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Sommario del 02/06/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa ai sacerdoti: siate "eccesso" di misericordia per tutti

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La misericordia di Dio fa passare immediatamente “dalla distanza alla festa”, dalla “vergogna” per le proprie miserie alla “dignità” cui innalza il perdono di Dio, come fa il padre della parabola col figlio prodigo. A una misericordia sempre in “azione” Papa Francesco ha esortato presbiteri e seminaristi con la prima intensa meditazione, che ha aperto la giornata del Giubileo dei sacerdoti, tenuta nella Basilica di San Giovanni in Laterano. La sintesi della riflessione del Papa nel servizio di Alessandro De Carolis

A capo chino, nel “porcile” in cui l’ha piombato il proprio egoismo, a provare “invidia” per i maiali che mangiano ghiande e, insieme, “nostalgia” per il pane che invece i servi di suo padre mangiano ogni giorno.

Dalla distanza alla festa
Papa Francesco entra con un acume che commuove nel groviglio del pentimento che agita il figlio prodigo per far risaltare in modo tangibile l’“eccesso” della misericordia di Dio, di più: “l’inaudito straripamento” del perdono che il Padre ha per il più misero dei suoi figli per cui, ecco “l’esagerazione”…

“…possiamo passare senza preamboli dalla distanza alla festa, come nella parabola del figlio prodigo, e utilizzare come ricettacolo della misericordia il nostro stesso peccato. Ripeto questo, che è la chiave della prima meditazione: utilizzare come ricettacolo della misericordia il nostro stesso peccato”.

I confessori che bastonano
Tutta la lunga, profonda meditazione di Francesco si dipana tra due estremi: tra la “vergogna” del proprio peccato, che rende umili e apre il cuore a una vita nuova, e la “dignità” che sempre Dio conferisce col suo perdono mai negato all’uomo, visto come il figlio “prediletto” della parabola:

“Permettetemi, ma io penso qui a quei confessori impazienti, che bastonano i penitenti, che li rimproverano… Ma così ti tratterà Dio, eh! Così! Almeno per questo, non fate queste cose…”.

Tra vergogna e dignità
Ma quella del Papa, come dice mutuandolo dallo spagnolo”, è anche una riflessione giocata tra il “misericordiare” e “l’essere misericordiato”, cioè tra la misericordia ricevuta e quella donata agli altri perché, dice e ripete Francesco, se “niente unisce maggiormente con Dio che un atto di misericordia”, la misericordia stessa la si contempla davvero quando è “in azione”, quando il cuore arriva a “provare compassione per chi soffre, commuoversi per chi ha bisogno, indignarsi”. Quando si avverte “il rivoltarsi delle viscere” di fronte a una ingiustizia evidente, che sprona a “porsi immediatamente a fare qualcosa di concreto” con lo stile di tenerezza di Gesù. L’importante, sottolinea il Papa con intensità, è fare come il figlio prodigo e porsi davanti a Dio con la consapevolezza di essere in uno stato di “vergognata dignità”:

“Cosa sentiamo quando la gente ci bacia la mano e guardiamo la nostra miseria più intima e siamo onorati dal Popolo di Dio? E lì è un’altra situazione per capire questo, no? Sempre la contraddizione. Dobbiamo situarci qui, nello spazio in cui convivono la nostra miseria più vergognosa e la nostra dignità più alta. Lo stesso spazio. Sporchi, impuri, meschini, vanitosi – è peccato di preti, la vanità – egoisti e, nello stesso tempo, con i piedi lavati, chiamati ed eletti, intenti a distribuire i pani moltiplicati, benedetti dalla nostra gente, amati e curati”.

La misericordia è un atto libero
Francesco parla ai sacerdoti e ai seminaristi, ma tutto ciò che afferma suona universale per ogni singolo cristiano. Anche quando il Papa rileva che “la misericordia è questione di libertà”, che il “mantenerla nasce da una decisione libera”:

“La misericordia si accetta e si coltiva o si rifiuta liberamente. Se uno si lascia prendere, un gesto tira l’altro. Se uno passa oltre, il cuore si raffredda. La misericordia ci fa sperimentare la nostra libertà ed è lì dove possiamo sperimentare la libertà di Dio, che è misericordioso con chi è misericordioso, come disse a Mosè. Nella sua misericordia il Signore esprime la sua libertà. E noi la nostra”.

Sporcarsi le mani
“Possiamo vivere molto tempo ‘senza’ la misericordia del Signore”, ma essa – assicura Francesco – non agisce davvero in un’anima se non si arriva a “toccare il fondo” di quella “miseria morale” che annida in ognuno e dunque a desiderare e a sperimentare il perdono di Dio:

“Il cuore che Dio unisce a questa nostra miseria morale è il Cuore di Cristo, suo Figlio amato, che batte come un solo cuore con quello del Padre e dello Spirito. È un cuore che sceglie la strada più vicina e che lo impegna. Questo è proprio della misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non “si occupa di un caso” - non si occupa di un caso - ma si impegna con una persona, con la sua ferita”.

Nessuna ingenuità, molta speranza
Qui, il Papa critica il “clericalismo” che induce a ridurre una persona con le sue sofferenze a un “caso”. Così, nota Francesco con ironia, “mi distacco e non mi tocca. E così non mi sporco le mani… E così faccio una pastorale pulita, elegante…. dove non rischio  niente”. Non rischio neanche, soggiunge a mo’ di provocazione, “un peccato vergognoso”. Ma così, prosegue, non è possibile capire come la misericordia vada “oltre la giustizia", come restituisca “dignità” elevando “colui verso il quale ci si abbassa”. Inoltre, sostiene Francesco, la misericordia, pur vedendo il male in modo oggettivo, gli “toglie il potere sul futuro”:

“Non è che non veda il male, ma guarda a quanto è breve la vita e a tutto il bene che rimane da fare. Per questo bisogna perdonare totalmente, perché l’altro guardi in avanti e non perda tempo nel colpevolizzarsi e nel compatire sé stesso e i motivi del suo errore e rimpiangere ciò che ha perduto. Mentre ci si avvia a curare gli altri, si farà anche il proprio esame di coscienza e, nella misura in cui si aiutano gli altri, si riparerà al male commesso. La misericordia è fondamentalmente speranzosa. E’ madre di speranza”.

Eccessi di misericordia
Francesco termina citando i tanti “eccessi della misericordia” del Vangelo – il paralitico calato da un tetto, il lebbroso guarito che lascia i nove per tornare a inginocchiarsi davanti a Gesù, il cieco Bartimeo che vince, dice, “la dogana dei preti” per farsi sentire da Cristo, la donna emorroissa che “si ingegna” pur di toccarne il mantello e quella peccatrice che gli asciuga i piedi con i capelli – e ne trae questa conclusione:

“Sempre la misericordia è esagera, è eccessiva! Le persone più semplici, i peccatori, gli ammalati, gli indemoniati… sono immediatamente innalzati dal Signore, che li fa passare dall’esclusione alla piena inclusione, dalla distanza alla festa. E questo non si comprende se non è in chiave di speranza, in chiave apostolica e in chiave di chi ha ricevuto misericordia per dare a sua volta misericordia”.

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Papa: la misericordia non è photoshop, rinnova davvero il cuore

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“Il ricettacolo della misericordia” è stato il tema della seconda meditazione tenuta da Francesco ai sacerdoti, nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Qui, in questo luogo mariano per antonomasia, il Pontefice ha messo l’accento sull’esempio della Vergine, vero e proprio “recipiente e fonte di misericordia”. Dal Papa l’invito ai sacerdoti a guardare alla gente attraverso gli occhi di Maria. La misericordia, ha soggiunto, “non ci fa il photoshop”, ci dona un cuore nuovo “non rattoppato”. Il servizio di Alessandro Gisotti

“Il ricettacolo della Misericordia è il nostro peccato”. Muove da qui la seconda meditazione di Francesco per il Giubileo dei Sacerdoti, illuminata dallo sguardo della Vergine, nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Subito il Papa ribadisce che Dio “non è pelagiano”, Dio non si stanca di perdonare “anche quando vede che la sua grazia sembra non riuscire a mettere forti radici nella terra del nostro cuore”. Non solo. Dio, infatti, “rinnova anche l’otre nel quale riceviamo il suo perdono”. Utilizza dunque “un otre nuovo per il vino nuovo della sua misericordia”.

Per donare la misericordia bisogna saperla accogliere
“Il cuore che ha ricevuto misericordia – annota così Francesco – non è un cuore rattoppato ma un cuore nuovo, ri-creato”. Questo cuore “ri-creato”, osserva, “è un buon recipiente”. E’ un cuore, soggiunge, che “sa di essere ricreato grazie alla fusione della sua miseria con il perdono di Dio e per questo ‘è un cuore che ha ricevuto misericordia e dona misericordia’”. Non a caso, è la sua riflessione, nessuno è migliore nell’esercizio della misericordia di colui che “mantiene viva l’esperienza di essere stato” egli stesso “oggetto di misericordia”:

“Vediamo che, tra coloro che lavorano per combattere le dipendenze, coloro che si sono riscattati sono di solito quelli che meglio comprendono, aiutano e sanno chiedere agli altri. E il miglior confessore è di solito quello che si confessa meglio. E possiamo farci la domanda: come mi confesso io? Quasi tutti i grandi Santi sono stati grandi peccatori o, come santa Teresina, erano consapevoli che era pura grazia preveniente il fatto di non esserlo stati”.

"Il vero recipiente della misericordia”, dunque, “è la stessa misericordia che ciascuno ha ricevuto e gli ha ricreato il cuore, quello è l’otre nuovo di cui parla Gesù, il pozzo risanato”. Il ricettacolo della misericordia, precisa, lo troviamo “nelle piaghe del Signore risorto”, piaghe “che rimangono adesso, le ha portate con sé”. Papa Francesco ha così rivolto lo sguardo ad alcuni Santi che “si sono lasciati ricreare il cuore dalla misericordia”, osservando proprio in “quale ricettacolo l’hanno ricevuta”. San Paolo per esempio, osserva, “la riceve nel duro e inflessibile ricettacolo del suo giudizio modellato dalla Legge”. Diventa così un “cercatore dei più lontani” e al tempo stesso è “il più comprensivo e misericordioso vero quelli che erano come lui era stato”. I giudizi dell’Apostolo Paolo diventano sì radicali, ma ora “sulla misericordia incondizionata di Dio”.

Per ricevere la misericordia, Pietro si mette in basso anche sulla Croce
Pietro, prosegue il suo 265.mo Successore, riceve invece la misericordia “nella sua presunzione di uomo assennato”. E così proprio Pietro “è il discepolo che il Signore nel Vangelo corregge di più”. “E’ il più bastonato”, scherza Francesco:

“Il segno di Pietro crocifisso a testa in giù è forse il più eloquente di questo ricettacolo di una testa dura che, per poter ricevere misericordia, si mette in basso anche mentre offre la suprema testimonianza di amore al suo Signore. Pietro non vuole concludere la sua vita dicendo: ‘Ho imparato la lezione’, ma dicendo: ‘Poiché la mia testa non imparerà mai, la metto in basso’. Più in alto di tutto, i piedi lavati dal Signore. Quei piedi sono per Pietro il ricettacolo attraverso il quale riceve la misericordia del suo Amico e Signore”.

San Giovanni, rileva, “sarà guarito nella sua superbia di voler riparare al male col fuoco”, Sant’Agostino “nella sua nostalgia di essere arrivato tardi all’appuntamento” con il Signore. San Francesco, sottolinea, riceve forse il ricettacolo definitivo quando deve “custodire in misericordioso silenzio l’Ordine che aveva fondato”. Sant’Ignazio di Loyola, riprende, “venne guarito nella sua vanità”, mentre il ricettacolo del Cura Brochero - che “sognava di morire galoppando” nella Pampa argentina - “finì per essere il suo stesso corpo lebbroso”. Francesco cita poi il Diario di un curato di campagna di Bernanos, testo a lui molto caro, laddove si narrano gli intimi pensieri del curato negli ultimi momenti della sua vita da cui si coglie che nelle “minuscole gioie della nostra vita pastorale” possiamo “ricevere ed esercitare la misericordia infinita del Padre in piccoli gesti”.

Maria insegna ai sacerdoti a guardare con amore la sua gente
Salendo idealmente la scala dei Santi, Francesco è arrivato alla Madonna “recipiente semplice e perfetto della Misericordia”. Il suo “sì libero alla grazia – rileva – è l’immagine opposta rispetto al peccato che condusse il figlio prodigo verso il nulla”. Ella, riprende, “custodisce la memoria e la promessa dell’infinita misericordia di Dio verso il suo popolo”. Il Papa propone dunque ai sacerdoti alcuni “modi” che ha la Madonna di “guardare”, aggiungendo che “attraverso di noi vuole guardare la sua gente”. Lo spazio degli occhi di Maria, evidenzia, “è quello di un grembo, non quello di un tribunale o di un consultorio professionale”:

“Se qualche volta notate che si è indurito il vostro sguardo, per il lavoro, un po’ per la stanchezza… succede a tutti, che si è indurito il vostro sguardo, che quando avvicinate la gente provate fastidio o non provate nulla, fermatevi e guardate di nuovo a Lei! Guardatela con gli occhi dei più piccoli, dei più piccoli della vostra gente, che mendicano un grembo, ed Ella vi purificherà lo sguardo da ogni ‘cataratta’ che non lascia vedere Cristo nelle anime, lo guarirà da ogni miopia che rende fastidiosi i bisogni della gente, che sono quelli del Signore incarnato e vi guarirà da ogni presbiopia che si perde i dettagli, la piccola lettera, dove si giocano le realtà importanti della vita della Chiesa e della famiglia”.

La misericordia non è photoshop, rinnova la nostra anima
Un altro “modo di guardare di Maria”, afferma riferendosi in particolare all’immagine della Vergine di Guadalupe, è “legato al tessuto: Maria osserva tessendo, vedendo come può combinare a fin di bene tutte le cose” che la gente “le porta”:

“La misericordia fa la stessa cosa: non ci 'dipinge' dall’esterno una faccia da buoni, non ci fa il photoshop, ma con i medesimi fili delle nostre miserie e dei nostri peccati, intessuti con amore di Padre, ci tesse in modo tale che la nostra anima si rinnova recuperando la sua vera immagine, quella di Gesù”.

La Chiesa sia capace di proteggere chi bussa alla sua porta
“Non lasciatevi prendere dalla vana ricerca di cambiare popolo”, ammonisce Francesco. A volte, commenta, i sacerdoti sono tentati di chiedere al vescovo di trasferirli. “Non lasciarsi prendere dalla vana ricerca di cambiare popolo – riprende – come se l’amore di Dio non avesse abbastanza forza per cambiarlo”. Il terzo modo, spiega il Papa, “è quello dell’attenzione: Maria osserva con attenzione, si dedica tutta e si coinvolge interamente con chi ha di fronte, come una madre quando è tutta occhi per il suo figlioletto che le racconta qualcosa”:

“Occorre imparare che c’è qualcosa di irripetibile in ciascuno di coloro che ci guardano alla ricerca di Dio. Non tutti ci guardano nello stesso modo. Tocca a noi non renderci impermeabili a tali sguardi. Un sacerdote, un prete che si rende impermeabile agli sguardi è chiuso in se stesso. Custodire in noi ognuno di loro, di questi sguardi, conservandoli nel cuore, proteggendoli. Solo una Chiesa capace di proteggere il volto degli uomini che bussano alla sua porta è capace di parlare loro di Dio. Se tu non sei capace di custodire il volto degli uomini che ti bussano alla porta, non sarai capace di parlare loro di Dio”.

La misericordia vede la totalità della persona
La ricchezza che abbiamo, avverte, “scorre unicamente quando incontriamo la pochezza di quelli che mendicano, e tale incontro si realizza precisamente nel nostro cuore di Pastori”. Infine, afferma il Papa, Maria guarda in modo “integro”, “unendo tutto, il nostro passato, il presente e il futuro”:

“Non ha uno sguardo frammentato: la misericordia fa vedere la totalità e intuisce ciò che è più necessario. Come Maria a Cana, che è capace di provare compassione anticipatamente per quello che arrecherà la mancanza di vino nella festa di nozze e chiede a Gesù che vi ponga rimedio, senza che nessuno se ne renda conto, così, l’intera nostra vita sacerdotale la possiamo vedere come “anticipata dalla misericordia” di Maria, che, prevedendo le nostre carenze, ha provveduto tutto quello che abbiamo”.

I sacerdoti si lascino guardare da Maria nei loro momenti oscuri
Francesco ha concluso la sua appassionata meditazione tornando all’importanza del lasciarsi guardare da Maria, soprattutto nei momenti oscuri. “Questo – ha detto – farà che in quei momenti brutti, forse con tanti sbagli che avete fatto e che vi hanno portato lì, farà di tutta questa sporcizia ricettacolo di misericordia”. Il Papa ha confidato che nel suo studio ha un’immagine che gli ha donato padre Rupnik raffigurante la “Synkatabasis” in cui Gesù in una mano “ha la pienezza della Legge e con l’altra si aggrappa al manto della Madonna”:

“La prima antifona di Occidente è questa: Sub tuum praesidium, il manto della Madonna. Non avere vergogna: non fare grandi discorsi; stare lì e lasciarsi coprire, lasciarsi guardare. E piangere! Quando troviamo un prete che è capace di questo, di andare dalla Madre e piangere, con tanti peccati, io posso dire: è un buon prete perché è un buon figlio. Sarà un buon padre. Presi per mano da lei e sotto il suo sguardo possiamo cantare con gioia le grandezze del Signore”.

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Le testimonianze dei sacerdoti: "ascoltare" la fede della gente

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Migliaia i sacerdoti giunti a Roma da tutti i continenti per il Giubileo. Oggi hanno seguito le meditazioni del Papa, domani saranno in Piazza San Pietro per la Messa conclusiva di questo importante appuntamento dell'Anno Santo della Misericordia. Ascoltiamo alcune testimonianze in questo servizio di Fabio Colagrande

Nelle testimonianze dei sacerdoti, giunti da tutto il mondo in Vaticano per il Giubileo a loro dedicato, emerge cosa significa vivere concretamente l’Anno Santo della Misericordia nelle diverse diocesi. Don Fiorenzo Andrea Tosini, della diocesi di Ferrara-Comacchio, è confessore nella parrocchia della Natività di Maria a Bondeno:

R. – E’ bello che lo si viva giorno per giorno, perché sono coloro che si accostano a questo Sacramento che lo vivacizzano. A noi sacerdoti ci provocano a pregare ed anche a studiare, perché da sempre abbiamo occasioni di aggiornamento, di preghiera; ma soprattutto mi preme dire che sono i laici - sono loro - che ci chiamano. Dico una cosa che può forse sembrare banale: un sacerdote si mette la stola, si siede tra i banchi in Chiesa, la gente arriva. E questo credo che sia la lezione magistrale più bella che ci possa essere per un sacerdote, al di là delle catechesi, delle preghiere, degli inviti dei nostri vescovi, puntuali e precisi. Però la lezione magistrale è – come ci ha insegnato il nostro vescovo – "Ascoltate la fede della gente!". Questo è veramente l’input più bello. Il secondo viene dal Signore: è Lui che ci vuole far incontrare la gente proprio attraverso la gente.

Don Alberto Rubio Huidobro, originario del Cile, è viceparroco del Santuario della Madonna del Divino Amore a Roma:

R. – Significa aprirsi ad una immensa richiesta-domanda dei fedeli: in tantissimi si erano allontanati dalla fede, ma si sentono ora richiamati dal modo di parlare e di porsi di questo Papa di fronte al mondo. Nel Santuario, in cui abbiamo un ministero della riconciliazione sacramentale, siamo 20 sacerdoti che confessiamo mattina e pomeriggio, tutti i giorni; ed ora abbiamo un lavoro molto più consistente, perché la gente viene. Questo Papa ci obbliga a cambiare un poco la nostra posizione di fronte alle cose: c’è più lo sguardo da centrare nel rapporto della persona con Cristo. E’ un Papa che realmente ci sta portando al centro delle cose, al recupero di cose che magari abbiamo dimenticato nel cammino per un eccessivo sforzo nel difendere la dottrina in un tempo che cambia. La genialità di Papa Francesco è che non ha fatto un convegno sulla misericordia, una riflessione analitica, ma sta obbligando tutta la Chiesa a fare una esperienza di misericordia per poter testimoniare questo al mondo. E’ di questo che l’uomo ha bisogno oggi.

Partecipa a questo Giubileo anche il sacerdote angolano don José Bassanza Pèngado, temporaneamente studente a Roma presso la Pontificia Università Urbaniana:

R. – Aprire il cuore per i più bisognosi, per i poveri, per i malati; cercando di portare anche la riconciliazione in tutto il mondo e soprattutto per coloro che hanno bisogno di rinascere nello spirito dei figli di Dio. E’ questa la prima forza che io ho capito grazie all’esperienza che sto facendo qui, in questo periodo che posso rimanere qui in Roma. La seconda intenzione è quella di ricostruire la Chiesa al suo interno e portare questa Chiesa di Dio per tutto il mondo. Questa è anche la seconda intenzione del Santo Padre: vuole una Chiesa povera, una Chiesa semplice; una Chiesa che abbia lo spirito della carità. Tutti noi – anche io come sacerdote – devo ricostruire la mia identità e proprio perché io sono un sacerdote l’essere uomo della misericordia è una via in cui passa la grazia id Dio, in cui passa la benedizione.

Ma cosa significa rimettere la misericordia al centro del proprio servizio pastorale? Don Luca Biancafior è parroco della chiesa di Gesù Divino Lavoratore a Marghera, diocesi di Venezia

R. – Ci sono diverse strade. La prima è quella di non legarsi troppo alla regola, cercando invece di incontrare la vita della persona che hai di fronte, perché ogni vita nasconde delle ferite e queste ferite devono essere capite, devono essere comprese sia da chi le dice che da chi le ascolta e quindi – per quello che è possibile – sanate. Le regole, a volte, ci fanno diventare dei meri esecutori, dei funzionari più che dei testimoni della misericordia. Credo, invece, che oggi più che mai, ci sia bisogno di gente che sappia testimoniare questa misericordia, vivendola in prima persona ed assumendosi anche le responsabilità di dare il perdono e di farsi carico di una vita che comunque viene loro incontro.

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Videomessaggio del Papa: mai abbandonare anziani e malati

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“Gli anziani, gli emarginati e le persone sole trovino, anche nelle grandi città, opportunità di incontro e di solidarietà”: è quanto auspica Papa Francesco in un videomessaggio con una meditazione sulla sua intenzione universale di preghiera per il mese di  giugno. “Nelle città - afferma il Papa - è frequente l’abbandono degli anziani e infermi. Possiamo ignorarlo? Le nostre città dovrebbero caratterizzarsi soprattutto per la solidarietà, che non consiste unicamente nel dare al bisognoso, ma anche nell’essere responsabili gli uni degli altri e creare una cultura dell’incontro”.

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Vaticano. Il Papa al vertice dei giudici contro la tratta

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Il 3 e 4 giugno si tiene in Vaticano, alla Casina Pio IV, sede dell’Accademia delle Scienze Sociali, un Summit internazionale di giudici ed esperti sulla tratta delle persone e sul crimine organizzato. La società globale che cerca il guadagno al di sopra di tutto e produce la cultura dello scarto, come ha denunciato Papa Francesco nella Evangeli Gaudium e nella Laudato si', ha generato un numero infinito di emarginati e esclusi, si sottolinea in un comunicato. Tanti i partecipanti da ogni parte del mondo. La sera del 3 giugno interverrà anche Papa Francesco, che ha confermato la sua presenza. Debora Donnini ha intervistato mons. Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere dell’Accademia: 

R. – Seguendo il desiderio di Papa Francesco, di occuparci di risolvere i problemi globali della schiavitù moderna, della tratta di persone, del lavoro forzato, della vendita di organi e del crimine organizzato, dopo avere organizzato nel 2014 l’incontro con i leader religiosi, dopo avere organizzato un incontro con i principali sindaci delle città più importanti, adesso vogliamo organizzare questo incontro dei giudici perché naturalmente sono quelli che stanno più vicini al problema delle vittime: questo è lo scopo fondamentale. Poi, pensiamo che loro facciano una dichiarazione finale nel senso di dichiarare queste cose come crimini contro l’umanità, di comunicare tra loro le migliori pratiche e di vedere se sia il caso di proporre nuove leggi o nuove pratiche per cercare di risolvere questo dramma della criminalità.

D. – Voi pensate che un summit di questo tipo possa aiutare a lottare contro la tratta delle persone e il crimine organizzato?

R. – Quando abbiamo fatto il summit dei religiosi è cambiato l’ambiente in questo senso. Lo stesso vale per il summit dei sindaci: ormai gli americani fanno incontri nello stesso senso tra loro, gli spagnoli vogliono fare lo stesso. Si prende coscienza del problema. C’è anche la “furbizia” dei trafficanti che vogliono fare in modo che questo problema non si conosca. Quindi, noi cominciamo a farlo conoscere e tutto questo grazie al Papa che ha chiesto all’Accademia di studiare questo fenomeno. E così si comincia a prendere coscienza e ad avviare pratiche per sradicare questa tragedia, queste  piaghe dell’umanità, come dice il Papa, le piaghe del Corpo di Cristo.

D. – Quanti giudici e persone esperte di queste tematiche partecipano a questo simposio?

R. – Vengono 150 tra giudici e gente che opera nell’ambito della giustizia, persone molto importanti. Dagli Stati Uniti viene il capo dell’Ufficio anti-tratta del Dipartimento di Stato americano, Susan Coppedge, l’Alto commissario britannico contro la schiavitù moderna, Kevin Hyland e il pubblico ministero Alison Saunders, l’Alto commissario olandese, che ricopre lo stesso incarico di Kevin Hyland, che si chiama Corinne Dettmeijer-Vermeulen, l’Alto commissario delle Nazioni Unite contro la tratta delle persone, Maria Grazia Giammarinaro, la cancelliera svedese Anna Skarhed, che ha proposto la legge, il cosiddetto “modello nordico”, che persegue non solo i criminali ma anche i clienti della prostituzione. Tra gli italiani figura il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, il procuratore generale di Roma, Gianni Salvi, il magistrato Maria Monteleone e Antonio Ingroia. Poi viene un nutrito gruppo di messicani – una decina – capeggiato da Edgas Elías Azar e naturalmente molti argentini, i giudici più importanti che hanno cause in questo campo, presieduti dal capo della giustizia argentino, insieme al noto giudice Sebastián Casanello. Insomma, più importante non può essere la rappresentanza della Giustizia.

D. – E’ Papa Francesco che ha voluto questo incontro?

R. – Papa Francesco ha voluto l’incontro nel senso che ha chiesto all’Accademia di far qualcosa per questo problema. Naturalmente, l’Accademia gli ha proposto di fare prima l’incontro con i religiosi ed è venuto; poi ha proposto l’incontro dei sindaci, ed è venuto; ora ha proposto questo, e lui è contentissimo. E viene.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Il sentiero della semplicità: meditazioni del Papa sulla misericordia in occasione del Giubileo di preti e seminaristi.

Pericolo reclutamenti forzati: allarme dell’Unicef per i bambini intrappolati a Falluja ancora in mano all’Is.

Proseguono le proteste in Francia contro la riforma del lavoro.

Tutta la terra gli andò dietro: Ezio Bolis sul restauro del mappamondo di Giovanni XXIII.

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Oggi in Primo Piano



Somalia: concluso attacco Shabaab a Mogadiscio, 16 vittime

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Si è concluso con un bilancio di 16 vittime e 55 feriti l’attacco di un commando al Shabaab all'hotel Ambassador di Mogadiscio, in Somalia. La risposta delle forze dell’ordine si è protratta per tutta la notte. Il servizio di Giada Aquilino

Un attacco ben pianificato: prima un’autobomba, poi un commando di cinque uomini armati che ha fatto irruzione nell'hotel. A rivendicare l’attentato, gli estremisti di Shabaab, a poche ore dall’annuncio del Pentagono di un raid aereo che avrebbe ucciso proprio in Somalia Mohamed Mohamud, noto anche con il nome di "Kuno", uno dei più influenti comandanti Shabaab, responsabile tra l’altro del sanguinoso attacco all'università di Garissa, in Kenya. All’Ambassador, dopo una notte di scontri a fuoco, le forze di sicurezza hanno annientato l’intero commando, riprendendo il controllo dell’edificio. Tra le vittime, anche due deputati. La missione di assistenza delle Nazioni Unite in Somalia – l’Unsom, che si aggiunge alla forza dell’Unione Africana, l’Amisom, operativa con 22 mila uomini – ha condannato "con fermezza" l’attacco. Un ennesimo episodio di violenza che sconvolge un Paese già afflitto da anni di insicurezza e attentati, come conferma mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio:

R. – La presenza di questi gruppi violenti, come al Shabaab, significa che non siamo ancora riusciti a riportare la Somalia a una situazione di stabilità politica e di sicurezza. Questo attacco ci dice come le istituzioni, che sono state create qualche anno fa, rimangano ancora molto fragili e l’impegno della comunità internazionale debba continuare, rafforzarsi, probabilmente essere più serio e più determinato.

D. – A cosa puntano gli al Shabaab?

R. – Gli al Shabaab, come anche altri gruppi islamisti radicali, punterebbero, se potessero, a prendere in mano il potere. Ma credo che non si accontenterebbero della Somalia. La Somalia potrebbe essere per loro il trampolino di lancio per il resto dell’Africa dell’est, nel continente.

D. – La popolazione come vive questo continuo stato di insicurezza? Ricordiamo caos e guerra civile dopo la caduta di Siad Barre, poi le Corti islamiche, quindi gli al Shabaab alleati di al Qaeda…

R. – Penso che la maggioranza della popolazione viva con un senso di rassegnazione, perché si trova di fatto ostaggio di questi gruppi violenti, di un insieme di funzionari, di commercianti che non hanno interesse che la Somalia torni a vivere una vita normale. E penso anche a una certa implicazione da parte di alcuni gruppi o di alcuni Stati della comunità internazionale, ai quali una “vera” Somalia non farebbe piacere.

D. – Quindi, ci sono forze dall’estero che in qualche modo interferiscono in Somalia?

R. – Certamente. Per esempio, le armi continuano ad arrivare facilmente. Vuol dire, allora, che a livello internazionale non siamo sufficientemente seri nel sapere da dove vengono, chi le produce, chi le commercia.

Sulle ragioni dell’ultima azione degli al Shabaab, l’africanista Vincenzo Giardina:

R. – Attacchi a hotel nel cuore di Mogadiscio c’erano già stati in Somalia, anche dopo la costituzione di un governo di transizione, con un pieno sostegno delle Nazioni Unite e delle principali potenze occidentali. E anche a seguito del ritiro di al-Shabaab dalla capitale, nel 2011, per un’offensiva coordinata da Amisom, la forza dell’Unione Africana, che sostiene il governo di Mogadiscio contro questo gruppo di matrice islamista.

D. – In Somalia, c’è la forza dell’Unione Africana, l’Amisom appunto, e c’è anche una missione di assistenza dell’Onu. Ma a che punto è il contrasto agli al Shabaab?

R. – L’impegno contro al Shabaab non è concluso assolutamente. Nei giorni scorsi, il presidente della Somalia, Hassan Sheikh Mohamud, ha emesso un decreto per superare l’opposizione del parlamento rispetto alle modalità con le quali si dovranno svolgere, nell’agosto prossimo, le nuove elezioni nel Paese. Questo a conferma di come, anche su un piano politico, restino diversi nodi da sciogliere e come, nonostante ci sia un sostegno dell’Onu, rispetto alla scadenza elettorale di agosto, esponenti stessi delle Nazioni Unite abbiano sottolineato come il voto non potrà che svolgersi in una situazione estremamente precaria, anche da un punto di vista della sicurezza.

D. – L’avvicinarsi del voto, il recente raid aereo che avrebbe ucciso uno dei comandanti al Shabaab, l’approssimarsi del Ramadan: quali di queste potrebbero essere le ragioni di tanta violenza?

R. – Ci sono difficoltà e incertezze del quadro somalo. Un altro elemento che può essere interessante, anche se non direttamente collegato ai fatti, è questo: da alcune settimane si parla della chiusura del campo profughi di Dadaab, in Kenya, che è il più grande campo per rifugiati al mondo, sorto nel 1991, quindi sostanzialmente in coincidenza con l’inizio di un ciclo di guerra civile e violenze in Somalia. Ospita ancora oggi più di 300 mila persone. Il ministro degli Interni del Kenya ha annunciato che il campo verrà chiuso a novembre. Ha detto che saranno stanziati almeno 10 milioni di dollari e che le procedure di rimpatrio dei rifugiati somali avverranno con umanità. Un riferimento questo anche alle critiche e alle polemiche innescate da precedenti annunci del governo di Nairobi, rispetto a tale provvedimento. Questo tema è legato in qualche misura, almeno nella percezione di una parte della classe politica kenyana, al discorso al Shabaab. Perché la tesi che in certi ambienti, a Nairobi, si è fatta strada è che i rifugiati somali siano sostanzialmente, almeno in parte, sostenitori di al Shabaab, una tesi però – questo è importante sottolinearlo – che è stata contestata con decisione dagli organismi delle Nazioni Unite che da anni lavorano in questo campo.

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Germania, vaccino anticancro. L'oncologo Pinto: siamo cauti

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E’ iniziata in Germania, nell’università di Gutenberg di Magonza, la sperimentazione umana di un nuovo vaccino universale anticancro. La notizia dello studio, pubblicato sulla rivista "Nature", è stata diffusa ieri, aprendo grandi speranze per l’umanità intera. Roberta Gisotti ha intervistato Carmine Pinto, presidente nazionale dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), cui aderiscono 2600 oncologi: 

Gli scienziati tedeschi hanno testato con successo il vaccino prima sui topi e poi su tre pazienti affetti da melanoma, in stato avanzato, ottenendo per ora che il tumore si bloccasse. Si tratta di una capsula di molecole di grasso che contiene un "cuore" genetico, capace di attivare le cellule del sistema immunitario del pazienze contro il tumore.

D. – Prof. Pinto si aprono speranze davvero motivate e in che misura e in che tempi?

R. – Sicuramente, è uno studio interessante per tecnologie e per i presupposti scientifici e biologici. Si tratta però di uno studio ancora molto, molto iniziale. E’ stata fatta una parte preclinica, su animali in esperimento. La parte clinica è un iniziale studio di fase 1 e sono stati trattati soltanto tre pazienti con melanoma, che è una delle neoplasie più immunogene che abbiamo. C’è quindi soltanto una risposta di tipo immunologico e non ancora una risposta clinica. Per vedere se questa, che oggi è un’importante speranza, possa realmente diventare pratica clinica, penso ci voglia ancora del tempo.

D. – Questa sperimentazione si può pensare che sarà allargata anche in altri Paesi, anche in Italia?

R. – Per il momento si tratta di uno studio di fase 1, che di solito viene condotto non in tante nazioni contemporaneamente, perché si tratta di raccogliere dati abbastanza controllati. Ovviamente, la fase 1 valuta la tossicità, non tanto l’efficacia del trattamento stesso. Continuo a dire che si tratta di una promessa e che occorrerà del tempo, per vedere se diventa realtà.

D. – In che misura oggi le malattie oncologiche incidono nella mortalità?

R. – Sono la seconda causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari. Nel sesso maschile raggiungono la stessa incidenza, lo stesso tasso di mortalità, di quelle cardiovascolari. E' diverso invece per quello che riguarda le donne. In Italia, abbiamo ogni anno 370 mila nuove diagnosi e circa 170 mila decessi per tumore.

D. – E’ normale, quindi, che ci sia stata molta attenzione…

R. – Assolutamente sì. Io direi però che bisogna essere molto cauti. E’ sicuramente interessante il modello, sono interessanti i primi dati preclinici, ma occorrerà del tempo e dovrà essere validato su altri tumori che non solo il melanoma. Occorrerà quindi ancora parecchio tempo.

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70 anni fa, per la prima volta, le donne italiane al voto

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La Repubblica italiana compie oggi 70 anni e in coincidenza con questo anniversario si ricordano anche i 70 anni dalla prima partecipazione al voto delle donne. Molte le resistenze a questo riconoscimento che oggi appare scontato. L’8 marzo scorso il presidente Sergio Mattarella aveva voluto sottolineare l’importanza di quella conquista dicendo che: “Il pieno riconoscimento dei diritti politici alle donne costituisce l’elemento fondativo della nostra Repubblica”. Al microfono di Adriana Masotti, sentiamo Vinzia Fiorino, docente al Dipartimento di Storia dell’Università di Pisa: 

R. – Sì, va ricordato che tutti gli uomini votarono per la prima volta nel 1919. C’è, quindi, un ritardo che si accompagna alla partecipazione delle donne. Il problema vero è che tutte le principali culture politiche dell’Italia liberale furono tenacemente ostili, rispetto al riconoscimento del loro diritto di voto. Naturalmente, i 20 anni di fascismo hanno pesato moltissimo.

D. – Quali erano gli ostacoli principali a questo riconoscimento?

R. – Gli ostacoli erano costituiti dai principali sistemi culturali. Il sistema giuridico le privava della piena disponibilità dei loro beni e, poiché si votava in quanto proprietari e le donne non erano pienamente proprietarie, i mariti virtualmente votavano per loro. Poi, c’era una obiezione di tipo culturale, resistenze di tipo culturale. Il pensiero cattolico, che privilegiava per le donne il ruolo domestico e il ruolo pubblico, ma sociale e non politico, ebbe il suo peso. E ancora i socialisti, profondamente divisi al loro interno, e la scienza, che ebbe un ruolo importante, fondamentale, perché ovviamente contribuì a definirle come esseri inferiori sul piano delle capacità raziocinanti, delle attitudini intellettuali. Tutto questo messo insieme spiega molto.

D. – Certo, votare non è tutto per la valorizzazione della donna. Ma riguardo alla partecipazione politica, i progressi sono piuttosto lenti, mi viene da dire, se ancora oggi dobbiamo parlare di "quote rosa"…

R. – Ovviamente, questo deficit di partecipazione ha molto a che fare con la storia stessa del riconoscimento del voto femminile. Le donne hanno partecipato e sono state protagoniste di moltissime iniziative, nonché di pensiero politico. Ma il problema vero è che combattiamo con una struttura politica, con modelli di autorevolezza che sono per definizione maschili. Quindi, scontiamo questa contraddizione. Le faccio un esempio molto semplice: se attitudini personali, quali il mostrarsi molto decisi, avere la risposta pronta, vengono considerati in relazione agli uomini aspetti positivi, invece per le donne diventano automaticamente degli elementi negativi. La questione è molto complessa e va, secondo me, affrontata alla radice. Le quote, quindi, possono contribuire, ma non possono risolvere le questioni di fondo.

D. – Le sembra che in questi anni le donne in Italia abbiano dato un contributo importante alla società oppure c’è da chiedersi se siano rimaste troppo in silenzio, con troppe poche aspirazioni?

R. – Io dico sempre che non amo gli storici e le storiche che seggono sui tribunali della storia. Non è così semplice. Un’impostazione di questo tipo, infatti, presuppone un’impostazione di tipo volontaristico, per cui ci sono dei gruppi di donne attive che fanno delle cose, per cui noi abbiamo delle cose. Purtroppo la storia, i processi storici sono molto più complessi. E’ troppo complicato per riassumerlo in questa formula: le donne sono state protagoniste o no? Essere protagoniste, infatti, o non esserlo naturalmente ha a che fare con dinamiche sociali molto più complicate.

D. – Come vorrebbe che venisse festeggiato questo anniversario, i 70 anni del voto?

R. – Intanto, mentre parlo con lei, sfrecciano sul cielo di Roma, dove ci troviamo, le Frecce Tricolore. Non c’è un nesso immediato tra donne e pace, c’è però un segno della differenza che storicamente è stata ricostruita. Io vorrei che si ricordasse l’impegno delle donne nella sfera pubblica, in favore dei diritti sociali, dei diritti per gli ultimi, in favore di una risoluzione dei conflitti e dei contrasti senza l’uso della violenza.

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Migranti. mons. Perego: sì a protezione umanitaria, no hotspot

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Il premier italiano, Matteo Renzi, ribadisce che non c’è un’invasione di immigrati ma comunque un tetto alle presene va messo. Intanto, si continua a discutere sulla possibilità di creare nuovi hotspot in Italia. Il servizio di Alessandro Guarasci

“Al primo giugno 2015 erano 47 mila, al primo giugno 2016 sono 47 mila”. Renzi cita queste cifre per smentire chi parla di invasione, ma ammette che “un tetto sostanziale" agli arrivi "ci deve essere”, dunque serve “firmare accordi con i Paesi africani e bloccare le partenze”. Finora, la distinzione che è stata fatta è tra rifugiati e migranti economici, una distinzione che non regge più per il direttore della Fondazione Migrantes, mons. Giancarlo Perego:

R. – Questa distinzione ormai non è più così chiara e facile ed è ormai evidente che per riuscire a distinguere maggiormente la condizione personale di coloro che stanno sbarcando anche in Italia, è necessario un lavoro molto attento sulle storie personali; un lavoro che oggi, purtroppo, nelle commissioni territoriali non sta avvenendo, dove, di fatto, si sta procedendo attraverso una linea sottaciuta, ma evidente, che è quella di seguire i cosiddetti “Paesi sicuri”. Quindi, l’aspetto più importante oggi sarebbe quello di rafforzare la lettura di queste storie personali e di favorire, comunque, un permesso di protezione umanitaria alle persone che ormai da un anno e mezzo sono in attesa di una risoluzione della loro situazione.

D. – L’Italia potrebbe proporre all’Unione Europea altri hotspot. Sappiamo che quelli in mare sono di difficile realizzazione, ma comunque questa, secondo lei, è una via da seguire?

R. – La strada dell’hotspot ci riporta a strutture che non sono degne della dignità della persona, oltre che strumenti sostanzialmente di trattenimento indebito per persone che non hanno commesso dei reati e soprattutto di trattenimento indebito di tanti minori, di tante persone che invece potrebbero essere accolte meglio e più dignitosamente in strutture di accoglienza. È uno strumento che è un po’ uno "specchietto per le allodole" nella gestione delle migrazioni che sta facendo acqua da tutte le parti e che rischia ulteriormente di considerare le persone che stanno sbarcando come persone pericolose, delinquenti clandestini e tutto ciò che non è vero assolutamente nelle storie di chi sta arrivando.

D. – Le strutture religiose, parrocchie, Ordini e così via, ospitano almeno un quinto degli immigrati presenti in Italia. Però che cosa si può fare di più e quali ostacoli state trovando?

R. – L’impegno della Chiesa è continuo: rafforzare la coscienza delle nostre comunità attorno al dramma dei migranti economici, rifugiati e di costruire sempre di più delle storie, dei semi di accoglienza che oggi riguardano duemila strutture che stanno accogliendo richiedenti asilo e rifugiati, oltre 25 mila attualmente. La disponibilità sta crescendo di giorno in giorno anche alla luce dell’appello del Papa del 6 settembre, ma anche alla luce delle carenze di un sistema che non è in grado oggi di dare una degna ospitalità a persone, in termini famigliari con un’attenzione particolare alle donne, ai minori, alle situazioni di fragilità. E' anche un segno forte contro una politica che rischia di leggere l’immigrazione solo in termini di sicurezza e di non riconoscere in maniera vera nel contesto europeo un diritto fondamentale sul quale è appoggiata la nostra democrazia.

A Ventimiglia intanto la diocesi continua da ospitare i migranti, fino a pochi giorni fa accampati sulle rive del torrente Roja. Il direttore della Caritas, Maurizio Marmo:

R. – Siamo nella chiesa di Sant’Antonio qui a Ventimiglia e stiamo utilizzando il salone della chiesa e il campetto adiacente. In questo momento ci sono più o meno 300 persone.

D. – Com’è il rapporto con le istituzioni comunali? Perché l’ipotesi della tendopoli è stata archiviata al momento…

R. – Sì, nel senso che per ora da una parte non si trova l’area e dall’altra comunque è impegnativo costituirla. Noi qui chiaramente, come accoglienza umanitaria, non chiediamo documenti e chiunque può accedere. Fare una cosa analoga magari non è così scontato, però è quello che chiediamo perché ci sono le esigenze.

D. – La popolazione di Ventimiglia, come ha reagito in questi giorni? Vedete che c’è solidarietà accanto a tante storie di sofferenza di questi ragazzi?

R. – Tante persone stanno dando una mano, stanno portando generi alimentari… Al momento, c’è tranquillità e prevale lo spirito di solidarietà.

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Nella Chiesa e nel mondo



Carceri, cappellani: rispettare dignità e libertà religiosa detenuti

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Promuovere il rispetto della dignità umana e della libertà religiosa dei detenuti: questa l’indicazione primaria emersa al termine dell’incontro europeo dei cappellani penitenziari, terminato ieri a Strasburgo, presso la sede del Consiglio d’Europa. All’evento, sul tema “Radicalizzazione nelle carceri: una visione pastorale”, hanno preso parte circa 60 partecipanti, tra cui cappellani cattolici incaricati della Pastorale nelle carceri, cappellani di Chiese ortodosse e protestanti, un gruppo di musulmani coinvolti nella stessa attività , nonché rappresentanti del Consiglio d’Europa e di altri organismi internazionali.

Carcere non deve negare dignità inalienabile dell’uomo
Al termine dei lavori, il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee) e la Commissione internazionale della Pastorale cattolica nelle carceri (Iccpc) hanno diffuso una dichiarazione in cui si sottolinea che: “Le condizioni a volte dure in cui versano le persone in carcere, non negano il fatto che la persona sia creata a immagine di Dio, la sua inalienabile dignità e i suoi diritti”. Inoltre, di fronte alla sfida posta dalla crescita dell'estremismo violento e dal fenomeno della radicalizzazione, i firmatari si appellano alle "Linee Guida per i servizi carcerari e di libertà vigilata in materia di radicalizzazione ed estremismo violento" approvate dal Consiglio d'Europa. In tale documento viene ribadita, tra l’altro, la necessità di rispettare il principio della libertà di espressione e di religione nei penitenziari.

Rispetto libertà religiosa è fattore decisivo contro estremismo violento
“Il rispetto del diritto alla libertà religiosa – evidenziano Ccee e Iccpc - non solo è compatibile con le condizioni di vita in carcere, ma rappresenta anche un fattore decisivo nella lotta contro l'estremismo violento”. Per questo, il cappellano carcerario rappresenta “un fattore positivo nel promuovere il benessere all'interno dell'ambiente carcerario”, perché esso può cooperare nel promuovere “il rispetto per la dignità umana dei prigionieri e nel costruire un ambiente caratterizzato dalla fiducia reciproca”. In tal modo, i cappellani penitenziari “possono essere un valido strumento per educare al rispetto per le persone di altre fedi. Un'autentica spiritualità porta sempre alla pace e al rispetto dell'altro”.

6 novembre, Giubileo carcerati: detenuti al centro della vita della Chiesa
In quest’ottica, viene riaffermato l’impegno dei cappellani stessi ad essere “al servizio del benessere spirituale di coloro che si trovano in carcere ed a promuovere uno spirito di pace, tolleranza e comprensione reciproca tra persone appartenenti a confessioni religiose diverse o a nessuna confessione”. Naturalmente, in tale ambito si ricorda la necessaria collaborazione “tra le autorità pubbliche e le confessioni religiose”. Infine, guardando al Giubileo dei carcerati che si celebrerà a Roma il 6 novembre prossimo, si ricorda che tale evento sarà “un'occasione speciale per sottolineare che i nostri fratelli e sorelle in stato di detenzione sono al centro della vita della Chiesa”. (I.P.) 

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Vescovo Johannesburg: disumanità contro immigrati in Sudafrica

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“I rifugiati in Sudafrica devono far fronte a ingiustizia e disumanità”: lo ha affermato mons. Joseph Buti Thlagale, arcivescovo di Johannesburg, in Sudafrica, nel suo discorso di apertura alla tavola rotonda organizzata dal Dipartimento per la cura dei migranti e dei rifugiati dell’arcidiocesi e dal Jesuit Refugee Services (Jrs). Nel corso dei lavori, riferisce l’agenzia Fides, le diverse articolazioni della Chiesa sono state invitate ad essere compassionevoli e accoglienti, condividendo le informazioni per migliorare il lavoro caritativo.

Politiche migratorie non siano basate solo sui numeri
In particolare, il Jrs ha sottolineato che la nuova assicurazione sanitaria nazionale copre tutti i cittadini sudafricani e i rifugiati permanenti, ma solo parzialmente i richiedenti asilo, ai quali vengono garantiti solo i servizi di pronto soccorso. Dal canto loro, i membri dell’Istituto Scalabriniano per la mobilità umana in Africa hanno sottolineato come le politiche migratorie siano fallite perché basate su “criteri di selezione e di ammissione, che da soli non possono determinare numeri, flussi e modelli di migrazione. È importante capire, invece, perché le persone migrano”.

Diritti delle nazioni e diritti umani dei migranti abbiano lo stesso peso
Gli scalabriniani hanno sottolineato inoltre che ogni politica migratoria dovrebbe contemperare l’interesse nazionale, ovvero il diritto alla sicurezza dei cittadini, con i diritti umani dei migranti, che “idealmente dovrebbero avere lo stesso peso”. I lavori si sono conclusi con l’impegno, da parte dei presenti, di ulteriori collaborazioni nel servizio a rifugiati e migranti.

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Religioni contro il terrorismo: solidarietà con i perseguitati

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“Accogliamo con favore l’incontro di Papa Francesco della Chiesa cattolica romana e del patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, che ha dimostrato la volontà dei leader religiosi di mettere da parte tutte le differenze e intraprendere un dialogo nel nome della pace”. E' quanto scritto nella Dichiarazione conclusiva della Conferenza internazionale “Religioni contro il terrorismo”, conclusasi il 1° giugno ad Astana, capitale del Kazakhstan.

Solidarietà con la sofferenza delle comunità religiose perseguitate
“Appoggiamo l’appello per una lotta globale e condivisa contro il terrorismo fatta dai capi delle due Chiese principali, prosegue il testo, in cui si riconosce l’importanza per la promozione del dialogo tra le comunità religiose e dell’incontro tra Papa Francesco e l’imam supremo dell’università islamica di Al-Azhar Ahmed El-Tayeb”. Alla conferenza hanno partecipato rappresentanti religiosi e politici provenienti da oltre 40 Paesi. Tra questi, una delegazione cattolica, guidata dal card. Josef Tomko, prefetto emerito della Congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli.

Condanna di ogni forma di estremismo
Tra i 28 punti della Dichiarazione – riporta l’agenzia Sir – vi è una ferma condanna di ogni forma di terrorismo ed estremismo violento, soprattutto quando “dietro il pretesto di un messaggio religioso, viola i diritti e le libertà”. Si esprime poi la solidarietà con “le comunità sofferenti in alcune zone del mondo”, l’impegno ad “eliminare le cause del terrorismo, tra cui povertà, fame, disoccupazione, instabilità e conflitti”. Donne e famiglie – sottolinea infine il testo - hanno un “ruolo particolare nell’educare i giovani”, “sempre più vulnerabili verso le ideologie estremiste”, e nella battaglia contro tali ideologie.

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Usa: rapporto dei vescovi sulla protezione dei minori

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Oltre 2,4 milioni di controlli sul passato di sacerdoti, diaconi, volontari, educatori e altri dipendenti delle diocesi, più di 4,3 milioni di bambini e 2,4 milioni di adulti coinvolti in programmi di prevenzione. Sono alcuni dei dati che emergono dal Rapporto annuale 2016 dell’Ufficio per la protezione dei bambini e dei giovani della Conferenza episcopale degli Stati Uniti (Usccb) sull’applicazione nelle diocesi della “Carta” adottata dai vescovi americani nel 2002 a Dallas per contrastare e prevenire il gli abusi sessuali sui minori nella Chiesa. Le informazioni, raccolte dal Centro di ricerca applicata sull’apostolato (Cara) della Georgetown University di Washington tra il 1° luglio 2014 e il 30 giugno 2015, sono state pubblicate on-line nei giorni scorsi.

L’impegno contro la pedofilia resta una priorità per la Chiesa negli Stati Uniti
Il rapporto – come sottolineano nell’introduzione il presidente della Usccb mons. Joseph Kurtz e il presidente della National Review Board – dimostra i costanti progressi compiuti in questi anni dalle diocesi americane per creare un ambiente sicuro per i bambini nella Chiesa, confermando che l’impegno assunto nel 2002, per proteggere i minori e prevenire la piaga della pedofilia, resta una priorità per l’Episcopato degli Stati Uniti.

L’obiettivo: coinvolgere la totalità delle diocesi Usa nel processo di verifica
Secondo le informazioni raccolte, il 99 per cento di sacerdoti, diaconi ed educatori, il 98 per cento di volontari e candidati al sacerdozio e il 97 per cento di altri impiegati nelle strutture della Chiesa, hanno partecipato a specifici corsi di formazione. Percentuali analoghe riguardano i controlli preventivi effettuati sul personale laico ed ecclesiastico. 189 diocesi latine ed eparchie di rito orientale hanno ottemperato a tutti i 17 articoli della “Carta”, una diocesi è stata trovata parzialmente inadempiente su due articoli, mentre una diocesi e cinque eparchie non hanno partecipato  alle verifiche e quindi risultano inadempienti. L’obiettivo – precisa ancora l’introduzione - resta quello di coinvolgere la totalità delle diocesi ed eparchie nella raccolta di dati e negli audit.

26 denunce tutte riportate alle autorità giudiziarie
Quanto alle denunce di molestie da parte di minori, nel periodo in esame ne sono state registrate in tutto 26, di cui sette dimostratesi fondate. Tutte sono state riportate alle autorità giudiziarie. Delle 838 vittime di abusi in passato, tra il 2014 e il 2015, il 46 per cento ha accettato di partecipare ai programmi terapeutici predisposti dalle diocesi, mentre 1.646 vittime hanno continuato a ricevere assistenza nelle stesse strutture diocesane. (A cura di Lisa Zengarini)

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Vescovi Patagonia: preoccupati per aumenti di gas ed elettricità

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I Vescovi della regione Patagonia-Comahue “profondamente preoccupati per le conseguenze dell’aumento smisurato di servizi essenziali come il gas e l'elettricità” che colpisce soprattutto la popolazione più povera, hanno scritto una lettera ai ministri dell’Energia e dell'Interno di Argentina, Juan José Aranguren e Rogelio Frigerio. Il documento è stato firmato da undici vescovi, tra ordinari, ausiliari ed emeriti delle circoscrizioni ecclesiastiche della regione, che comprende le province di Chubut, Neuquén, Río Negro, Santa Cruz, Tierra del Fuego. 

Stato di necessità impellente
Nella missiva, pervenuta a Fides, i Vescovi non mettono in discussione la necessità degli aumenti, “in particolare nei grandi centri urbani che hanno avuto i servizi sovvenzionati dallo Stato”, bensì lamentano “che questi aumenti non siano stati fatti gradualmente, soprattutto se si considera che l'inverno non è benevolo in Patagonia, mentre nelle province meridionali continua durante tutto l'anno". C'è quindi, è la considerazione, "una necessità impellente di gas ed elettricità”.

Le angosce dei poveri e bisognosi
“Il lamento doloroso della nostra gente – si legge ancora - ci arriva ogni giorno attraverso i nostri sacerdoti, gli operatori pastorali e le Caritas parrocchiali, che si sentono impotenti di fronte alle angosce dei più poveri e bisognosi e di molte piccole e medie imprese, che vedono minacciata la loro continuità aziendale con la conseguente perdita di posti di lavoro”.

Evitare situazioni insostenibili
I Vescovi chiedono quindi ai ministri di riconsiderare i provvedimenti, “per evitare situazioni insostenibili che producono angoscia nelle famiglie, nelle scuole e nelle opere di promozione sociale con scarse risorse, ingiustamente gravate da un peso insopportabile”, e ribadiscono che tali tariffe “per la gran parte" della regione amazzonica risultano "impossibili da pagare e attentano alla pace sociale”.

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Terra Santa: restauri alla tomba di Gesù al Santo Sepolcro

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Sono iniziati a Gerusalemme, nella Basilica del Santo Sepolcro, i lavori di restauro della tomba di Gesù. Due tecnici, riferisce il portale della Custodia di Terra Santa, hanno effettuato alcuni rilievi con laser e, domenica scorsa, l’Edicola con all’interno il Sepolcro, ha subito il sua primo cambiamento evidente. Al suo ingresso è stata installata una sorta di camera di sicurezza da cui potranno transitare i pellegrini. In un’intervista rilasciata a Terrasanta.net, Antonia Maropoulou, ingegnere chimico, docente del Politecnico nazionale di Atene e coordinatrice scientifica dei lavori, ha spiegato che gli interventi dovranno essere effettuati di giorno e di notte, quindi 24 ore su 24. Di giorno si effettueranno i lavori che consentiranno la continuità delle devozioni, di notte invece quelli più pesanti, che prevedono la chiusura della tomba. Nella galleria francescana, invece, è stato allestito un laboratorio che permetterà a una parte dell’equipe di lavorare durante il giorno.

I danni nel tempo alla Tomba di Gesù
I lavori si sono resi necessari poiché, per decenni, la cupola della rotonda che sovrasta il Sepolcro è rimasta aperta, pioggia e intemperie hanno quindi danneggiato la struttura dell’edicola che racchiude la Tomba e i materiali con cui è stata realizzata. La situazione è inoltre stata peggiorata da un incendio, nel 1808, e dal terremoto del 1927. Gli interventi sono stati resi possibili dall’accordo firmato il 22 marzo di quest’anno dalle tre Chiese greca, latina e armena, corresponsabili della Basilica, con il quale è stata affidata al Politecnico di Atene la gestione del cantiere.

I primi interventi e l’organizzazione del cantiere
La prof.ssa Maropoulou spiega che non è ancora possibile prevedere una data per la fine dei lavori, anche perché deve essere prima completata la “fase pilota”, finalizzata a capire l’entità dei problemi del sito. “L’obiettivo è quello di rinforzare la struttura dell’edicola –  illustra la coordinatrice scientifica dei lavori – passando attraverso lo smantellamento delle lastre di marmo che la ricoprono, la pulitura dei materiali, il consolidamento della muratura d’epoca crociata e la sua riparazione con materiali coerenti con quelli antichi”. Il cantiere è stato pensato in modo tale da garantire, durante il giorno, il libero accesso al Sepolcro e le persone che vi saranno impegnate sono una settantina tra scalpellini e lavoratori del marmo provenienti dall’Acropoli di Atene, operai specializzati in lavori di muratura e restauro dalla Grecia, alcuni conservatori, di cui due dal ministero della Cultura greco, operai assunti in loco, 27 membri tra architetti ed esperti del Politecnico nazionale di Atene. Le Chiese latina, greca e armena hanno nominato ciascuna propri periti per valutare e verificare gli interventi di restauro. (T.C.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 154

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.