visto tentativi falliti, abortiti. Dal punto di vista della fede cristiana, non possiamo disperarci: dobbiamo sempre aprire il cuore, la mente, alzare gli occhi e invocare il dono della pace che solo il Signore dà. Noi come cristiani, come Francescani della Terra Santa, che viviamo e operiamo ad Aleppo, vogliamo, desideriamo con tutto il cuore che arrivi veramente questa pace. Ma non la aspettiamo in modo passivo, sperando che avvenga. No, siamo anche operatori di pace: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. E lo stiamo facendo in mille modi. Anche la mia presenza al Meeting di Rimini, è un modo per raccontare la sofferenza degli innocenti, è un modo per coinvolgere tante persone di buona volontà. Il mio appello alla pace va a tutte le persone di buona volontà, a tutte le coscienze. Nessuno può dirsi ignaro davanti al dramma terribile della Siria. Nessuno può dire davanti ai telegiornali, davanti ai media, che non sa cosa sta effettivamente succedendo in Siria.

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Libia, Tobruk nega la fiducia a al-Sarraj: l'unità è lontana

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Libia nel caos. Dopo aver negato – con 61 voti contrari e 39 astenuti –  la fiducia al governo di Accordo Nazionale (Gna), appoggiato dall’Onu e guidato da al-Sarraj, la Camera dei rappresentanti di Tobruk ha dato al Consiglio presidenziale di Tripoli (Cp) un’ultima alternativa: formare un esecutivo ridotto con un massimo di 12 ministri. Il voto, secondo il vicepresidente della Camera di Tobruk, Ihmid Houmah, sarebbe illegale, perché l'ordine del giorno è stato cambiato all'ultimo minuto. Il presidente egiziano Al Sisi, importante mediatore, conferma il suo appoggio al governo in Cirenaica e al generale Haftar, che acquisisce sempre maggior potere nella Libia orientale. Sul complicato scenario, dopo la mancata fiducia ad al-Sarraj, Eugenio Murrali ha intervistato Arturo Varvelli, esperto di Libia dell’Istituto di Politica Internazionale (Ispi): 

R. – Il Paese risulta spaccato in due, perlomeno, non tanto per le formazioni di due governi che controllerebbero il territorio – mi riferisco al Parlamento di Tobruk, da una parte, che ha ancora un esecutivo, e, dall’altra parte, al Consiglio presidenziale di Sarraj, che è uscito dalla trattative condotte dalle Nazioni Unite – quanto per le due organizzazioni di milizie, di combattenti, che realmente detengono il controllo del territorio. In Cirenaica ci sono quelle che rispondono al generale Haftar e, dall’altra parte, ci sono le forze coalizzate di Misurata e di Tripoli che stanno combattendo lo Stato Islamico nella città di Sirte e che supportano il nucleo iniziale del governo delle Nazioni Unite. Questo voto, dal punto di vista formale, incancrenisce una situazione che è sempre più difficile da sbrogliare.

D. – L’Egitto prende una posizione piuttosto forte a favore di Tobruk e di Haftar...

R. – La palla passa anche ai protettori internazionali di queste due entità protostatuali. Per quanto riguarda Tobruk e Haftar, troviamo l’Egitto e in buona misura anche la Russia. Dall’altra parte ci sono le potenze occidentali, che maggiormente appoggiano il governo di Tripoli e, almeno formalmente, il processo di transizione delle Nazioni Unite e altre forze regionali importanti come la Turchia, ad esempio. Poi ci sono alcune potenze – in particolare europee – che non mancano di ambiguità. Mi riferisco alla Francia, che appoggia formalmente la transizione del governo delle Nazioni Unite di Sarraj, però dall’altra parte ha sostenuto, anche militarmente, le truppe di Haftar. La soluzione non può che passare da un compromesso, che è innanzitutto di tipo regionale. L’Egitto deve essere in qualche maniera garantito. Il Paese è terrorizzato dalla presenza di islamisti in Cirenaica e dall’altra parte aspira ad avere un ruolo importante nella regione. Inutile dire che questa è una regione ricca e che naturalmente la costituzione di una sorta di “Stato cuscinetto” in Cirenaica andrebbe a favore dell’Egitto e del governo egiziano, in questo momento.

D. – Tobruk propone al governo di accordo nazionale la possibilità di formare un nuovo esecutivo ridotto. Questa mossa dove vuole arrivare?

R. – Non è la prima volta che vengono proposte misure di questo tipo. Talvolta, queste decisioni tendono a mirare a una sorta di rimpasto, inserendo nomi nuovi che siano di maggiore garanzia, altre volte hanno solamente intenzioni dilatorie. Tobruk potrebbe anche mirare a uno status quo infinito in questa maniera. Dall’altra parte, può celarsi anche un reale tentativo distensivo. Quindi, è ancora troppo difficile capire, lo potremo vedere nei prossimi gironi.

D. – Questa mancata fiducia segna la sconfitta delle mediazioni dell’Onu o c’è ancora la possibilità di trovare una soluzione unitaria per questo Paese?

R. – Penso che ancora ci sia, questo però non dipenderà solamente dalle parti libiche. È stato uno degli errori commessi da Bernardino Leòn quello di continuare a condurre una trattativa dando valore alle istituzioni libiche che esistevano, come se queste in realtà controllassero realmente il Paese. Kobler ha capito che questa istituzionalizzazione, un po’ surreale, non poteva che condurre a un disastro e ha cercato di allargare, coinvolgendo nelle trattative per la formazione di questo governo di unità nazionale le varie componenti sociali e politiche del Paese. Ha cercato anche di introdurre in questo dibattito politico le comunità locali, in parte anche quelle tribali. Dopodiché, anche la spinta di Martin Kobler si è un po’ esaurita. I libici sono esausti di questo conflitto. Non penso che il popolo appoggi questa divisione del Paese.

D. – Sul fronte terrorismo questo voto cambia qualcosa?

R. – No, non credo cambi molto. Il generale Haftar, che ha sempre decantato la sua lotta ai terroristi – tra i terroristi include non solo gli appartenenti allo Stato islamico, ma soprattutto la Fratellanza musulmana e altre forze islamiste che stanno combattendo, ad esempio, a Bengasi – in realtà non ha mai combattuto lo Stato islamico a Sirte. Lì lo hanno combattuto i misuratini e lo hanno combattuto le forze di Tripoli, che avevano accusato anche Sarraj di non aver fatto abbastanza e di non essere stato in prima linea in questa lotta. Questo è cambiato dopo che Serraj ha chiesto l’intervento statunitense e occidentale al fianco dei combattenti misuratini. Ciò potrebbe favorire Serraj e la sua popolarità in Tripolitania, anche se questa è prevalentemente legata allo stato di salute del cittadino medio libico e del cittadino medio che ancora ha naturalmente molti problemi, perché tutti i più basilari sostentamenti del vivere quotidiano non sono assicurati. Ed è soprattutto questo quello che il cittadino medio, come in ogni luogo della terra, mira ad avere. Mira ad avere l’elettricità, una raccolta dei rifiuti, degli ospedali aperti e in qualche maniera funzionali. Quindi, da questo punto di vista, c’è ancora molto da fare. 

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Nigeria: raid uccide il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau

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Le forze armate nigeriane hanno annunciato che Abubakar Shekau, leader dell’organizzazione terroristica Boko Haram, è stato ucciso, insieme ad altri tre comandanti del gruppo islamista, in un bombardamento aereo nel nordest della Nigeria. Almeno in altre tre occasioni le forze nigeriane hanno dichiarato di aver ucciso il leader della formazione africana affiliata dallo scorso anno allo Stato islamico. L'annuncio arriva nel giorno dell’inizio della visita in Nigeria del segretario di Stato Usa, Kerry, il quale ha dichiarato che per combattere i jihadisti è fondamentale ricostruire la fiducia del popolo nel governo di Abuja. Ma quali scenari si aprono con la morte di Shekau? Marco Guerra lo ha chiesto a Marco Di Liddo, analista di questioni africane del Centro studi internazionali (Cesi): 

R. – Shekau è stata una figura molto importante nel panorama jihadista nigeriano e in generale africano. E' stato colui che ha trasformato Boko Haram da una setta caritatevole a un’organizzazione terroristica. Detto questo, l’organizzazione jihadista attiva nel nordest della Nigeria è ormai in grado di produrre una leadership funzionale al di là del suo leader. Però, bisogna affermare che ogni otto mesi l’esercito nigeriano piuttosto che quello camerunense o nigerino hanno dichiarato la presunta morte di Shekau. Quindi, questa è una notizia che in ogni caso va presa con le molle.

D. – Il 4 agosto Shekau aveva annunciato di essere ancora lui il leader dell’organizzazione dopo che lo Stato islamico aveva nominato un altro elemento dell’organizzazione alla leadership di Boko Haram…

R. – La crepa è innanzitutto interna a Boko Haram che non è un’organizzazione monolitica ma vive di tre grandi anime: quella terroristica interna, locale, legata alle dinamiche etniche della Nigeria di cui Shekau era l’esponente, o è se fosse ancora vivo, più in vista, più influente. Una seconda fazione che possiamo definire internazionalista, più propensa a sposare gli obiettivi e gli ideali del jihad globale e quindi a stringere un’alleanza più strutturata con Is e infine la struttura sociale dell’organizzazione che si occupa del welfare parallelo e del reclutamento. Tra queste tre anime c’è sempre stata grande competizione, perché Shekau voleva sfruttare la benedizione di al-Baghdadi pur mentendo una grande autonomia operativa. Naturalmente, in base allo sviluppo degli eventi futuri vedremo cosa accadrà all’organizzazione: se Shekau sarà estromesso, o effettivamente è morto, potremmo assistere a un’intensificazione dell’opera jihadista di Boko Haram in Nigeria rivolta non solo contro il locali, ma probabilmente contro obiettivi occidentali.

D. – Boko Haram si era affiliato allo Stato islamico solo lo scorso anno. Sta seguendo le stesse sorti del Califfato che è sotto attacco su più fronti?

R. – L’affiliazione al Califfato ha rappresentato per Boko Haram una sorta di grande guadagno propagandistico, perché l’organizzazione in Nigeria agiva come un vero e proprio califfato anni primo che è quello di al-Baghdadi nascesse e si sviluppasse. Naturalmente, come è accaduto in Siria e in Iraq, Boko Harma ha rappresentato la valvola di sfogo di un malcontento molto diffuso. Per cercare di arginare il fenomeno tutti i Paesi dell’Africa occidentale colpiti dall’insorgenza di Boko Haram - ossia Nigeria, Camerun, Niger e Ciad  -si sono uniti in un’alleanza militare che ha avuto il compito di incalzare l’organizzazione del Lago Ciad. In questo momento l’operazione procede con discreti risultati ma Boko Haram, per evitare l’annientamento, ha disperso i propri membri facendoli rientrare nei villaggi piuttosto che in alcuni campi profughi. Il problema sorgerà quando la pressione militare diminuirà: quali saranno le facoltà di Boko Haram di riorganizzarsi e di tonare a colpire? Le motivazioni politiche e sociali dell’insorgenza jihadista non sono venute meno. Quindi in quella parte della Nigeria ci sono milioni di persone profondamente disilluse dal governo che hanno una motivazione molto forte per riprendere quel tipo di attività.

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Filippine, governo e ribelli pronti a negoziare la pace

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È stata stabilita la tregua tra il governo filippino e i ribelli comunisti per permettere l’avvio del negoziato di pace, che si tiene a Oslo fino al 28 Agosto. Il cessate-il-fuoco è giunto dopo la scarcerazione da parte del governo di due influenti dirigenti comunisti, Benito e Wilma Tiamzon, per permettere loro di partecipare ai negoziati. Il presidente Rodrigo Duterte, d’altro canto, ha minacciato l’uscita del Paese dall’Onu, dopo le critiche del palazzo di vetro sulla “guerra alla droga”, che ha causato un bilancio di circa 1.700 vittime. Ma la dichiarazione del presidente Duterte è stata poi ridimensionata dal ministro degli Esteri, Yasay. Sulla effettiva possibilità della chiusura del conflitto armato, Maria Carnevali ha intervistato Paolo Affatato, responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia Fides: 

R. – Il primo a ritenerlo possibile è il presidente Rodrigo Duterte, che nel discorso sullo stato della nazione, pronunciato alla fine di luglio, davanti al Congresso filippino, ha fatto questo annuncio per molti generando una grande sorpresa, ovvero l’annuncio del cessate-il-fuoco con i ribelli comunisti e l’avvio di negoziati di pace. Questo annuncio ha poi generato e trovato una conferma nella tregua accolta dai movimenti guerriglieri e dall’inizio di questi sospirati negoziati. Sembra che da entrambe le parti ci sia una volontà politica chiara di mettere fine alle ostilità e di cominciare una nuova fase, anche perché a Oslo ci saranno dei rappresentanti politici e dei consulenti del partito comunista delle Filippine che sono stati scarcerati recentemente. Quindi, c’è stato già un segno di grande disponibilità da parte del governo filippino e questo lascia grandi speranze.

D. – Le tematiche in discussione dovrebbero essere una possibile amnistia per i politici detenuti e una dichiarazione congiunta su sicurezza e immunità. Crede che questi siano i principali punti di una road map per la pace?

R. – Questi sono dei punti, direi, iniziali di questa road map. Si confermeranno anche gli accordi firmati in precedenza. Negli ultimi 40 anni, ricordiamo, ci sono state diverse sezioni dei colloqui di pace e diversi incontri sotto cinque diversi presidenti filippini. Si comincerà da dove il discorso era stato lasciato e cioè confermare la tregua, finire le ostilità e avviare un percorso di riconciliazione che passa anche attraverso l’approvazione di riforme socioeconomiche. Sono questi i temi che la ribellione comunista ha sempre portato come priorità nella sua agenda. Naturalmente, l’amnistia e il rilascio di oltre 500 prigionieri politici, che ricordiamo sono attualmente detenuti nelle carceri filippine, sarà un passaggio importante.

D. – Come ha già ricordato, ci sono state due scarcerazioni dei dirigenti comunisti, Benito e Wilma Tiamzon. E’ un importante passo in avanti per raggiungere un accordo con il partito comunista?

R. – E’ un chiaro segnale di buona volontà da parte del governo che, ricordiamo, lo ha annunciato davanti al Congresso, nel primo discorso sullo stato della nazione, il discorso programmatico di tutta la presidenza di Duterte che è stato eletto solo tre mesi fa.

D. – Il presidente Duterte parla di una possibile separazione dall’Onu in queste ore, dopo l’invito del Palazzo di Vetro ad interrompere le uccisioni illegali a danno di persone sospettate di crimini di droga. Il ministro degli Esteri e il portavoce del presidente smentiscono. Crede possibile una presa di posizione in tal senso?

R. – Credo sia decisamente impossibile. Che Duterte sia un uomo politico dai toni particolarmente vivaci, particolarmente forti, lo si era già capito durante la campagna elettorale. Credo che queste dichiarazioni facciano parte di quel teatro della politica che ha dei toni particolarmente forti, ma poi non arriva ad una soluzione così drastica. Il presidente, direi, invece si configura anche come uno dei prossimi protagonisti dell’assemblea dell’Asean, l’Associazione degli Stati, delle nazioni del Sudest asiatico, che sta facendo un cammino molto importante in avanti dal punto di vista economico e politico per la regione del Sudest asiatico.

D. – Dal 1 luglio ad oggi sono state uccise 712 persone dalla polizia in quanto sospette trafficanti di droga. Quali condizioni sociopolitiche stanno vivendo ora le Filippine?

R. – Queste uccisioni extragiudiziali sono in effetti uno dei nodi principali che interroga il governo di Duterte. Va detto che questo è un fenomeno che non è solo recente. Il traffico di droga è sicuramente una delle situazioni più allarmanti nel Paese. Di fronte a questo fenomeno, una voce come quella della Chiesa cattolica ha esortato a conservare l’umanità anche nel trattare con i criminali e gli spacciatori, cioè non si può sparare per uccidere solo per un sospetto, solo perché si è fermato un desunto spacciatore. 

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Giornata contro le schiavitù, 20-30 milioni le vittime oggi

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La Giornata internazionale per la Commemorazione della Tratta degli schiavi e della sua abolizione, voluta dall’Assemblea generale dell’Onu, che si celebra il 23 agosto, ha l’obiettivo di imprimere nella memoria di tutti i popoli il ricordo della tragedia del commercio degli schiavi e ricorda la rivolta avvenuta sull’Isola di Santo Domingo la notte tra il 22 e il 23 agosto 1791. Guidata da Toussaint Louvertoure, primo generale maggiore di colore, la sommossa del 23 agosto diede infatti il via alla ribellione che avrebbe portato all’abolizione della tratta transatlantica degli schiavi. Michele Ungolo ne ha parlato con Giuseppe Marcocci, professore associato di Storia moderna all'Università degli Studi della Tuscia: 

R. – La Giornata dell’Unesco, fondata nel 1997, nasce proprio dalla riflessione sull’opportunità di collegare una serie di denunce legate al presente, a situazioni tutt’oggi vigenti di tratta degli schiavi, di riduzione in schiavitù nel mondo. Si calcolano fra i 20 e i 30 milioni di esseri umani che ancora oggi vivono in condizione di schiavitù con una vicenda che ha segnato la storia dei secoli dell’età moderna, in particolare in Occidente e nel mondo atlantico, una storia che ha inizio alla metà del ‘400. Le esplorazioni lungo le coste africane portano anzitutto i portoghesi ad accedere ad aree a sud dell’odierno Senegal, dove ci sono le prime catture, e poi si entra in contatto con i mercati locali di schiavi, la gran parte gestiti dai mercanti carovanieri del Sahara, che portavano schiavi dalle regioni interne dell’Africa. Da lì si avvia, soprattutto nel secolo successivo, dalla metà del ‘500 in poi, una tratta atlantica che attraversa l’oceano insieme ai conquistatori, ai coloni iberici, perché gli schiavi africani diventano una forza lavoro, le braccia della coltivazione delle piantagioni del Nuovo Mondo, dopo che inizialmente c’era stata una prima riduzione in schiavitù delle popolazioni locali, degli indios. Questa campagna sfocerà poi all’inizio dell’’800 nei primi faticosi, complessi, controversi provvedimenti di abolizione prima della tratta, quindi prima del commercio vero e proprio attraverso l’Atlantico e poi della vera e propria schiavitù.

D. – Lo sfruttamento dell’uomo avveniva soprattutto per quella che era la forza lavoro. Ma quando e perché nacque il commercio che vide coinvolti donne e bambini?

R. – La tratta degli schiavi è antica quanto la storia dell’umanità e dai secoli dell’età moderna sappiamo la dimensione planetaria della tratta degli schiavi, non soltanto gestita da iberici e occidentali. Le donne e i bambini non fanno parte dall’inizio della tratta, che inizialmente è un fenomeno che riguarda gli uomini, gli uomini in forze. Le donne e i bambini inizieranno a far parte, comunque in numero ridotto, della tratta quando questa esploderà, quando la domanda di forza lavoro dai Paesi della regione dell’Africa occidentale crescerà esponenzialmente nel corso del ‘700. A quel punto, l’offerta non sarà più sufficiente e si inizierà a ricorrere anche ai bambini, si inizierà a ricorrere anche alle donne.

D. – Quali sono le forme di schiavitù presenti oggi e come si differenziano dal passato?

R. – C’è da dire che la schiavitù ha dei tratti di lunga durata. Alcune delle forme tutt’oggi vigenti ci rinviano alla storia immemoriale di questa pratica. Penso in particolare alla schiavitù per debito. C’è anche una schiavitù legata ai prigionieri di guerra, che oggi ha assunto la variante particolarmente spregevole della schiavitù sessuale, cui assistiamo purtroppo con una certa frequenza oggi nel mondo del Medio Oriente. Tuttavia, ci sono anche delle caratteristiche che sono proprie del nostro tempo, in particolare il lavoro minorile in condizioni spesso di vera e propria privazione assoluta di libertà. La vendita di manodopera dei bambini è spesso un fenomeno presente soprattutto oggi nel mondo dell’Asia meridionale e dell’Asia sudorientale. La grande differenza rispetto alle società di antico regime, ai modelli di società schiavile che hanno conosciuto la loro interruzione durante l’’800, è che allora la schiavitù era legale. Naturalmente, un occhio attento vede che in alcuni casi ci sono persone ancora oggi ridotte in condizioni di schiavitù, anche in Occidente.

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Vertice di Ventotene: dopo la Brexit l'Europa non è finita

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Crescita, difesa e migrazioni al centro del vertice di ieri tra Germania-Francia-Italia convocato sulla portaerei "Garibaldi" a largo dell’isola di Ventotene, laddove nel 1941 fu compilato il “Manifesto per l’Europa”, un sogno federalista a cui i leader intendono ispirarsi per rilanciare l’Unione sul piano economico, della sicurezza e della cooperazione. Il servizio di Gabriella Ceraso

L’arrivo dei leader a Capodichino intono alle 16, il trasferimento sull’isola pontina, l’omaggio alla tomba di uno degli europeisti più convinti come Altiero Spinelli qui confinato dal fascismo, quindi il vertice per il rilancio dell’Europa, a cui ciascuno dei tre leader punta. Il senso dell’incontro è qui, ha detto Renzi, stare nei luoghi in cui l’Europa è stata pensata non in palazzi istituzionali e fare come dissero i profeti del 1941: “gettar via vecchi fardelli e tenersi pronti al nuovo”. Dopo la Brexit l’Europa non è finita, avverte Renzi: rispettiamo la scelta fatta, ma vogliamo scrivere il futuro. Poi le priorità: sicurezza interna ed esterna, misure forti per la crescita e la disoccupazione e investimenti di qualità. Hollande sottolinea la necessità di una Europa più sicura da garantire con più mezzi e più risorse, del rafforzamento di frontiere e coste, della crescita nel coordinamento per la lotta al terrorismo. Anche la cancelliera Merkel insiste sulla necessità di condivisione di dati e sulla maggiore comunicazione tra intelligence. Bene l’accoglienza, afferma, ma la sicurezza così come la libera circolazione non devono essere messe a rischio. E per la sicurezza è importante anche lo sviluppo, aggiunge il presidente francese Hollande. E lo sguardo, anche tedesco, va all’Africa verso la quale, dicono i leader, abbiamo delle responsabilità: l’Ue deve essere più presente attraverso meccanismi di finanziamento e politiche favorevoli per lo sviluppo specie nel Sahel. Capitolo a parte, a cui i leader tengono molto, sono i giovani. Le proposte comuni che emergono parlano di più formazione e incremento di progetti di studio e lavoro. Da Renzi anche l’annuncio che sull’isola di S. Stefano, lo storico carcere diventerà sede di una scuola di formazione per giovani europei e mediterranei.

Un vertice che ha toccato temi alti, che ora però dovranno essere tradotti in provvedimenti concreti. Gabriella Ceraso ha sentito Eleonora Poli, esperta di questioni europee dell’Istituto affari internazionali: 

R. – Questo appuntamento ha avuto un’importanza di carattere simbolico. Di fatto, non poteva avere un carattere decisorio perché appunto era un meeting tra tre Paesi membri, anche se importanti. In un momento di forti crisi e di forti connessioni interne fare un meeting decisivo non era la strategia migliore. Lo definirei più un meeting interlocutorio di definizione di quale debba essere la linea da portata avanti a Bratislava. Questo infatti è un primo meeting, per esempio, per la cancelliera Merkel che ne avrà altrettanti negli altri Paesi europei.

D. – Vengono fuori delle linee di pensiero comuni: qual è il rilievo di queste?

R. – È stata ribadita l’importanza di una maggiore cooperazione sia nell’ambito della sicurezza interna sia nell’ambito del problema della migrazione. Nulla di nuovo sotto il sole, diciamo. Dal punto di vista economico Renzi ha ribadito la necessità di essere sognatori ma anche realisti; questo significa un po’ più flessibilità di rilancio, ma allo stesso tempo portare avanti degli investimenti concreti per il Paese. Renzi è stato molto vago su questo punto, però sembra che ci possa essere un po’ più di flessibilità, anche se la Germania all’inizio sembrava abbastanza rigida su questo tema; forse grazie all’aiuto della Francia ci potrà essere maggiore flessibilità sul tema degli investimenti.

D. – E il parlare di Brexit come si è fatto, come qualcosa che non scoraggia effettivamente è possibile?

R. – Prima di tutto si deve parlare di Brexit come un elemento che non può portare alla fine dell’Unione Europea. Questo è fondamentale perché con l’aumento dei partititi euroscettici e una forte diffidenza verso l’Unione Europea parlare di Brexit come la fine dell’Unione Europea è un po’ come darsi la zappa sui piedi. Quindi, ci deve essere una visione propositiva. Dal punto di vista realistico, molto dipenderà da quando la Gran Bretagna deciderà appunto di adottare l’Articolo 50 e dal successivo processo di negoziazione, perché ovviamente c’è una visione abbastanza divisa: se da un lato alcuni Paesi preferiscono che la negoziazione sia lunga in maniera tale da cercare di trovare un accordo ottimale sia per la Gran Bretagna che per i Paesi membri, altri Paesi invece spingerebbero verso un’uscita più veloce della Gran Bretagna quasi per punirla per questo referendum. Quindi, diciamo che c’è una divisone politica interna tra i Paesi membri: anche all’interno degli stessi Stati non c’è una visione chiara, perché entrambe le opzioni avrebbero conseguenze negative per l’Unione Europea stessa.

D. – A Bratislava, dopo oggi (ieri - ndr), da cosa si partirà e con quali prospettive secondo lei?

R. – È veramente necessario che gli Stati membri mettano in atto una strategia europea concreta, che si parli di un piano effettivo futuro per lo sviluppo dell’Unione Europea – se ci deve essere uno sviluppo dell’Unione – perché la situazione di empasse attuale ha solamente effetti negativi.

D. – In termini concreti, questo che cosa potrà significare? Che decisioni devono essere prese?

R. – Una decisione più concreta sul problema dei migranti, su come ripartirli e su come fare investimenti nei Paesi da dove queste persone provengono. Ci deve essere inoltre una condivisione maggiore di sicurezza interna. Dal punto di vista economico, non si può chiedere ai cittadini europei di credere nell’Unione Europea che al momento sembra portare solamente maggior disagio economico: servono degli incentivi concreti.

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Ufficiale: Alcoa abbandona il Sulcis, i sindacati non ci stanno

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L’azienda produttrice di alluminio Alcoa chiuderà i battenti in Sardegna, nell’impianto di Portovesme, nel Sulcis. Una vicenda che va avanti fin dal 2011, quando alla multinazionale americana era stata inflitta una multa di 300 milioni di euro dalla Commissione Europea per tariffe preferenziali da parte dello Stato italiano ritenute illegittime. Per anni, le trattative sulla chiusura dell’impianto sono andate avanti ma adesso è arrivato l’annuncio ufficiale, nonostante sia previsto un incontro a settembre con il Ministero dello sviluppo economico per fare il punto della situazione. Salvatore Tropea ha intervistato Fabio Enne, segretario generale Cisl Sulcis Iglesiente: 

R. – Alcoa è sempre stata la multinazionale che ha chiuso lo stabilimento quattro anni fa. Credo che non abbia nessuna intenzione di vendere i suoi stabilimenti di Portovesme per non crearsi un rivale in concorrenza. Non è una novità che Alcoa stia osteggiando la privatizzazione di quella fabbrica. Il governo nazionale dovrebbe adesso svolgere un ruolo che indichi la strada e soprattutto definisca il percorso per la privatizzazione. Il 5 settembre ci dovrebbe essere un incontro. Dovrebbero essere arrivate anche altre manifestazioni di interesse per lo stabilimento. Per cui, il governo deve essere autorevole per dimostrare che ha davvero intenzione di rimettere in marcia gli stabilimenti, perché altrimenti non c’è nessuna intenzione da parte della politica di rimettere in marcia la filiera dell’alluminio.

D. – Quali le reazioni da parte dei sindacati e del territorio per prendere posizione contro questa decisione?

R. – Ritengo che siano state già fatte molte cose. Adesso ci rivolgeremo alla Regione Sardegna, che è il nostro interlocutore principale. Con questa dobbiamo garantirci una seria affidabilità istituzionale nei confronti di una filiera che abbiamo perso, e che stiamo perdendo, in maniera inadeguata dal punto di vista di una programmazione di un territorio che soffre una disoccupazione micidiale e anche soprattutto un’assenza di alternative industriali.

D. – Cosa significa questa decisione per i tanti lavoratori di Alcoa, di cui 420 diretti, 350 degli appalti e 80 in questo momento senza ammortizzatore sociale?

R. – Significa che a dicembre altri 150-160 lavoratori perderanno la mobilità. Attualmente, tutti i lavoratori, diretti e indiretti, sono praticamente licenziati, non hanno azienda, sono tutti in regime di mobilità. Questa è una situazione drastica, perché poi a dicembre del prossimo anno ci saranno altri 300-400 disoccupati e nell’attesa non c’è niente. Il governo nazionale e il presidente del Consiglio deve dirci cosa vuole fare di una filiera importante come l’alluminio: se davvero è stata considerata come strategica in tutte le sedi, la deve rimettere in piedi.

D. – Visti i presupposti, si può sperare che questa decisione non venga più presa o si teme il peggio?

R. – Bisogna capire quali sono state le azioni di marketing da parte del governo nazionale nel ricercare aziende serie, che davvero vogliano produrre alluminio primario. È chiaro che si devono serrare le fila e fare una trattativa altrettanto seria e determinata per fare in modo che lo stabilimento riparta. Ma è chiaro che per far sì che lo stabilimento a Portovesme riparta e sia competitivo, ci devono essere delle condizioni. Queste più o meno si stavano anche mettendo sul tavolo, però probabilmente non c’è ancora la certezza da parte, ad esempio, della Glencore –  multinazionale svizzera – di acquisire l’impianto, perché non si capisce cosa dirà l’Unione Europea una volta avvenuto l’acquisto. E non si capisce neanche il prezzo di energia elettrica che praticheranno per almeno dieci anni. Per cui, insomma, ritengo che ci sia poca serietà da parte di un governo nazionale che ancora non ha dato delle risposte esaustive.

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Rio, Paralimpiadi 2016. Pancalli: abili nella disabilità

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La Russia non partecipera' alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro in programma dal 7 al 18 settembre. A deciderlo è stato Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che ha respinto il ricorso di Mosca sul cosiddetto "doping di Stato", già costato l'esclusione a molti rappresentanti russi ai recenti Giochi olimpici. Gli atleti paralimpici che si stanno preparando per Rio saranno circa 4.300 per 23 discipline. La delegazione azzurra è rappresentata da 94 atleti paralimpici e la portabandiera sarà Martina Caironi, campionessa dell’atletica leggera. Per la prima volta nella storia dei Giochi paralimpici, nati nel dopoguerra in Inghilterra, parteciperanno atleti rifugiati o richiedenti asilo. Maria Carnevali ha intervistato il Presidente del CIP, Luca Pancalli, chiedendo come gli atleti paralimpici italiani si sono preparati alla gara a cinque cerchi  

R. – È stato preparato nel migliore dei modi grazie al lavoro di ogni Federazione, che ha le competenze, ciascuna per le proprie discipline. Queste hanno tentato di mettere i nostri atleti, soprattutto quelli di vertice che saranno lì presenti, nelle migliori condizioni per dare il meglio di loro stessi. Ci apprestiamo a vivere questa dimensione altamente agonistica: atleti con la “a” maiuscola che si confronteranno e rincorreranno i loro sogni.

D. – Il messaggio dei Giochi paralimpici è quello di sottolineare una speciale abilità nella disabilità?

R. – Sì, certo. A me piace parlare sempre della capacità di questi ragazzi e ragazze di essere dei grandi atleti. Tuttavia, è evidente che tutto il Movimento ha come obiettivo anche quello di dimostrare quanto le persone disabili siano in grado di esprimere una straordinaria abilità. Questa è magari sottolineata fino alle eccellenze, come quelle che si vedono durante i Giochi paralimpici, ma in questo caso perché gli atleti sono messi nelle condizioni di poterlo fare. In fondo, lo sport è visto come una metafora di quello che vorremmo che avvenisse nella vita e nella quotidianità: che alle persone disabili fosse data l’opportunità di esprimere le proprie abilità. È un messaggio che in qualche modo vuole aiutare a dare un’immagine diversa del mondo della disabilità e che possa anche contribuire alla crescita culturale nel nostro Paese. Un messaggio per tutti coloro che magari non riusciranno o non potranno mai fare uno sport.

D. – Le Paralimpiadi di Rio avranno una copertura mediatica mai avuta prima: quanto è importante la comunicazione per la rappresentazione collettiva della disabilità?

R. – È fondamentale. Oggi, con la straordinaria copertura di Rio da parte della Rai speriamo, da un lato, di poter raccontare straordinarie imprese sportive che nascono tutte da esperienze di vita vissuta, ognuna con la propria porzione di sofferenza e di dolore. Ma nello stresso tempo, questa straordinaria copertura permette di lanciare un importantissimo messaggio ai tanti ragazzi e ragazze disabili del nostro Paese, raccontando loro di uno sport che può essere sì un obiettivo, come lo è per i quasi 100 straordinari atleti paralimpici azzurri che saranno a Rio, ma che può anche diventare un semplice strumento per vivere la propria quotidianità e il tempo libero e per facilitare al tempo stesso i processi inclusivi e di integrazione.

D. – Da quest’anno parteciperanno anche atleti paralimpici rifugiati o richiedenti asilo. Cosa pensa di questa iniziativa?

R. – Anche questa iniziativa serve, ancora una volta, per sottolineare come lo sport possa essere uno strumento di comunicazione, di informazione, ma soprattutto, in questo caso, di sensibilizzazione. Condivido quindi questa iniziativa e credo che possa aiutare a far riflettere.

D. – In Italia, ci sono sufficienti centri attrezzati per favorire l’inserimento nello sport delle persone con disabilità?

R. – Assolutamente no. Ma noi non vorremmo dei centri speciali per persone “speciali”. Noi vogliamo invece che tutta l’impiantistica e l’infrastruttura sportiva del Paese fosse accessibile: priva non soltanto di barriere architettoniche e sensoriali, ma che sia accessibile soprattutto in termini di qualità del servizio reso, con la presenza di persone che siano eventualmente in grado di accogliere la domanda di offerta sportiva che dovesse provenire dalla mamma di un bambino disabile. E questo, purtroppo, non avviene.

D. – Quali sono le altre problematiche da dover affrontare?

R. – Le altre problematiche sono ovviamente legate alla vita dei nostri atleti, soprattutto di quelli “top level”. Una tra tutte, visto che facciamo anche cronaca, riguarda il partire per partecipare alla più grande competizione sportiva della loro vita prendendosi magari delle ferie o dei permessi non retribuiti sul posto del lavoro, per chi ha la fortuna anche di avere un lavoro. Questo certamente non è dignitoso nella grande famiglia dello sport italiano, che spesso sottolinea il suo voler essere “unica”, ma che poi, al proprio interno, mostra delle profonde differenze. Stiamo lavorando su questo e devo dire che un grande risultato è stato il riconoscimento che abbiamo ottenuto dal governo di “ente pubblico non economico”. Sotto questo profilo, tale riconoscimento ci dà una speranza. L’avvio di un riconoscimento di pari dignità rispetto al Comitato olimpico ci fa sperare che le cose possano effettivamente cambiare nel prossimo futuro.

D. – C’è anche qualcosa che riuscirete a chiedere alle istituzioni, con più forza?

R. – La forza che ci dà il fatto di essere riconosciuti come un “ente pubblico” può aprire degli scenari che fino adesso avevamo tentato di esplorare faticosamente, ma che potranno forse da ora in poi consentirci di raggiungere dei risultati in maniera molto più veloce e semplice sia nei rapporti con il Miur, per quanto riguarda la scuola, che con il ministero del Welfare, della Salute.

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Il Seminario di Erice dedicato alle emergenze planetarie

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"I modelli matematici per affrontare le 15 classi delle 72 emergenze planetarie vanno posti sotto verifica sperimentale per non buttare via miliardi di euro inutilmente". Lo ha detto il prof. Antonino Zichichi, al Centro "Ettore Majorana" dove, da sabato scorso, 100 tra i più grandi esperti del mondo sono intervenuti sui problemi che minacciano il futuro della Terra. Il servizio di Alessandra Zaffiro:  

"Nel 2017, grazie ai satelliti della Nasa, sapremo quanti e dove sono i serbatoi naturali di acqua pulita nel nostro pianeta". Lo ha affermato il prof. Antonino Zichichi, presidente dei Seminari internazionali di Erice sulle emergenze planetarie che si concludono oggi al Centro "Ettore Majorana", dove si è parlato anche di terrorismo.

Secondo l’antropologa, Lydia Wilson, ricercatrice presso il Centro per la risoluzione dei conflitti intrattabili dell’Harris Manchester College di Oxford, dalle interviste compiute in carcere in Kosovo e nelle zone "calde" dell’Iraq emerge che “i giovani sanno poco di islam: hanno difficoltà a rispondere a domande su sharia, jihad militante e califfato”.

Wilson ha poi ricordato che in Kosovo, Paese che ha inviato 300 giovani in Siria, “molti arruolati come combattenti, la disoccupazione giovanile è del 70%”. Dietro l’arruolamento, ha concluso l’antropologa, “c’è la disperazione”.

Ad Erice è intervenuta anche Anita Nilsson, già direttore dell’Ufficio per la Sicurezza nucleare dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), secondo la quale “un attacco terroristico in una centrale nucleare non è l’unico rischio reale. Esiste anche quello di una sottrazione fraudolenta per scopi criminali di materiale radioattivo sanitario. Per prevenire questi rischi - ha spiegato Nilsson - l’Agenzia ha stilato delle linee guida con specifiche raccomandazioni su come gestire in sicurezza tali sostanze”, demandate alle singole nazioni.

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Nella Chiesa e nel mondo



Etiopia: dopo le violenze, Wcc e vescovi chiedono il dialogo

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Si susseguono gli appelli al dialogo in Etiopia, dopo la repressione nel sangue, due settimane fa, delle manifestazioni degli oromo nelle quali hanno perso la vita oltre 100 manifestanti. Al richiamo lanciato nei giorni scorsi dai vescovi cattolici del Paese, ha fatto seguito quello del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc).

Gli oromo etnia emarginata
Alle origini delle proteste: il piano di sviluppo dell’area di Addis Abeba, annunciato nel novembre 2015 dalle autorità locali, progetto che prevede l'espropriazione di parte delle terre degli oromo, etnia vittima di discriminazione nel Paese. Nonostate il blocco del piano da parte del Governo, le manifestazioni degli oromo sono continuate per denunciare l'emarginazione e l'esclusione dalla vita economica e politica etiope controllata dall’etnia tigrina.

Dialogare per un futuro migliore per l’Etiopia
In una nota diffusa il 19 agosto, il direttore della Commissione per gli affari internazionali del Wcc, Peter Prove, ha espresso cordoglio per le vittime della repressione, esortando le forze dell’ordine ad astenersi dall’uso eccessivo della forza per favorire il dialogo. Egli ha quindi invitato tutte le Chiese a pregare “perché le parti possano stringersi le mani per un futuro migliore per l’Etiopia basato sulla giustizia sociale e la dignità umana”.

L’appello dei vescovi
Dello stesso tenore è stato l’appello lanciato dieci giorni fa dai vescovi etiopici. In una dichiarazione diffusa dal presidente della Conferenza episcopale etiope ed eritrea, card. Berhaneyesus Demerew Souraphiel, i presuli avevano chiesto “a tutte le parti in causa di cooperare nella costruzione di una società libera dall’odio, anche per le generazioni future”, sottolineando che il caos non è una risposta ai problemi, “ma piuttosto un ostacolo alla crescita e allo sviluppo” di cui il Paese ha bisogno per uscire dalla povertà.  (L.Z)

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Myanmar: appello interreligioso per la pace nel Paese

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La Conferenza di Panglong del XXI secolo sia l’opportunità “per raggiungere un accordo per il bene del Myanmar, soprattutto dei bambini, che sono quelli che soffrono di più a causa della guerra che si protrae da ormai da 70 anni”. È l’appello lanciato dal “Myanmar Interfaith for Children”, piattaforma interreligiosa a scopo umanitario, in vista della conferenza di pace che il governo sta organizzando con l’esercito e tutti i gruppi etnici che combattono per l’autonomia. L’evento è programmato per il prossimo 31 agosto.

200 rappresentanti di tutte le religioni
Il messaggio – riferisce l’agenzia AsiaNews - è stato pubblicato dopo un incontro avvenuto nei giorni scorsi a Yangon, cui hanno partecipato circa 200 rappresentanti di tutte le religioni, membri del governo, parlamentari e funzionari dell’Onu. Il “Myanmar Interfaith for Children” è nato nel 2014 grazie alla collaborazione fra la ong “Ratana Metta Organization” (Rmo) e l’Unicef.

L’avvenire del Paese dipende dalla tutela dei bambini
I bambini, scrivono i leader religiosi, “rappresentano circa un terzo della popolazione del Paese, perciò noi abbiamo il dovere di interrompere il conflitto ora e proteggere il loro futuro. La guerra impedisce ai minori di sviluppare il loro pieno potenziale e ostacola la crescita del Myanmar”. “Gran parte dell’avvenire della nazione – continua il comunicato – dipende da ciò che la società sarà in grado di fare per i bambini”.

Porre fine ai conflitti e promuovere la pace
Il “Myanmar Interfaith for Children” – di cui fanno parte la comunità cristiana, musulmana, indù e buddista – chiede che la conferenza di Panglong si concentri su due obiettivi primari: da una parte, la conclusione dei conflitti e l’inizio della pace; dall’altra la tutela dei bisogni e dei diritti dei bambini.

L’importanza della conferenza di Panglong
Da ricordare che il Myanmar è composto da oltre 135 etnie, che hanno sempre faticato a convivere in maniera pacifica, in particolare con il governo centrale e la sua componente di maggioranza birmana. La prossima conferenza di Panglong sarà la prima di questo genere, dopo quella del 12 febbraio 1947, che fu firmata da quattro gruppi etnici: Bamar, Chin, Kachin e Shan. (I.P. – AsiaNews)

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Vescovi Oceania: salvaguardia del Creato, un dovere per tutti

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Il Comitato esecutivo della Federazione delle Conferenze episcopali cattoliche dell’Oceania si è riunito, in questi giorni, a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, per il suo incontro annuale. Al centro dei lavori, riferisce una nota ufficiale, la salvaguardia del Creato, nell’ottica di un mondo visto “non come un mercato globale, ma come una casa universale”.

Uso responsabile dell’ambiente
“Un uso responsabile dell’ambiente e delle risorse è un dovere e un compito per tutti” affermano i vescovi, richiamando anche alla necessità di uno sviluppo sostenibile per le famiglie, il turismo, l’agricoltura, la pesca. Per quest’ultimo settore, in particolare, i firmatari chiedono alle autorità di non permettere a società straniere di praticare, in Oceania, attività “illegali”, perché “il mare è un tesoro per tutti e non deve mai diventare un ‘parco giochi’ per lo sfruttamento”.

Il dramma delle popolazioni della Papua Occidentale
Un’attenzione particolare, poi, l’incontro l’ha riservata alle popolazioni della Papua Occidentale che, da anni, aspirano all’indipendenza, in conflitto con le autorità indonesiane. “Esse – sottolineano i vescovi -  cercano quello che cerca ogni famiglia e cultura: il rispetto della dignità personale e comunitaria”. Il problema della marginalizzazione di queste popolazioni risale agli anni che vanno tra il 1965 ed il 1998, sotto la dittatura del presidente indonesiano Suharto, durante la quale il ricollocamento delle popolazioni più povere veniva effettuato con l’obiettivo di sedare eventuali spinte indipendentiste della regione.

Campi-profughi di Nauru: cercano soluzione umanitaria
Infine, guardando all’eco avuta, a livello internazionale, dall’inchiesta della testata britannica “The Guardian” che ha rivelato abusi e violenze perpetrate nei campi-profughi di Nauru, i presuli dell’Oceania affermano: “L’insensibilità non può mai essere una risposta appropriata ad una tragedia umana. Siamo fiduciosi nel fatto che le autorità australiana agiranno rapidamente per attuare un piano umanitario per la riabilitazione” dei profughi. (I.P.)

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Vietnam: fedeli si preparano al Canonizzazione di Madre Teresa

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La fama di santità di Madre Teresa di Calcutta raggiunge anche il Vietnam: nella parrocchia di Thanh Đa, periferia di Ho Chi Minh City, infatti, due volte al mese viene celebrata una messa per la fondatrice delle Missionarie della Carità, che verrà elevata agli onori degli altari il prossimo 4 settembre in Vaticano. Alla fine della celebrazione, i partecipanti si recano in processione a baciare le reliquie della futura Santa, concesse dalle Missionarie della Carità alla parrocchia nel 2013.

“Una suora gentile, dalla voce dolce”
Il legame fra questa parrocchia vietnamita e Madre Teresa – spiega l’agenzia AsiaNews - è molto forte: padre Dominique Nguyễn Đình Tân, sacerdote vicario, racconta che la missionaria visitò la chiesa due volte nel corso dei suoi viaggi in Vietnam, negli anni ’90. “La prima volta che venne mi sorpresi molto perché incontrai una suora gentile in un semplice abito religioso – sottolinea - madre Teresa mi chiese il permesso di visitare la chiesa e di pregare il Santissimo Sacramento”. Il secondo incontro avvenne il 21 aprile 1994: “Stavamo facendo l’adorazione eucaristica – ricorda padre Dominique – la Beata entrò in Chiesa e con voce dolce mi disse: ‘Devo fare visita ad un luogo qui vicino, e ho saputo che state per dire la Messa, così sono venuta per partecipare’”.

Eretto un monumento in suo ricordo
In ricordo di Madre Teresa, i parrocchiani di Thanh Đa hanno costruito un monumento nel cortile della chiesa: la missionaria vi è raffigurata mentre con una mano sorregge un bambino addormentato e con l’altra tiene la mano ad una giovane donna inginocchiata e vestita con un cappello a cono, tipico vietnamita. Anche la Caritas parrocchiale ha un bellissimo ricordo della futura Santa, soprattutto della sua attenzione per i poveri e gli emarginat, come spiega Thu, membro dell’organismo: “Si portano avanti molte attività caritative sociali, aiutando i poveri, gli orfani, le donne in difficoltà, gli anziani soli e gli ammalati di Aids”.

1973, primi contatti tra Madre Teresa ed il Vietnam
Da ricordare che i rapporti fra Madre Teresa e il Vietnam iniziano nel luglio 1973, quando l’allora arcivescovo di Saigon, mons. Paul Nguyễn Văn Bình, chiede alla religiosa di inviare nel Paese sette seminaristi indiani per aiutare e servire i poveri. Il 30 aprile del 1975, alla caduta di Saigon sotto le forze comuniste, i religiosi devono lasciare il Vietnam, ma l’arcivescovo Văn Bình si attiva per formare un gruppo stabile di religiose locali che seguano la spiritualità di Madre Teresa. Dal 1991 al 1995, poi, la suora missionaria, di origini albanesi, si reca in Vietnam cinque volte.

Amore e speranza, l’eredità della missionaria
Suor Mary Frances, attuale superiora della Missionarie della carità, spiega: “I semi dell’amore e della speranza sepolti da Madre Teresa al suo arrivo in Vietnam stanno ora emergendo e crescendo. Grazie alla sua spiritualità, stiamo avendo sempre più vocazioni per servire i più poveri con l’amore di Cristo”. (I.P. – AsiaNews)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 236

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.