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Sommario del 04/12/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa all'Angelus: il regno dei cieli è già qui, se ci sono amore e umiltà

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Il regno dei cieli inizia già qui, sulla terra, se ci convertiamo, cioè se abbandoniamo il nostro egoismo per aprirci a Dio che ci dona la vera felicità, l'amore, la libertà: è quanto ha detto Papa Francesco presiedendo la preghiera mariana dell'Angelus davanti a tanti pellegrini giunti in Piazza San Pietro da tutto il mondo. Il servizio di Sergio Centofanti

Nel Vangelo della seconda domenica di Avvento risuona l’invito di Giovanni Battista: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,2). E’ "il messaggio centrale di ogni missione cristiana” - afferma il Papa - non si tratta di un'opera di proselitismo come se i cristiani fossero tifosi in cerca di nuovi sostenitori della propria squadra, ma è semplicemente un “gioioso annuncio": "viene il regno di Dio, anzi, è vicino, è in mezzo a noi!”. Ma quando parliamo di regno dei cieli - sottolinea - pensiamo subito alla vita eterna:

“Certo, questo è vero, il regno di Dio si estenderà senza fine oltre la vita terrena, ma la bella notizia che Gesù ci porta – e che Giovanni anticipa – è che il regno di Dio non dobbiamo attenderlo nel futuro: si è avvicinato, in qualche modo è già presente e possiamo sperimentarne fin da ora la potenza spirituale (...) Dio viene a stabilire la sua signoria nella nostra storia, nell'oggi di ogni giorno, nella nostra vita; e là dove essa viene accolta con fede e umiltà germogliano l’amore, la gioia e la pace”.

La condizione per entrare a far parte di questo regno - spiega il Papa - “è compiere un cambiamento nella nostra vita, cioè convertirci ogni giorno, un passo avanti ogni giorno":

“Si tratta di lasciare le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli di questo mondo: il successo a tutti i costi, il potere a scapito dei più deboli, la sete di ricchezze, il piacere a qualsiasi prezzo. E di aprire invece la strada al Signore che viene: Egli non toglie la nostra libertà, ma ci dona la vera felicità. Con la nascita di Gesù a Betlemme, è Dio stesso che prende dimora in mezzo a noi per liberarci dall’egoismo, dal peccato, dalla corruzione e da questi atteggiamenti che sono del diavolo”.

Il Natale – ha proseguito Francesco – “è un giorno di grande gioia anche esteriore, ma è soprattutto un avvenimento religioso per cui è necessaria una preparazione spirituale. Il Battista invita a raddrizzare i sentieri del Signore:

“Noi prepariamo la via del Signore e raddrizziamo i suoi sentieri, quando esaminiamo la nostra coscienza, quando scrutiamo i nostri atteggiamenti, per cacciare via questi atteggiamenti peccaminosi che ho menzionato (...) Ci aiuti la Vergine Maria a prepararci all’incontro con questo Amore-sempre-più-grande, che è quello che porta Gesù e che nella notte di Natale si è fatto piccolo piccolo, piccolo, come un seme caduto nella terra. E Gesù è questo seme: il seme del Regno di Dio”.

Dopo l’Angelus, il Papa ha augurato a tutti “un buon cammino di Avvento”, dando appuntamento a giovedì 8 dicembre per la festa dell’Immacolata con l'Angelus delle 12.00 e la tradizionale preghiera in Piazza di Spagna alle 16.00:

“In questi giorni preghiamo uniti chiedendo la sua materna intercessione per la conversione dei cuori e il dono della pace”.

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Il grazie di Francesco a Bartolomeo per il suo impegno ecumenico

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Un “significativo riconoscimento”, “segno di gratitudine” per il servizio reso da Bartolomeo “alla promozione di una sempre maggiore comunione tra tutti i credenti in Cristo”: così Papa Francesco definisce il Premio “San Nicola” che domani a Bari sarà consegnato dalla Facoltà Teologica Pugliese al Patriarca ecumenico di Costantinopoli, in occasione della festa di San Nicola.

Comune preghiera per l'unità dei cristiani
In un telegramma inviato all’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, il Santo Padre si unisce “spiritualmente al carissimo fratello Bartolomeo nella venerazione del Santo Vescovo di Myra Nicola, le cui reliquie sono custodite a Bari da quasi mille anni, affidando alla intercessione di questo Pastore tanto amato in Oriente e in Occidente” la comune preghiera “per il desiderato raggiungimento della piena unità dei cristiani”. Con la “lodevole iniziativa” di questo premio - conclude il Pontefice - “la Facoltà Teologica Pugliese e l’intera Chiesa di Puglia testimoniano la loro fedeltà alla vocazione di essere ponte tra i Cristiani di Oriente e di Occidente”.

Visita del Patriarca in Puglia
Il Patriarca di Costantinopoli è in visita in Puglia dal primo dicembre: a Lecce ha ricevuto la laurea honoris causa in Archeologia. Nella sua lectio magistralis, Bartolomeo ha parlato di solidarietà umana, persecuzioni, migrazioni e cambiamenti climatici. Domani sarà presente alla cerimonia del conferimento del premio a Bari anche mons. Brian Farrell, segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Un premio per chi promuove l'ecumenismo
Il Premio Ecumenico "San Nicola" è un importante riconoscimento che la Facoltà Teologica Pugliese assegna ad eminenti personalità cattoliche ed ortodosse per il servizio reso alla promozione dell'unità dei cristiani. Il Premio è stato promosso nel 1995 per solennizzare il XXV anniversario di fondazione dell'Istituto di Teologia ecumenico-patristica "San Nicola". Consiste in una fedele riproduzione in scala 1/3 in argento e oro della "lampada uniflamma" che arde perennemente dal 1936 presso le reliquie di San Nicola nella cripta della Basilica a lui dedicata. L'opera è stata realizzata dall'orafo barese Felice Caradonna.

Chi è San Nicola di Bari
San Nicola, vissuto tra il III e il IV secolo nell’attuale Turchia, dove fu vescovo di Myra, è venerato sia dalla Chiesa cattolica che dalla Chiesa ortodossa. Secondo la tradizione, durante il Concilio di Nicea (325), sottoscrisse la fede nella divinità di Cristo, confutando con forza l’arianesimo. Si mantenne fermo nel confessare la fede anche durante le violente persecuzioni scatenate dall’imperatore Diocleziano e fu attivissimo non solo nella diffusione del Vangelo ma anche nel sostenere i poveri e assistere i sofferenti. Nel 1087 le spoglie di San Nicola vennero portate a Bari da alcuni marinai.

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Gli scout cattolici italiani in festa per i loro cento anni

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“La scelta dello scautismo è anche una vocazione di vita”, lo afferma il cardinale Gianfranco Ravasi che, a Roma, nella Basilica di San Giorgio al Velabro, ha celebrato la Messa per festeggiare i 100 anni dalla nascita dello scautismo cattolico italiano. Alla cerimonia erano presenti i vertici delle associazioni Agesci, Scout D’Europa e Masci e molti giovani scout che hanno animato questa festa con il canto. Il servizio di Eugenio Murrali

Un modo per crescere insieme, per imparare, per offrire punti di riferimento, questo appare il senso di un sentiero che dura da un secolo. Un percorso storico lungo negli anni, ma anche un tragitto spirituale che si rinnova ogni giorno e che il cardinale Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, sembra riassumere con questa immagine:

“Il nostro cammino tante volte è sotto il sole, è nella luce, nella bellezza della natura e nella serenità dello spirito. Ma tante volte è sotto la pioggia, è sotto un cielo cupo, è nell’interno magari di una foresta nella quale si è smarrita la via. Ed ecco allora l’importanza, attraverso la Parola di Dio, attraverso la coscienza che è la voce di Dio in noi, ritrovare ancora il sentiero”. 

Lo scautismo cattolico festeggia cento anni e sembra non invecchaire mai, ci spiega la presidente dell’associazione Agesci Marilina Laforgia:

"Lo scautismo è un metodo educativo che ha un grande e insuperabile pregio: quello cioè di saper stare nel tempo e per ogni tempo di saper dare risposta ai bisogni più autentici, più profondi dei ragazzi".

Parole che ci conferma la giovane Mara, dell’Associazione Scout d’Europa:

"Nella mia vita è stato fondamentale. E’ un modo per regolare la tua vita, che non trovi da molte altre parti. Ti dà delle regole che non sono però delle regole coercitive, ma che ti senti proprio dentro. Da quanto sei bambino fai un percorso a livello spirituale molto pieno e soprattutto ti forma a livello caratteriale: impari a stare con gli altri, a giocare, a crescere. Cose importanti che purtroppo la società non ti dà più da altre parti".

Sulle difficoltà passate e sulla forza dello scautismo, che si è anche opposto al fascismo, insiste Antonio Zoccoletto, presidente dell’Associazione italiana Scout d’Europa:

"E’ un momento di preghiera per ringraziare il Signore di aver aiutato il Movimento Scout in Italia, di averlo fatto risorgere dopo la guerra. E’ stato un momento importante per ritrovarci anche in unità fra di noi. Lo scautismo oggi ha delle sfide, sfide educative importanti. Però continua ad affascinare tanti ragazzi e tante ragazze con il contatto con la natura, il vivere all’aperto, il rispettare la legge e il vivere da buoni cristiani e da buoni cittadini". 

Per Alessia lo scautismo è qualcosa che resta per sempre nell’animo di chi lo vive:

"Lo scautismo, secondo me, è uno stile di vita: da quando inizi, da piccolino, poi ti accompagna per sempre. Come diciamo noi, 'semel scout, semper scout – una volta scout, sempre scout', perché lo scautismo rimane proprio dentro, inciso nel tuo cuore".

Sonia Mondin, presidente Masci, sottolinea anche la responsabilità di ogni scout, in cui le persone vedono un garante dei valori:

"Continuare ad essere una Chiesa in uscita, come spesso piace dire a Papa Francesco, e quindi continuare ad essere – a prescindere dal ruolo di capo o dal ruolo di adulti scout – persone che presiedono le frontiere: essere uomini e donne che quando passano per strada creano delle attese. Quindi noi portiamo anche questa responsabilità e non vorremmo tradirla nemmeno per i prossimi 100 anni".

Piergiorgio, un ragazzo dell’Agesci, ha scelto lo scautismo proprio per i suoi valori:

"Lo scautismo fa parte delle nostre vite. Ci unisce in quanto ragazzi e ci dà una serie di valori: i valori del vivere insieme e i valori cristiani soprattutto, il valore della fratellanza, dell’aiuto reciproco, del servizio".

E il cardinale Ravasi insiste sulla gratuità e su questo servizio:

"Perdere per trovare è proprio il contrario dell’economia; è il contrario della mentalità del mondo: è ritrovare ancora la gratuità. Nello spirito dello scautismo questo servizio è fondamentale".

Una gratuità e un servizio, conclude il porporato, a volte guardati con sospetto, ma che non bisogna stancarsi di offrire, con la semplice bellezza del donare.  

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Oggi in Primo Piano



Filippine: attentati anti-cattolici, vescovi chiedono più sicurezza

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Torna la paura tra la comunità cattolica di Mindanao, isola delle Filippine meridionali a maggioranza musulmana. Si temono nuovi attacchi terroristici dopo l’attentato di domenica scorsa contro una chiesa, compiuto probabilmente dal nuovo gruppo fondamentalista "Maute", legato allo Stato islamico. I vescovi hanno chiesto al presidente Duterte di garantire la sicurezza dei fedeli, altrimenti potrebbero essere sospese le Messe. Francesco Gnagni ne ha parlato con padre Giovanni Re, missionario del Pime nelle Filippine: 

R. – Quello che è successo davanti a quella chiesa è successo in una zona abbastanza particolare, perché si trova a Mindanao, in una zona di conflitto, e sono ormai parecchi anni che ci sono conflitti in quella zona. Oltre a quell’attentato pochi giorni dopo è stata trovata una bomba fuori dall’ambasciata americana; e poi – oltre a questo – ci sarebbe stato un altro attentato contro un convoglio di militari. Tutte queste cose vengono inquadrate nel conflitto tra il governo e queste forze musulmane, con cui si sta cercando di dialogare oramai da parecchio tempo. Però questi gruppi musulmani sarebbero apparentemente legati all’Is e quindi non sono controllati dai due gruppi musulmani più grandi, con cui il governo sta cercando di dialogare per ottenere la pace.

D. – La lotta al fondamentalismo può essere un terreno comune tra la Chiesa e Duterte?

R. – La Chiesa si è sempre mostrata aperta e in favore del dialogo; e infatti ci sono iniziative di dialogo interreligioso tra cristiani e musulmani. Il problema è che dall’altra parte il dialogo viene interpretato come un qualcosa che non va fatto, perché quello che loro portano avanti è che vogliono uno Stato indipendente islamico.

D. – Lei pensa, quindi, che ci sia anche una matrice religiosa dietro gli attentati?

R. – E’ sempre difficile – secondo me – parlare di un movimento completamente e solo religioso. Sicuramente c’è anche una parte di questo fondamentalismo religioso, ma poi entrano anche tante altre cose. Non è da escludere neanche la storia: qui ormai si parla di decine e decine di anni… Questo conflitto sono più di 50 anni che va avanti tra gruppi di musulmani, cristiani e governo filippino. Mi sembra un po’ semplicistico dire che si tratta solo di una questione religiosa: ci sono tanti altri fattori che entrano…

D. – In sostanza qual è il clima che si respira anche nella comunità cattolica?

R. – Attualmente c’è forse qualche timore in più, anche per il nuovo governo e per il presidente, che durante le interviste a volte – e questo è dovuto anche un po’ al suo carattere – fa delle uscite abbastanza precise e anche un po’ pesanti di minacce, come è capitato ultimamente minacciando coloro che si impegnano per i diritti umani… Però questo nuovo governo ha promesso che cercherà in tutti i modi di portare a conclusione questi accordi, perché secondo anche le parole del nuovo presidente lui non vuole che ci sia guerra, ma vuole che ci sia pace, anche attraverso il dialogo.

D. – Secondo lei, un accordo di pace definitivo e duraturo è possibile?

R. – Diciamo che tutto sarebbe possibile. Io non sono molto ottimista, essendo qui da ormai un po’ di anni: ho visto diversi tentativi di questi dialoghi di pace con i diversi gruppi e quando sembra che finalmente si stia raggiungendo un accordo con un gruppo, improvvisamente emerge un altro gruppo che se ne va per la sua strada e riprende le lotte contro il governo e contro gli altri gruppi che ci sono in giro…

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Pace in Colombia: ex guerriglieri iniziano il disarmo

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Gli ex guerriglieri delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, hanno cominciato le operazioni di disarmo e si aspettano ora la liberazione anticipata dei loro compagni catturati dall'esercito regolare. E’ quanto annunciato da un capo del movimento di stampo marxista all’indomani dell’entrata in vigore del cosiddetto accordo di pace bis, approvato lo scorso giovedì dal parlamento colombiano dopo mezzo secolo di guerra civile. Il 2 ottobre scorso il popolo aveva bocciato la prima intesa siglata tra governo e ribelli. Ma quali sono le prossime tappe previste dall’accordo? Marco Guerra lo  ha chiesto a Gianni La Bella, docente di Storia Contemporanea all'Università di Modena e Reggio Emilia, che per conto della Comunità di Sant’Egidio ha seguito il processo di pace in Colombia: 

R. – È molto importante sottolineare che questo “accordo bis”, come è stato definito dalla stampa, rappresenta un po’ – potremmo dire – l’inizio di un trattato di fiducia, di una nuova storia delle relazioni della vita colombiana. L’implementazione di questo accordo ha un calendario definito nei minimi particolari e che dovrà essere attuato concretamente. Il primo problema sarà individuare le zone dove gli ex guerriglieri saranno momentaneamente invitati a risiedere. Queste zone dovranno essere individuate, allestite, quindi con luoghi dove sarà possibile vivere e studiare: vivere una vita normale e non più nella giungla. Questo secondo passo comporterà conseguentemente una sorta di demolizione degli armamenti più importanti – i cannoni, le mine, ecc. – per arrivare progressivamente ad una smilitarizzazione diffusa e definitiva.

D. – Dal canto suo, la guerriglia delle Farc chiede già la liberazione di ribelli: quando avverrà questo, come saranno reinseriti nella società questi miliziani che hanno lottato per decenni?

R. – Anche questo è un procedimento in itinere. Cioè qui bisogna intendere molto bene che l’accordo di pace stabilisce un percorso - potremmo dire - “ideale” che dovrà trovare la sua implementazione concreta. A seconda dei reati commessi, alcune di queste persone torneranno in libertà. Qui c’è un discrimine che dovrà successivamente affrontare il famoso Tribunale della pace, che verrà costituito questa volta, a differenza del primo accordo, con la partecipazione di soli giudici colombiani, e dovrà decidere il livello di responsabilità dei singoli guerriglieri. Ora, bisogna tener presente che tutto questo deve trovare la “materialità” dove potersi realizzare: bisogna istituire luoghi – il Tribunale speciale – bisogna fare delle liste complete dei guerriglieri; identificare le persone con nome e cognome, perché molte di queste hanno avuto finora dei nomi di battaglia e quindi non si conoscono le identità; e così via. È un processo molto complesso dal punto di vista pratico, che coinvolge migliaia di persone in tutto il Paese.

D. – La Chiesa sta animando in questi giorni laboratori in vari punti del Paese promossi dalla Commissione di conciliazione nazionale…

R. – Sì, l’impegno della Chiesa a questo livello è molto importante e – oserei dire – in certe situazioni determinante. La Chiesa, proprio per il suo radicamento nel territorio, può svolgere una funzione unica, che è quella di riconciliare a livello locale, nei posti più sperduti, sulle montagne, le persone che si sono, per oltre 50 anni, affrontate, confrontate tra di loro: quindi contadini, guerriglieri. Qui si tratta di fare, attraverso le parrocchie, le istituzioni della Chiesa cattolica, un’opera concreta, quotidiana, minuziosa, di riconciliazione: aiutare le persone a ritrovare una dinamica della vita quotidiana, a trovare le parole per questa riconciliazione; superare ogni forma di rancore e di odio; identificare le persone che alle volte sono rimaste coinvolte in questo conflitto e non si sa dove siano sepolte ecc. C’è un lavoro di base importantissimo che deve costituire un po’ l’architrave, il fondamento, che poi sorreggerà l’accordo in tutto il Paese. Proprio il valore della misericordia, e soprattutto la fiducia enorme di cui gode la Chiesa in questo Paese, assegna appunto alla Chiesa cattolica il compito in un certo senso unico, che nessun’altra istituzione della società civile può fare.

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Uzbekistan al voto per eleggere il successore di Karimov

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Uzbekistan questa domenica al voto per le elezioni presidenziali. Per l’ex Repubblica sovietica, indipendente dal 1991, si tratta delle prime consultazioni elettorali dopo la morte di Islam Karimov che ha governato ininterrottamente il Paese per 25 anni. Per la prima volta le opposizioni hanno avuto uno spazio pubblico per la campagna elettorale, anche se il favorito rimane l’attuale presidente ad interim, delfino di Karimov. Il servizio di Michele Raviart

Situato tra le steppe kazake e le alte montagne del Pamir, l’Uzbekistan è il più ricco e popoloso Stato dell’Asia centrale. Ventisette milioni di persone, in grande maggioranza musulmani, in un territorio che comprende le antiche città carovaniere di Samarcanda e Bukhara. Sfruttato dall’impero zarista prima e dal regime sovietico poi per le sue risorse idriche e per il gas, l’Uzbekistan ha raggiunto un’improvvisa indipendenza dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Come gli altri Paesi della Regione ha mantenuto intatto il sistema politico sovietico tanto che il segretario generale del partito comunista uzbeko del 1991, Islam Karimov, ha governato in modo autoritario il Paese fino alla sua morte, vincendo quattro elezioni con consensi sempre superiori al 90%. Ora per la prima volta le opposizioni hanno avuto una visibilità elettorale, anche se il dibattito pubblico è stato dominato dall’erede politico di Karimov, come spiega Fulvio Scaglione, esperto di politica internazionale:

R. – Come spesso accade in questi Paesi, quelli dell’Asia centrale sicuramente, queste elezioni sono teoricamente democratiche ma in realtà a candidato unico che, nel caso dell’Uzbekistan, è l'ex primo ministro Shavkat Mirziyaev che ha gestito la transizione dopo la morte di Karimov come presidente ad interim anche se in realtà questa gestione sarebbe toccata al presidente del Senato, il quale si è ritirato proprio per favorirlo. Quindi tutto fa pensare che, essendo appunto Mirziyaev ex primo ministro e ex primo collaboratore di Karimov, questa elezione di fatto a candidato unico si svolga nel segno della continuità di quanto è stata la gestione di Karimov. Questo in apparenza. Nella realtà sono possibili anche novità nella continuità. Mirziyaev in questo periodo di transizione ha cominciato a fare qualche piccola modifica, qualche apertura ai cittadini. Si è molto concentrato sulla politica interna, soprattutto sull’economia; ha abbastanza trascurato il fronte esterno, dove tra l’altro promette di conservare il rapporto privilegiato e strategico che ha con la Russia di Vladimir Putin che, da parte sua, fu il primo leader ad andare ad onorare la salma di Karimov.

D. - L’Uzbekistan da una parte ha sempre subìto l’influenza della Russia, dall’altra ha sempre cercato di emanciparsi e guidare le altre Repubbliche centroasiatiche verso una maggiore autonomia da Mosca. Cosa può cambiare per il Paese?

R. – Credo che quest’altalena tra realtà e desiderio, tra necessità ed ambizione, continuerà perché comunque tutti questi Paesi dell’Asia Centrale hanno in qualche modo bisogno di aver un punto di riferimento e, dal punto di vista proprio pratico, geografico, concreto, sono in qualche modo stretti in uno spazio dove i confini sono dettati da veri giganti: la Russia da un lato, la Cina dall’altro, la Turchia … Quindi questa necessità di realismo continuerà a permeare la politica di questi Paesi e anche la politica dell’Uzbekistan, il quale tra l’altro ha le forze per difendere alcune istanze proprie. Tutto questo dipenderà molto dal corso che Mirziyaev – se diventerà presidente – darà alla propria politica. Credo che in questo spazio non si tratti di esser sottomessi a Mosca ma di riconoscere che il legame con Mosca è tuttora centrale nell’ambito della politica estera. All’interno di questo riconoscimento poi ci potranno essere degli spazi di manovra anche relativamente ampi. Ho la sensazione che l’Uzbekistan non si appresti a capovolgere le proprie priorità di relazioni estere da un momento all’altro.

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Riapre dopo il terremoto la Basilica di Santa Rita a Cascia

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Riapre a Cascia la Basilica di Santa Rita al termine dei lavori di consolidamento eseguiti dopo il recente terremoto che ha colpito il Centro Italia. A presiedere il rito nel pomeriggio, l’arcivescovo di Spoleto-Norcia Renato Boccardo. Su questo importante evento, ascoltiamo padre Bernardino Piciaroli, rettore della Basilica di Santa Rita di Cascia, intervistato da Federico Piana:

R. – Dopo il terremoto – e in modo particolare quello del 30 ottobre – sia la Basilica che il Monastero erano stati chiusi per precauzione a causa dei danni che ci sono stati. Dopo l’intervento dei Vigili del Fuoco, che hanno messo in sicurezza alcune parti della Basilica, possiamo oggi riprendere un’attività, almeno un minimo di attività. Quindi possiamo riaprire: riaprire per una celebrazione di saluto e in modo particolare riaprire l’accesso all’urna. Questo era quello che attendavamo, quello che speriamo che il Signore ci conservi e che il terremoto, a questo punto, si sia tranquillizzato in questa nostra terra.

D. – Con che spirito si riapre la Basilica di Santa Rita?

R. – Anzitutto nello spirito di ringraziamento al Signore, perché ci ha preservato da situazioni gravi, gravissime. Non ci sono stati morti né a Cascia né nei dintorni. Molte, molte abitazioni dei casciani sono ridotte male … In modo particolare noi abbiamo avuto la grazia di riavere la nostra Basilica.

D. – La popolazione è ovviamente ancora preoccupata ed impaurita, come la si può aiutare anche dal punto di vista morale e spirituale?

R. - Innanzitutto la popolazione è ancora nella paura, è stordita e anche segnata dalla inagibilità delle case: molti vivono ancora nelle roulotte, in qualche tenda e molti sono stati alloggiati in strutture e in alberghi, che è quello che abbiamo fatto anche noi mettendo a disposizione una casa per gli esercizi, in cui possono essere in qualche modo aiutati a vivere, dove possono dormire e mangiare. L’aiuto che si può ancora dare – e specialmente guardando al futuro – è sicuramente questo essere presenti nelle necessità che ci saranno, perché la ripresa del lavoro, la ripresa degli esercizi commerciali sarà lunga, sarà difficile. Questa è sicuramente la prima cosa che io vedo: aiutare come ognuno potrà. E anche con qualche segnale di intervento presso le istituzioni civili e presso il governo, perché siano veramente più presenti nel cercare di risolvere i problemi delle persone.

D. – La riapertura della Basilica è un segno molto importante …

R. – Questo è un aspetto molto importante: riaprire una chiesa, dare la possibilità di ritornare a pregare Santa Rita è anche ritornare alla consolazione che viene dalla grazia, che viene dal Signore, che viene dallo Spirito. Guardare da vicino la figura di questa donna sicuramente aiuterà molte famiglie a riprendere speranza e a riprendere in qualche modo anche quel flusso costante di pellegrinaggi. E’ aprire il cuore e la mente a una speranza nonostante tutto, nonostante i terremoti e nonostante le difficoltà, perché non mancheranno – non mancheranno! – i piccoli tasselli per le scuole, per la gestione della vita degli anziani, dei malati: queste difficoltà si affronteranno sicuramente con aiuti materiali, ma ci sarà bisogno anche di un aiuto interiore, di un aiuto spirituale. E’ per questo che io sono veramente contento: è per questo che ho desiderato che fosse riaperta l’urna ed è per questo che sto insistendo con gli abitanti di Cascia nel dire: “Coraggio! Dobbiamo ringraziare il Signore e dobbiamo forse essere un pochino più presenti nelle realtà dello Spirito, nelle realtà di Dio”. 

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Festival della famiglia: le istituzioni non lascino soli i giovani

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“Attuare la Carta della Famiglia che attraverso sconti su beni e servizi possa dare una mano a tutti i nuclei e incoraggiare i giovani a formare una propria famiglia”. Con questo invito rivolto al ministro del Lavoro da parte delle Associazioni famigliari si è concluso ieri a Trento il Festival della famiglia, che per questa edizione ha avuto come filo conduttore il tema della denatalità e dei giovani. Il servizio di Marina Tomarro

I giovani devono reinventarsi, fare esperienze che mettano alla prova sul serio, uscire dalla zona di comfort, ma le istituzioni devono provare ad ascoltarli con attenzione, aiutandoli a realizzare i loro sogni. Con questa riflessione si è concluso il Festival della famiglia, che per questa edizione ha avuto protagonisti i giovani e il loro futuro. Tante le storie di chi non ha avuto paura di mettersi in gioco come i partecipanti al concorso "Strike", storie di giovani che cambiano le cose, di cui sono stati presentati i dieci migliori candidati. Tra loro anche Andrea Morandi, un giovane bresciano con la passione per gli ortaggi biologici e la bicicletta che ha creato il progetto "Ortociclo". Ascoltiamo il suo racconto:

R.- Nasce innanzitutto da una mia passione personale, che è quella per il buon cibo locale, stagionale e possibilmente biologico e naturale. E con la mancanza di un servizio di cui Brescia centro ne aveva necessità: la reperibilità di prodotti di questo tipo, quindi vegetali freschi, frutta e verdura principalmente, che arrivano da aziende agricole locali. Io mi occupo della distribuzione e quindi di facilitare questo incontro fra i piccoli produttori agricoli e i cittadini, con consegna a domicilio, tramite ordini che mi vengono fatti su un sito Internet, che è una piattaforma. Io prendo questi ordini e consegno due giorni a settimana, martedì e venerdì, al domicilio delle persone: arrivo sotto casa con questa bicicletta e consegno la borsa di prodotti freschi.

D. – Il tuo esempio quanto può essere utile anche ad incoraggiare i tuoi coetanei?

R. – Potrebbe essere utile – come dico sempre – nel senso che questo è un modello che si può sviluppare in qualsiasi altro posto ed è un modello sviluppabile da gente del territorio. Quindi io non posso andare in un altro territorio e ricominciare questa attività: da parte mia lo posso fare solamente a Brescia, perché conosco il territorio, i produttori e conosco quello che cresce nella zona. E’ replicabile in maniera abbastanza semplice, non con un grande investimento: e questa quindi potrebbe essere una bella idea, un bell’incoraggiamento.

D. – Il sostegno delle istituzioni quanto è importante in questo caso?

R. – E’ importante nel senso che – secondo me – bisognerebbe creare dei percorsi di aiuto, segnando un po’ la traccia, il percorso di quello che bisogna fare per aprire una nuova attività, gli aiuti che ci sono, i bandi, i concorsi – ad esempio – aperti in quel periodo… Questo potrebbe essere un buon aiuto, si!

Tra i ragazzi c’è stato chi, come Martina Dei Cas, dopo aver partecipato ad un progetto di volontariato internazionale in Nicaragua, una volta tornata in Italia ha deciso di fare qualcosa di concreto per aiutare la scolarizzazione di quelle popolazioni. Ascoltiamo la sua testimonianza:

R. – Questa idea nasce nel 2011 dopo un mio viaggio ed una esperienza di volontariato internazionale in Centroamerica, di fronte alle tante difficoltà che il popolo nicaraguense deve affrontare, anche con la sua grande dignità; siccome a me piace scrivere, ho pensato di dedicare i diritti di autore dei miei due romanzi “Cacao amaro” e “Il quaderno del destino” ad una fornitura di materiali didattici per i bambini e i ragazzi del Nicaragua rurale e questo proprio perché possano continuare a studiare e a lottare per realizzare i loro sogni.

D. – In questo Festival i giovani sono protagonisti. Ma quanto è importante l’aiuto delle istituzioni, affinché i ragazzi continuino a sognare?

R. – E’ fondamentale! Io credo che le famiglie, le istituzioni, debbano puntare tanto sulla cultura: ad investire in istruzione non si sbaglia mai! Certo i risultati non si vedranno domani o nell’immediato, ma fra dieci anni di sicuro ci saranno e saranno positivi.

Durante il Festival si è posta anche l’attenzione alla difficile conciliazione tra lavoro e famiglia, soprattutto per le donne costrette a volte a scegliere di lasciare il posto. La Provincia Autonoma di Trento, per andare incontro a queste esigenze, ha introdotto il telelavoro, che oggi  vede coinvolti 400 impiegati della provincia. Ascoltiamo il commento di Stella Giampietro, responsabile del servizio per il personale:

R. – Il telelavoro, nella materia conciliazione vita-lavoro, che è prettamente femminile, perché – non nascondiamocelo – le esigenze di cura gravano fondamentalmente sulla donna, è importantissimo! Abbiamo visto che da questa esperienza di telelavoro, che è ormai una misura organizzativa strutturata, il personale femminile ci ha guadagnato: è riemerso, perché con il telelavoro riesce sicuramente a conciliare molto meglio le esigenze familiari, anche le esigenze personali e di badare un po’ a se stessi, con le esigenze primarie che sono quelle di lavoro. Ma quella che ritengono essere stata la conquista più importante in Provincia autonoma di Trento è che il personale femminile, che notoriamente ha sempre chiesto il part-time per dedicarsi alle esigenze di cura, ha chiesto in molti casi un aumento dell’orario di lavoro e quindi si è passati dalle 18 alle 24 ore, dalle 24 alle 30 ore; e in altri casi anche al rientro a tempo pieno. Quindi una realizzazione sul lavoro, una realizzazione in famiglia; gente soddisfatta, molto soddisfatta; e dei responsabili di struttura che sono soddisfatti, perché da indagini che abbiamo fatto presso i dirigenti delle strutture è emerso in molti casi che l’attività non è variata e quindi abbiamo lo stesso livello di produttività; in un 25 per cento di casi, un incremento della produttività.

Grande, dunque, l’attenzione del Trentino verso i bisogni  della famiglia. Ascoltiamo il commento del presidente della Provincia autonoma Ugo Rossi:

R. – Il Trentino cerca di utilizzare al meglio le sue competenze e lo fa cercando di valorizzare il ruolo soprattutto dell’associazionismo familiare che, ben prima dell’azione dei decisori politici, si è messo in moto per dare risposte ai bisogni delle famiglie. Abbiamo cercato di accompagnare tutto questo e, utilizzando la possibilità della leva fiscale sul nostro territorio, abbiamo introdotto detrazioni all’addizionale Irpef sui figli, tariffe agevolate sugli asili nido, ma certamente anche noi dovremmo alzare gli obiettivi e dare – per esempio – maggiore copertura alla risposta degli asili nido rispetto al totale dei bambini che nascono nella nostra Provincia: siamo oggi intorno al 35-36 per cento e i Paesi europei più avanzati sono intorno all’80 per cento. Quindi anche noi abbiamo un bel cammino da fare…

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D'Avenia: la poesia di Leopardi per riscoprire l'amore nella vita

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E’ nelle librerie l’ultima opera di Alessandro D'Avenia: “L'arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”, edizioni Mondadori. Lo scrittore siciliano, 39 anni, docente di latino e greco al liceo classico, attraverso le parole del poeta di Recanati, dialoga con i suoi lettori percorrendo le tre stagioni della vita: le inquietudini dell'adolescente, le prove della maturità e la conquista della fedeltà a se stessi attraverso l'accettazione dei limiti. Già insignito del Premio Internazionale Padre Pino Puglisi per l'impegno mostrato a favore dei giovani, D’Avenia compie un viaggio esistenziale che sollecita ognuno a trovare il senso profondo della vita, proprio come ha cercato di fare il celebre Giacomo. Ma come vedere nelle parole di Leopardi una chiave di salvezza, quando generalmente è noto come il poeta del pessimismo per eccellenza? Adriana Masotti lo ha chiesto allo stesso D'Avenia: 

R. – La parola “salvezza” può sembrare una parola fuori posto nel sottotitolo di questo libro, ma io sono convinto di un fatto: che ogni uomo, in particolare poi chi ha a che fare con le parole, debba fare i conti con questo tema e cioè come si fa a salvare la vita umana dal continuo cadere della stessa e da  tutto ciò che è collegato alla morte, perché quella sarà la caduta definitiva. E Leopardi – secondo me – è stato uno straordinario combattente per cercare di strappare una soluzione a questo problema della salvezza con i mezzi esclusivamente umani, perché sappiamo bene che il suo rapporto con il trascendente è stato un rapporto burrascoso, e che a un certo punto ha addirittura escluso la possibilità di una salvezza trascendente. E allora è stato capace di arrivare alle terre estreme per dare un senso alla vita di tutti i giorni e non sprofondare nell’abisso del nulla. Questo è il combattimento non di un pessimista, ma di un grande predatore di felicità. Sul discorso del pessimismo, io cerco di svincolare Leopardi da questa categoria, che rischia di diventare una categoria esclusivamente psicologica, e di ascriverlo ad una categoria più grande e più profonda, che è quella della malinconia, perché la malinconia è la reliquia dell’Assoluto che c’è nel nostro cuore: è quel chiudersi nella nostra stanza la sera e rendersi conto che qualche cosa non è andato come desideravamo che ci fa pensare che siamo fatti per una felicità che ci sfugge sempre. Ecco, Leopardi con questa malinconia fece i conti tutta la vita: non la disprezzò, ma la raccontò.

D. – Un viaggio, quello che si sviluppa nel suo libro, che vede tre tappe principali: l’adolescenza, la maturità e la riparazione…

R. – Leopardi fu costretto a vivere i suoi 39 anni accelerando la vita interiore: in 39 anni visse tutte le tappe dell’esistenza umana, più rapidamente. L’adolescenza in Leopardi è questo fuoco che io definisco “arte di sperare”, perché lui stesso la definisce così: un fuoco che deriva dal rapimento, dall’aver colto qual è la vocazione principale che c’è nella vita dell’uomo – per lui la vocazione poetica – e cercare di assecondare questa chiamata, questo rapimento.  La seconda età è la maturità o “arte di morire”: Leopardi si dovette confrontare con un mondo e con una vita di tutti i giorni che resisteva selvaggiamente al tentativo di strappare, appunto, la felicità all’esistenza. Ma non si diede per vinto e quindi dall’incanto adolescenziale, passando dal disincanto della maturità, approdò all’ ”età del canto”, che è l’età della riparazione o “arte di essere fragili”. Consiste, quindi, nel tentativo di tenere insieme ciò che nella vita continuamente decade e cercare di trovare in essa quella poesia, quell’elemento di eternità che salva ciò che invece sembra destinato solo alla morte.

D. – Penso che il libro sia diretto a qualunque tipo di lettore, in qualunque fase si trovi. Certamente per un genitore può essere illuminante…

R. – Chiaramente per me l’osservatorio privilegiato è quello dei ragazzi con cui ho a che fare tutti i giorni e di rimbalzo, quindi, provare a dire qualcosa anche a chi – come me – è chiamato a confrontarsi con i ragazzi o chiunque sia un educatore a titolo diverso, per provare ad avere degli strumenti per leggere questo nostro tempo, in cui sembra essere diventato difficilissimo educare.

D. – Di solito si pensa che l’adolescenza sia l’età più dura - si dice” ingrata” – e invece proprio quando si comincia a crescere e a vedere che le speranze vengono ridotte, quello è un momento difficile....  è oggi, forse, è proprio questo che i giovani vivono quando non c’è lavoro, non si riesce a realizzare una famiglia ecc...

R. – Sì ed è per questo che noi dobbiamo rafforzare, da un punto di vista educativo, in questo nostro tempo, l’elemento vocazionale della vita di questi ragazzi, perché solo un uomo e una donna che si sanno chiamati ad occupare un posto nel mondo, possono trovare in se stessi e non solo se è tutto pronto, le risorse per affrontare le difficoltà che ci saranno. Quello che io vedo è che, invece, stiamo defraudando questi ragazzi della loro vita interiore.

D. – Importante poi è l’amore, da tante pagine del libro appare così….

R. – Sì. C’è questo passaggio fortissimo di una delle lettere di Leopardi, in cui lui – dopo che la vita veramente lo ha scorticato – dice: “Io non ho bisogno né di gloria né di stima: l’unica cosa di cui ho bisogno è l’amore”. E questa è una frase che tutti possiamo sottoscrivere…

D – Quale messaggio vuole lanciare al lettore del suo libro?

R. – Il messaggio che ci ha lanciato Leopardi: Leopardi chiude tutto il suo percorso interiore con l’immagine della ginestra, il fiore del deserto. Quindi ci vuole dire che siamo chiamati a consolare – come dice lui – a profumare e a migliorare il deserto, fiorendo; e non possiamo prendere il deserto come alibi per non fiorire, ma prendere nel deserto proprio l’occasione, addirittura il nutrimento, per fare qualcosa di bello al mondo. E questo è qualcosa su cui possiamo ritrovarci tutti, credenti e non credenti.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 339

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