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Sommario del 15/04/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Lesbo: migranti e cittadini greci attendono con gioia il Papa

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Mancano poche ore all’arrivo del Papa sull’isola greca di Lesbo, domattina alle 10.20 locali, saranno le 9.20 in Italia. Francesco, ieri sera, si è recato nella Basilica di Santa Maria Maggiore per sostare in preghiera dinanzi all’Icona della Madonna, Salus populi Romani, domandando la protezione della Madre del Signore sulla sua visita. Il Papa ha offerto alla Madonna un mazzo di rose bianche e azzurre, secondo i colori della Grecia. Ad attendere Francesco a Lesbo vi saranno il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e l’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Ieronymos. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

Sarà uno di quei gesti, la visita di Papa Francesco domani a Lesbo, che, come lui stesso disse lo scorso Giovedì Santo al Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, parlano più delle parole. Trascorrerà una manciata di ore in quella terra greca, le cui luci di sera si possono scorgere dalla costa turca. Un braccio di mare troppo corto per non tentare di prendere il largo in cerca di salvezza in Europa. Di morti, quel mare Egeo, ne ha conosciuti molti negli ultimi mesi: il Papa, il Patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo Ieronymos, riuniti nel porto dell’isola, rivolgeranno alle vittime le loro preghiere e il lancio nel mare di tre corone di alloro. Il pensiero a chi non ce l’ha fatta sarà il momento finale della visita, che si concentrerà soprattutto su chi invece la speranza di ritrovare una vita ancora ce l’ha: sui migranti, che siano rifugiati, richiedenti asilo o economici, perché il Papa non ha mai fatto le distinzioni tanto care invece alla politica.

Francesco li abbraccerà nel centro di Moria, divenuto famoso dopo l’accordo Ue-Ankara, che l’ha trasformato in quello che le organizzazioni umanitarie tutte definiscono un luogo di detenzione. Lì incontrerà i minorenni e poi una delegazione di ospiti del centro, pranzerà con alcuni di loro, rivolgerà loro delle parole, così come faranno anche Bartolomeo e Ieronymos. Sarà un discorso piccolo, forse, per via della brevità della stessa visita, ma che li farà sentire fratelli, perché le parole che Francesco in passato ha utilizzato per loro sono sempre state di grande amore e di grande accoglienza. In questa visita non si dovrà leggere alcun significato politico, nessuna polemica con l’Unione Europea, che pure continua a chiudere e respingere, ma solo la misericordia del Papa per queste persone alle quali non si può e non si deve negare il diritto di cercare la salvezza. E anche la sua vicinanza al popolo dell'isola di Lesbo, dal quale continua ad arrivare un grande esempio di umanità e generosità. Un grande gesto, dunque, dal profondo significato umanitario ed ecumenico che, seppur indirettamente, non potrà non spingere le coscienze a chiedersi se ancora ricordiamo che, come ci ha detto Francesco, anche Gesù fu profugo e la sua condizione “segnata da paura, incertezza, disagi”.

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Caritas Hellas: a Lesbo l'aiuto ai profughi non ha barriere

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Ad attendere con entusiasmo l’arrivo del Papa a Lesbo vi è la piccola comunità cattolica, che vede le sue componenti impegnate, così come del resto tutti gli abitanti dell’isola, nell’aiuto ai profughi. Maristella Tsamatropoulou è la portavoce di Caritas Hellas, Francesca Sabatinelli l’ha raggiunta telefonicamente sull’isola dell’Egeo: 

R. – Papa Francesco è un Papa che promuove veramente la dignità, l’amore, la caritas, l’amore divino. E’ fonte d'ispirazione per noi operatori umanitari, per noi tutti come persone. E’ veramente una ispirazione grandissima! Con la sua semplicità, con la sua pienezza d’animo è riuscito a mettere insieme, a riunire i due capi delle Chiese: l’arcivescovo della Chiesa ortodossa di Grecia Ieronymos e il Patriarca di Costantinopoli. Già solo questo basterebbe per dire che Papa Francesco vuole veramente portare l’unità. Sta venendo in un contesto, quello greco, che è veramente afflitto da una duplice crisi umanitaria, non solo quella terribile dei rifugiati e degli immigrati, ma anche quella di un popolo afflitto da una crisi economica che si fa sentire nel quotidiano sempre di più. Si è chiesto tanto cosa la Chiesa cattolica faccia in Grecia per aiutare i rifugiati: che cosa fa? Questo è anche un aiuto che dà il Papa a noi, come Caritas: si viene così a conoscere che noi siamo qui, che la Chiesa cattolica aiuta, attuando il suo messaggio di solidarietà. Quindi, l’arrivo del Papa è per noi veramente importantissimo e questo non solo come Caritas, ma anche come Chiesa locale.

D. – In questo momento la situazione a Lesbo qual è, per quanto riguarda i rifugiati presenti sull’isola?

R. – Oggi ci sono 4.200 rifugiati, questi sono i numeri che ci vengono dati dalla Polizia. Però si sa che sono sempre di più rispetto a quello che dicono le autorità locali. Sono divisi in due gruppi: quelli che possono partire per l’Europa e quelli che, purtroppo, dovranno tornare indietro. Noi, come operatori umanitari, stiamo cercando di assistere tutti! Adesso io mi trovo all’hotel che è stato noleggiato dalla Caritas Hellas, con fondi della Caritas tedesca, austriaca e svizzera, in cui diamo ospitalità a più di 200 rifugiati e sono i casi più vulnerabili: disabili, bambini piccoli, donne incinte, anziani, persone ammalate, che vengono seguiti da assistenti sociali, da legali che spiegano loro i diritti. Secondo quanto loro ci dicono, gli sembra un piccolo paradiso nella loro tragica storia.

D. – Da dove arrivano queste persone che assistete?

R. – Ovviamente noi assistiamo tutti, senza fare alcuna discriminazione. Sono in maggioranza siriani, ma ci sono anche afghani, iraniani e pochi pachistani, finora, ma sono prevalentemente siriani.

D. – Dicevi che sono i casi più vulnerabili: questo significa che loro non rientreranno tra quelle persone che verranno rinviate in Turchia?

R. – Purtroppo alcuni corrono questo rischio, anche se quasi il 90 per cento sono venuti prima del 20 marzo (giorno dell'entrata in vigore dell’accordo Ue-Ankara, ndr) e dunque non dovrebbero correre il rischio immediato di essere riportati in Turchia. Ci sono alcuni casi, fortunatamente pochi, che rischiano di essere deportati, ma proprio a causa della loro vulnerabilità questo non è sicuro.

D. – Voi avete percepito delle tensioni tra la popolazione?

R. – Assolutamente nessuna tensione! Papa Francesco è riuscito a fare l’inimmaginabile, a mettere tutti insieme: gli ortodossi e anche quelli che si dichiarano non credenti hanno un grandissimo rispetto per il Papa. Sono veramente tutti ansiosi di incontrarlo. Quello che noi percepiamo è una grandissima gioia. Tutti sanno che la Caritas è della Chiesa cattolica, ma i nostri volontari sono soprattutto del luogo e quindi ortodossi e questo non fa alcuna differenza!

D. – Ci sono tensioni ultimamente fra la popolazione a causa della presenza dei rifugiati o gli abitanti di Lesbo continuano ad avere lo spirito di accoglienza sempre mostrato in passato?

R. – Ci sono e ci saranno sicuramente quelli che sono contrari all’arrivo dei rifugiati, a dare loro ospitalità, a prestare servizio. Però, e siamo molto contenti di questo, prevalentemente tutti aiutano tantissimo. Tutti gli abitanti sono stati o sono volontari delle agenzie umanitarie. Non è un caso che gli abitanti di Lesbo siano stati proposti simbolicamente per il Nobel della Pace. Non dobbiamo poi dimenticare, tra l’altro, che il popolo greco è un popolo che ha vissuto in primis cosa significhi essere un rifugiato. Il sentimento che prevale qui è che dobbiamo aiutare questa gente!

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Card. Maradiaga: visita Papa a Lesbo, un richiamo all’umanità

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La Dottrina Sociale della Chiesa continua ad avere un ruolo di grande importanza per promuovere il bene comune dell’umanità. E’ quanto sottolineato dal cardinale arcivescovo di Tegucigalpa Oscar Rodriguez Maradiaga, intervenuto stamani alla Conferenza per il 25.mo della Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Al microfono di Alessandro Gisotti il porporato honduregno e coordinatore del Consiglio dei Nove, si sofferma sul significato della visita di Papa Francesco a Lesbo: 

R. – Mi sembra che sia molto importante, anche come segno. Nel momento in cui alcuni Paesi cercano di chiudersi, il Santo Padre “si apre” e si apre fino ad arrivare a Lesbo... Certamente non è facile affrontare questo viaggio, in una sola giornata, ma lui lo fa anche per amore e per far riflettere tutta la comunità sul fatto che i rifugiati e i migranti non sono dei nemici, ma gente che soffre, gente povera, che ha bisogno di aiuto. E non è soltanto un aiuto intellettuale, teorico, fatto di misure politiche; peggio ancora quando si costruiscono muri, che sono la negazione della solidarietà. Penso che sia certamente un problema complesso, ma il Santo Padre con questo gesto, anche ecumenico perché va con il Patriarca, richiama ad una maggiore umanità.

D. – Si può sperare che con questo viaggio si risveglino anche le coscienze dei popoli, ma soprattutto dei leader politici?

R. – Io dico che tutti si devono risvegliare, perché anche questa è un’opera di misericordia! E nell’Anno della Misericordia non può mancare.

D. – 25 anni dopo “Centesimus Annus”, adesso con Papa Francesco si vede che la Dottrina Sociale della Chiesa continua ad avere un ruolo importante…

R. – Certamente, e non potrà mancare, perché non si tratta soltanto di “cose spirituali”. Papa Francesco ci ha portato ad avere i piedi per terra e questo è ciò che cerca di fare la Dottrina Sociale della Chiesa: aiutare affinché l’umanità capisca che nella Creazione il vertice è l’essere umano. Nell’economia e anche nella politica le altre cose sono “cose”; invece le persone sono creature di Dio.

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Papa: a un cuore umile Dio dà sempre la grazia di rialzarsi con dignità

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A un cuore duro che sceglie di aprirsi con “docilità” al suo Spirito, Dio dà sempre la grazia e la “dignità” di rialzarsi, compiendo “se necessario” un atto di umiltà. Papa Francesco lo ha affermato durante l’omelia della Messa del mattino, celebrata a Casa Santa Marta, commentando il passo biblico della conversione di San Paolo. Il servizio di Alessandro De Carolis

Avere zelo per le cose sacre non vuol dire avere un cuore aperto a Dio. Papa Francesco porta l’esempio di un uomo ardente nella fedeltà ai principi della sua fede, Paolo di Tarso, ma con il “cuore chiuso”, totalmente sordo a Cristo, anzi “d’accordo” a sterminarne i seguaci al punto da farsi autorizzare a mettere in catene quelli che vivevano a Damasco.

L’umiliazione che scioglie il cuore
Tutto si ribalta proprio lungo la strada che lo porta a questa meta e quella di Paolo, afferma il Papa, diventa la “storia di un uomo che lascia che Dio gli cambi il cuore”. Paolo viene avvolto da una luce potente, sente una voce che lo chiama, cade, diventa momentaneamente cieco. “Saulo il forte, il sicuro, era a terra”, commenta Francesco. In quella condizione, sottolinea, “capisce la sua verità, di non essere “un uomo come voleva Dio, perché Dio ha creato tutti noi per stare in piedi, con la testa alta”. La voce dal cielo non dice solo “Perché mi perseguiti?”, ma invita Paolo a rialzarsi:

“‘Alzati e ti sarà detto’. Tu devi imparare ancora. E quando incominciò ad alzarsi non poteva perché si accorse che era cieco: in quel momento aveva perso la vista. ‘E si lasciò guidare’: incominciò, il cuore, ad aprirsi. Così, guidandolo per mano, gli uomini che erano con lui lo condussero a Damasco e per tre giorni rimase cieco e non prese cibo né bevanda. Quest’uomo era a terra ma capì subito che doveva accettare questa umiliazione. E’ proprio la strada per aprire il cuore è l’umiliazione. Quando il Signore ci invia umiliazioni o permette che vengano le umiliazioni è proprio per questo: perché il cuore si apra, sia docile, il cuore si converta al Signore Gesù".

Protagonista lo Spirito Santo
Il cuore di Paolo si scioglie. A cambiare, in quei giorni di solitudine e cecità, è intanto la sua vista interiore. Poi, Dio invia da lui Anania, che gli impone le mani e anche gli occhi di Saulo tornano a vedere. Ma c’è un aspetto in questa dinamica che, afferma il Papa, va tenuto ben presente:

“Ricordiamo che il protagonista di queste storie non sono né i dottori della legge, né Stefano, né Filippo, né l’eunuco, né Saulo… È lo Spirito Santo. Protagonista della Chiesa è lo Spirito Santo che conduce il popolo di Dio. E subito gli caddero dagli occhi come due squame e recuperò la vista. Si alzò e venne battezzato. La durezza del cuore di Paolo – Saulo, Paolo – divenne docilità allo Spirito Santo”.

La dignità di rialzarsi
“E’ bello – conclude Francesco – vedere come il Signore sia capace di cambiare i cuori” e far sì che “un cuore duro, testardo divenga un cuore docile allo Spirito”:

“Tutti noi abbiamo durezze nel cuore: tutti noi. Se qualcuno di voi non ne ha, alzi la mano, per favore. Tutti noi. Chiediamo al Signore che ci faccia vedere che queste durezze ci buttano a terra. Ci invii la grazia e anche – se fosse necessario – le umiliazioni per non rimanere a terra e alzarci, con la dignità con la quale ci ha creato Dio, e cioè la grazia di un cuore aperto e docile allo Spirito Santo”.

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Poveri e politiche sociali al centro del colloquio tra il Papa e Morales

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Papa Francesco ha ricevuto in udienza il Presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia, Juan Evo Morales Ayma, che poi ha incontrato mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati. “Durante i colloqui, svoltisi in un clima di cordialità – riferisce la Sala Stampa della Santa Sede - sono stati affrontati alcuni temi attinenti all’attuale congiuntura socio-economica del Paese, con speciale considerazione per le politiche sociali. Ci si è, quindi, soffermati sulle relazioni tra la Chiesa e lo Stato, evocando la lunga tradizione cristiana della Bolivia e il decisivo contributo della Chiesa alla vita della Nazione. Non si è mancato di fare riferimento anche a questioni di comune interesse, quali l’educazione, la sanità e l’aiuto ai più poveri. Nel prosieguo delle conversazioni sono state passate in rassegna alcune situazioni internazionali”.

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Papa, tweet: Gesù abbandonato custodisce famiglie sofferenti

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Nei giorni amari della famiglia c’è una unione con Gesù abbandonato che può evitare una rottura”.

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Dal Papa in udienza i cardinali Müller, Stella e Suárez Inda

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero, e il cardinale Alberto Suárez Inda, arcivescovo di Morelia, in Messico, con mons. Javier Navarro Rodríguez, vescovo di Zamora.

Il Papa ha concesso il suo assenso al rev.do Corepiscopo Philippe Barakat, eletto canonicamente dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale di Antiochia dei Siri all’ufficio di Arcivescovo dell’Arcieparchia di Homs, Hama, Nabk, finora amministratore patriarcale della medesima sede. Il presule è nato l’1 luglio 1952 a Zeidal-Homs in Siria. Ha frequentato le scuole primarie e secondarie a Zeidal. È entrato nel Seminario di Charfeh (Libano) nel 1964. Ha conseguito la licenza in Teologia presso l’Università Santo Spirito di Kaslik in Libano. È stato ordinato sacerdote il 15 agosto 1976 a Zeidal per l’Arcieparchia di Homs dei Siri. Ha ricoperto i seguenti incarichi: Parroco di Maskaneh, Fairuze e Zeidal, Economo e Protosincello. Attualmente, è Amministratore Patriarcale dell’Arcieparchia. Ha pubblicato alcuni articoli nella rivista “Amore e pace”. Nel 2006, S.E. Mons. Teofilo Kessab lo nominò Corepiscopo. Parla, oltre all’arabo, il francese.

Il Pontefice ha nominato membro del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani il cardinale George Alencherry, arcivescovo maggiore di Ernakulam‑Angamaly dei Siro‑Malabaresi, in India.

Papa Francesco ha nominato capo ufficio nell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica il dott. Stefano Picchiotti, finora aiutante di studio nella medesima Amministrazione.

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Parolin in Polonia: urgente evangelizzazione in Europa secolarizzata

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“La fedeltà a Dio, al Vangelo e alla Sede Apostolica ha suscitato rispetto e riconoscimento negli altri popoli, rendendo la Chiesa in Polonia un bastione di fede e di carità cristiana ed una luce nelle tenebre che in varie occasioni avvolgevano l’Europa”: è quanto ha detto stamane il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin nel suo saluto all’assemblea plenaria della Conferenza Episcopale Polacca, a Poznań, in occasione dei 1050 anni del Battesimo della Polonia.

Indubbiamente la Polonia – ha detto il porporato – “è rimasta semper fidelis grazie al radicato sensus fidei del popolo polacco, accolto e sostenuto da Pastori che hanno fomentato una solida spiritualità evangelica, sotto l’egida di Maria, Regina della Polonia. Questo fu particolarmente evidente quando il Servo di Dio, il Primate Stefan Wyszyński, guidò con mano sicura la Chiesa tra le turbolenze del comunismo ateo e Papa San Giovanni Paolo II, con la sua opera e la sua testimonianza, ravvivò l’inestimabile deposito della fede conservatosi lungo i secoli”.

Il cardinale Parolin, in Polonia come legato pontificio, ha esortato quindi “a continuare e sviluppare questa preziosa eredità” come “Chiesa in uscita” come dice Papa Francesco, attenta in particolare ai poveri e in dialogo con tutti.  Infine, il porporato ha ricordato la centralità della famiglia, “‘cellula fondamentale della società’ – come ha affermato Francesco - ‘luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli’”.

Ieri pomeriggio, al termine della Messa celebrata nella cattedrale di Gniezno insieme all’arcivescovo Wojciech Polak, il cardinale Parolin ha affermato che “l’impegno evangelizzatore è più che mai necessario in una società europea sempre più secolarizzata”.

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Jeffrey Sachs: ascoltare Francesco, economia abbia base morale

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Un’economia che guardi solo al profitto finisce per danneggiare l’umanità e distruggere la Casa Comune. E’ uno dei concetti chiave espressi dall’economista americano Jeffrey Sachs, che stamani è intervenuto alla Casina Pio IV in Vaticano, alla Conferenza per il 25.mo della Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Intervistato da Alessandro Gisotti, il prof. Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Insitute alla Columbia University, si sofferma sul ruolo della Dottrina Sociale della Chiesa e sull’imminente visita di Papa Francesco all’isola di Lesbo:

R. – The Church has always emphasized, especially since Rerum Novarum in 1891, that the market …
La Chiesa sottolinea da sempre, e in modo particolare dalla pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891, che l’economia di mercato, quel tipo di sistema economico nel quale viviamo, deve essere gestito all’interno di un quadro morale. Se l’unica spinta è semplicemente il profitto economico, finiremo nell’ineguaglianza di massa, nell’esclusione sociale, nella corruzione e nel degrado ambientale. Il 1991, l’anno in cui Giovanni Paolo II ha pubblicato la Centesimus Annus, è stato proprio il periodo del cambiamento rivoluzionario nell’Europa orientale con il passaggio dal comunismo all’economia di mercato. E Giovanni Paolo II disse molto chiaramente: “Sì all’economia di mercato, ma questa deve avere una cornice morale perché altrimenti i lavoratori saranno sfruttati, l’ambiente sarà sfruttato, ci saranno guerre e violenza”. Purtroppo, il suo messaggio non è stato ascoltato nella maniera corretta e così, 25 anni dopo, molte delle cose delle quali la Chiesa discuteva, si sono verificate. Ora con la straordinaria e poderosa Enciclica Laudato si’ di Francesco, questo messaggio diventa ancora più urgente per la nostra epoca.

D. – Dal 1991, dalla pubblicazione della Centesimus Annus, molte cose sono cambiate. Papa Francesco oggi è riconosciuto come leader morale a livello mondiale, non solo dalla Chiesa cattolica. Visto che lei ha menzionato la Laudato si’, lei pensa che la sua “leadership” avrà sempre più seguito da parte dei leader politici, proprio su questi argomenti, cioè  l’esclusione sociale, i cambiamenti climatici e così via?

R. – Pope Francis played a pivotal role in reaching  two great agreements last year: the sustainable …
Papa Francesco ha svolto un ruolo centrale l’anno scorso, ottenendo due grandi accordi: gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile, che furono adottati dai governi del mondo il settembre 25, e poi gli Accordi sul clima di Parigi, il 12 dicembre. Il Papa non è intervenuto direttamente nei negoziati, ma il suo appello ad una visione morale contenuto nella Laudato si’, nella quale chiede un piano comune per la nostra Casa Comune è risuonato in tutto il mondo. Ora abbiamo un quadro di base, ma è molto molo fragile perché sono soltanto parole che però devono essere trasformate in azioni. E la leadership morale del Papa è indispensabile perché in questo senso si possa avere successo.

D. – Papa Francesco andrà a Lesbo per far visita e incontrare i rifugiati. Da americano, quale significato attribuisce a questa visita e alla continua sottolineatura dell’importanza di accogliere i profughi da parte dell’Europa?

R. – Well, I think the Pope’s message is a message of humanity and decency. As an American, my …
Penso che il messaggio del Papa sia un messaggio di umanità e di dignità. In quanto americano, il mio messaggio è rivolto agli Stati Uniti, all’Arabia Saudita, alla Turchia e altri Stati affinché fermino la guerra in Siria: infatti, i profughi arrivano a causa della guerra! La guerra è una guerra che molti definiscono una “guerra per procura”, perché molte potenze esterne sono intervenute in Siria a tutela delle loro ragioni geopolitiche. La mia convinzione è che la crisi dei rifugiati possa essere risolta ponendo fine alla guerra in Siria.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Non solo numeri: negli ultimi tre giorni circa seimila migranti hanno raggiunto le coste italiane in condizioni disumane.

Quando un uomo si ritrova a terra: messa a Santa Marta.

I consigli di Danao: Louis Godart sull’antica Grecia e i profughi.

Da Tokyo, un articolo di Cristian Martini Grimaldi dal titolo “Essere cattolici è un lavoro usurante”: gli immigrati in Giappone tengono viva la Chiesa locale. 

Quel gesto dell’ignoto architetto: Roberto Rotondo sull’accesso al Paradiso fra simboli e interpretazioni.

Un abbraccio lungo trent’anni: una mostra ricorda l’incontro nella Sinagoga tra Giovanni Paolo II e il rabbino capo di Roma Elio Toaff.

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Oggi in Primo Piano



Vescovi brasiliani: corruzione devastante, si salvi la democrazia

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I vescovi brasiliani, di fronte alla grave cristi istituzionale che sta colpendo il Paese, lanciano un appello a preservare i valori della democrazia e a varare una profonda riforma politica. In una Dichiarazione pubblicata al termine dell’assemblea generale tenuta ad Aparecida, i presuli chiedono che sia garantita una corretta procedura per la destituzione della presidente Dilma Rousseff, accusata di aver manipolato i bilanci statali. Il voto per l’impeachment è confermato per domenica, dopo che la Corte suprema ha bocciato il ricorso del governo. I vescovi  denunciano una “corruzione senza precedenti”, definita “immorale e criminale”, che ha un impatto devastante sulla società: a pagarne le conseguenze sono soprattutto i poveri. Sulla Dichiarazione dei vescovi, ascoltiamo il commento del cardinale arcivescovo di San Paolo Odilo Pedro Scherer, al microfono del nostro inviato Silvonei Protz

R. – Abbiamo riflettuto sulla situazione brasiliana, caratterizzata da una grave crisi politica, economica, sociale e morale. Penso che sia stata una Dichiarazione forte, ma allo stesso tempo equilibrata, per dare anche una parola di orientamento alla società, alla nostra gente e ai cattolici del Paese. Una riflessione sui problemi del Brasile, su quali possano essere le vie di uscita dalla crisi, ma anche i progetti per il futuro. Di certo, non siamo noi quelli che in prima persona devono agire; questo compito infatti spetta ai laici, alle autorità pubbliche, ai politici e alle persone che occupano posti di leadership nella società.

D. – Avremo la votazione sull’impeachment della presidente Dilma Rousseff: come si vive questo momento in Brasile? E inoltre, qual è la riflessione dei vescovi su questo?

R. – Sì, è un momento un po’ traumatico… Un po’ traumatico per la vita politica del Brasile, anche se non è la prima volta che una cosa del genere – la proposta di impeachment nei confronti di un presidente – succede; comunque, in questo caso, è la prima volta che una donna, che ricopre la carica di presidente della Repubblica, deve affrontare il processo di impeachment. D’altra parte, c’è anche una grossa confusione sul tema: certo, ognuno cerca di far valere i propri argomenti e di difendere con le proprie armi le proprie intenzioni e i propri punti di vista. Ma i fatti parlano di una grossa crisi economica, la cui responsabilità si addebita al governo della presidente. Poi abbiamo una grave crisi etica, che sta venendo fuori in questi ultimi mesi man mano che stanno emergendo i fatti di corruzione ad ogni livello: del governo, delle aziende pubbliche e private, coinvolte in scandali di corruzione mai visti prima in Brasile. E ciò significa che non si hanno sempre molto chiari gli argomenti che portano alla procedura di impeachment e talvolta si fa un po’ di confusione sugli argomenti. Ma io penso che la popolazione in questo momento debba mantenere la calma, la serenità, e affidarsi anche alle istituzioni pubbliche: in fondo, la democrazia prevede anche questo momento. Allora questa situazione deve essere affrontata secondo quanto previsto dalla legge e dall’ordinamento giuridico del Brasile; e poi – certo – anche con la partecipazione della società, rispettando tutti i passi previsti legalmente. Che il processo democratico vada pure avanti e qualunque sia il risultato questo dovrà poi essere accolto dalla società. Ciò richiede un passo ulteriore: un passo di riconciliazione, di dialogo per il bene del Brasile. In questo momento, infatti, siamo divisi in due gruppi – sembra una tifoseria di calcio! – tra chi è a favore di una squadra e chi di un’altra. E invece una questione politica non si può affrontare come in una tifoseria, ma si deve andare sugli argomenti, sulle questioni di fondo… E perciò, una volta passata questa tempesta, è importante che ci sia un grande momento di dialogo, di riconciliazione, e che ci si metta d’accordo sulle vie da seguire per il bene e per il futuro del Paese. Non possiamo andare avanti divisi, con un Paese ingovernabile – no! – questo problema si deve superare. Bisogna andare avanti e attendere quello che sarà il risultato a cui arriveranno le istituzioni.

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Mons. Al Quas: in Iraq vogliamo ricostruire il futuro in pace

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La crisi politica irachena rischia di ostacolare la lotta al sedicente Stato islamico. A lanciare  l'avvertimento è il primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, dopo la mancata presentazione della proposta di rimpasto di  governo. L’obiettivo infatti è quello di creare un controllo tecnico nell'ottica della lotta alla forte corruzione diffusa nel Paese. Intanto, sono decine di migliaia i cristiani che costretti a scappare ogni giorno. Proprio per non dimenticare le loro sofferenze, Aiuto alla Chiesa che soffre Onlus, ha organizzato oggi a Roma una conferenza stampa con  monsignor Rabban al Quas, arcivescovo Caldeo nel Kurdistan iracheno.  Ascoltiamo la sua testimonianza raccolta da Marina Tomarro

R. – La situazione non riguarda solo i cristiani, ma tutte le persone che vivono nel Kurdistan e in Iraq. Abbiamo perduto molta gente, a Baghdad ci sono meno di 20 mila persone… C’è il Patriarca, c’è una Chiesa, ma non c’è un governo a Baghdad perché la maggioranza degli arabi, musulmani e degli altri che non volevano stare nelle fila del sedicente Stato islamico sono venuti a Duhok. Il governo di Baghdad vive in questa situazione… E non c’è denaro, perché è stato rubato. Nel Kurdistan c’è una guerra in corso con l’Is e abbiamo già perso 100 mila persone, dei martiri...

D. – Tanti sono anche i cristiani che sono stati costretti a fuggire dal suo Paese e a chiedere rifugio in Europa…

R. – Sì, e questo continua, perché ci sono più di 50 mila persone ancora in Turchia, in Libano e in Giordania, mentre altri ancora aspettano di partire. Queste persone poi vorranno tornare, ma non sanno quando ciò potrà avvenire: non è facile per loro tornare, dato che non hanno più una casa, non hanno più niente… Tutto è stato distrutto. Ogni giorno, l’Is tenta di entrare in Kurdistan: c’è una guerra in atto, ma la situazione non è la stessa di prima. Nel nostro Paese, il Kurdistan, noi vivevamo in pace e ora invece abbiamo veramente perduto la nostra storia, le nostre chiese, i nostri libri… Questa non è una guerra che si conduce per uccidere ma per cambiare la mentalità e a questo scopo utilizzano la religione musulmana.

D. – Eccellenza, la comunità internazionale cosa potrebbe fare di più per poter aiutare il suo popolo, secondo lei?

R. – La comunità internazionale non deve soltanto aiutarci fornendo cibo. Noi dobbiamo fare la pace e costruire il futuro di questa regione. Questa è la vita! E noi abbiamo perso ogni cosa! Non hanno lasciato niente: i monasteri… E io posso dire che in Kurdistan ci sono i musulmani, ma non sono fanatici, non sono terroristi. Viviamo con loro come con dei fratelli: la loro religione è la loro religione e non fanno niente di male. Fanno male solo quando seguono le condizioni imposte da Baghdad. E invece noi vogliamo avere uno Stato civile come in Europa. Io sono cristiano, poi ci sono gli altri che sono musulmani, ma non c’è differenza tra di noi: siamo fratelli dell’umanità.

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La Germania vara la nuova legge sull'integrazione dei migranti

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L’Austria è pronta a chiudere completamente il Brennero e anche la frontiera con l’Ungheria per impedire l’ingresso di nuovi immigrati: un blocco totale che, secondo il ministro degli Esteri italiano Gentiloni, sarebbe un "brutto segnale per l’Europa". Dal canto suo la Germania ha varato ieri la legge sull'integrazione. Si tratta di norme per stabilire diritti e doveri dei richiedenti asilo: dall'accoglienza a opportunità di lavoro, insieme con l'impegno ad imparare il tedesco. Fausta Speranza ne ha parlato con Alfonso Giordano, docente di geopolitica e flussi migratori all'Università Luiss: 

R. – Si tratta della presa di coscienza da parte della Germania che l’integrazione è un problema che non si può più rimandare. Questo è un modello, un esempio, per il resto dell’Europa. Adesso bisognerà vedere nell’applicazione concreta e pratica quali difficoltà si riscontreranno, ma non c’è dubbio che la Germania, in questo caso, sta facendo da apri strada su un modello che dovrebbe essere ormai consapevole anche per gli altri Paesi. Va detto che la Germania fa un passo ulteriore perché, come si sa, è un Paese che per anni ha rifiutato l’idea di poter essere una terra di residenza stabile di migranti. Come si sa, è la patria del “gastarbeiter”, cioè del lavoratore ospite e per anni si è rifiutato di pensare che gli immigrati poi finissero per vivere per sempre in Germania. Questa cosa è cambiata già negli anni ’90: nel ’99 la legge di Schröder prendeva atto del fatto che ormai c’erano delle comunità immigrate tra i residenti in modo stabile sul territorio e quindi si passava da un Paese che era semplicemente basato sullo “ius sanguinis” a un Paese dello “ius soli”. Il passaggio successivo di questi giorni è quello legato anche alla demografia.

D. – Immigrati, richiedenti asilo, significa, infatti, anche andare ad incidere su un equilibrio demografico del Paese …

R. – Non c’è dubbio, perché la Germania come l’Italia è uno dei Paesi più vecchi al mondo, nel senso che ha una demografia invecchiante, non riesce a sostituire con le nuove nascite le generazioni che scompaiono dalla piramide demografica. Quindi non c’è dubbio che l’immigrazione rappresenta una delle soluzioni per far fronte alla mancanza demografica soprattutto nelle fasce lavorative. Questo lo abbiamo già visto quando i tedeschi hanno inglobato quei siriani che avevano buone qualifiche di studio e che andavano ad inserirsi nel mercato del lavoro tedesco dove, in questo momento nella composizione del lavoro tedesco mancano braccia e mancano menti. È una consapevolezza che dovremmo avere anche noi italiani perché ci troviamo nella stessa situazione demografica tedesca e quindi l’immigrazione non è l’unica soluzione, ma una delle soluzioni a più breve termine. Pensare di basarsi solo sulla politica demografica, su uno stimolo alle nascite, non avrebbe successo nel breve termine, ma forse neanche nel lungo termine. Quindi una soluzione immediata è quella dell’immigrazione, naturalmente regolata, controllata, gestita, e il passo che i tedeschi hanno fatto con questo rimarcare dei diritti e dei doveri va in questa direzione.

D. - Ci soffermiamo su questo: i doveri dei richiedenti asilo …

R. – E’ un doppio canale. Hanno sintetizzato con una frase in tedesco aspettative, pretese. Si riassume così: voi vi aspettate degli strumenti di integrazione di aiuto da parte nostra, ma dovete anche capire di integrarvi in una società che ha alcuni determinati modi di convivere civile, democratico. Ora i mezzi a disposizione sembrano diversi e anche le richieste sono diverse. Bisognerà vedere come questo sarà poi applicato; già vedere i costi di questo tipo di gestione, perché sono cose che all’inizio non saranno gratuite e quindi peseranno anche sui bilanci federali della Germania. Però non c’è dubbio che questa sia l’unica strada da percorrere rispetto ad un fenomeno inarrestabile e che tra l’altro, in qualche caso, come quello della Germania e quello dell’Italia, serve anche alla popolazione invecchiante del continente europeo.

D. - Secondo lei come viene accolta questa legge? Altri Paesi hanno regolamentazioni rigide anche molto favorevoli agli immigrati, però poi hanno chiuso le porte in questo caso …

R. - Perché l’immigrazione è un fenomeno complesso, molto difficile da gestire. Ora vedremo se i tedeschi riusciranno in questa opera. II punto è che sicuramente è una legge fondamentale, un grande accordo; i tedeschi fanno bene ad esultare da questo punto di vista e credo che molti Paesi dovrebbero seguire questo esempio e, soprattutto, dovrebbero smettere di avere atteggiamenti nazionalistici e convergere finalmente verso una politica europea che è l’unica in questo momento che ci può salvare da questo sisma che arriva dalle coste del Mediterraneo.

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Microsoft: causa al governo Usa per il controllo delle mail

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Sempre più complesso il tema del rispetto della privacy nell’era digitale, a fronte delle esigenze di sicurezza dei singoli Stati. Di queste ore il caso di Microsoft, che ha citato in giudizio il governo statunitense. Lo ha fatto dopo che il Dipartimento di Stato ha imposto il controllo di 2.500 e-mail senza dare la possibilità all’azienda di avvertire i clienti coinvolti. Eugenio Bonanata ne ha parlato con Donato Antonio Limone, ordinario di informatica giuridica presso l’Unitelma Sapienza e presidente dell’Associazione Nazionale Docenti Informatica Giuridica e diritto dell’informatica (Andig): 

R. – La notizia è interessante perché non chiama in causa solo il problema della tutela dei dati personali, ma anche i problemi della sicurezza e più in generale dei diritti del cittadino nei riguardi delle nuove tecnologie dell’informazione e quindi anche dei diritti dei cittadini per essere garantiti verso abusi fatti da privati e – perché no? – anche dallo Stato. E lo Stato, negli Stati Uniti, sul fronte delle tecnologie spesso è intervenuto direttamente su banche dati personali o su corrispondenza senza chiedere il permesso a nessuno...

D. – Ma negli Stati Uniti esiste il IV Emendamento che garantisce ai cittadini di sapere se lo Stato sta controllando la loro proprietà…

R. – E’ vero, ma è vero pure che poi ci sono le eccezioni. Quindi, per la difesa dello Stato contro la criminalità, lo Stato spesso fa ricorso a questi elementi per poter andare al di fuori del principio generale.

D. – Professore, cosa dire del quadro normativo italiano?

R. – Se parliamo della situazione comunitaria, e in particolare della situazione italiana, noi abbiamo il Codice per la protezione dei dati personali: direi il miglior Codice che si trova in Europa. La nostra Costituzione, per esempio, tutela con l’art. 15 la riservatezza della corrispondenza e di conseguenza questo vale anche per la corrispondenza di carattere telematico. Quindi nessuno può, fuori dall’ordinamento, compreso lo Stato, intervenire sulla corrispondenza personale senza avvisare le persone.

D. – Quindi, un approccio totalmente diverso rispetto agli Stati Uniti?

R. – Sì. L’approccio è proprio di carattere costituzionale e ordinamentale. Noi abbiamo un sistema di garanzia rispetto al quale il cittadino è tutelato dal nostro ordinamento generale e dall’ordinamento giudiziario, per cui da noi il soggetto che deve intervenire per qualsiasi tipo di anomalia comportamentale o di reato è la magistratura. Quindi, se lo Stato vuole entrare in un sistema personale di informazione, non può farlo direttamente: deve essere la magistratura ad autorizzarlo, che giudicherà se lo Stato possa avere delle informazioni oppure no.

D. – Il parlamento europeo ha appena approvato un pacchetto di misure sulla protezione dei dati personali nelle attività di polizia e di giustizia. Cosa ci possiamo aspettare da questo provvedimento?

R. – Il pacchetto ha un regolamento che entrerà in esecuzione immediatamente e poi una nuova direttiva. Sicuramente, è un miglioramento del quadro complessivo per la protezione dei dati personali, così come è avvenuto finora sia per i dati che circolano nella comunità, sia per i dati che vanno verso Paesi che non fanno parte dell’Unione Europea.

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Sud Somalia: popolazione in fuga da attacchi aerei anti-Shabaab

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Nel sud della Somalia, centinaia di persone sono costrette ad abbandonare le loro abitazioni a causa dagli attacchi aerei di Usa e Kenya finalizzati a colpire i miliziani di al-Shabaab. La popolazione locale ha alternative alla fuga? Risponde al microfono di Maria Laura Serpico il presidente dell’Associazione Soomaaliya Onlus, Hussein Aden Sheikh Mohamoud: 

R. – Sostanzialmente no! Quello che è successo finora è che fuggono, sperando di non essere presi fra due fuochi. Con questo voglio dire che quando vivi in un villaggio molto piccolo, normalmente alle persone non interessa nemmeno chi sia al potere. Siccome non possono decidere chi debba governare quella zona, normalmente accettano qualunque potere imposto, che sia di al-Shabaab, dell’esercito keniota, del governo del Jubaland. Questo pur di avere un po’ di tranquillità, un po’ di pace, un po’ di stabilità: è una reazione umana... Quando succedono questi scontri nel villaggio, di solito la popolazione – anche se fugge – finisce fra due fuochi ed è anche capitato, a volte, che venissero massacrati sia da al-Shabaab, sia dall’esercito – tra virgolette – regolare. Quindi fuggono e sperano di sopravvivere…

D. – Cosa chiede la popolazione somala?

R. – La prima cosa che la popolazione somala chiede veramente è la stabilità. La cosa molto visibile e quasi palpabile è un desiderio di rinascita, di rivalsa, di stanchezza della guerra civile che, vorrei dire, precede anche l’esistenza stessa degli al-Shabaab. Lo so che tante volte si vuole ridurre il problema somalo agli al-Shabaab: questi nascono tempo dopo la guerra civile, che - come distruzione di massa - è cominciata nel ’91. E, allora, non c’era proprio né al-Shabaab né alcun altro gruppo islamista! Quindi questi anni – circa 25-26 anni – hanno portato ad una distruzione sociale, culturale, umana, psicologica immensa e la gente vorrebbe semplicemente vivere una vita tranquilla. Per cui un governo che possa avere un controllo del territorio, che possa fornire veramente i servizi di base e la gente farebbe, poi, da sé la propria vita.

D. – Come risponde la Comunità internazionale?

R. – Direi non adeguatamente. Nel senso che se si vuole risolvere il problema, che ormai non è soltanto dei somali, bisognerebbe avere una politica di intervento un po’ più lungimirante. Voglio dire: non si può combattere un terrorismo soltanto con le bombe. Non è da sottovalutare l’aspetto politico del problema: quando questi islamisti, al-Shabaab nello specifico, attirano la popolazione - e ovviamente parliamo di questi villaggi - con la garanzia di qualche lavoro, un po’ di welfare funzionante, l’imposizione magari anche di alcune tasse garantendo però in cambio un po’ di sicurezza. E queste sono cose che i somali le constatano: finora laddove c’è stato il controllo dell’esercito regolare del governo federale, ci sono stati più saccheggi, assassini e altre cose che magari uno non si aspetta da un governo. E questo diventa una facile presa, assieme a tante altre cose che non vanno nella gestione della sicurezza in Somalia. Per cui per combatterli, bisognerebbe certo fare delle azioni militari, ma anche accompagnare queste con interventi umanitari e non soltanto ed unicamente la distribuzione dell’acqua, perché in quel campo stanno scappando… Io potrei anche menzionare qualcosa come il Piano Marshall: intervenire in Somalia e radicalmente cambiare il degrado infrastrutturale. Poi davvero la gente - credo - sarebbe capace di fare da sé la propria vita e svilupparsi umanamente come comunità.

D. – Come mai è così difficile fermare al-Shabaab, nonostante stia già perdendo terreno sin dal 2011…

R. – Sinceramente perché credo che non ci sia stata mai una vera e propria politica efficace, che sia riuscita ad andare al di là dell’intervento militare. Anche quando il Kenya è intervenuto nel Sud della Somalia, con forze massicce, a cui i somali non erano abituati, è vero che in poco tempo hanno conquistato Kismayo, hanno "liberato" una vasta zona, ma è cominciato anche il problema di convivenza con la comunità e c’è stata una certa prepotenza nel trattare la popolazione civile. E questo succede anche con l’esercito regolare del governo somalo. Per cui – ribadisco – diventa difficile sconfiggere il nemico, quando poi si offrono al nemico stesso dei punti di appiglio abbastanza facili. Finché non ci sarà qualche sviluppo vero e proprio, che vada al di là della distruzione di un campo di addestramento degli al-Shabaab, sarà difficile sconfiggerli! Perché loro garantiscono "qualcosina"; dicono: ti do soldi, tu metti la bomba là… E infatti gli hanno dato un po’ di soldi.

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Dodicesimo Rapporto di Antigone: "Galere d'Italia"

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Questa mattina l'Associazione Antigone ha presentato, presso l'Associazione Stampa Romana, "Galere d’Italia”, il dodicesimo Rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane. Maria Laura Serpico ha chiesto al presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, quali siano i punti deboli del sistema penitenziario italiano: 

R. – In un sistema che fortunatamente ha visto, negli ultimi tre anni, diminuire la popolazione detenuta di oltre 15 mila unità e che finalmente ha visto, per esempio, la nomina di un garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, di un sistema dove fortunatamente ora c’è più spazio vitale, continuano a esserci ombre. Per esempio, eccesso di persone in custodia cautelare, il 35% della popolazione detenuta mentre la media europea è del 20%. Una componente straniera che è eccessiva nei numeri rispetto alla tipologia di reati che commette che di solito sono di bassissimo livello di gravità e rispetto alla quale i servizi di sostegno all’interno delle carceri è molto basso. Noi denunciamo una presenza minima di mediatori culturali che non aiuta. Sosteniamo,, per esempio, che dovrebbe esserci un investimento maggiore sulla questione della scuola e dell’istruzione, anche dell’istruzione universitaria. Vorremmo che in ogni regione ci fosse una sezione universitaria: studiare emancipa da scelte di vita deviante. E vorremmo che sulla questione della famiglia i detenuti non fossero abbandonati, perché molte volte capita di trovare persone giovani che muoiono in carcere per malattie non gravi: in carcere si può morire di polmonite, ancora…

D. – Quali risultati, invece, sono stati raggiunti?

R. – Sicuramente, c’è una riduzione del tasso di affollamento e questo è importante. Siamo ritornati entro numeri adesso “accettabili” nel tasso di affollamento, cioè inferiore al 110%. Partivamo dal 160-170, quindi questa è una gran cosa. E poi, la vita nelle sezioni: fortunatamente, adesso almeno otto ore vengono trascorse fuori dalla cella, non sempre in attività significative, dal punto di vista sociale e lavorativo, ma è sempre importante che questo accada. Poi, i diritti: è stato nominato un garante che sta finalmente al lavoro. E’ Mauro Palma, ex presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, e questo è un grande significato rispetto alla questione della tutela dei diritti in carcere. Questi risultati, se si accompagnassero all’introduzione del delitto di tortura nel Codice penale, ci farebbero stare più tranquilli e anche moralmente più degni all’interno della comunità internazionale.

D. – Al momento, quante persone sono in stato di detenzione in Italia?

R. – I detenuti oggi sono circa 53.500. Erano 68 mila quando l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Sono reclusi in poco meno di 190 carceri e abbiamo un tasso di detenzione che più o meno è nella media europea: i Paesi del Centro-Nord Europa hanno tassi di detenzione inferiori, i Paesi del Sud e dell’Est dell’Europa hanno tassi di detenzione superiori. Noi siamo più o meno nella media.

D. – In quali condizioni vivono questi detenuti?

R. – Condizioni molto diversificate da carcere a carcere, purtroppo come il sistema pubblico delle scuole, della salute: è molto diversificato. Quindi, come abbiamo dei luoghi dove in carcere si svolgono attività significative, rilevanti, altri dove invece non si fa nulla. Alcuni luoghi dove la violenza è totalmente bandita e altri dove purtroppo è tollerata. Dei luoghi dove l’isolamento disciplinare è fatto secondo norma, dei luoghi dove invece non è fatto secondo norma.

D. – Come viene pianificato il processo di reinserimento dei detenuti nella società?

R. – Ah… non viene pianificato! E' lasciato al buon cuore degli operatori sociali, degli operatori penitenziari, della polizia, del direttore. Purtroppo, non c’è una vera e propria regia e questo è un problema, perché in mancanza di tutto questo, è tutto ovviamente a "macchia di leopardo"... Le cose non accadono così, casualmente: devono essere programmate, ci vogliono dei percorsi individuali di sostegno... Bisognerebbe investire nella scuola e nel lavoro prima di tutto, affinché poi si abbassi il tasso di recidiva. E’ dimostrato che un detenuto che ha occasioni che la vita non gli ha dato in passato, che il carcere potrebbe dargli in quel periodo, avrà meno tentazioni di continuare a delinquere una volta uscito dal carcere. E purtroppo su questo non si investe. Ecco, noi ipotizziamo una regia pubblica dove gli attori siano l’amministrazione penitenziaria ma anche i volontari – tanti volontari che operano – i cappellani, gli operatori. Che tutti quanti si siedano insieme per cercare di risolvere il tema del reinserimento.

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Nella Chiesa e nel mondo



Canada, vescovi: no a progetto di legge su suicidio assistito

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Si chiama C-14 il progetto di legge presentato dal governo canadese per modificare il Codice penale e apportare modifiche ad alcune normative, tra cui quella relativa al suicidio assistito. In particolare, la proposta intende legalizzare il così detto “aiuto medico a morire” per tutti gli adulti che si trovano in “uno stato avanzato di declino irreversibile delle loro capacità” e per i quali la morte è “ragionevolmente prevedibile”, anche senza un pronostico preciso.

Vita è sacra e va tutelata dal concepimento fino alla morte naturale
Immediata la reazione della Conferenza episcopale locale che, in una nota, ribadisce “la sacralità e la dignità della vita umana”. “Il suicidio assistito e l’eutanasia – si legge nel documento – sono in contrasto con la profonda inclinazione naturale degli esseri umani a vivere e preservare la vita”. Tali pratiche, inoltre, “sono in contraddizione con la responsabilità degli esseri umani di proteggersi a vicenda e di migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria e dei servizi sociali che ogni vita umana merita, dal concepimento e fino alla morte naturale”.

Progetto C-14 mette in pericolo persone vulnerabili
Per tali motivi, dunque, i vescovi del Canada definiscono il Progetto di legge C-14 “un affronto alla dignità umana”, “un’erosione della solidarietà tra gli uomini e un pericolo per tutte le persone vulnerabili, in particolare gli anziani, i disabili, gli infermi e i malati che spesso vengono isolati ed emarginati”. Non solo: la Chiesa di Ottawa mette in guardia dalla “violazione del dovere sacrosanto del personale sanitario alla cura del malato e della responsabilità dei legislatori e dei cittadini di fornire e garantire la protezione a tutti, specialmente a coloro che sono più a rischio”.

Cure palliative e libertà di coscienza per i medici
Di qui, il richiamo dei presuli ai “legislatori federali, provinciali e territoriali” affinché difendano e proteggano sempre la vita, rinnovando gli sforzi per “garantire l’accesso alle cure palliative e domiciliari e per proteggere la libertà di coscienza degli operatori sanitari e delle istituzioni che rifiutano la pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito”. Da ricordare, infine, che il Progetto di legge C-14 segue la decisione della Corte Suprema del Canada, relativa ai primi mesi del 2015, di legalizzare e consentire un accesso più ampio all’eutanasia e al suicidio assistito. (I.P.)

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Venezuela. Card. Urosa Savino: basta "giustizia fai da te”

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Di fronte al ripetersi incontrollato di episodi di violenza, tra cui anche barbari casi di linciaggio, il cardinale arcivescovo di Caracas, Jorge Liberato Urosa Savino, è tornato a richiamare e a ricordare la perenne attualità del quinto comandamento: non uccidere.

I linciaggi contro il quinto comandamento
In una lettera firmata assieme ai vescovi ausiliari, il porporato condanna con vigore come peccato l’uccisione in pubblico di criminali: “Con profondo orrore e tristezza - si legge nel documento citato dall’Osservatore Romano - abbiamo appreso che nelle ultime settimane si sono verificati a Caracas vari linciaggi di persone. Questo è assolutamente inaccettabile, va contro il quinto comandamento della legge di Dio, che dice di non uccidere, ed è anche una grande ingiustizia perché punisce con la morte responsabili di reati minori e, talvolta, toglie la vita a persone innocenti”.

La giustizia fai da te non è la strada migliore
In questi ultimi mesi il Venezuela, oltre a essere uno tra i Paesi più poveri del continente, sta purtroppo scalando posizioni anche nella classifica della violenza a causa del crimine organizzato locale e dei gruppi armati che controllano alcune zone della capitale. Il documento non nasconde le difficoltà e la profonda insofferenza della popolazione onesta di fronte alla violenza, all’insicurezza e ai soprusi della criminalità. Tuttavia, sottolinea, la “giustizia fai da te” non è certamente la strada migliore da seguire. “Siamo consapevoli - scrivono i presuli della capitale venezuelana - che i cittadini onesti e lavoratori sono arrabbiati per l’impunità di cui godono molti criminali nella situazione attuale. Questo è in parte responsabilità dei vari organismi pubblici, che hanno l’obbligo più importante di proteggere la vita e le proprietà dei venezuelani”.

Garantire la sicurezza dei cittadini
Il testo si conclude con un appello urgente al governo, alle Forze dell’ordine e alla magistratura affinché i delinquenti siano assicurati alla giustizia e puniti secondo i principi sanciti nella Costituzione. Alla popolazione, al contempo, si chiede di non lasciarsi trasportare dall’odio e di “non macchiarsi le mani con il sangue”. Solo poche settimane fa, lo stesso cardinale Urosa Savino aveva denunciato con vigore il clima di corruzione e di violenza che alimenta la piccola e grande criminalità. (L.Z.)

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Corea Sud: la Chiesa auspica più cooperazione tra i partiti

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Maggiore cooperazione e collaborazione politica tra i partiti: è quanto auspica la Chiesa cattolica in Corea del Sud dopo che, alle ultime elezioni, il partito conservatore Saenuri attualmente al governo, ha perso la maggioranza dei seggi nel Parlamento coreano. Secondo i risultati ufficiali delle votazioni del 13 aprile scorso, infatti, per la prima volta dopo 20 anni si profila una composizione tripartitica dell’assemblea.

Suddivisione tripartitica dei seggi
Sui 300 seggi, il partito Saenuri ne ha ottenuto 122, mentre il principale partito di opposizione, lo schieramento democratico Minjoo, ne ha presi 123, mentre la novità rilevante è che il neonato Partito Popolare, staccatosi dal partito democratico, ha guadagnato 38 seggi.

Difficoltà economiche del Paese
“Il voto riflette la delusione di molti elettori”, spiega all’Agenzia Fides mons. Peter U-il Kang, vescovo di Cheju e membro della Commissione per gli Affari sociali nella Conferenza episcopale cattolica coreana. Secondo gli osservatori, infatti, il governo in carica della presidente Park Geun-hye ha creato malcontento soprattutto per il calo dell’economia: la crescita nel 2015 si è assestata intorno al 2,5 per cento, ma è soprattutto la disoccupazione, oltre il 12 per cento, ad aver segnato il dissenso della popolazione giovanile.

Auspicato il dialogo con la Corea del Nord
Mons. Kang rileva, quindi, che “ora la presidente Park Geun-hye, che non ha la maggioranza parlamentare, si troverà a dover necessariamente avviare una cooperazione e collaborazione politica con le forze di opposizione, atteggiamento pienamente auspicabile”. Quanto ai rapporti con la Corea del Nord, il vescovo di Cheju auspica che “si riprenda la via del dialogo e il cammino di riconciliazione”.

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Vescovi Paraguay: lo Stato ascolti le richieste dei contadini

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La Conferenza Episcopale del Paraguay (Cep) ha chiesto la presenza dello Stato al fianco dei contadini, la promozione di programmi per evitare lo sradicamento delle famiglie e ha evidenziato la forza delle cooperative che si sono mobilitate da due settimane, chiedendo al governo un dialogo.

Stabilire un dialogo con i contadini
Attraverso un comunicato ripreso dall’agenzia Fides, i presuli esprimono preoccupazione perché alle richieste non c’è stata ancora alcuna risposta e neanche il segno di qualche riforma istituzionale che faccia presupporre lo sviluppo di questo settore. "Atteggiamento che genera ancora maggior sofferenza fra i più vulnerabili e svantaggiati" si legge nel testo. "Nelle attuali circostanze, appare necessario stabilire un dialogo per ascoltare i contadini e proporre soluzioni che soddisfino gli standard comunitari della proprietà della terra e l'assistenza tecnica e sul credito" affermano i vescovi.

Promuovere la cultura dell’incontro e rilanciare l'agricoltura familiare
Il documento si conclude con l’esortazione alle autorità nazionali ad ascoltare le richieste dei contadini, "valorizzando la cultura dell'incontro" e promuovendo il dialogo. La Cep invita infine a rilanciare l'agricoltura familiare per favorire lo sviluppo. Da ricordare che dal 1.mo aprile le cooperative del Paraguay devono pagare il 10 per cento d'imposta. Nonostante le numerose manifestazioni di protesta svoltesi  davanti al Congresso, ieri pomeriggio, in sessione speciale, la legge “Imposta sul valore aggiunto” è stata ratificata con 46 voti a favore e 24 contrari.

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Liberia. I vescovi: tutelare famiglia e libertà religiosa

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“La rilevanza della Chiesa in Liberia oggi: evangelizzazione, salute, educazione, opere sociali, giustizia, pace e mass media”. Questi i numerosi temi trattati dalla Conferenza episcopale della Liberia (Cabicol) nel corso della sua Assemblea Plenaria svoltasi a Monrovia dal 5 al 10 aprile. Al temine dei lavori, i presuli hanno rilasciato un lungo messaggio in cui, in primo luogo, si impegnano a rilanciare l’evangelizzazione nel Paese, puntando sulla formazione dei sacerdoti e dei religiosi, sul coinvolgimento dei laici e sulla collaborazione con le istituzioni missionarie.

Il dramma dell’epidemia di Ebola e l’importanza dell’educazione
Quindi, la Cabicol ringrazia tutti gli operatori sanitari che, in modo disinteressato, hanno compiuto “enormi sacrifici” durante la recente epidemia di Ebola che ha colpito il Paese, provocando numerose vittime. Esortando, poi, tutti i cittadini ad osservare i protocolli sanitari previsti, i vescovi ricordano anche l’importanza di “promuovere e preservare la cultura della vita dal grembo materno alla tomba”, con particolare attenzione alla popolazione che vive nelle zone più remote della Liberia. Sul fronte dell’educazione, la Cabicol richiama “il diritto inalienabile di ogni persona all’istruzione”, così come l’impegno a fornire “un’istruzione di qualità” alla popolazione. Al contempo, si esorta il governo ad assegnare, in modo equo, i sussidi necessari alle scuole private. Agli insegnanti di religione, in particolare, si raccomanda “lealtà” nella preparazione degli studenti “non solo agli esami, ma anche e soprattutto alla vita, insegnando loro i valori del Vangelo”.

Non dimenticare i più vulnerabili, carità è legge suprema della Chiesa
Ringraziando poi tutti gli organismi cattolici che operano nel settore dei servizi sociali, i vescovi esortano a non dimenticare “i più vulnerabili e bisognosi della società”, “i poveri e gli svantaggiati”, “in considerazione del fatto che la carità è la legge suprema della Chiesa”. Riguardo ai temi della giustizia e della pace, la Cabicol sottolinea che “la promozione dei diritti fondamentali ed inalienabili di tutti rimane una preoccupazione primaria della Chiesa”. Tra l’altro, nel 1991, in piena guerra civile, “uno dei momenti più bui della storia – scrivono i vescovi – è stata fondata la Commissione episcopale Giustizia e pace, una delle voci solitarie contro il degrado morale, sociale ed economico della nazione”. Una voce che la Cabicol continua a far sentire, anche sulla scia del Concilio Vaticano II e del documento Conciliare Gaudium et spes, relativo all’impegno della Chiesa nel mondo contemporaneo.

Appello ai media: libertà di espressione implica responsabilità
Ampia, inoltre, la riflessione che i vescovi liberiani dedicano ai mass-media, dei quali viene riconosciuto “il ruolo indispensabile nella diffusione del Vangelo”. Denunciando, quindi, l’esistenza di alcune leggi che “vanno contro i cittadini” in quanto “tendono a vietare l’esercizio della libertà di parola e di espressione”, al contempo i presuli richiamano i mezzi di comunicazione ai loro doveri perché “la libertà di espressione non nega la responsabilità”. Di qui, la critica dei vescovi dell’uso irresponsabile di alcuni media, sfruttati “non per questioni di interesse nazionale, ma per attacchi personali”, insieme all’appello a fare particolare attenzione alla comunicazione nei confronti dei giovani.

Matrimonio è unione sacra tra uomo e donna, no a pressioni per unioni gay
Il messaggio della Cabicol si sofferma, quindi, su alcune “preoccupazioni nazionali” riguardanti, in primo luogo, la famiglia: “Il matrimonio è un’unione sacra tra uomo e donna stabilita da Dio – si legge nel testo – e quando il matrimonio e la famiglia non sono garantiti nel loro sviluppo corretto e pacifico, allora la società è condannata all’instabilità socio-politica, culturale e morale”. In quest’ottica, i vescovi denunciano “ogni tentativo, da parte di chiunque o di qualsiasi istituzione, di promuovere il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’aborto ed i contraccettivi”. In particolare, viene rivolto un appello al governo affinché “rifiuti l’accettazione di questa cultura della morte come prerequisito per ottenere aiuti allo sviluppo”. Nell’ottica, poi, dell’Esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco, “Amoris Laetitia”, la Cabicol manifesta “vicinanza e compassione” alle famiglie che vivono situazioni di fragilità ed esorta i Pastori alla misericordia.

Tutelare libertà religiosa. Rivedere politica fiscale
Un ulteriori paragrafo del messaggio episcopale è dedicato alla questione della libertà religiosa, la cui limitazione – scrivono i vescovi – rappresenta una preoccupazione condivisa anche da altre fedi. Di qui, il richiamo a “riaffermare l’impegno nella promozione di tale libertà, insieme alla convivenza pacifica, come sancito dalla Costituzione” e “nel rispetto dei diritti fondamentali e della dignità di ciascuno”. Centrale, poi, il tema delle tasse, per le quali i vescovi sottolineano, da una parte, il dovere dei cittadini e delle istituzioni di pagarle, al fine di “promuovere lo sviluppo nazionale”; dall’altra, però, i presuli denunciano “imposte esorbitanti”, “politiche incostanti” che lasciano spazio “all’estorsione”, rendendo “difficile, se non impossibile” alla Chiesa di “svolgere il suo dovere umanitario” nei confronti delle persone in difficoltà. Per questo, il governo viene invitato a rivedere le sue politiche per garantire ai cittadini, in modo costante, i servizi adeguati.

I partiti politici guardino a interessa nazionale e non personale
L’ultimo paragrafo del suo messaggio la Cabicol lo dedica ai partiti politici: ricordando che democrazia pluripartitica non significa proliferazione dei partiti e che le pratiche democratiche si rafforzano con la qualità, e non con la quantità dei gruppi di rappresentanza, i vescovi liberiano esortano a promuovere il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani. I partiti, quindi, vengono invitati al sacrificio, al servizio al Paese e all’interesse nazionale, senza farsi dominare dai tornaconti personali, familiari o etnici. Infine, nell’Anno straordinario della Misericordia, la Chiesa di Monrovia si affida all’intercessione di Maria, Regina della pace. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 106

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.