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Sommario del 04/04/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Messa del Papa per l'Annunciazione: cristiano sia uomo del sì

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Domandiamoci se siamo uomini del sì o guardiamo dall’altra parte per non rispondere. E’ uno dei passaggi dell’omelia mattutina di Francesco a Santa Marta, la prima dopo la pausa per le festività pasquali. Prendendo spunto dalla solennità dell’Annunciazione, il Papa ha sottolineato che è proprio il “sì di Maria che apre la porta al sì di Gesù”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Abramo obbedisce al Signore, dice “sì” alla sua chiamata e parte dalla sua terra senza sapere dove sarebbe andato. Papa Francesco ha incentrato la sua omelia sulla “catena di sì” che inizia proprio con Abramo. Prendendo spunto dalla solennità dell’Annunciazione, il Pontefice ha ricordato quell’ “umanità di uomini e donne” che pur “anziani” come Abramo o Mosè “hanno detto sì alla speranza del Signore”. Ma, ha soggiunto, pensiamo anche ad Isaia, che “quando il Signore gli dice di andare a dire le cose al popolo” risponde che ha “le labbra impure”.

Il sì di Maria apre la porta al sì di Gesù
Il Signore, ha detto il Papa, “purifica le labbra di Isaia e Isaia dice sì!”. Lo stesso vale per Geremia che riteneva di non saper parlare, ma poi dice 'sì' al Signore:

“E oggi il Vangelo ci dice la fine di questa catena di 'sì' ma l’inizio di un altro 'sì', che incomincia a crescere: il sì di Maria. E questo 'sì' fa che Dio non solo guardi come va l’uomo, non solo cammini con il suo popolo, ma che si faccia uno di noi e prenda la nostra carne. Il ‘sì’ di Maria che apre la porta al 'sì' di Gesù: ‘Io vengo per fare la Tua volontà’, questo ‘sì’ che va con Gesù durante tutta la vita, fino alla Croce”.

Francesco si sofferma dunque sul 'sì' di Gesù che chiede al Padre di allontanare da lui il calice, ma aggiunge: “sia fatta la Tua volontà”. In Gesù Cristo, dunque, “vi è il 'sì' di Dio: Lui è il 'sì'”.

Nel 'sì' di Maria c’è il 'sì' di tutta la Storia della Salvezza
Questa, ha detto, è “una bella giornata per ringraziare il Signore di averci insegnato questa strada del 'sì', ma anche per pensare alla nostra vita”. Un pensiero che il Papa rivolge in particolare ad alcuni sacerdoti presenti che celebrano il 50.mo di ordinazione:

“Tutti noi, durante ogni giorno, dobbiamo dire ‘sì’ o ‘no’ e pensare se sempre diciamo ‘sì’ o tante volte ci nascondiamo, con la testa bassa, come Adamo e Eva, per  … non dire ‘no’, ma farsi un po’ quello che non capisce… quello che non capisce quello che Dio chiede. Oggi è la festa del ‘sì’. Nel ‘sì’ di Maria c’è il ‘sì’ di tutta la Storia della Salvezza, e incomincia lì l’ultimo ‘sì’ dell’uomo e di Dio”.

Domandiamoci se siamo uomini e donne del 'sì'
Lì, ha soggiunto il Papa, “Dio ricrea, come all’inizio con un ‘sì’ ha fatto il mondo e l’uomo, quella bella Creazione” e ora con questo ‘sì’, “più meravigliosamente ricrea il mondo, ricrea tutti noi”. E’ “il ‘sì’ di Dio che ci santifica, che ci fa andare avanti in Gesù Cristo”:

“E’ una giornata per ringraziare il Signore e per domandarci: ‘Io sono uomo o donna del ‘sì’ o sono uomo o donna del ‘no’ o sono uomo o donna che guardo un po’ dall’altra parte per non rispondere?’. Che il Signore ci dia la grazia di entrare in questa strada di uomini e donne che hanno saputo dire il sì”.

Al termine dell’omelia, le suore vincenziane che sono di servizio a Casa Santa Marta hanno rinnovato i voti. “Lo fanno ogni anno – ha detto il Papa – perché San Vincenzo era intelligente e sapeva che la missione che affidava loro era molto difficile e per questo ha voluto che ogni anno rinnovassero i voti”.

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Mons. Gugerotti: Ucraina soffre dimenticata, grati per appello del Papa

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Operazioni chirurgiche senza anestesia, ragazzine madri abbandonate negli orfanotrofi dopo abusi di guerra, “pendolarismo” lungo zone del fronte per trovare di che vivere: questi e molti altri drammi si consumano ogni giorno in Ucraina, nel silenzio pressoché totale dei media. A parlarne è il nunzio apostolico nel Paese, mons. Claudio Gugerotti, che esprime gratitudine a nome della gente per l’appello di Papa Francesco, ieri all’Angelus, e per la colletta pro-Ucraina lanciata per il 24 aprile nelle chiese cattoliche d'Europa. L’intervista è di Alessandro De Carolis

R. – In Ucraina, operano la Chiesa greco-cattolica, di rito bizantino, che è ampiamente maggioritaria nel Paese, e la Chiesa latina, anch’essa molto attiva e presente nel Paese. Nella zona in cui vi sono le difficoltà più rilevanti, questa nostra presenza cattolica è molto minoritaria. E’ stata costruita una rete di aiuto e di sostegno, che è riconosciuta ampiamente e con gratitudine anche dalle autorità governative. La Chiesa cattolica si è molto mobilitata, anche al di là delle proprie forze, con centri di vario genere, di cui si occupano soprattutto le Caritas, ma non solo. Quindi, mense per i poveri, centri di riabilitazione per i bambini, case di accoglienza soprattutto per le mamme con bambini nati in condizione grave, perché la violenza scatenata in quei territori ha spesso creato situazioni drammatiche, con le ragazzine negli orfanotrofi che sono rimaste incinte, senza nessuno, e le suore di Don Orione – per esempio – che hanno una casa per queste ragazze madri, si sono prese cure di loro. C’è poi una grande necessità di farmaci: molto spesso si opera senza anestetici, perché non arrivano… La Chiesa mostra veramente un’attività e una attenzione caritativa estremamente encomiabile.

D. – Colpisce il fatto che, ieri, nel suo appello, Papa Francesco, all’interno della grande sofferenza che vive la popolazione ucraina, abbia voluto mettere in risalto la condizione di due categorie particolari: i bambini e gli anziani…

R. – Sì, le vittime sono per il 60% persone anziane. I bambini sono abbandonanti se hanno perso i genitori o se in casa c’è soltanto la madre – e sono molti i casi – perché l’accesso agli asili nido è soltanto per il 40% delle richieste, quindi la mamma, in queste circostanze, non può lavorare e non può mantenere la famiglia, perché deve stare con i bambini… Queste persone sono completamente abbandonate e questo per due ragioni. In quella regione, una parte notevole delle persone in età lavorativa se ne è andata e nessuno si occupa di quelli che sono rimasti e che non sono indipendenti. L’altro aspetto, molto delicato, è dato dal fatto che i sussidi sono elargiti dalle autorità ucraine soltanto nel territorio sotto controllo ucraino, ma molta gente fa la pendolare costantemente, avanti e dietro. E questo soprattutto le donne anziane. Io ho visto – perché il Papa mi ha chiesto di andare a visitare queste zone per la Pasqua nella zona non controllata dalle forze ucraine e in cui ci sono ancora le operazioni belliche – che ci sono file, file di donne che, dopo aver percorso chilometri a piedi, attraversano il check-point, nella zona controllata dalle forze ucraine, per riscuotere la pensione e comprare qualche cosa a prezzi accessibili. E sa, con il clima che c’è in queste terre, senza alcun riparo, in una zona totalmente circondata da mine, questo costituisce un pericolo costante! Ci sono già state persone che non sono sopravvissute a questo sforzo continuo… Ho incontrato bambini della terza classe elementare che hanno completamente dimenticato come si scrive e come si legge… E’ una cosa che va avanti da moltissimo tempo: ogni notte si spara, c’è una instabilità totale, c’è la paura di qualsiasi cosa… I bambini naturalmente assorbono questo in modo drammatico e ci vorrà una riabilitazione di anni per riuscire ad aiutarli a superare questa crisi.

D. – Questa sua descrizione fa pensare che il conflitto ucraino sia ritornato all’attenzione generale soprattutto grazie alle parole di Papa Francesco, altrimenti sarebbe finito tra i cosiddetti conflitti “dimenticati” dai media…

R. – Mi duole dirlo, ma solo per l’intervento di Papa Francesco! Da tempo ormai di questo conflitto non si parla più nei media. Assolutamente! E questa è una cosa gravissima, perché tra l’altro è un conflitto in Europa, di proporzioni ampie e drammatiche. E’, tra l’altro, un conflitto che mette a rischio la stabilità di tutta la zona e non soltanto della zona europea. Quando non si parla di una cosa, la cosa non esiste… Naturalmente, l’Ucraina è molto grata al Papa, perché è un appello ad una colletta fatta in Europa ed è molto interessante questo: dice che siamo in Europa e l’Europa fa una colletta per se stessa. Il Santo Padre non si ferma a fare valutazioni di carattere strategico, ma laddove c’è la sofferenza, lui parla e vuole esserci.

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Colloquio in Vaticano tra il Papa e mons. Fellay

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La Sala Stampa della Santa Sede conferma che sabato 2 aprile ha avuto luogo in Vaticano un incontro tra Papa Francesco e mons. Bernard Fellay,  superiore generale della Fraternità San Pio X.

Oggi il Papa ha ricevuto, in successive udienze, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, il cardinale José Luis Lacunza Maestrojuan, vescovo di David (Panama), con mons. José Domingo Ulloa Mendieta, arcivescovo di Panama. Quindi, ha ricevuto l’arcivescovo Luis Mariano Montemayor, nunzio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo, e l’arcivescovo Santo Gangemi, nunzio apostolico in Guinea e in Mali.

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Nomine episcopali in Gabon, Italia, Haiti e Croazia

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In Gabon, il Papa ha nominato amministratore apostolico sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis della diocesi di Franceville, in Gabon, l’arcivescovo di Libreville, Basile Mvé Engone (salesiano).

In Italia, il Pontefice ha nominato nuovo amministratore apostolico sede vacante dell’arcidiocesi metropolitana di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela l’arcivescovo metropolita emerito di Taranto, Luigi Benigno Papa, (francescano cappuccino).

Ad Haiti, Francesco ha nominato vescovo della Diocesi di Hinche il sacerdote Désinord Jean, del clero della diocesi di Port-au-Prince, finora direttore di Radio Télé Soleil. Il neo presule è nato il 26 settembre 1967 a Furcy, nell’arcidiocesi di Port-au-Prince. Ha proseguito gli studi di filosofia presso il Seminario di Cazeau e quelli di Teologia presso il Seminario di Turgeau. Ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 13 novembre 1994 per l’Arcidiocesi di Port-au-Prince. Ha fatto una specializzazione in Comunicazioni sociali a Roma (1999-2002 – Università Gregoriana). È stato collaboratore presso la parrocchia di San Martino di Tours durante un anno poi Vicario parrocchiale presso la parrocchia del Sacro cuore a Turgeau dal 1994 al 1999. Ha prestato il suo servizio sacerdotale presso la Radio Cattolica “Spirit FM” ed ha collaborato con la Parrocchia “Christ the King” a Tampa, in Florida (USA) nel 2002-2003. Dal 2004 al 2005 è stato professore presso l’Ufficio Catechetico di Port-au-Prince e dal 2004 al 2006 professore presso il Seminario Maggiore nella sezione di Filosofia. Dal 2003 è Direttore Generale di “Radio Télé Soleil” (fu il fondatore di Télé Soleil nel maggio 2009), dal 2004 è professore presso la Sezione di Teologia del Seminario Maggiore, dal 2005 Segretario esecutivo per la Comunicazione sociale e Coordinatore della Rete nazionale “Etoile Radio Catholique”, e da maggio 2011 è Portavoce dell’Arcidiocesi di Port-au-Prince. Fu ugualmente dall’aprile 2010 a marzo 2011 Segretario di S.E. Mons. Lafontant, Vescovo Ausiliare di Port-au-Prince.

In Croazia, il Papa ha accettato la rinuncia all’ufficio di vescovo di Gospić-Senj, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Mile Bogović. Al suo posto, il Pontefice ha nominato il padre Zdenko Križić, carmeliatano, finora rettore della Comunità del Collegio Internazionale Teresianum in Roma. Il presule è nato il 2 febbraio 1953 a Johovac (Bosnia ed Erzegovina). Dopo aver frequentato il Liceo dai Padri Conventuali a Zagabria, ha fatto gli studi filosofici dai Padri Carmelitani a Firenze e gli studi teologici alla Pontificia Facoltà Teologica Teresianum a Roma. Ha emesso la prima professione il 27 luglio 1970 e quella solenne il 16 luglio 1976 a Zagabria. È stato ordinato sacerdote il 26 giugno 1977 a Zagabria. Nel 1978 ha conseguito la Licenza in Spiritualità al Pontificio Istituto di Spiritualità Teresianum in Roma, con la tesi «Personaggi biblici nelle Opere di Santa Teresa d’Avila». Dopo l’ordinazione sacerdotale ha ricoperto i seguenti uffici: Prefetto al Seminario minore dei Padri Carmelitani a Zagabria (1978-1984); Primo Consigliere del Commissario e Priore della Comunità di Remete a Zagabria (1984-1990); Professore invitato all’allora Istituto di Spiritualità Cristiana a Zagabria (1984-2012); Superiore Provinciale (1990-1996); Vicario Provinciale (1996-2002); Priore del Convento di Remete (1996-1997); Priore del Convento di Krk (1997-2002) e Maestro dei Novizi (1997-1999); Superiore Provinciale (2002-2003); Vicario Generale dell’Ordine (2003-2009); Priore del Convento di Krk e Consigliere Provinciale (2011-2012). Attualmente (dal 2012) è Rettore della Comunità del Collegio Internazionale Teresianum in Roma.

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Tweet Papa: la fede è un dono che ci permette di incontrare Dio

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"La fede cristiana è un dono che riceviamo col Battesimo e che ci permette di incontrare Dio". E' il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account @Pontifex in 9 lingue.

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Al via intesa Turchia-Ue. Vegliò: i profughi non sono merce

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E' entrato in vigore oggi l’accordo tra Unione Europea ed Ankara per limitare gli arrivi in Europa dei migranti. In Turchia, oggi, i primi sbarchi dalle isole greche di Lesbo e Chios: 135 le persone scortate, tra pesanti misure di sicurezza. Nel contempo i primi profughi che hanno ottenuto il diritto alla protezione internazionale sono stati trasferiti dal territorio turco in Germania e Finlandia. Circa 4.000 dal 20 marzo scorso gli immigrati trattenuti sulle isole greche. Pesanti le critiche di molte ong che parlano di espulsioni collettive e denunciano dietro l’intesa gli interessi politici ed economici di Ankara. Molte le perplessità sollevate anche dal cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per i migranti. Paolo Ondarza lo ha intervistato: 

R. – A me nascono parecchi dubbi, prima di tutto perché è quasi un negare a queste persone il diritto ad emigrare: loro vogliono – ad esempio – andare in Germania e si ritrovano in Turchia. E con quale garanzie? Si sa quello che è la Turchia! Non è che la Turchia sia un esempio di liberalità o di democrazia. In più la Turchia – io capisco bene – facendo questo accordo ci guadagna economicamente. In più credo – ed è la cosa principale – farà di tutto per entrare nella Comunità Europea.

D. – Tanto che qualcuno ha criticato dicendo che i migranti non possono essere trattati come merce di scambio...

R. – Si sono già avverate cose che non sarebbero dovute accadere, perché ogni giorno gruppi dalla Turchia vengono rispediti in Siria. E chi controlla poi queste cose? Lei capisce che è una cosa seria! Uno viene qui, in Europa, si ritrova in Turchia e poi, dopo una settimana o dopo un mese, si ritrova nella patria dalla quale è scappato. Come purtroppo sta succedendo, perché non c’è un organo di controllo. Secondo punto: come possono avvenire i ricongiungimenti familiari con questo sistema? Questo fenomeno, questo accordo suscita molte perplessità. E questi poveri migranti profughi non sono mica roba alla posta, un chilo di merce: 80 chili li prendiamo e li mandiamo là… Sono persone!

D. – Ecco, alla luce dell’entrata in vigore di questo accordo – qualora ci fosse ancora uno spazio per poterlo ripensare e riformulare – che riflessione si sente di fare, che suggerimento si sente di dare?

R. – Non è facile! Il problema dei rifugiati, come quello dei migranti, è un vero problema che sta sulle spalle dell’Europa soprattutto… Però io penso di dovermi comportare – non io personalmente, ma io come Stato – con un approccio molto umano, perché si tratta di persone. Poi bisogna essere ben chiari nel distinguere i migranti e i profughi: riguardo ai profughi c’è un accordo internazionale, firmato dai Paesi più sviluppati, in cui si impegnano a vedere di dare loro la possibilità di vivere fuori dal loro Paese, dal quale sono scappati. Ad un migrante sociale, non è bello, non è evangelico, ma forse si potrebbe dire: “Tu sei venuto qui, ma qui non trovi lavoro. Ti conviene tornare al tuo Paese, che magari noi ci impegniamo ad aiutare”. Ma i profughi, oltre a non essere pacchi postali, sono persone da trattare con i guanti.

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Vaticano: nasce ufficio per utilizzare il domino ".catholic"

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Su impulso della Segreteria di Stato, la Segreteria per la Comunicazione ha costituito un Ufficio denominato “DotCatholic” allo scopo di utilizzare un dominio Internet generico di primo livello (.catholic) per condividere gli insegnamenti, il messaggio ed i valori della Chiesa Cattolica con la più vasta comunità globale del Cyberspazio. A capo del nuovo gruppo di lavoro, che conta 7 tecnici informatici, è l’ingegner Mauro Milita, già responsabile del settore informatico della Radio Vaticana.

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Oggi in Primo Piano



Nagorno Karabakh, smentita tregua annunciata dall'Azerbaijan

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Non è tregua in Nagorno-Karabakh, il territorio del sud del Caucaso conteso da Azerbaijan e Armenia e teatro di scontri negli ultimi giorni. Smentita la tregua annunciata da Baku. La situazione è irrisolta da quando gli armeni della regione votarono per l’indipendenza nel dicembre 1991 con un referendum boicottato dagli abitanti azeri: da allora, il Nagorno-Karabakh si definisce uno Stato indipendente sotto il controllo dell’Armenia appoggiata dalla Russia, ma non è riconosciuto a livello internazionale. Tra il 1992 e il 1994, i combattimenti più sanguinosi: 30 mila persone uccise e milioni di profughi. Dello scoppio della violenza dopo anni di sostanziale tranquillità, Fausta Speranza ha parlato con Aldo Ferrari, docente di Geopolitica dell’area tra l’Europa orientale e l’Asia occidentale, all’Università Ca’ Foscari di Venezia:    

R. – Purtroppo, quando una situazione è incancrenita, come avviene per quella del Karabakh da ormai quasi 20-25 anni, queste esplosioni sono prevedibili: sono già avvenute tante volte, anche se questa che stiamo vivendo è purtroppo la peggiore in assoluto degli ultimi anni. A mio giudizio, non c’è stata - o perlomeno io non mi sento in grado di affermare che ci sia stata - una ragione determinata scatenante, anzi in un certo senso accade in un momento un po’ sorprendente, in quanto è quasi coinciso con la visita del presidente Aliyev a Washington. Un’occasione nella quale aveva certamente chiesto, come sempre, l’immediato ritiro degli armeni dai territori occupati, ma non sembra vi fossero delle situazioni tali da prevedere una escalation del conflitto in questi termini. Purtroppo, però, essendo irrisolta la questione è avvenuto già tante volte che ci siano stati scontri armati di questo tipo seppure non a questi livelli.

D. – Allargando lo sguardo con un’ottica geopolitica, che cosa possiamo dire?

R. – Possiamo dire sostanzialmente questo: la potenza interessata alla riapertura del conflitto è sicuramente l’Azerbaijan. Badi che questo non vuol dire che siano stati gli azeri ad iniziare l’attacco, questo non lo so dire francamente… Fra le due potenze, però, quella che è più interessata al cambiamento della situazione sul campo è sicuramente l’Azerbaijan, perché gli armeni hanno occupato dei territori e quindi sono attestati su una posizione difensiva. E’ l’Azerbaijan che non accetta – del tutto legittimamente dal suo punto di vista – questo stato di cose. Solo che in questi ultimi mesi è successo qualcosa di particolare: l’Azerbaijan negli ultimi 15 anni ha conosciuto un grande sviluppo economico, si è riarmato pesantemente, ha più volte fatto capire di voler, in caso, usare le armi per riconquistare il Karabakh... Però, in questi ultimi mesi il Paese ha seri problemi economici: dipende grandemente dal petrolio di cui è forte esportatore e con un petrolio a prezzi così bassi il budget statale ne sta risentendo fortemente e cominciano a esserci dei segnali di insoddisfazione nel Paese. Si potrebbe forse dire – ma è una illazione non suffragata  da prove certe – che, come spesso avviene in questi casi, il governo possa essere tentato di fare una diversione dai problemi politici ed economici del Paese per concentrarsi sulla politica estera. Ma è un’illazione: in realtà, quello che abbiamo è l’ennesimo scontro armato nella regione. Le parti si rimpallano le responsabilità, la situazione rimane bloccata e soprattutto a livello internazionale non c’è la capacità – e forse la volontà – di intervenire in maniera chiara e decisiva.

D. – E’ troppo pensare che abbia un peso il fatto che la Russia si sia ritagliata uno spazio di politica internazionale diverso negli ultimi tempi?

R. – Questo naturalmente è possibile. Nel Caucaso la Russia – e non da adesso – ha una posizione di estrema importanza. E’ la Russia, in realtà, che in larga misura fa da arbitro nel Caucaso meridionale in questi conflitti e in particolare in quello tra l’Azerbaijan e l’Armenia. Essendo sostanzialmente alleata dell’Armenia, ma anche non nemica, anzi forte partner commerciale, dell’Azerbaijan. E’ certo che negli ultimi mesi Mosca si è molto rafforzata sulla scena internazionale e questo potrebbe aver avuto una qualche influenza. Ma non credo sia l’aspetto decisivo per lo scoppio del nuovo conflitto. 

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Panama Papers: conti nei paradisi fiscali. E a pagare sono i poveri

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Importanti leader politici - tra cui sovrani, presidenti e primi ministri - ricchi imprenditori, campioni dello sport, nomi eccellenti del mondo bancario, finanziario e dello spettacolo. E’ trasversale e planetaria l’inchiesta denominata “Panama Papers”, durata più di un anno, che ha fatto emergere una fitta rete di conti miliardari creati in paradisi fiscali. Oltre 300 giornalisti, grazie ad un informatore segreto dello studio legale Mossack Fonseca con sede a Panama, hanno potuto esaminare un’immensa banca dati. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Undici milioni e mezzo di file segreti, oltre 200 mila società offshore, dati su operazioni dal 1977 alla fine del 2015. E’ la più grande fuga di notizie nella storia della finanza internazionale. L’inchiesta, rivelata in esclusiva in Italia dal settimanale “L’Espresso”,  fa luce su un intricato labirinto di società e di fondazioni che si articola in tutto il mondo. Sono migliaia infatti i clienti, di oltre 200 Paesi, dello studio legale con sede a Panama. Gli italiani, tra cui imprenditori e sportivi, sono più di 800. Anche alcuni dei più importanti istituti di credito internazionali sono coinvolti nella creazione di società difficilmente rintracciabili. Dopo la divulgazione di una simile mole di dati finanziari riservati, gli inquirenti dovranno appurare se i conti sono stati creati per evadere le tasse, riciclare denaro e depositare ingenti somme di capi di Stato e miliardari nei cosiddetti paradisi fiscali. L’inchiesta – sottolinea l’Espresso - offre “un resoconto inedito sulla gestione di grandi flussi di denaro attraverso il sistema finanziario globale, soldi che a volte sono il frutto dell'evasione fiscale, della corruzione o anche del crimine organizzato”.

Dall’inchiesta “Panama Papers” emerge dunque una fitta rete di conti, probabilmente creati per eludere il fisco. A rimetterci sono i cittadini di tutto il mondo. Il conto più salato lo pagano i Paesi più poveri. Amedeo Lomonaco ne ha parlato con Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia: 

R. – Noi stimiamo che ogni anno ci sia una perdita di 170 milioni di dollari per mancate entrate fiscali per i Paesi più poveri. Questo, chiaramente, ha ripercussioni non sugli Stati, ma più che altro sui cittadini stessi, perché gli Stati potrebbero utilizzare queste risorse per pagare servizi sanitari, servizi educativi, infrastrutture. Servizi e beni che permetterebbero ai cittadini di stare molto meglio. Questo non avviene a causa di pratiche che - troppo spesso - permettono comportamenti di elusione fiscale da parte di chi ne ha la possibilità e da parte di attori che hanno tutto l’interesse a non pagare le tasse.

D. – Ad essere colpiti in particolare sono anche i cittadini dell’Africa, un continente che viene depredato in varie forme ed anche con questa massiccia evasione fiscale…

R. – Noi abbiamo stimato che circa il 30 per cento del patrimonio dei super-ricchi del continente africano oggi sia detenuto offshore. E questo ha un costo per la collettività enorme: sono 14 miliardi di dollari ogni anno ed è una cifra che consentirebbe di assumere abbastanza insegnanti per mandare a scuola ogni ragazzo africano. Quindi, in un momento in cui la Comunità internazionale si sta interrogando anche su come realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile, per noi i mezzi per realizzarli devono passare anche attraverso il bandire delle forme di evasione e di elusione fiscale critiche per lo sviluppo.

D. – Questa connessione tra i vertici della politica internazionale e una possibile e diffusa evasione fiscale crea anche un’architettura preoccupante per quanto riguarda la leadership mondiale…

R. – Uno dei fenomeni più pericolosi di questo sistema economico, sempre più diseguale, è il circolo vizioso che si crea fra regole economiche ingiuste e potere che le élite politiche ed economiche hanno nel perpetrare queste regole e quindi nel perpetrare l’ingiustizia. In questo senso, "Panama Papers" ci offre uno spaccato dal quale appare, in maniera molto chiara ed evidente, il peso che l’élite ha nel fare delle regole che poi concorrono a far restare la stessa élite in una posizione di forza ed in una posizione di guadagno a scapito dei più poveri.

D. – Regole che assicurano questa sacca di evasione fiscale, che comunque alimentano la corruzione e anche il crimine organizzato…

R. – In una situazione opaca come questa, in una situazione di una così forte mancanza di trasparenza ci può essere di tutto! E’ una situazione insostenibile, resa così dall’iniquità del sistema fiscale internazionale, ma anche dal fatto che ci sia una vera e propria concorrenza fiscale fra i Paesi. Per questo è importante cambiare rotta. Oxfam propone delle misure - che speriamo possano essere attuate subito - per una maggiore trasparenza finanziaria e fiscale come – ad esempio - l’istituzione di registri pubblici centralizzati con i quali si possa capire chi beneficia effettivamente dei profitti di beni e società. Un'altra misura è l’introduzione dell’obbligo per le multinazionali di rendicontare pubblicamente il livello effettivo di guadagni annuo per ogni Paese. In questo modo sono chiamate a pagare il livello effettivo e giusto di imposte che dovrebbero pagare. 

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Giornata anti-mine, "semi di carneficina" che ancora uccidono

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“Rinnoviamo l’impegno per un mondo senza mine”. E’ l’appello del Papa lanciato alla vigilia dell’odierna Giornata internazionale di sensibilizzazione sulle mine, promossa dalle Nazione Unite per evidenziare l’impatto inaccettabile sui civili dei residuati bellici inesplosi e spronare gli Stati a rispettare le convenzioni che hanno posto al bando l’uso delle mine e di altri ordigni contro le popolazioni. Per l’occasione, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha dichiarato: “agire contro le mine è un investimento per l’umanità”. Roberta Gisotti ha intervistato Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine: 

Ce ne sono, si stima, 132 milioni inesplose, che uccidono ancora in una sessantina di Paesi, 100 mila i morti negli ultimi 15 anni, quasi 1.250 nel 2014. Centinaia di migliaia le vittime mutilate, in gran parte bambini. Costano poco le mine, dai 3 ai 15 dollari, ma per ogni dollaro speso ne servono 20 per disinnescarle. Il dott. Schiavello:

R. – Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha voluto mettere in luce che il problema delle mine e di tutti gli ordigni inesplosi è un problema che ha un impatto umanitario fortissimo. Quest’ultimo non va soltanto nella direzione dell’idea di bonifica, ma anche in quella di permettere alle popolazioni di rientrare nelle proprie case, nelle proprie scuole, di coltivare i terreni, e poter utilizzare i pozzi.

D. – Dott. Schiavello, a che punto è il cammino per la messa al bando totale delle mine antiuomo?

R. – Di fatto, oggi sono 162 i Paesi che hanno aderito alla Convenzione di Ottawa e questo ha permesso che anche i Paesi che non sono parte di questo Trattato abbiano fermato l’utilizzo, la produzione e il commercio di queste armi. Si sono registrati pochissimi casi di eserciti statali che hanno utilizzato queste armi in violazione di un Trattato che è uno stigma per chi le usa. Ci si rende infatti conto che è un’arma che va a discapito dei civili. Però, dobbiamo considerare che, siccome questi ordigni rimangono attivi per più di 50 anni anche dopo la fine dei conflitti, questi rappresentano un’eredità di morte: possiamo dire che sono "semi di carneficina". E tantissimi altri ordigni inesplosi poi aggravano la situazione generale. La Santa Sede ha fatto moltissimo per la Convenzione di Oslo per la messa al bando delle cluster bombs (bombe a grappolo), così come per le mine antipersona: il rinnovato impegno di Papa Francesco è stato ancora un segnale molto forte per la società civile impegnata nel tenere alta l’attenzione sul problema degli ordigni inesplosi. Di questo le siamo veramente molto grati.

D. – Ma ci sono abbastanza investimenti da parte degli Stati e da parte delle Nazioni Unite per disinnescare questa enorme quantità di mine inesplose?

R. – Possiamo dire che l’impegno è abbastanza forte. C’è un’Agenzia delle Nazioni Unite, la Unmas (United Nations Mine Action Service), che coordina molte di queste operazioni. I fondi non sono però sufficienti... In questo senso, un appello molto forte ai Paesi potrebbe essere quello di non credere che con una Convenzione di messa al bando di queste armi l’emergenza si risolva. Infatti, la Convenzione serve a non aggravare la situazione, a rendere visibile il fatto che alcune armi sono “inumane ed indiscriminate”. Anche se negli anni questa produzione si è fermata, immaginiamo senza questa Convenzione cosa sarebbe potuto essere il mondo oggi! Probabilmente sarebbe totalmente pieno, e in misura ancora maggiore, di ordigni bellici con effetti indiscriminati. Crediamo che invece l’impegno – in virtù delle tante guerre, conflitti e bombardamenti che lasciano, oltre alle mine, tantissimi ordigni inesplosi in aree molto vaste – vada rinnovato. Anche con l’impegno a finanziare progetti di cooperazione in questi Paesi.

D. – Si terrà a maggio ad Istanbul il primo Summit mondiale umanitario: che posto avrà il dibattitto sulle mine?

R. – Quello che ci auspichiamo, e che auspica anche il segretario generale delle Nazioni Unite, è che la “Mine Action” – la chiamiamo così, ma ricordiamo che questa espressione include una serie di attività quali la bonifica e il reinserimento socioeconomico delle vittime, il soccorso medico e l’educazione al rischio mine, ossia al riconoscimento degli ordigni inesplosi – venga inserita a tutti gli effetti tra le priorità dell’Agenda per l’Umanità. E siamo sicuri che la Santa Sede, come sempre, darà un grande supporto a questo scopo.

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Cala disoccupazione nell'Eurozona. Vaciago: deve crescere Pil

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Cala la disoccupazione nell'Eurozona: a febbraio è scesa al 10,3%, di un punto percentuale rispetto a gennaio, mentre era all’11,2% un anno fa. E’ il valore più basso dall’agosto 2011. In Italia, però, è risalita all'11,7%. I tassi di disoccupazione più bassi sono stati registrati in Germania (4,3%) e Repubblica Ceca (4,5%), mentre i più alti in Grecia (24%, dato di dicembre) e Spagna (20,4%). Per quanto riguarda la disoccupazione giovanile è scesa dal 19,5% al 19,4%. Un anno prima era al 20,9%. L'Italia ha il quarto tasso più alto con il 39,1%, superata solo da Grecia, Spagna e Croazia. I Paesi in cui ci sono meno disoccupati giovani si confermano Germania (6,9%), Repubblica Ceca (10,2%) e Danimarca (10,5%). Nonostante questa piccola ripresa, cresce la tensione all’interno dell’Unione Europea sul tema del lavoro. In Francia, i sindacati sono scesi in piazza per manifestare contro i nuovi progetti di legge del governo ispirati al jobs act italiano. Ma c’è una tendenza comune, in Europa, nel riformare il mercato del lavoro? Daniele Gargagliano ne ha parlato con l’economista Giacomo Vaciago: 

R. – Direi di sì. L’abbiamo già visto 10 anni fa in Germania, poi l’abbiamo visto con la nostra riforma del mercato del lavoro che ha tenuto conto dell’esperienza tedesca e adesso ci provano i francesi. Dove l’osso è più duro, perché i francesi – più ideologici, anche, di noi – credono che il lavoratore lo si tuteli solo con le leggi. In realtà, le leggi servono ma non bastano. Se hai un mercato del lavoro che funziona, qualcuno un lavoro lo trova. Ma non basta se l’economia, nel frattempo, non riparte.

D. – Le nuove misure adottate dai governi, secondo i sindacati, stanno portando a un abbassamento delle condizioni lavorative. Secondo lei sono invece indispensabili per modernizzare il mercato del lavoro?

R. – In realtà, senza crescita noi non riusciamo a difendere i livelli di occupazione perché non riusciamo a difendere i livelli di reddito, di benessere. Possiamo solo “spalmarlo” su più o meno persone. Il Pil è cresciuto solo dello 0,8% in un anno; l’occupazione è cresciuta di più, quindi per definizione c’è stato un aumento di benessere dei lavoratori. Bisognava crescere del 2% e non solo dello 0,8. Però allora cambiamo discorso, non parliamo di mercato del lavoro; parliamo di innovazione, di tecnologia, di buona scuola, parliamo di tutto ciò che serve a dare la crescita. Il sindacato, a sua volta, deve riscoprire che funzione può utilmente svolgere a tutela dei singoli lavoratori nelle singole fabbriche e non solo nelle grandi piazze del Paese.

D. – Tornando in Francia, il governo socialista ha annunciato un nuovo disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, sulla scia di quello italiano. Quanto ha perso di peso la rappresentanza sindacale?

R. – Non c’è dubbio che alcuni miti – pensiamo alle 35 ore, pensiamo alle vittorie del sindacato di 40 anni fa, al nostro Statuto dei Lavoratori – vanno completamente rivisti, in un mondo globale, mai esistito prima, dove alla fine l’operaio cinese compete con l’operaio francese e tedesco e italiano: che ti piaccia o no…

D. – In linea generale, perché si procede in questa direzione se – come dicono i dati, seppure in maniera oscillante – si tende a una prima ripresa?

R. – Il peggio è passato: la ripresa del 2015 lo testimonia; ma il meglio non è ancora arrivato. E il meglio – per noi e per i francesi – è tornare a crescere al 2 per cento.

D. – In Italia resta preoccupante il dato sulla disoccupazione giovanile al 39%, contro una media europea del 22%. Come fare ad invertire la tendenza in modo significativo?

R. – Ai giovani devi promettere un futuro. Altrimenti, vanno a cercarselo altrove. In questi anni, i nostri migliori figli sono andati a cercare lavoro in altri Paesi del mondo: molto in Inghilterra, ma non solo. Devi garantire loro che c’è un sentiero di crescita; bisogna riuscire a tornare ad avere la lunga vista di cui parlava Padoa-Schioppa: una vista lunga è quella di chi guarda a come saremo – o vorremo essere – tra 20 anni ... non lunedì.

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Corso sull'esorcismo: in crescita satanismo e occultismo

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E’ iniziato oggi presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum il nuovo corso su ‘Esorcismo e preghiera di liberazione’ organizzato dall’Istituto Sacerdos. Si tratta  un seminario di aggiornamento proposto come supporto per i vescovi nella preparazione dei sacerdoti assegnati al ministero dell’esorcismo. Federico Piana ne ha parlato con il prof. Giuseppe Ferraris, segretario nazionale del Gruppo di Ricerca e Informazione Socio Religiosa e fondatore del corso: 

R. – L’idea di promuovere un corso di livello universitario è nata proprio per cercare di risolvere le difficoltà nelle quali si trovano diversi sacerdoti quando devono affrontare dei problemi legati a persone che desiderano liberarsi dal contatto con il mondo dell’occulto, della magia, del satanismo oppure che per motivi diversi sentono di avere a che fare con l’azione del demonio. Il primo corso risale all’anno 2004-2005.

D. - Cosa si studia in questi giorni?

R. - È un corso di tipo pluridisciplinare. Vengono trattate tante tematiche e l’esorcismo è visto sotto diversi punti di vista. Ad esempio, c’è il punto di vista ecclesiale, teologico, biblico, liturgico, catechetico, canonico e poi quello medico e psicologico, quello giuridico e criminologico, quello farmacologico e altro ancora. Perciò dà una preparazione molto ampia a chi si iscrive.

D. - Vivendo in una società secolarizzata, si ha la tentazione sempre di più di aprire le porte all’occultismo …

R. - La società per un certo periodo di tempo è stata portata a dimenticare l’idea del demonio, a non parlare più del diavolo, a ritenerlo un qualcosa di superstizioso e basta. Però poi, nel corso degli anni, il fenomeno è esploso in maniera improvvisa e con una crescita esponenziale, tanto è vero che tanti giovani si accostano oggi a tematiche legate all’occulto e al satanismo; sono attratti da coetanei che li spingono verso queste strade. Sembrava fosse sparito, invece è ritornato più forte di prima. E che l’interesse del demonio sia nuovamente esploso lo può dimostrare anche l’impatto che questo corso ha avuto sui mezzi di comunicazione. Fin dal primo corso, tutti i più importanti mezzi di comunicazione sono intervenuti, hanno partecipato. Sono arrivati da cinque continenti e addirittura un film – “Il rito”, interpretato da Anthony Hopkins - è stato ispirato da questo corso. Questo film si basa su un romanzo scritto da Matt Baglio, il quale ha partecipato alla prima o alla seconda edizione del corso. Dall’inizio, nessuno voleva più parlare del demonio né la teologia protestante né quella cattolica. Molti sacerdoti si sono poi trovati impreparati perché non venivano più formati nei seminari delle facoltà teologiche e non sapevano più come affrontare il problema. Da loro arrivavano fedeli preoccupati perché avevano parenti coinvolti in attività e gruppi strani o perché si sentivano ossessionati o posseduti dal demonio e i parroci non sapevano proprio cosa fare. L’idea di questo corso è nata anche da qui, per dare una mano ai sacerdoti, formarli e sapere come muoversi in modo corretto in questo campo.

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Milano, apre Festival del cinema africano, d'Asia e Sud America

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Si apre questa sera a Milano il 26.mo Festival del cinema Africano, d’Asia e America Latina, interamente rivolto alle cinematografie di questi tre continenti. Un’accurata selezione di film mette lo spettatore a contatto con nuovi linguaggi espressivi e le realtà di Paesi e culture con cui oggi sono necessari dialogo e accoglienza. Il servizio di Luca Pellegrini

Con la mostra fotografica “Designing Africa 3.0” il Festival milanese cerca quest’anno di esplorare lontane terre di contrasti e speranze, ribaltando anche l’immaginario comune dell’Africa come scenario di guerre, fame e malattie. Numerosi i film che aprono sguardi nuovi e inaspettati, molti naturalmente alle prese con le realtà cui l’Europa e l’Occidente si confrontano ogni giorno. Annamaria Gallone, che con Alessandra Speciale con passione dirige il Festival, conferma che immigrazione e fondamentalismo sono tra i temi più affrontati dai giovani registi:

R. – Direi di sì, magari in modo trasversale. Abbiamo moltissimi politici: infatti abbiamo fatto proprio una sezione tematica, chiamata “Designing Futures”, in cui parliamo delle situazioni nei vari Paesi e anche delle loro relazioni con l’Europa e il resto del mondo. Però, anche negli altri film trapelano tutti i problemi di questo momento, e quindi sono molto interessanti anche per questo; per esempio, il film “A peine j’ouvre les yeux” di Leyla Bouzid, che racconta la storia di una cantante nel momento della Primavera araba. Ci sono anche tantissime implicazioni che si riferiscono anche ai rapporti con l’Europa e il resto del mondo.

D. – Noi siamo soprattutto colpiti dal fenomeno dell’immigrazione e da quello del fondamentalismo: ce n’è riscontro nei film prodotti da questi Paesi?

R. – Sì, devo dire che c’è un riscontro. E inoltre sono presenti nella sezione “extra”, che è quella dei registi italiani che parlano di questi Paesi e di questi problemi, e alcuni – devo dire – anche in un modo molto profondo e interessante. Rispetto agli autori invece di questi Paesi è meno evidente: parlano di più dei problemi politici del loro Paese e delle rivoluzioni.

D. – Il pubblico a cui indirizzate il vostro Festival è dunque un pubblico tra l’altro particolarmente orientato e sensibile a questi temi…

R. – Sì, in buona parte sì. Abbiamo un pubblico di affezionati che ci segue da anni e che è interessatissimo. Però c’è anche un pubblico nuovo ogni anno e la cosa che ci piace moltissimo è il fatto che ci sia un pubblico di immigrati delle varie comunità, che vengono e seguono il film del loro Paese, che altrimenti non avrebbero modo di vedere.

D. – Che cosa significa in sala la presenza di un immigrato del Paese il cui film di riferimento passa sullo schermo in quel momento?

R. – È la cosa più interessante! E devo dire che è molto commovente vedere le reazioni in sala, perché, se noi vediamo questi film con interesse e attenzione alla tematica ma anche alla qualità artistica, si vede che queste persone vivono emotivamente il contenuto di questi film, le loro storie, e finalmente trovano la possibilità di sentirsi in qualche modo a casa. Quindi, le reazioni emotive sono fortissime. Devo dire “purtroppo”: ecco, questa è una nota che devo fare ai film di quest’anno. Molti di questi film sono tristi e rispecchiano l’angoscia che vive il mondo in questo momento.

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Nella Chiesa e nel mondo



Usa. Card. Dolan: irresponsabili nuove regole su pillola abortiva

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“Irresponsabili”: così il card. Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente del Comitato pro-vita della Conferenza episcopale statunitense, definisce le nuove linee-guida stabilite dalla Fda (Food and Drug Administration) per la pillola abortiva RU-486. Le nuove regole prevedono, in particolare, l’estensione da sette a dieci del numero di settimane dall’inizio della gravidanza durante le quali si può prendere la pillola; un minor numero di visite mediche richieste, che scendono da tre a due, ed il permesso di somministrare il farmaco anche da parte di personale non medico.

Sempre più a rischio vite innocenti
​Ma in tal modo, sottolinea il card. Dolan, “l’utilizzo non ufficiale del pericoloso farmaco abortivo RU-486 diventa norma, spiana la strada alla distruzione sempre maggiore di vite innocenti e mette donne e ragazze in pericoloso a causa di tutti gli effetti che l’aborto provocherà nelle loro vite”. “I sostenitori dell’aborto – continua il porporato – stanno festeggiando queste nuove linee-guida come un’apertura più ampia all’interruzione volontaria di gravidanza”. Ma così facendo, evidenzia l’arcivescovo di New York, essi “festeggiano anche la negligenza della Fda nei confronti della salute delle donne. Alcune di loro sono morte a causa di tale farmaco, e molte che lo hanno assunto dopo otto settimane di gravidanza, alla fine sono dovute ricorrere all’aborto chirurgico”. Ed ora, “questo dolore verrà provato da molte più donne”.

L’aiuto della Chiesa
Infine, il porporato sottolinea che “ogni donna in stato di gravidanza può rivolgersi agli organismi cattolici non per essere giudicata, ma per ricevere cure ed assistenza. La Caritas, i Centri di aiuto alla vita e molte parrocchie – conclude il card. Dolan – sono pronte a sostenere tutti i bisognosi”. (I.P.)

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Filippine: Vescovi condannano le violenze di Kidapawan

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“La morte è sempre tragica. Lo è ancora di più quando è violenta e colpisce i poveri”: così mons. Socrates Villegas, presidente della Conferenza episcopale delle Filippine, commenta gli scontri avvenuti in questi giorni a Kidapawan, nel sud del Paese, dove è in atto la protesta di migliaia di agricoltori, piegati dalla siccità. Almeno due i morti e dozzine i feriti nelle proteste che hanno visto le forze dell’ordine aprire il fuoco per disperdere i manifestanti.

Non cedere alla vendetta, ma promuovere la pace
“Preghiamo per i nostri agricoltori di Kidapawan – ha detto mons. Villegas – Possano, coloro che sono morti, trovare pace e felicità in Paradiso”. Auspicando, poi, che il dramma della siccità e della carestia che ne consegue si risolva al più presto, il presidente dei vescovi filippini ha lanciato un appello ai manifestanti ed ai familiari delle vittime affinché evitino la vendetta. “Possano le famiglie degli agricoltori defunti non cedere al circolo vizioso della vendetta, ma cerchino piuttosto il modo di ristabilire la pace”.

Tutelare la dignità di ogni persona
Al contempo, le forze militari e di polizie sono state esortate a “ricordare il loro compito di preservare la pace, proteggere i deboli e servire la giustizia”. L’appello alla riconciliazione e la richiesta di una soluzione per la questione agricola sono stati sostenuti anche da altre confessioni del Paese, come la Chiesta Unita metodista, che ha auspicato una soluzione “giusta e pacifica” e che “tuteli la dignità ed i diritti umani di ogni persona”. (I.P.)

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Bolivia: Chiesa chiede dibattito nazionale sul narcotraffico

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La Chiesa di Bolivia preoccupata per la grave situazione generata dalla produzione e il consumo di cocaina nella società ha esortato ad aprire un dibattito nazionale tra istituzioni pubbliche e gruppi sociali impegnati nella lotta contro il narcotraffico e il consumo di droga. La Conferenza episcopale boliviana ha presentato in conferenza stampa, la Lettera pastorale intitolata “Oggi metto davanti a te la vita o la morte”, nella quale la Chiesa espone la propria visione del problema del narcotraffico e della tossicodipendenza nel Paese. “La droga distrugge la persona, la società e l’istituzionalità del Paese e del mondo intero” ha affermato mons. Eugenio Scarpellini, vescovo di El Alto, per ribadire l’impegno della Chiesa, per lavorare insieme alle istituzioni giuridiche, educative e sanitarie, alle forze di sicurezza e agli organismi internazionali, nella lotta contro questo flagello per le persone e la società.

Il narcotraffico penetra le strutture dello Stato
Interpellato dai giornalisti sulle iniziative del governo nella lotta contro il narcotraffico, il Segretario generale dell’episcopato boliviano, mons Aurelio Pesoa, ha affermato che pur “riconoscenti del loro valore, non sono ancora abbastanza”. “Nel Paese si fa qualcosa però non è sufficiente - ha detto - perché ancora ci sono tante fabbriche clandestine che producono droga e il controllo del traffico e del consumo di stupefacenti è debole”. Per questa ragione la Chiesa esorta a trattare il tema con una maggiore serietà e ampiezza. Nella lettera l’episcopato ha denunciato la penetrazione delle mafie del traffico di cocaina nelle “strutture statali” e ha affermato che “la corruzione ha compromesso la credibilità delle autorità incaricate della lotta contro il narcotraffico.

La foglia di coca non è il male
La lettera pastorale pone in rilievo che il consumo tradizionale della coca, da tempi ancestrali, ha un valore culturale e medicinale, specialmente per le popolazioni delle Ande. “La foglia di coca non è il male in sé stessa – si legge nel testo -, il male è la sua trasformazione in cocaina e, per tanto, chi si dedica a coltivarla per produrre droghe illecite è parte della catena del narcotraffico”. Dunque, i vescovi avvertono che “l’economia del Paese si nutre, in parte, delle risorse provenienti dal narcotraffico, il che falsifica le condizioni economiche del mercato produttivo". “Una vera lotta contro questo flagello  deve intaccare anche i movimenti finanziari” affermano i presuli.

Il narcotraffico stigmatizza indiscriminatamente tutti i boliviani
La lettera ricorda che la Bolivia, oltre che un Paese produttore e di transito, è oggi anche un consumatore di droghe, dunque, “il narcotraffico stigmatizza indiscriminatamente a tutti i boliviani” davanti alla comunità internazionale. “Essere un Paese produttore – si legge nel testo - ci fa vedere come diventiamo il principale gradino della catena del narcotraffico; essere un Paese di transito mette in discussione la capacità di interdizione, nonché il sospetto di complicità da parte delle nostre istituzioni; ed essere un Paese consumatore è causa di violenza, di corruzione e di rinuncia ai propri valori morali e  culturali”. Per questo, l’episcopato boliviano chiama alle autorità, alle istituzioni e tutte le persone di buona volontà a intraprendere una azione congiunta e responsabile per combattere il traffico e il consumo di droghe per proteggere la vita e la dignità delle persone e della società. (A cura di Alina Tufani)

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Sud Corea: Caritas in aiuto dei rifugiati siriani

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“Cinque anni di guerra civile in Siria: andiamo ad asciugare le lacrime”. Si intitola così la nuova campagna di solidarietà e raccolta fondi lanciata a beneficio della Siria da parte di Caritas Corea. I fondi raccolti, riferisce una nota dell’organismo ripresa dall’agenzia Fides, saranno utilizzati per l’assistenza ai rifugiati siriani tramite la rete delle Caritas nei Paesi del Medio Oriente.

Già nel 2012, donati oltre un milione di dollari
La campagna ha il supporto del settimanale cattolico coreano “The Catholic Times”, che provvederà ad informare i lettori con storie e reportage sulla tragica condizione dei profughi siriani non solo nella loro patria, ma anche in Libano, Giordania ed altre nazioni. Da ricordare che già a partire dal 2012, Caritas Corea ha donato oltre un milione di dollari, sostenendo sei progetti per i rifugiati siriani. “Tuttavia – sottolinea The Catholic Times – tutto questo non è abbastanza per asciugare le loro lacrime”.

Un conflitto che prosegue da cinque anni
​La guerra civile in Siria ha avuto inizio il 15 marzo 2011. Secondo stime ufficiali, finora ci sono stati oltre 470mila morti e 1,8 milioni di feriti. Inoltre, secondo i dati dell’Onu, su 23 milioni di siriani, circa 6,5 milioni sono divenuti sfollati interni e 4,8 milioni hanno abbandonato il Paese, ormai in rovina. (I.P.)

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Iraq. Sospeso sacerdote: sperperava al gioco fondi per i rifugiati

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Il sacerdote caldeo Amer Saka, che si era auto-denunciato per aver dissipato in Canada i fondi raccolti per essere destinati al sostegno dei rifugiati provenienti dal Medio Oriente, è stato temporaneamente sospeso dall'esercizio del ministero sacerdotale e la sua vicenda è stata portata a conoscenza delle autorità civili dalla stessa eparchia caldea di Mar Adday a Toronto, a cui è affidata la cura pastorale dei cristiani caldei presenti in territorio canadese.

Misure tempestive prese a livello ecclesiastico
In un comunicato diffuso dai canali ufficiali patriarcali e pervenuto all'agenzia Fides, il Patriarcato di Babilonia dei Caldei interviene sul caso che sta addolorando la comunità caldea in Canada, sottolineando la tempestività delle misure prese anche a livello ecclesiastico e mettendo in guardia da strumentalizzazioni e generalizzazioni sommarie. Un singolo caso – si legge nel comunicato patriarcale – non può essere preso a pretesto per accusare in maniera indistinta tutti i sacerdoti.

Il sacerdote si è auto-denunciato
E' stato lo stesso sacerdote, residente in Ontario, ad auto-denunciarsi al vescovo Emanuel Shaleta, dopo aver sperperato in lotterie e giochi d'azzardo 500mila dollari canadesi che erano stati raccolti tra i cristiani canadesi per costituire un fondo a favore dei cristiani mediorientali desiderosi di fuggire dalla Siria e dall'Iraq per ricongiungersi ai propri familiari già emigrati in Canada.

Non prendere a pretesto questo caso per diffamare la Chiesa caldea
Nel comunicato patriarcale, si fa riferimento alla fragilità umana, si prende atto che il sacerdote ha riconosciuto il suo errore e si esprime l'augurio che nessuno prenda a pretesto la vicenda per diffamare la Chiesa caldea nel suo complesso. Si esprime fiducia nelle indagini intraprese intorno al caso dalle autorità giudiziarie canadesi, e si ribadisce la necessità – più volte richamata dal Patriarca Louis Raphael Sako - di trovare forme adeguate per curare la formazione permanente del clero e seguire la crescita spirituale e pastorale dei sacerdoti in tutte le diocesi.

Il Patriarca Sako: il sacerdozio è una missione, non un business
​Il Patriarca caldeo Louis Raphael I aveva rivolto già nel luglio 2013 una lettera ai preti caldei in cui si prendeva atto che la debolezza nell'esercizio dell'autorità centrale, la vacatio di numerose sedi episcopali, la mancanza di sicurezza e lo stato di perenne emergenza socio-politica vissuto dall'Iraq avevano avuto “effetti anche sulla identità dei sacerdoti e sulla loro spiritualità”, creando una “situazione che non può continuare” e che va affrontata con risolutezza riscoprendo la sorgente di grazia e il vero volto della vocazione e della missione sacerdotale. In quella lettera il Primate della Chiesa caldea si era riferito anche ai casi di sacerdoti che “non predicano o, quando lo fanno, trasformano le loro omelie in insulti o in richieste di soldi”. Il sacerdozio – ripeteva in quel messaggio il Patriarca, riecheggiando anche recenti richiami di Papa Francesco, “è una missione, non una professione o un business”. (G.V.)

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Chiesa Angola: con la fine della guerra consolidare la pace

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Era il 4 aprile 2002 quando l’Angola metteva la parola “fine” alla guerra civile, dramma iniziato nel 1975 e proseguito per ben ventisette anni. Da allora, il Paese celebra, ogni 4 aprile, la “Giornata della pace e della riconciliazione”. Su questo importante anniversario si è soffermato mons. Gabriel Mbilingi, arcivescovo di Lubango, intervenendo ad una conferenza sul tema “La visione della Chiesa sulla pace”, organizzata dalla Radio nazionale dell’Angola.

Vivere in pace e dignità, consolidando l’unità nazionale
“Il 4 aprile – ha sottolineato il presule – l’Angola ha voltato una pagina importante della sua storia ed ha dato inizio ad un’epoca di restaurazione nell’ambito della vita sociale, politica, economica, culturale e religiosa”, ricostruendo “una patria nuova nella mentalità”, “nuova nella giustizia”, “nuova nella convergenza dell’impegno in favore della società e della solidarietà”. Di qui, l’auspicio a rinnovare la speranza di vivere “in pace e dignità”, portando avanti “la sfida di consolidare l’unità e la riconciliazione nazionale”.

Pace, dono di Dio
​Infine, mons. Mbilingi ha sottolineato che la pace “è dono di Dio Padre che non vuole vedere i suoi figli vivere divisi, bensì in armonia”. “La pace di Cristo – ha concluso – è la riconciliazione con il Padre che si realizza mediante la missione apostolica affidata da Gesù ai suoi discepoli”. (I.P.)

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Filippine: fedeli in festa per le reliquie di Sant’Antonio da Padova

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Dopo 20 anni dall’ultima visita, le reliquie di sant’Antonio da Padova tornano nelle Filippine. I fedeli di tutto il Paese, l’unico insieme a Timor Est a maggioranza cattolica nel continente asiatico, hanno una speciale devozione per il Santo francescano, al punto che le sue reliquie verranno esposte in 20 Chiese in tutto il territorio nazionale. Il pellegrinaggio dei resti mortali del Santo – riferisce l’agenzia AsiaNews - inizierà il 20 aprile per concludersi il prossimo 2 maggio.

Due reliquie importanti e molto amate dai fedeli
In un recente video-messaggio inviato alla Chiesa filippina, padre Mario Conte, direttore della rivista “Messaggero di Sant’Antonio” ed uno dei 52 frati preposti all’amministrazione della Basilica del Santo a Padova, spiega che le due reliquie che saranno inviate in Asia sono “fra le più amate e le più importanti”. Infatti, la prima è composta da un frammento di pelle di Sant’Antonio, conservata in un reliquiario a forma di piccolo busto dello stesso francescano; l’altra invece è un frammento della sua costola.

Nel 2000, l’allora card. Bergoglio accolse le reliquie a Buenos Aires
Si tratta, tra l’altro, della stessa reliquia ricevuta da suor Lucia, ultima delle veggenti di Fatima a morire, quando venne inviata per la pubblica venerazione a Coimbra, in Portogallo, nel 1995. Sempre il piccolo frammento di costola, nel 2000 venne accolto dall’allora arcivescovo di Buenos Aires, card. Jorge Mario Bergoglio.

Pellegrinaggio incessante in 20 Chiese del Paese
Per accontentare il gran numero di devoti che sperano di potersi accostare alle reliquie e chiedere una grazia, il pellegrinaggio sarà incessante: si inizia da Pasay City, presso il santuario di Santa Teresina, per arrivare a Manila, Makati, Leyte, Guiuan, Mandaluyong e molte altre città. La Messa conclusiva per salutare le spoglie del Santo si terrà nella cappella di Sant’Ezechiele Moreno a Las Pinas.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 95

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.