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Sommario del 12/04/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: crudeli o “educate”, persecuzioni sono il pane della Chiesa

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“La persecuzione è il pane quotidiano della Chiesa”. Lo ha ribadito Papa Francesco all’omelia della Messa del mattino celebrata a Casa S. Marta. Come accaduto a Stefano, il primo martire, o ai “piccoli martiri” uccisi da Erode, anche oggi – ha affermato il Papa – tanti cristiani sono uccisi per la loro fede in Cristo e altri ancora sono perseguitati “educatamente” perché vogliono manifestare il valore dell’essere “figli di Dio”. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Esistono persecuzioni sanguinarie, come essere sbranati da belve per la gioia del pubblico sugli spalti o saltare in aria per una bomba all’uscita da Messa. E persecuzioni in guanti bianchi, ammantate “di cultura”, quelle che ti confinano in un angolo della società, che arrivano a toglierti il lavoro se non ti adegui a leggi che “vanno contro Dio Creatore”.

Martiri di tutti i giorni
Il racconto del martirio di Stefano, descritto nel brano degli Atti degli Apostoli proposto dalla liturgia, spinge il Papa a considerazioni note e nuove su una realtà che da duemila anni è una storia dentro la storia della fede cristiana, la persecuzione:

“La persecuzione, io direi, è il pane quotidiano della Chiesa. Gesù lo ha detto. Noi, quando facciamo un po’ di turismo per Roma e andiamo al Colosseo, pensiamo che i martiri erano quelli uccisi con i leoni. Ma i martiri non sono stati solo quelli lì o quegli altri. Sono uomini e donne di tutti i giorni: oggi, il giorno di Pasqua, appena tre settimane fa… Quei cristiani che festeggiavano la Pasqua nel Pakistan sono stati martirizzati proprio perché festeggiavano il Cristo Risorto. E così la storia della Chiesa va avanti con i suoi martiri”.

“Educate” persecuzioni
Il martirio di Stefano innescò una crudele persecuzione anticristiana a Gerusalemme analoga a quelle subite da chi non è libero oggi di professare la sua fede in Gesù. “Ma – osserva Francesco – c’è un’altra persecuzione della quale non si parla tanto”, una persecuzione “travestita di cultura, travestita di modernità, travestita di progresso”:

“È una persecuzione – io direi un po’ ironicamente – ‘educata’. E’ quando viene perseguitato l’uomo non per confessare il nome di Cristo, ma per voler avere e manifestare i valori di Figlio di Dio. E’ una persecuzione contro Dio Creatore nella persona dei suoi figli! E così vediamo tutti i giorni che le potenze fanno leggi che obbligano ad andare su questa strada e una nazione che non segue queste leggi moderne, colte, o almeno che non vuole averle nella sua legislazione, viene accusata, viene perseguitata educatamente. E’ la persecuzione che toglie all’uomo la libertà, anche della obiezione di coscienza!”.

La grande apostasia
“Questa è la persecuzione del mondo” che “toglie la libertà”, mentre “Dio – afferma il Papa – ci ha fatti liberi” di dare testimonianza “del Padre che ci ha creato e di Cristo che ci ha salvato”. E questa persecuzione, soggiunge, “ha anche un capo”:

“Il capo della persecuzione ‘educata’, Gesù lo ha nominato: il principe di questo mondo. E quando le potenze vogliono imporre atteggiamenti, leggi contro la dignità del Figlio di Dio, perseguitano questi e vanno contro il Dio Creatore. E’ la grande apostasia. Così la vita dei cristiani va avanti con queste due persecuzioni. Anche il Signore ci ha promesso di non allontanarsi da noi. “State attenti, state attenti! Non cadere nello spirito del mondo. State attenti! Ma andate avanti, Io sarò con voi”.

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Papa: la guerra mondiale a pezzi si vince con la misericordia

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L’incontro tra persone, la riconciliazione tra popoli, l’impegno per la giustizia: sono le strade per risolvere la terribile “guerra mondiale a pezzi” che l’umanità vive. Lo ricorda il Papa nel messaggio inviato ai partecipanti alla conferenza di Pax Christi International in corso a Roma in collaborazione con il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, sul tema “Non violenza e pace giusta: contribuire alla comprensione cattolica e l'impegno alla nonviolenza”. Da Francesco, il rinnovato appello per l’abolizione della pena di morte, la possibilità di un’amnistia, e la revisione del debito internazionale degli Stati poveri. Il servizio di Gabriella Ceraso

"Grande è, nel nostro mondo complesso e violento, il compito che attende coloro che operano per la pace vivendo l’esperienza della non violenza": "Conseguire il disarmo integrale, combattere la paura, portare avanti un dialogo aperto e sincero", cercando il bene comune, è "un lavoro arduo". Per dialogare occorre cercare dare e ricevere, partire dalla nostre differenze cercando il bene comune e trovato un accordo mantenerlo fermamente.

Dialogo, incontro, riconciliazione: vie di soluzione della guerra mondiale a pezzi
Il Papa si rivolge ai partecipanti alla Conferenza di Pax Christi, incoraggiandoli: occorre rinnovare il vostro "positivo contributo", scrive, come tutti gli strumenti a disposizione per concretizzare l’aspirazione alla giustizia e alla pace degli uomini di oggi. Lo "sforzo sapiente" della diplomazia va infatti sostenuto con ogni mezzo. Chi fondò nel secolo scorso Pax Christi e il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace si impegnò per favorire l’incontro tra persone, la riconciliazione tra popoli di diverse ideologie e la lotta per la giustizia politica sociale ed economica. E queste sono le strade oggi per risolvere la guerra mondiale a pezzi che vive l’umanità.

I conflitti non possono essere ignorati o dissimulati
Ai partecipanti, Francesco rammenta tre aspetti che ritiene importanti: "abolire la guerra è lo scopo ultimo della persona umana e della comunità". E' inutile "negare o dissimulare i conflitti", bensì occorre "accettarli per non rimanervi intrappolati perdendo la prospettiva generale". Solo così li si potrà "risolvere", osserva, trasformandoli in un "anello di collegamento di quel nuovo processo che gli operatori di pace mettono in atto".

Fraternità e lotta all'indifferenza
Ma come cristiani, ricorda Francesco, solo "considerando fratelli i nostri simili" possiamo superare guerre e conflittualità. L’ostacolo più grande oggi, sottolinea, è il "muro dell’indifferenza", una "triste realtà" che investe non solo gli uomini ma anche l'"ambiente naturale, con conseguenze nefaste". L'impegno a superare l'indifferenza, sostiene il Papa, avrà successo "solo se, ad imitazione del Padre, saremo capaci di usare misericordia", misericordia che, in politica, si chiama "solidarietà". E così nell’anno giubilare, come già fatto con i leader degli Stati, il Papa invita tutti i partecipanti a sostenere due richieste: l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, assieme alla possibilità di un’amnistia, e la cancellazione o la gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri.

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Papa nomina mons. Pierre nunzio apostolico negli Usa

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Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico negli Stati Uniti l’arcivescovo Christophe Pierre, finora nunzio apostolico in Messico.

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Papa, nuovi tweet tratti dall'"Amoris laetitia”

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Papa Francesco ha lanciato una nuova serie di tweet dal suo account @Pontifex, tratti dall’Esortazione apostolica “Amoris laetitia”. Questi i testi: “La famiglia deve essere il luogo dove si insegna a cogliere le ragioni e la bellezza della fede, a pregare e a servire il prossimo”; “È fondamentale che i figli vedano in maniera concreta che per i loro genitori la preghiera è realmente importante”; “Comprendere, perdonare, accompagnare, sperare, integrare. Questa è la logica che deve prevalere nella Chiesa”.

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Mons. Jurkovič: fermare corsa armamenti, no a equilibrio del terrore

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Spezzare il circolo vizioso della corsa agli armamenti sempre più avanzati tecnologicamente. E’ il monito di mons. Ivan Jurkovič, Osservatore permanente della Santa Sede all’Onu di Ginevra, nel suo intervento all’incontro sulle armi letali autonome, tenutosi ieri alle Nazioni Unite. Il presule ha messo l’accento sulla prevenzione come via per evitare il diffondersi di armi sempre più distruttive. Il servizio di Alessandro Gisotti

La Santa Sede auspica “un’azione collettiva per fermare lo sviluppo e l’utilizzo di armi letali autonome”. E’ quanto affermato da mons. Ivan Jurkovič alla sede Onu di Ginevra. Un intervento nel quale il presule ha avvertito che “quando una reazione arriva tardi”, come nel caso delle armi chimiche o nucleari, “il costo in vite umane diventa enorme”.

Armi tecnologiche non servono contro terrorismo
L’Osservatore vaticano presso l’Onu di Ginevra ha, quindi, sottolineato che l’uso di queste armi ipertecnologiche, non guidate dall’uomo, “non ci protegge dagli attacchi e dal terrorismo di ogni genere, perpetrato da persone che usano metodi rudimentali, ma sono pronte a sacrificare la propria vita”. L’equilibro del terrore nucleare, ha soggiunto, ha mostrato i suoi i limiti e “con la ricerca e lo sviluppo delle armi letali autonome, siamo ancora in una logica che non porta frutti”.

La pace si difende con la fiducia tra i popoli, non con le armi
Mons. Jurkovič ha inoltre ammonito che investire in queste armi “non contribuisce alla difesa della pace”, ma rappresenta un “progressivo incitamento alla guerra”. “Se vogliamo la pace – ha detto il diplomatico vaticano – dobbiamo non solo evitare di accumulare armi, ma dobbiamo anche convertire le menti”. La pace, ha ripreso, deve nascere dalla mutua fiducia tra i popoli e le nazioni, non dal terrore delle armi. La vera guerra da vincere, ha concluso, è quella per la giustizia, i diritti umani, il rispetto delle minoranze e lo sviluppo integrale.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La non violenza arma di pace: nuovo appello del Papa per l’abolizione della pena di morte e la cancellazione del debito dei Paesi poveri.

Una storia di passione: in prima pagina, un editoriale di Pierangelo Sequeri sull’alleanza tra Chiesa e famiglia nell’“Amoris laetitia”.

Un uomo come voi: l’introduzione al libro curato dal direttore che raccoglie scritti di Montini (1914 - 1978) e sarà presentato il 14 aprile a Concesio. Con l’introduzione, il testo preparato, e poi non usato, durante l'ufficio funebre, nel duomo di Milano, per la morte di Pio XII, e alla prefazione, rimasta inedita per quasi mezzo secolo, scritta nel giugno 1953 e dedicata alla forma di vita religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù.

La carità non passa mai: conclusa a Tangeri l’assemblea della Conferenza dei vescovi della regione nord dell’Africa.

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Oggi in Primo Piano



Unhcr: per i rifugiati non barriere ma accessi sicuri e legali

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Ancora tensione per la costruzione avviata ieri da parte dell’ Austria  di una barriera al confine italiano del Brennero. Forte malcontento da parte del Commissario per l'immigrazione, Dimitris Avramopoulos che al parlamento europeo ha commentato come la costruzione di barriere fra Stati di Schengen non sia la soluzione giusta. Il servizio di Marina Tomarro

"Credo nella costruzione di ponti, non di muri, serve una politica dell'immigrazione che non conduca a chiudere i confini interni mettendo a rischio Schengen, e questa politica va attuata". Questo il commento del commissario Avramopoulos al parlamento europeo sulla questione della barriera al Brennero. Insoddisfatta anche la Caritas di Bolzano di fronte a questo inasprimento. "Con i controlli previsti al Brennero - ha sottolineato il direttore, Paolo Valente - si trasferisce semplicemente il problema da un'altra parte. Sono confini tra Paesi poveri e Paesi ricchi, come a Lampedusa e a Lesbo". Sulla situazione dei rifugiati, ascoltiamo Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell'UNHCR, al microfono di Antonella Palermo:

R. – L’Europa, invece che proteggere, ha deciso di non accettare una soluzione per questa crisi che, tutto sommato, non è una crisi europea, è una crisi per i rifugiati. Un milione di persone, infatti, che possono essere arrivate l’anno scorso, su una popolazione di 550 milioni di abitanti, non può essere considerata una crisi. Le speranze sono quelle dei concreti aiuti umanitari che, purtroppo, ancora non arrivano. Dopo la Conferenza di Londra di febbraio, in cui sono stati promessi dodici miliardi e ne sono stati versati solo l’8%, le speranze sono i famosi canali legali, sicuri, gli accessi legali. Per cui, anche cose così semplici come le borse di studio per migliaia di studenti siriani che desiderano solo poter riprendere l’educazione interrotta ormai da sei anni, i permessi di lavoro, i ricongiungimenti familiari e poi i programmi di reinsediamento, ma anche di mastership privata... Sono tantissime le forme. Alcuni Stati stanno rispondendo, purtroppo, ancora non adeguatamente. In particolare, noi riteniamo che l’Europa potrebbe fare molto di più, considerando le risorse che ha.

E di fronte a questi fatti, diventa sempre più forte l’attesa per la prossima visita di Papa Francesco a Lesbo. Ancora Carlotta Sami:

R. – Un gesto di grande valore simbolico, che ci ha fatto tirare un grande sospiro di sollievo, sapendo che il Papa si recherà lì. E’ un gesto molto importante, di vicinanza. In questo momento, gesti come questo hanno un valore fondamentale, perché purtroppo la crisi è una crisi globale e quello che amareggia è vedere uno scarso impegno, anche morale, a livello europeo, nei confronti di questa crisi. Servono quindi degli impegni molto concreti, ma anche la capacità di trasmettere ai cittadini europei il senso dell’importanza di accogliere chi sta fuggendo da una guerra.

D. – Potrà, secondo lei, avere delle ricadute politiche nel breve termine?

R. – Noi lo speriamo molto e so che sull’isola sono molto contenti di questa visita. Speriamo che possa avere un impatto positivo nello scegliere come portare avanti la gestione degli arrivi di queste persone. E speriamo che possa avere un impatto nel convincere ad aprire più strade legali per queste persone, per poter arrivare in Europa e nel mondo in modo sicuro, senza dover rischiare la vita dei propri figli in mare.

E tra le decine di migliaia di persone costrette a fuggire dai loro Paesi in guerra ci sono anche storie di speranza. Come quella del giovane violinista, Alaa Arsheed, riuscito arrivato in Italia dalla Siria. Carlotta Sami racconta la sua storia:

R. – I rifugiati sono persone come noi e ci sono anche tanti artisti che vivono in esilio. E quando siamo andati in Libano e in Giordania abbiamo incontrato questo giovanissimo violinista, la cui famiglia è stata spezzata letteralmente dalla guerra. I genitori sono degli artisti e la loro galleria d’arte in Siria è stata distrutta. Grazie a un semplice tweet che abbiamo fatto dal Libano, e che è stato letto dalla Fondazione Fabbri in Italia, Alah ha potuto avere una piccola borsa di studio. E solo questo piccolo aiuto, che è durato pochi mesi – due o tre mesi – gli ha permesso, però, di arrivare in modo legale, sicuro, in aereo, in Italia. Ha fatto domanda di asilo in Italia e in pochissimi mesi – in cinque o sei mesi – ha finalmente ottenuto lo status. Ora è qui, sicuro, ma non è solo sicuro, sta anche sviluppando moltissimi progetti, ha delle grandi idee che dimostrano la sua generosità.

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Amnesty: respingimenti, una condanna a morte per i migranti

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Tensione crescente anche in area balcanica, dopo il respingimento forzato da parte macedone dei migranti chiusi nel campo profughi di Idomeni. E c’è timore sul rispetto dei diritti umani anche per coloro che la Turchia respingerà in seguito all’accordo con l’Ue. Amnesty International Italia lancia oggi un’azione strategica e sottolinea i rischi dei respingimenti. Al microfono di Gabriella Ceraso, il direttore Gianni Rufini

R. – Noi stiamo seguendo il caso di 89 persone che il primo luglio 2009, nel tragitto dalla Libia verso Lampedusa, sono state affiancate e raccolte dalle navi della Marina Militare italiana che le ha successivamente consegnate a un’imbarcazione libica che le ha riportate in Libia: faceva parte degli accordi tra Italia e Libia, che garantivano il respingimento delle imbarcazioni di migranti in alto mare. Molte di queste 89 persone sono state imprigionate dalle autorità libiche e sono state sottoposte a tortura, alcune di loro sono fuggite e sono finite in Israele o in altri Paesi della regione. Molte di loro sono morte, molte di loro sono state sottoposte a tortura. Ecco, i sopravvissuti di questa tragica avventura stanno intentando un’azione penale nei confronti del governo italiano per questo respingimento illegale, e noi li aiutiamo in questo.

D. – Questo significa che chi viene respinto – bisogna ribadirlo – inizia una nuova vita di dramma?

R. – Assolutamente. Chi viene respinto, innanzitutto, ha esaurito le poche risorse con cui era riuscito ad arrivare nelle mani di organizzazioni spesso criminali; in secondo luogo, ha vissuto a volte anni di un viaggio terribile, faticoso in cui è stato sottoposto a ogni tipo di abusi, ricatti, violenza, stupro, tortura … Ecco: tornare indietro significa dover ricominciare daccapo, ed è francamente qualcosa che va al di là della possibilità di sopportazione di un essere umano. E soprattutto, fa parte di una pratica che in questo momento vediamo affermarsi su grandissima scala con i respingimenti in massa che avvengono anche in Grecia …

D. – Ecco, da qui l’esigenza di un’azione strategica di tutela che voi avete pensato: il caso è non solo riguardante il 2009-2010, ma può guardare ad oggi, può fare – cioè – da modello. In che cosa consiste l’azione strategica?

R. – L’azione strategica consiste nel far valere la legge, nel far valere il diritto internazionale, nell’imporre agli Stati il rispetto degli impegni che hanno sottoscritto, delle loro Costituzioni, della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Chiediamo che a queste persone venga concessa la possibilità di ottenere un asilo, se ne hanno diritto.

D. – “Visti umanitari”: potrebbero essere adottati?

R. – Naturalmente sì. In ogni caso, potrebbero essere una soluzione temporanea in attesa di poter esaminare i casi individuali come la legge prevede.

D. – Di fronte a queste masse e agli Stati che dicono: “Servono controlli più sicuri, dobbiamo dosare le nostre forze, alziamo muri”, voi che cosa pensate?

R. – Naturalmente, alzare muri è proprio la risposta più sbagliata che ci sia e poi abbiamo una situazione in cui ci ritroviamo in questo momento con almeno 50 mila persone che sono detenute illegalmente in Grecia, migliaia di persone che sono respinte con la violenza dalla polizia macedone, persone che vengono respinte in Siria dalla polizia turca che spara su coloro che tentano di attraversare la frontiera… Ecco, quando si è pensato il Diritto dei rifugiati, si è pensato un modo per garantire a queste persone di arrivare in un posto sicuro dove potrebbero essere trattenute legalmente e in modo umano in attesa di potere esaminare i loro casi. Sono situazioni d’emergenza, naturalmente, che sono provocate dai conflitti. Ma se noi non cerchiamo di fermare i conflitti, non possiamo anche rifiutarci di accogliere gli emigranti: significa condannarli a morte…

D. – C’è il rischio di radicalizzazione tra i migranti che rimangono bloccati? E’ un avvertimento che ieri ha lanciato il ministro della Protezione della cittadinanza in Grecia, Toskas…

R. – Ogni volta che si violano i diritti delle persone, si genera risentimento, frustrazione, a volte odio. Vengo a chiederti aiuto e mi rispondi sparandomi... Certo, questo non aiuta la comprensione tra i popoli, non aiuta lo sviluppo di sentimenti positivi. Io credo che in questo modo ci assumiamo una grossa responsabilità e forse anche un rischio.

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Abbas: risoluzione Onu per congelare gli insediamenti israeliani

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E’ urgente una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite che condanni gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Lo ha detto il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, aggiungendo che la politica di Israele minaccia il progetto di due Stati, fino al suo collasso. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Ha un duplice obiettivo il viaggio internazionale del Presidente palestinese Abbas con tappe, a partire da oggi, ad Istanbul, Parigi, Mosca, Berlino e New York. Sono duie le finalità: sollecitare una risoluzione dell’Onu per congelare gli insediamenti israeliani e sostenere l’iniziativa francese per promuovere nuovi colloqui di pace.

La proposta francese di una Conferenza internazionale per il Medio Oriente
Per colmare il vuoto diplomatico lasciato dal fallimento dei colloqui nel 2014, avviati con la mediazione degli Stati Uniti, la Francia ha infatti rilanciato il progetto di una conferenza internazionale per il Medio Oriente, in programma a luglio. Ma lo scenario resta intricato. Per il premier israeliano Benyamin Netanyahu, contrario a quella che ha definito la linea dei “diktat internazionali”, la ripresa dei negoziati non può essere vincolata da precondizioni.

Aumenta la tensione con la ripresa dei lavori del Muro a Cremisan
A rendere più tortuoso il tracciato di una possibile road map è anche la ripresa, all’inizio di questo mese, della costruzione del Muro di separazione nella zona di Cremisan, entrata nella fase operativa. Il Patriarcato latino di Gerusalemme ha espresso la propria delusione e ricordato che la Corte Internazionale di giustizia dell'Aja aveva chiesto lo smantellamento del Muro, giudicato illegale. Un simile parere lo aveva manifestato anche l’Assemblea generale dell’Onu. Nel 2015 la Corte Suprema israeliana aveva infine riconosciuto che la barriera non ha alcuna giustificazione per la  sicurezza di Israele.

L’ipotesi di una risoluzione dell’Onu che condanni gli insediamenti israeliani ora non sembra praticabile ma tale richiesta potrebbe essere accolta  prima dell’insediamento del prossimo capo della Casa Bianca. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente, Janiki Cingoli

R. – In Medio Oriente ci sono delle attività per tenere in moto la situazione - potremmo chiamarle “ginnastica diplomatica” - e altre attività che sono fondate su una possibilità concreta di realizzazione. L’ultima bozza di risoluzione analoga, presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ebbe il voto favorevole di tutti i membri, ma il veto degli Stati Uniti. Ed è molto dubbio che la situazione possa cambiare ora che siamo nel pieno dell’inizio della campagna elettorale. E’ molto improbabile, quindi, che in questa fase si giunga ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che non veda il veto degli Stati Uniti. La stessa cosa può dirsi per l’iniziativa francese: è molto improbabile che per luglio ci sia una Conferenza internazionale sul Medio Oriente.

D. – Questa è dunque una fase intermedia, in attesa che, in particolare, gli Stati Uniti possano sbloccare questa situazione di impasse…

R. – La cosa reale è che, in questo momento, non è questa la priorità per gli Stati Uniti. Ci sono, tuttavia, alcuni articoli e alcune voci secondo cui il periodo tra il momento in cui è stato eletto il nuovo Presidente degli Stati Uniti e quello dell’insediamento del nuovo Presidente, è un momento in cui i Presidenti in carica si sentono molto liberi. Ad esempio, il riconoscimento da parte del Presidente degli Stati Uniti dell’Olp come interlocutore fu effettuato dal Presidente in carica di allora, proprio nel momento in cui c’erano già state le elezioni e si attendeva l’insediamento del nuovo Presidente. Ci sono voci, quindi, che dicono che quella  fase potrebbe essere un momento in cui il veto degli Stati Uniti ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, che delinei le linee guida per una possibile risoluzione del conflitto, possa non essere posto. E ci sono voci secondo cui Obama si propone di chiudere così, in questo modo, il suo mandato.

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Sudan: difficile referendum in Darfur sullo status della regione

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Sudan. Nel Darfur è in corso un referendum sull’organizzazione amministrativa della regione occidentale, da tempo scossa da guerre e violenza. Gli elettori sono chiamati a decidere se il Darfur debba rimanere diviso in cinque entità statali, come vorrebbe il governo di Karthoum, o unificarsi in un’unica realtà politica all’interno del Sudan, come invece si esprimono le opposizioni. Forti le perplessità della comunità internazionale sull’attendibilità della consultazione per le gravi difficoltà che ancora esistono sul terreno. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Bruna Sironi, della rivista “Nigrizia”, raggiunta telefonicamente a Nairobi: 

R. – Il governo scommette di portare a casa l’assetto attuale: cioè la divisione in cinque Stati; mentre l’opposizione ha sempre detto che il Darfur ha una storia e un’identità uniche e, dunque, vorrebbe che fosse un’unica regione all’interno dello Stato del Sudan. Ovviamente, se fosse un’unica regione, il peso politico su Khartoum sarebbe maggiore rispetto ad una zona suddivisa in cinque Stati diversi.

D. – Che cos’è oggi il Darfur dopo tanti anni di sanguinosi conflitti?

R. – I sanguinosi conflitti continuano: ci sono ancora due milioni e mezzo di sfollati. Il governo continua a dire che vuole chiudere i campi, ma sta facilitando l’insediamento sui territori degli sfollati anche di altri gruppi etnici che vengono dall’interno. Dalla metà di gennaio è in corso una violenta offensiva nella zona del Jebel Marra, che ha causato 130.000 nuovi sfollati. Molte migliaia di persone non hanno poi neanche potuto raggiungere i campi profughi e sono alla macchia, vivono in caverne, irraggiungibili dalla comunità internazionale; e stanno veramente soffrendo la fame, sono in preda a malattie, al freddo, ecc. Naturalmente in queste zone il referendum non potrà svolgersi.

D. – Dal punto di vista umanitario, la comunità internazionale si sta facendo carico di qualche iniziativa?

R. – La comunità internazionale sta cercando, molto a fatica, di far fronte alla situazione che è in continuo peggioramento. Il problema è che non c’è facilità di movimento. Il Presidente al-Bashir ha infatti più volte detto che il governo sudanese non ha bisogno di organizzazioni internazionali per distribuire gli aiuti, perché lo farà lui. Il problema è come, a chi e quanto le persone che sono in difficoltà si fidino, dopo essere state messe in difficoltà dallo stesso governo. Le organizzazioni internazionali hanno bisogno di continui patteggiamenti e permessi per potersi muovere: questo non facilita la situazione. Inoltre, ci sono zone in cui questi permessi non vengono accordati e, dunque, gli aiuti internazionali arrivano con il contagocce.

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Franco Roberti: giovani detenuti islamici, rischio jihadismo

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L’Italia deve agire subito per prevenire la radicalizzazione dei giovani musulmani. Così il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che nel libro “Il contrario della paura” mette in guardia dal rischio che le centinaia di minorenni musulmani reclusi negli istituti di pena italiani per reati minori possano essere reclutati tra le fila del sedicente Stato islamico. “Mafia e jihad sono profondamente intrecciati”, spiega Roberti. Paolo Ondarza lo ha intervistato: 

R. – E’ un rischio costante che nasce dalla presenza di molti, di troppi ragazzi minorenni, oggi detenuti nel circuito minorile per reati comuni, ma che hanno accesso alle reti Internet, o potranno averlo quando saranno liberi, e che potrebbero in questo modo aprirsi a percorsi di radicalizzazione. Il rischio è che poi fra cinque o dieci anni quelli che oggi sono dei ragazzi, crescendo, pensino di darsi ad attività violenta. 

D. – E’ urgente, quindi, intervenire subito per prevenire questo rischio “radicalizzazione”…

R. – Certo, la prevenzione è fondamentale nel contrasto al terrorismo. Prevenire sul piano educativo, anche sul piano dei valori da proporre a questi giovani, in alternativa agli pseudo valori dell’ideologia jihadista.

D. – Come questo rischio “radicalizzazione” si inserisce nel rapporto che lei traccia, denuncia, esistente tra mafia e jihadismo?

R. – Tra mafie internazionali e attività jihadiste c’è sempre stato un intreccio perverso. Abbiamo numerosi esempi, dei quali ci ricordiamo, di autofinanziamento del terrorismo: il traffico di droga, il contrabbando delle merci, i sequestri di persona. E sono anche l’attualità dello Stato islamico, che purtroppo si autofinanzia soprattutto così. Questo intreccio, dunque, dovrebbe essere tenuto presente, quando si contrastano l’uno e l’altro fenomeno. E per questo,  l’anno scorso, è stata attribuita la competenza alla Procura nazionale antimafia, in ragione di questi intrecci e in considerazione della possibilità di sviluppare un utile coordinamento investigativo anche sul piano del terrorismo internazionale, come è stato fatto e come viene fatto abitualmente nel contrasto alle mafie.

D. – Al centro della connivenza tra mafie, mafia internazionale, e jihadismo, Stato Islamico, lei diceva c’è il traffico di droga. Pensiamo anche al traffico dei reperti archeologici, ma di più, potremmo pensare al traffico di esseri umani…

R. – Certo. Pensiamo che dei numerosissimi profughi provenienti dalle coste libiche, negli ultimi mesi – dal primo gennaio ad oggi – 18 mila sono provenienti dalla Libia, su 19.500 provenienti dal Mediterraneo. Dalle coste libiche, quindi, proviene la stragrande maggioranza dei profughi, in questo momento. E in questo caso non può che esserci un’attività criminale di organizzazione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, secondo noi, in parte almeno, ma in parte rilevante, controllata dallo Stato islamico, nella misura in cui lo Stato islamico controlla le coste libiche.  

D. – E’ in questo senso che, lei dice, è importante agire in maniera inversa al sentimento naturale della paura, quindi favorire la legalità…

R. – Bisogna reagire alla paura. La paura è un sentimento naturale. Il coraggio è l’esatto contrario della paura, proprio perché ci dà la forza di reagire e di comprendere che qui è in gioco la nostra libertà, sono in gioco i nostri valori democratici e non possiamo permetterci di stare fermi a guardare l’evolversi degli eventi.

D. – La lotta che da sempre caratterizza l’Italia, la lotta nei confronti della criminalità organizzata, nei confronti della mafia, può essere un aiuto nella lotta al terrorismo internazionale che vede coinvolta l’intera Europa…

R. – Noi italiani abbiamo una grande cultura del coordinamento investigativo e giudiziario, che dobbiamo a figure come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uomini che hanno veramente creduto nella forza del coordinamento per combattere la criminalità organizzata. Abbiamo messo e mettiamo ogni giorno a servizio dell’Unione Europea e dei nostri partner occidentali questa nostra esperienza, proprio per promuovere lo scambio informativo e la condivisione delle informazioni. Dovremmo arrivare, spero, se verrà approvata la figura del procuratore europeo, anche all’armonizzazione degli ordinamenti giudiziari, che pure è fondamentale per dare una risposta unitaria a questi fenomeni.

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Slot Mob: nasce il manifesto contro il gioco d'azzardo

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Presentata alla Camera dei deputati a Roma il manifesto del Movimento Slot Mob. L’iniziativa mira a un confronto con i parlamentari per combattere la piaga del gioco d’azzardo: un business da più di ottanta milioni di euro. In attesa dello Slot Mob nazionale del 7 maggio con manifestazioni e performance creative in tutto il Paese, Daniele Gargagliano ha intervistato il professore di economia politica dell’Università di Tor Vergata, Leonardo Becchetti, uno dei promotori del progetto. 

R. – Lo Slotmob nasce due anni fa, quando con l’approccio del voto col portafoglio, la società civile ha deciso di premiare quei proprietari di bar che toglievano le macchinette e soprattutto per contrastare la piaga del fenomeno dell’azzardo, che è un problema gravissimo nel nostro Paese e che sottrae ogni anno 23 miliardi di euro agli italiani, agendo come una sorte di Roby Hood alla rovescia: togliere risorse ai più poveri per darle ai più ricchi. Il movimento Slotmob ha poi creato una sua e propria articolazione politica con una serie di proposte, che sono quelle ovviamente di rinforzare il contrasto all’azzardo tramite le leggi delle amministrazioni locali e di vietare la pubblicità dell’azzardo in televisione. Il movimento è riuscito ad ottenere una serie di risultati in questi anni: la proibizione della pubblicità sull’azzardo, entrata in vigore ma solo per le tv generaliste e in certe fasce di età; oggi – con questa conferenza stampa – vogliamo un po’ rilanciare e fare le nostre proposte per il futuro.

D. – Il giro di affari del gioco di azzardo è stimato, dalla vostra associazione, per un totale di 88 miliardi di euro ogni anno; come sottolineato anche dalla Direzione Nazionale Antimafia, in questo settore le mafie hanno effettuato ingenti investimenti anche con i giochi illegali; ma chi ne trae benefici da questa ingente somma di denaro?

R. – I gestori, le società che gestiscono questo fenomeno. L’azzardo è una gigantesca tassa regressiva: una tassa cioè sui poveri che finisce nelle casse di alcuni ricchi, in cui poi i confini tra legalità ed illegalità sono molto labili. Ecco perché pensiamo che, per il bene del Paese e per lo sviluppo del Paese, per portare queste risorse alla popolazione che ne ha più bisogno e per farle volano di sviluppo, dobbiamo assolutamente contrastare questa piaga.

D. – La regolamentazione del gioco distingue i giochi vietati da quelli consentiti: per questi ultimi occorre ottenere una apposita concessione e autorizzazione. Anche Regioni e Comuni sono intervenuti sulla materia dei giochi, dando origine ad un complesso contenzioso con gli operatori. Ma cosa chiedete al Parlamento per farsi carico della problematica? Una nuova legge?

R. – Chiediamo innanzitutto che il Parlamento non intervenga a limitare la libertà delle amministrazioni locali di intervenire e le amministrazioni locali sono notoriamente più vicine al fenomeno, osservano sul loro territorio il degrado, pagano i costi della ludopatia e quindi sono più sensibili e più portati all’intervento. Quindi la prima cosa è la libertà delle amministrazioni locali di intervenire sul fenomeno. Chiediamo poi allo Stato di fare un passo più deciso in materia di divieto di pubblicità, per cercare di contenere questa piaga; e, infine, una decisione strategica di spostare le risorse, il prelievo dell’economia da questo settore, che è un settore molto delicato e al confine con la criminalità organizzata, verso altri settori che sicuramente contribuiscono di più al benessere del Paese. Ovviamente noi sappiamo che oggi è più importante tutto quello che riguarda l’economia sociale: c’è il settore delle rinnovabili, l’energia pulita… Ci sono tanti modi per poter conciliare la creazione di valore economico con la sostenibilità sociale e ambientale. Bisogna uscire dall’idea che tutto ciò che aumenta il Pil è bene in sé. Ovviamente non è così: sappiamo che nel Pil c’è droga, contrabbando, prostituzione e azzardo. Dobbiamo imparare a giudicare le leggi e le decisioni economiche sulla base del benessere e non sulla base del Pil.

D. – Vi appellerete anche al Presidente della Repubblica Italiana, Mattarella?

R. – Senz’altro, perché lo riteniamo sicuramente una persona sensibile nei riguardi di questo tema. Vogliamo essere un po’ catalizzatori delle attenzioni e delle sensibilità, che devono dire stanno crescendo in molti ambiti: dai media, dai giornali, dai quali precedentemente non ci aspettavamo nulla. Quindi è stata anche per noi una sorpresa: segno che il problema è molto serio.

D. – Quali sono gli obiettivi concreti da raggiungere?

R.- Senz’altro quello di una campagna di sensibilizzazione nei confronti dei cittadini prima di tutto. Gli italiani si ritengono molto scaltri e bravi nel momento in cui vanno in banca e scelgono il titolo che sembra promettere loro il maggior rendimento. Il paradosso, però, che quando finiscono nella piaga dell’azzardo, come se stessero scegliendo una attività finanziaria, un’azione o un bond, che ha un rendimento atteso del -30 o del -40%… C’è un primo problema che è proprio quello di educazione finanziaria e di sensibilizzazione della gente ed è chiaro che questo obiettivo non si persegue con la pubblicità indiscriminata, che stimola la gente a giocare d’azzardo. Quindi un obiettivo che sicuramente ci poniamo è quello di cambiare la situazione da questo punto di vista, avvicinandoci molto di più a quella che è – per esempio – la situazione in tema di fumo, in cui ovviamente non esiste pubblicità positiva, ma solo pubblicità negativa. Oggi c’è solamente quella timida frase “gioca responsabilmente” che viene detta, però, dopo tutta una serie di incentivi e di stimoli all’azzardo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Delegazione cattolico-ortodossa di Mosca in Libano e Siria

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Il 6 e 7 aprile scorsi, una delegazione bilaterale dell’arcidiocesi cattolica della Madre di Dio a Mosca e della Chiesa ortodossa russa, ha visitato il Libano e la Siria per lanciare una serie di iniziative e coordinare gli aiuti umanitari promossi dalle Chiese per sostenere i cristiani in difficoltà.  Come si ricorderà la tragedia del Medio Oriente è stata “al centro dello storico incontro di Papa Francesco e del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia durante il loro incontro il 12 febbraio 2016, a L’Avana”. La delegazione - riporta l'agenzia Sir - comprendeva l’arcivescovo Paolo Pezzi, capo dell’arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca, lo ieromonaco Stephan (Igumnov), segretario del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca e rappresentanti dell’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre. 

Visita alla città di Zahle, meta di 250mila profughi siriani
Durante la loro permanenza a Beirut, la delegazione ha incontrato il patriarca maronita Bechara Boutros Ar-Rahi e il nunzio apostolico in Libano, l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia.  La delegazione ha visitato la città di Zahle, la più grande città della Beqaa Valley, che è diventata meta per 250 mila profughi in fuga dalla Siria. La delegazione ha anche incontrato i capi delle principali comunità cristiane libanesi, tra cui il metropolita Antonio di Zahle e Baalbek (Chiesa ortodossa di Antiochia), il metropolita Issam Darwish  (Chiesa melkita).

A Damasco il Patriarca Aphrem II ha informato sulla situazione in Siria
Il 7 aprile, la delegazione cattolico-ortodossa è arrivata a Damasco dove è stata ricevuta da Mar Ignatius Aphrem II, Patriarca della Chiesa ortodossa siriaca. Il Patriarca ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa presa dal dall’arcidiocesi cattolica di Mosca e dal Patriarcato di Mosca ed ha informato la delegazione riguardo alla situazione attuale in Siria, tra cui la recente liberazione della città di Al Qaryatayn.  Aphrem II ha dato una valutazione al ruolo svolto dalla Russia in Siria esprimendo parole di gratitudine al popolo russo.

Situazione umanitaria e ripristino di chiese e monasteri distrutti dai jihadisti
La delegazione ha poi preso parte ad un incontro per fare il punto sulla situazione umanitaria. I rappresentanti delle chiese siriane presenti hanno chiesto di sostenere la presenza cristiana nella regione ed hanno sottolineato la necessità di ripristinare chiese e monasteri. Uno dei compiti prioritari per il prossimo futuro è quello di compilare un elenco dettagliato dei santuari cristiani, chiese e monasteri distrutti e danneggiati durante la guerra in Siria. (A.T.)

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Mons. Minassian: tutta l'Armenia attende il Papa

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La gente, i fedeli, la comunità. Tutti sono ansiosi e aspettano con gioia il momento di incontrare Sua Santità, malgrado e con tutta la tensione che si sta vivendo negli ultimi giorni”,  dove ai primi di aprile sono ripresi gli scontri nella Repubblica del Nagorno-Karabakh, regione contesa con l’Azerbaigian,  “ma con la speranza che questa difficoltà sia superata”. A descrivere l’atmosfera con la quale l’Armenia ha accolto la notizia del viaggio del Papa nel Paese caucasico è mons. Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa orientale. L’annuncio ufficiale è stato dato sabato scorso dalla Santa Sede: Papa Francesco compirà due viaggi nella regione del Caucaso nei prossimi mesi. Sarà in Armenia dal 24 al 26 giugno e in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre.

Il Papa sarà accompagnato da Sua Santità Karekin II
 “Il Santo Padre – spiega mons. Minassian all’agenzia Sir – farà tutte le visite del protocollo e sarà sempre accompagnato da Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni.  Ci saranno tutto il clero, i vescovi e il Patriarca armeno cattolico. Tutti verranno qui da tutto il mondo per accogliere il Santo Padre e poi ci saranno i nostri fedeli armeni cattolici che sono oltre 160mila”. “Punto culmine” del viaggio del Papa – dice ancora il presule – sarà la Messa il 25 giugno a Gumri che è la seconda città dell’Armenia, scelta per la Messa con il Papa perché si trova nella regione dove vive la maggioranza della comunità cattolica.

La visita una benedizione per l’Armenia
“La visita di Papa Francesco – conclude il vescovo – è una benedizione. Un incoraggiamento per noi come Chiesa cattolica per continuare la nostra missione, e una grande possibilità per tutto il popolo armeno per esprimere la sua gratitudine per quello che ha fatto il Santo Padre per il popolo armeno. (L.Z.)

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Papa in Georgia e Azerbaigian messaggero di pace e dialogo

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“Messaggero di pace e di dialogo”. Mons. Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso, descrive così i “punti di forza” che caratterizzeranno il viaggio di Papa Francesco, in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre. Ed aggiunge: “Il Papa verrà anche per dare coraggio alle comunità”. Sia in Georgia sia in Azerbaigian - riporta l'agenzia Sir - i cattolici sono una piccola minoranza. Il vescovo Pasotto punto di riferimento in Georgia, Armenia e Azerbaigian per i cattolici latini, fa il quadro della presenza cattolica in quei Paesi.

Tra i cattolici dell'Azerbaigian molti lavoratori stranieri
In Azerbaigian si contano in tutto 300/400 cattolici divisi in due comunità: una costituita dagli stranieri che lavorano nel Paese, e l’altra dai locali con una presenza forte di salesiani. L’Azerbaigian (visitato da Giovanni Paolo II nel 2002) è invece un Paese a maggioranza musulmana: il 62% degli abitanti sono musulmani sciiti; il 26% sunniti e il 12% ortodossi legati al Patriarcato di Mosca.

Anche in Georgia i cattolici sono una minoranza
In Georgia – Paese a maggioranza ortodossa – la presenza cattolica è più consistente con i suoi 50mila fedeli. “Si tratta quindi – riassume il vescovo Pasotto – di Stati con situazioni completamente diversi ma dove i cattolici sono una minoranza e la Chiesa cattolica vive con altre confessioni e religioni di maggioranza.

La visita del Papa in queste terre è significativa per almeno due ragioni
La prima è che il Papa arriva in due Paesi (l’Armenia e l’Azerbaigian) che sono in conflitto e speriamo che nel Nagorno-Karabash regga la tregua. Ed è significativa perché il Papa raggiunge una regione quella del Caucaso dove le comunità cattoliche non hanno una grande importanza numerica ma hanno un grande valore perché allacciano rapporti con situazioni diverse vivendo ciò che fin dall’inizio ha indicato il Papa”. Per la Georgia, il programma della visita del Papa è ancora tutto da mettere a punto. “Abbiamo pregato tanto e adesso pregheremo perché sia anche un’occasione per prendere coscienza del ruolo del Santo Padre come figura per l’unità della Chiesa”. (R.P.)

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Giordania: fondi di Re Abdullah per restauro Chiesa del Santo Sepolcro

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Il Re di Giordania Abdullah II ha annunciato, con un editto reale pubblicato il 10 aprile, la decisione di finanziare il restauro della Tomba di Gesù nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme.  Lo rende noto l’agenzia di stampa giordana Petra. Dell’iniziativa è stato informato in una lettera il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, S. B Kyrios Kyrios Teofilo III.

Il restauro annunciato durante le festività pasquali
Il restauro era stato annunciato due settimane fa dalle tre confessioni cristiane che condividono la giurisdizione sulla Chiesa del Santo Sepolcro: i greco-ortodossi, i francescani della Custodia di Terra Santa e gli armeni. Il restauro si è reso necessario per via del degrado della struttura provocato dall’umidità prodotta dal respiro delle migliaia di pellegrini e dal fumo delle candele.

Già pronto un progetto di intervento
Esiste già uno studio e un progetto di intervento elaborato dalla National Technical University di Atene sul quale c’è l’accordo di tutte le parti: i lavori dovrebbero durare otto mesi e concludersi all’inizio del 2017. Fino a ieri, però, si parlava di un intervento che sarebbe stato finanziato dalle tre confessioni, da contributi pubblici erogati dal Governo greco e da benefattori privati.

L’apprezzamento del Patriarca Teofilo III
L’annuncio della Corte hashemita, è stato salutato come un gesto di grande generosità dal patriarca Teofilo III. “Il ruolo svolto dalla Giordania nella protezione della presenza dei cristiani in Terra Santa — ha sottolineato il patriarca — è chiaro e innegabile. Re Abdallah sta guidando gli sforzi di tutti i giordani nel seminare i semi dell’amore e della fratellanza tra musulmani e cristiani in questa era in cui guerre settarie stanno bruciando intere nazioni”. (L.Z.)

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Vescovi Colombia: sentenza iniqua il via libera alle nozze gay

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“Una sentenza iniqua”: così mons. José Miguel Gómez Rodríguez, vescovo di Facatativá, in Colombia, commenta la decisione della Corte Costituzionale del Paese che, nei giorni scorsi, ha dato il via libera al così detto “matrimonio ugualitario”, ovvero tra persone dello stesso sesso. “In comunione con tutti i fedeli cattolici e con tutte le persone timorate di Dio e dei suoi comandamenti – scrive il presule in una nota – esprimiamo il nostro dolore di fronte a tale sentenza”.

Sentenza contraria alla legge naturale
“Con serena sicurezza – ribadisce mons. Gómez Rodríguez – denunciamo l’abuso d’ufficio perpetrato dalla Corte Costituzionale e ricordiamo a tutti che, anche nel più profondo rispetto per le diversità e nella garanzia della promozione costante dei diritti umani e della giustizia sociale, questa decisione va contro la legge naturale e, di conseguenza, contro l’umanità, contro la famiglia e contro la società”.

Non esiste fondamento per analogie tra matrimonio e unioni gay
Ricordando, inoltre, quanto scritto da Papa Francesco nell’esortazione apostolica post-sinodale “Amoris laetitia”, il vescovo di Facatativá afferma: “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia” (n. 251). La Corte Costituzionale colombiana si è pronunciata giovedì scorso, con sei voti a favore e tre contro. Il Paese diventa, così, il quarto del Sud America (dopo Argentina, Brasile e Uruguay) ad avere detto sì ai matrimoni egualitari. Tra i sostenitori dell’iniziativa anche il Capo dello Stato, Juan Manuel Santos, che aveva parlato di discriminazioni contro le coppie omosessuali.

Famiglia formata da uomo e donna garantisce sano sviluppo dei bambini
​Da ricordare che, a novembre 2015, la Corte Costituzionale colombiana aveva già detto sì alle adozioni di minori per le coppie gay. Anche in quel caso, i vescovi avevano affermato che quella decisione violava i diritti fondamentali dei bambini mettendo al primo posto i diritti degli “adottanti”. “Riaffermiamo - si leggeva nella nota diffusa cinque mesi fa - la ferma convinzione che la famiglia composta da uomo e donna è il luogo privilegiato per offrire ai bambini le massime garanzie per una sana crescita e sviluppo, non solo nell'ambito materiale, ma anche sul piano psicologico, affettivo, etico e morale”. (I.P.)

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Vescovi Kenya: appello contro corruzione e divisioni etniche

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Una forte denuncia della corruzione e delle alleanze politiche basate sulle etnie è stata lanciata dalla Conferenza episcopale del Kenya (Kccb): in una lunga dichiarazione diffusa al termine della sua Plenaria a Nairobi, l’Assemblea episcopale esorta il governo ad affrontare e sradicare tali vizi “per salvare la nazione”. “Un rapido sguardo alla situazione attuale del nostro Paese – si legge nel documento – rivela alcune tendenze e pratiche pericolose che dovrebbero preoccupare e meravigliare tutti coloro che hanno a cuore il Kenya, per il fatto che gli ideali ed i principi per i quali i nostri antenati hanno combattuto e dato la vita stanno andando a rotoli”.

Corruzione, cancro che divora il Paese
I vescovi descrivono, quindi, la corruzione come “un cancro che sta uccidendo il Paese” e ricordano le drammatiche conseguenze che da essa derivano: povertà, mancanza di cure mediche e di struttute scolastiche in grado di fornire un’istruzione di qualità, disoccupazione giovanile, diffusione delle tangenti. Ricordando, poi, la visita di Papa Francesco nella nazione, a novembre 2015, i presuli ribadiscono l’appello del Pontefice a “dichiarare guerra alla corruzione, lottando fino alla fine contro di essa”.

Preoccupanti le divisioni etniche
La Kccb punta il dito anche contro la corruzione dei magistrati, dichiarandosi “attonita” di fronte al fatto che “quelle stesse istituzioni che hanno le principali responsabilità del Paese stiano marcendo a causa della corruzione”. Quanto alle tendenze di radicalizzazione etnica, i vescovi le bollano come “preoccupanti”, in particolare quando si riscontrano all’interno di alleanze politiche che “non si basano sull’unione di individui che condividono lo stesso ideale, bensì sull’aggregazione di tribù, in modo che possano votare come un blocco unico”.

Grave il fenomeno del tribalismo
Non solo: quando qualcuno viene sanzionato per un’azione scorretta, i conflitti etnici si inaspriscono ulteriormente, come se le colpe del singolo derivassero dalla sua tribù di origine. Grave anche il tribalismo che viene praticato “senza vergogna” nelle contee, scrivono i presuli, scatenando favoritismi nel campo lavorativo: “Per essere impiegati della Contea – afferma infatti la Chiesa del Kenya – si deve provenire da una delle tribù o dei clan dominanti”.

Il Paese non perda la speranza
In vista, poi, delle elezioni generali in programma nel Paese nel 2017, i vescovi esortano la Commissione elettorale indipendente a “sorvegliare il processo di voto perché, se verrà colpito da corruzione ed incompetenza, metterà in pericolo la democrazia e lo sviluppo del Paese”. Infine, la Kccb si rivolge direttamente ai keniani e li esorta “a non perdere la speranza” ed a lottare, sia individualmente che collettivamente, contro “ogni forma di corruzione che distrugge il tessuto sociale del Paese”. (A cura di Isabella Piro)

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Congo. Allarme della Chiesa: l’avidità uccide la popolazione

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L’avidità, la “fame di denaro” sta uccidendo l’arcidiocesi di Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo: a denunciarlo, in una nota citata dall’agenzia Fides, è la Commissione diocesana Giustizia e pace, la quale sottolinea come, nella regione, da anni destabilizzata dalla presenza di diversi gruppi armati, si registrino “forti turbolenze dalle conseguenze incalcolabili sulla vita quotidiana e l’ecosistema” della popolazione.

Scuotere le coscienze
Con l’aggravante che tale situazione sembra essersi ormai radicata negli animi degli abitanti della regione: “Aprite gli occhi e vedrete dei cadaveri ambulanti in un ambiente decadente” afferma infatti Giustizia e pace, nel tentativo di scuotere le coscienze. Il quadro descritto dalla Commissione diocesana è drammatico: coniugi che cercano di sottrarsi reciprocamente i beni di famiglia; stupri di bambine; giovani disoccupati che si arruolano in bande criminali, carestia che attanaglia villaggi interi in una regione ricca di risorse alimentari.

Riconciliarsi con Dio e con il prossimo
Per questo, Giustizia e pace denuncia anche la mancanza di una politica nazionale che incentivi il lavoro, mentre “il fucile e certe ideologie hanno ucciso gli uomini e soprattutto massacrato le nostre culture tradizionali”. “Per denaro si può uccidere, mentire, tradire, violentare e malauguratamente si direbbe che sono proprio i malvagi che prosperano!” afferma la nota diocesana. Tuttavia, al contempo viene lanciato un appello alla popolazione a “rialzarsi, a guardare in faccia la realtà, e ad organizzare un rito di purificazione, di espiazione e di riconciliazione con Dio, con il prossimo e con il Creato”.  (I.P.)

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Vescovi Pakistan: rimuovere contenuti di odio nei libri di testo

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Urge rimuovere i contenuti di odio e i pregiudizi verso le minoranze religiose presenti nei libri di testo scolastici in uso nelle scuole di tutto il Paese: è l’appello lanciato dalla Commissione nazionale “Giustizia e Pace” dei vescovi cattolici del Pakistan, che ha presentato nei giorni scorsi a Karachi un documento, titolato “Sradicare l’intolleranza religiosa attraverso l'istruzione”. Come riferisce l'agenzia Fides, la Commissione nota che, se la società pakistana intende fare progressi e garantire, anche davanti al resto del mondo, che è davvero pacifica, rispettosa dei diritti umani e della dignità di ogni persona, che è una società ispirata e regolata dallo stato di diritto, “la struttura dell'istruzione scolastica deve essere cambiata e i curriculum di studi devono essere modificati”.

I libri contengono pregiudizi verso le minoranze religiose
Kashif Aslam, uno dei membri della Commissione, ha rivelato che l’organismo dei vescovi ha studiato e analizzato 70 libri di testo, riportando che il materiale pubblicato nel rapporto è solo il 25% di quanto rilevato nell’analisi. Rispetto ai libri di testo in uso nelle scuole pubbliche della provincia del Punjab, quelli della provincia del Sindh “contengono meno pregiudizi verso le minoranze religiose”, si osserva.

La Chiesa chiede intervento e riforma dei testi scolastici
​La Commissione auspica e raccomanda un lavoro congiunto tra il Ministero della pubblica istruzione pakistano e organismi della società civile e delle diverse comunità religiose, per intervenire su tali testi e riformarli. Se si vuole realmente sradicare l’intolleranza religiosa, occorre infatti partire dall’istruzione dei giovani e dalla formazione della loro mentalità: da qui – conclude la Commissione – dipende il futuro armonico e pacifico della società pakistana. (P.A.)

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Filippine: Chiese d'Asia solidali con i contadini di Mindanao

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Anche la Conferenza delle Chiese cristiane dell’Asia (Cca) si unisce alla ferma condanna, espressa dai vescovi filippini delle violenze da parte della polizia e dei militari contro i contadini tribali dell’isola di Mindanao piagati dalla siccità. Le violenze sono esplose il 1° aprile a Kidapawan, dopo giorni di proteste e manifestazioni provocando vittime e feriti.

Solidarietà alla Chiesa metodista per il suo sostegno ai contadini
Nei giorni scorsi, la Cca, che fa parte del Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc), ha denunciato la risposta violenta e le sparatorie da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti e ha espresso solidarietà alla Chiesa metodista per il suo sostegno ai contadini in difficoltà e ai leader tribali minacciati dalla violenza nelle Filippine.

Una soluzione giusta e pacifica
Le Chiese cristiane deplorano l’uso della forza  e chiedono una soluzione "giusta e pacifica”, ricordando che questi contadini sono stati abbandonati dalle autorità. Inoltre, il Cca ha ricordato che all’origine delle violenze vi è anche la promessa non mantenuta da parte dei funzionari governativi di quindicimila sacchi di riso da destinare agli agricoltori. “Ci uniamo a coloro che si battono per i diritti umani fondamentali e la giustizia — ha detto il segretario generale del Cca, Mathews George Chunakara — e sollecitiamo le autorità governative e provinciali affinché attivino disposizioni adeguate e garantiscano la sicurezza a tutti gli agricoltori che stanno legittimamente manifestando le loro preoccupazioni. È un peccato che i diritti legittimi di questa povera gente, che chiede al Governo azioni appropriate al fine di ricevere assistenza e sostentamento nelle zone devastate dalla siccità, vengano completamente ignorati”.

Gravi violazioni dei diritti umani dei contadini indigeni
​Negli ultimi anni, le violenze contro gli indigeni e gli agricoltori del Mindanao non accennano a diminuire nonostante il forte impegno della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose presenti nell’arcipelago. Si registrano, infatti, gravi violazioni dei diritti umani, commessi da gruppi paramilitari che appoggiano le operazioni di grandi società straniere e locali. A Mindanao l’occupazione dei territori delle comunità tribali compiuta dalle forze armate ha costretto molte persone ad abbandonare le proprie terre. (L.Z)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 103

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.