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Sommario del 16/06/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco alla Roaco: oltre le incrostazioni la luce di Cristo

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“Sotto le lacrime e il sangue provocati dalla guerra, dalla violenza e dalla persecuzione” si possono trovare luci libere da “incrostazioni”. E’ quanto ha affermato Papa Francesco rivolgendosi, stamani, ai partecipanti all'Assemblea della Riunione delle Opere di Aiuto per le Chiese Orientali (Roaco). Il Santo Padre, dopo aver salutato tra gli altri il nuovo Custode di Terra Santa padre Francesco Patton, ha anche chiesto preghiere ricordando che dal 24 al 26 giugno si recherà come pellegrino in Armenia. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

L’articolato e intricato mosaico del Medio Oriente si può rispecchiare in una nitida immagine che, dopo essere stata liberata da impurità e da incrostazioni, rivela prospettive di senso facendo riemergere la luce dalla penombra, nuove figure dall’oscurità.

Oltre le incrostazioni si può trovare la luce
Questo cruciale passaggio - ha detto Papa Francesco - si può cogliere nella sagoma di un angelo per secoli scomparso alla vista e riapparso su una parete - con la sua tunica di tessere bianche e celesti e l'aureola dorata - grazie alla recente opera di restauro compiuta nella Basilica della Natività a Betlemme.

“Questo fatto ci fa pensare che anche il volto delle nostre comunità ecclesiali può essere coperto da ‘incrostazioni’ dovute ai diversi problemi e ai peccati. Eppure la vostra opera deve essere sempre guidata dalla certezza che sotto le incrostazioni materiali e morali, anche sotto le lacrime e il sangue provocati dalla guerra, dalla violenza e dalla persecuzione, sotto questo strato che sembra impenetrabile c’è un volto luminoso come quello dell’angelo del mosaico”.

Il volto della Chiesa rifletta la luce di Cristo
“Tutti voi con i vostri progetti e le vostre azioni – ha affermato il Santo Padre rivolgendosi ai partecipanti all'Assemblea della Riunione delle Opere di Aiuto per le Chiese Orientali - cooperate a questo ‘restauro’, perché il volto della Chiesa rifletta visibilmente la luce di Cristo Verbo incarnato”:

“Egli è la nostra pace, e bussa alla porta del nostro cuore in Medio Oriente, così come in India o in Ucraina, Paese quest’ultimo a cui ho voluto che si destinasse una colletta straordinaria indetta nello scorso mese di aprile tra le Chiese d’Europa”.

Oriente e Occidente facciano risplendere la Parola di Dio
In questi giorni i lavori dell’Assemblea plenaria della Roaco sono stati dedicati anche alla presenza delle Chiese Siro-Malabarese e Siro-Malankarese nei territori dell’India, al di fuori del Kerala. Il Papa ha auspicato che si possa procedere secondo le indicazioni dei suoi predecessori, “nel rispetto del diritto proprio di ciascuno, senza spirito di divisione, ma favorendo la comunione nella testimonianza dell’unico Salvatore Gesù Cristo”:

“Tale comunione, in ogni parte del mondo dove cattolici latini e orientali vivono fianco a fianco, ha bisogno delle ricchezze spirituali dell’Occidente e dell’Oriente, alle quali possono attingere le giovani generazioni di sacerdoti, religiosi e religiose e operatori pastorali, secondo quanto ha affermato san Giovanni Paolo II: ‘Le parole dell’Occidente hanno bisogno delle parole dell’Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze’.

Papa Francesco pellegrino in Oriente
Il Santo Padre ha ricordato infine che tra pochi giorni, dal 24 al 26 giugno, si recherà come pellegrino in una terra orientale, l’Armenia, “prima tra le Nazioni ad accogliere il Vangelo di Gesù”.

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Papa ad artisti strada: seminatori di bene, artigiani del bello

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Seminatori di bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste. Così il Papa si è rivolto questa mattina in Aula Paolo VI ai circa 7mila, tra circensi, fieranti, burattinai, bande musicali, giocolieri e madonnari, partecipanti al Giubileo del mondo dello spettacolo viaggiante e popolare. Prima dell’udienza un intrattenimento artistico ha animato l’attesa del Santo Padre. Il servizio di Paolo Ondarza: 

Artigiani della festa 
“Artigiani della festa, della meraviglia, del bello”. Francesco definisce così i partecipanti al Giubileo dello Spettacolo viaggiante. Circensi, fieranti, giostrai, lunaparkisti, artisti di strada, madonnari, componenti di bande musicali e animali, tra cui una tigre accarezzata dal Papa, hanno colorato e riempito di suoni ed allegria l’aula Paolo VI: 

"Anche potere spaventare il Papa, nell’accarezzare quel leopardo [tigre]… Ma siete potenti! E voi non potere immaginare il bene che voi fate: un bene che si semina. E grazie di questo. Grazie!"

Le vostre esibizioni, è stata la riflessione del Santo Padre, sono capaci di “arricchire la società di tutto il mondo, e alimentare sentimenti di speranza e fiducia, elevare l’animo, mostrare l’audacia di esercizi particolarmente impegnativi, affascinare con la meraviglia del bello e proporre occasioni di sano divertimento. 

Portatori della misericordia di Dio
Far divertire può voler dire portare Misericordia:

“La festa e la letizia sono segni distintivi della vostra identità. (…). Voi avete una speciale risorsa: con i vostri continui spostamenti, potete portare a tutti l’amore di Dio, il suo abbraccio e la sua misericordia. Potete essere comunità cristiana itinerante, testimoni di Cristo che è sempre in cammino per incontrare anche i più lontani”.

Vicini agli ultimi
In particolare Francesco, salutato dal card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, ha espresso apprezzamento per l’iniziativa di alcuni circhi e complesso fieranti che in questo anno giubilare hanno aperto le porte agli ultimi in continuità con l’impegno dei tanti artisti che si recano con la loro arte nelle zone colpite da guerre, calamità naturali e violenza:

“Mi congratulo con voi perché, in questo Anno Santo, avete aperto i vostri spettacoli ai più bisognosi, ai poveri e ai senza tetto, ai carcerati, ai ragazzi disagiati. Anche questa è misericordia: seminare bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”.

La Chiesa è vicina agli artisti di strada
Una delle forme più antiche di intrattenimento, alla portata di tutti, veicolo della cultura dell’incontro e della socialità nel divertimento, lo spettacolo viaggiante e popolare – è stato l’auspicio del Papa – sia sempre accogliente verso piccoli e bisognosi. La Chiesa è con voi, ha assicurato Francesco constatando la difficoltà per gli artisti itineranti di conciliare i ritmi di vita e di lavoro:

“Perciò vi invito ad avere cura della vostra fede. Cogliete ogni occasione per accostarvi ai Sacramenti. Trasmettete ai vostri figli l’amore per Dio e per il prossimo nel cammino della bellezza. E raccomando alle Chiese particolari e alle parrocchie di essere attente alle necessità vostre e di tutta la gente in mobilità. Come sapete, la Chiesa si preoccupa dei problemi che accompagnano la vostra vita itinerante, e vuole aiutarvi ad eliminare i pregiudizi che a volte vi tengono un po’ ai margini”.

Al termine dell’udienza i partecipanti hanno varcato la Porta Santa, poi, fino al pomeriggio le esibizioni in piazza San Pietro.

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Papa: “Padre Nostro” è pietra angolare della nostra preghiera

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Pregando il “Padre Nostro” sentiamo il suo sguardo su di noi. E’ quanto affermato da Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Papa ha sottolineato che, per un cristiano, le preghiere non sono “parole magiche” ed ha rammentato che “Padre” è la parola che Gesù pronuncia sempre nei momenti forti della sua vita. Il servizio di Alessandro Gisotti

Non sprecare parole come i pagani, non pensare che le preghiere siano “parole magiche”. Papa Francesco ha preso spunto dal Vangelo odierno, in cui Gesù insegna la preghiera del “Padre Nostro” ai suoi discepoli per soffermarsi sul valore del pregare il Padre nella vita del cristiano. Gesù, ha detto, “indica proprio lo spazio della preghiera in una parola: Padre”.

Gesù si rivolge sempre al Padre nei momenti forti della sua vita
Questo Padre, ha osservato, “che sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che noi le chiediamo”. Un Padre che “ci ascolta di nascosto, nel segreto, come Lui, Gesù, consiglia di pregare: nel segreto”.

“Questo Padre che ci dà proprio l’identità di figli. E quando io dico ‘Padre’ ma arrivo fino alle radici della mia identità: la mia identità cristiana è essere figlio e questa è una grazia dello Spirito. Nessuno può dire ‘Padre’ senza la grazia dello Spirito. ‘Padre’ che è la parola che Gesù usava nei momenti più forti: quando era pieno di gioia, di emozione: ‘Padre, ti rendo lode, perché tu riveli queste cose ai bambini’; o piangendo, davanti alla tomba del suo amico Lazzaro: ‘Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato’; o poi, dopo, alla fine, nei momenti finali della sua vita, alla fine”:

“Nei momenti più forti”, ha evidenziato il Papa, Gesù dice: Padre, “è la parola che più usa”, “Lui parla col Padre. E’ la strada della preghiera e, per questo – ha ribadito – io mi permetto di dire, è lo spazio di preghiera”. “Senza sentire che siamo figli, senza sentirsi figlio, senza dire Padre – ha ammonito – la nostra preghiera è pagana, è una preghiera di parole”.

Pregare il Padre è la pietra d’angolo, Lui conosce ogni nostro bisogno
Certo, ha soggiunto, si possono pregare la Madonna, gli angeli e i Santi. “Ma – ha ammonito – la pietra d’angolo della preghiera è Padre”. Se non siamo capaci di iniziare la preghiera da questa parola, ha avvertito, “la preghiera non andrà bene”:

Padre. E’ sentire lo sguardo del Padre su di me, sentire che quella parola ‘Padre’ non è uno spreco come le parole delle preghiere dei pagani: è una chiamata a Colui che mi ha dato l’identità di figlio. Questo è lo spazio della preghiera cristiana – ‘Padre’ – e poi preghiamo tutti i Santi, gli Angeli, facciamo anche le processioni, i pellegrinaggi… Tutto bello, ma sempre incominciando con ‘Padre’ e nella consapevolezza che siamo figli e che abbiamo un Padre che ci ama e che conosce i nostri bisogni tutti. Questo è lo spazio”.

Francesco ha così rivolto il pensiero alla parte in cui nella preghiera del “Padre Nostro”, Gesù fa riferimento al perdono del prossimo come Dio perdona noi. “Se lo spazio della preghiera è dire Padre – ha rilevato – l’atmosfera della preghiera è dire ‘nostro’: siamo fratelli, siamo famiglia”. Ha così ricordato cosa è successo con Caino che ha odiato il figlio del Padre, ha odiato suo fratello. Il Padre, ha ripreso, ci dà l’identità e la famiglia. “Per questo – ha affermato il Papa – è tanto importante la capacità di perdono, di dimenticare, dimenticare le offese, quella sana abitudine ‘ma, lasciamo perdere… che il Signore faccia Lui’ e non portare il rancore, il risentimento, la voglia di vendetta”.

Ci fa bene fare un esame di coscienza su come preghiamo il Padre
“Pregare il Padre perdonando tutti, dimenticando le offese – ha evidenziato – è la migliore preghiera che tu possa fare”:

“E’ buono che alcune volte facciamo un esame di coscienza su questo. Per me Dio è Padre, io lo sento Padre? E se non lo sento così, ma chiedo allo Spirito Santo che mi insegni a sentirlo così. Ed io sono capace di dimenticare le offese, di perdonare, di lasciar perdere e se no, chiedere al Padre ‘ma anche questi sono i tuoi figli, mi hanno fatto una cosa brutta… aiutami a perdonare’?. Facciamo questo esame di coscienza su di noi e ci farà bene, bene, bene. ‘Padre’ e ‘nostro’: ci dà l’identità di figli e ci dà una famiglia per ‘andare’ insieme nella vita”.

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Papa apre convegno diocesano. Vallini: al centro le famiglie

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Si apre stasera alle 19 con il discorso di Papa Francesco nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il Convegno della diocesi di Roma sul tema “‘La letizia dell’amore: il cammino delle famiglie a Roma alla luce dell’esortazione apostolica Amoris laetitia”. Sul tema dell’incontro, Fabrizio Mastrofini ha intervistato il cardinale vicario Agostino Vallini

R. – Questa scelta è un atto provvidenziale. L’“Amoris Laetitia” è il frutto di due Sinodi ed è quindi la conclusione pastorale, con un testo molto avvincente e anche molto coraggioso, che il Santo Padre ci dà; ma per noi è una scelta provvidenziale, perché viene a sviluppare un cammino del progetto pastorale che, partendo dalla riproposta della fede in questo tempo storico, l’ha sviluppata attraverso delle tappe. Quindi al tema della famiglia noi ci siamo arrivati già da qualche anno. Abbiamo riscoperto il cammino della Chiesa proprio dalla riproposta della fede, attraverso gli itinerari di formazione alla fede: la tappa dell’iniziazione cristiana e il coinvolgimento dei genitori. Oggi il discorso alla famiglia si allarga a tutte le famiglie, con una pastorale – direi - più ampia e proprio “Amoris laetitia” ci permette di entrare nel vivo per una più coraggiosa e più incisiva azione evangelizzatrice e di sostegno alle famiglie. Quindi siamo proprio in un piano di provvidenza, in cui il disegno di questo progetto è veramente bello. Speriamo che vada bene…

D. – Quali sono le difficoltà, oggi, a suo avviso, nell’evangelizzare le famiglie?

R. – Sono tante. La prima è la vita frenetica delle famiglie; la seconda è che c’è un bisogno enorme di riproporre la fede e  non soltanto al momento della famiglia, ma da quando si nasce. Ecco perché il tema dell’iniziazione cristiana, che comincia dalla preparazione dei genitori che chiedono il Battesimo dei figli e dell’accompagnamento a vivere la vita cristiana nella fase dell’adolescenza e della prima giovinezza fa sì che poi il tema centrale e la responsabilità di formare alla fede sia innanzitutto quella della famiglia.

D. – E perché, a suo avviso, quando si parla di famiglia, a volte si assiste a scontri ideologici, quasi tra chi fosse a favore e chi contro, e non si è invece capaci di essere tutti a favore di questo perno della vita collettiva e della vita individuale?

R. – Mi esprimo con una espressione che ha usato Papa Francesco, quando parlando della cultura europea, ha detto che “l’Europa è triste, è invecchiata”. E questo è la cultura illuministica che ha riprodotto una visione della vita, dell’uomo, della persona quasi riducendola ad individuo; è chiaro che anche le relazioni umane – pur nello sviluppo del reciproco rispetto – alla fine diventano un punto delicato. Se la fede illumina la relazione affettiva, la nascita anche del rapporto affettivo da cui viene e poi deriva la famiglia - la trasmissione della vita, la gioia proprio di una realtà comunitaria qual è quella della famiglia - allora è chiaro che tutto è diverso. Ma l’uomo ha bisogno di Dio: senza Dio, senza vedere la forza che viene dalla grazia, senza la luce del Vangelo, l’uomo è più povero. Basta vedere o ascoltare un telegiornale: è un elenco di debolezze, di fragilità umane, che ci fanno capire come investire forze pastorali della fede per sviluppare le relazioni umane - e anche la riscoperta nella giusta misura della sessualità, della vita di relazione familiare e del costituirsi delle famiglie - è qualcosa oggi di imprescindibile, anzi direi di urgente. Noi cerchiamo di impegnarci in questa linea e il Santo Padre ci aiuta e gliene siamo grati. Quindi confido proprio che anche il Convegno di quest’anno, come quello degli anni passati, porti buoni frutti.

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Altre udienze e nomine di Papa Francesco

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Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza: mons. Augustine Kasujja, Arcivescovo tit. di Cesarea di Numidia; Nunzio Apostolico in Nigeria; Osservatore Permanente della Santa Sede presso la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale; la principessa Esmeralda del Belgio; il signor Alberto Leoncini Bartoli, Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta, in visita di congedo;

In Messico, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Tijuana per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Arcivescovo di Tijuana mons. Francisco Moreno Barrón, finora Vescovo di Tlaxcala.

In Francia, il Papa ha nominato Vescovo Ausiliare dell’arcidiocesi di Lione  il rev.do Emmanuel Gobilliard, fino ad ora Rettore della Cattedrale di Le Puy-en-Velay, assegnandogli la sede titolare vescovile di Carpentras.

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Tweet Papa: anche nella situazione più brutta della vita, Dio mi attende

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"Anche nella situazione più brutta della vita, Dio mi attende, Dio vuole abbracciarmi, Dio mi aspetta". E' il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter in 9 lingue @Pontifex.

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Parolin in Ucraina: vostra sofferenza interpella coscienza dell'Europa

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Incontrando i partecipanti all'Assemblea della Riunione della Roaco, il Papa ha anche ricordato la grave crisi che sta vivendo l’Ucraina, Paese per il quale è stata indetta lo scorso mese di aprile una colletta straordinaria indetta tra le Chiese d’Europa. E proprio in Ucraina è giunto ieri sera il cardinale segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, per portare la solidarietà del Papa e dell’intera Chiesa cattolica a una popolazione vittima di una guerra subdola e dimenticata. Il servizio di Stefano Leszczynski

Appena giunto in Ucraina come inviato del Papa, il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha voluto fare subito visita alla città di Zaporizhia, nella parte più orientale del Paese, proprio laddove sono particolarmente numerosi i rifugiati e le vittime della violenza che ancora dilania le aree circostanti della regione. Subito il pensiero del porporato è andato al dramma dei bambini, prime vittime delle mine che infestano i terreni su cui si è combattuto. Rivolgendosi ai rappresentanti delle Chiese e delle confessioni religiose della città, il cardinale Parolin non ha esitato a condannare il conflitto in atto nel Paese come subdolo e pericoloso per tutta l’Europa, un esempio di quella "guerra mondiale a pezzi" denunciata tante volte da Papa Francesco. “La sofferenza che state vivendo – ha detto l’inviato del Papa – interpella le coscienze dell’intera comunità internazionale”. Ed è per questo che Papa Francesco ha esortato le comunità cattoliche d’Europa a dedicare una speciale colletta in favore dell’Ucraina sofferente come segno di solidarietà concreta. Le risorse raccolte con la colletta, più altre stanziate personalmente da Papa Francesco, sono state consegnate dal cardinale Parolin ad un apposito Comitato tecnico, presieduto da mons. Jan Sobilo, vescovo ausiliare di Kyiv–Zaporizhia, con destinazione esclusiva in favore delle vittime della violenza nella parte orientale dell’Ucraina. “Nell’assegnazione degli aiuti umanitari – ha ribadito il porporato escludendo categoricamente qualsiasi intento di proselitismo – non vi sarà alcuna distinzione di convinzione o appartenenza religiosa, etnica o linguistica. La sola condizione è che si tratti di persone in condizione di reale necessità”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Dietro le lacrime e il sangue: alla Roaco il Papa ricorda che la pace di Cristo bussa alle porte del Medio Oriente, dell’India e dell’Ucraina.

L’Europa di fronte alla crisi dei migranti: gli articoli di Antonio Zanardi Landi, Charles de Pechpeyrou e di Silvina Pérez.

Hyacinthe Destivelle sul primo passo di una storica missone: dopo il sì del patriarcato serbo dieci le Chiese ortodosse presenti al Concilio di Creta.

Sulla Brexit confronto sempre più serrato.

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Oggi in Primo Piano



Terrorismo. Cia: Is addestra terroristi diretti in Occidente

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Secondo il direttore della Cia, John Brennan, ci sarebbero concrete possibilità che il sedicente Stato Islamico addestri terroristi destinati a compiere azioni in Occidente. Dopo le indiscrezioni dell’intelligence belga e francese su due commando che starebbero per entrare in azione, anche in Europa – in particolare nella Francia dove si stanno giocando gli Europei di Calcio – l’allerta resta massima. Roberta Barbi ne ha parlato con il direttore del Ceas, il Centro di alti studi per la lotta al terrorismo, Maurizio Calvi: 

R. – Noi siamo passati da una sottovalutazione delle conseguenze e delle mancate azioni da parte della comunità internazionale verso quei territori, per poi trasferire il sedicente Stato islamico, sul piano territoriale, in una serie di azioni di "cani sciolti", che nel contesto delle varie aree - e in particolare quella europea e americana - agiscono in maniera solitaria, e quindi governano la violenza che nasce da questa nuova forma di terrorismo.

D. – Quanto sono concrete queste minacce e chi sono questi terroristi che starebbero arrivando in Occidente?

R. – È evidente che cellule impazzite di quella varia ed estesa comunità che è rappresentata dall’Is è facile che sia attraverso trasporti diretti o indiretti – via mare attraverso i migranti o altre forme di navigazione e terrestri – questo controllo diventa quasi impossibile.

D. – Molti degli ultimi attentati sembrano essere azioni isolate: sono queste le più difficili da prevenire?

R. – Il problema è che c’è un processo di “imitation”, come dicono gli americani. Queste cellule nascono in maniera autonoma; lanciano dei messaggi che però non vengono decifrati dalla comunità dell’intelligence internazionale. È evidente che alcuni segnali ci sono: è la comunità dell’intelligence che non riesce a capire come intervenire, anche se ci sono segnali.

D. – Tra gli obiettivi indicati come possibili, ci sarebbero un centro commerciale, un fast-food e un commissariato: quindi si rende indispensabile uno stato di massima allerta, pressoché stabile?

R. – Direi che questo stato di allerta debba essere permanente nel lungo periodo, perché si tratterà di un lungo periodo. È ovvio che più si rafforza la “lettura” dei territori e tanto più è facile individuare questi cani sciolti; perché alcuni segnali loro li lasciano e li lanciano.

D. – Ieri mattina il premier francese Vall ha fatto previsioni fosche, parlando di vittime future e di una guerra globale che durerà molti anni: è corretto?

R. – Mettere le proprie comunità di fronte a questi gradi di violenza è dire una verità. A livello istituzionale, è evidente che potrebbe anche essere un errore la disseminazione delle comunicazioni circa ipotesi di minacce continue nei nostri territori o in quelli più vasti della Comunità Europea. A mio avviso occorrono due azioni: la prima è colpire con una massiccia presenza della comunità internazionale su quei territori, nelle realtà dove è nata e dove si sta sviluppando, la matrice della violenza è lì che nasce. Tanto più forte è il contrasto e tanto più la minaccia s’indebolisce nella comunità internazionale. Bisogna colpire prima lì – farlo in maniera forte – e di conseguenza indebolire la presenza e la comunicazione verso i territori.

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Myanmar: 200 mila profughi per guerre etniche. Chiesa chiede la pace

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Più di 200 mila sono gli sfollati che abitano i campi profughi al confine tra lo stato Kachin e la Cina. La guerra che vede coinvolti esercito birmano e milizie ribelli prosegue da più di 60 anni. A nome della Chiesa cattolica birmana, il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon ha lanciato un appello urgente per la pace e la riconciliazione per i kachin. Oltre alla popolazione kachin altre 130 etnie stanno vivendo disagi e conflitti interni, tra loro anche i musulmani Rohingya. Al microfono di Valentina Onori, Cecilia Brighi, segretaria generale di Italia-Birmania.insieme, ha parlato della situazione politica ed economica che sottende alle divisioni etniche nel Paese, una democrazia di nuova costituzione che deve affrontare serie sfide tra cui la principale, la pace tra minoranze ed esercito birmano. 

R. – In questi ultimi anni, cioè dopo il passo indietro della giunta militare, i conflitti interetnici non si sono ancora chiusi e, soprattutto, stanno emergendo anche dei conflitti interreligiosi, fra cui quello nei confronti dei musulmani Rohingya, alimentati molto da una parte dei militari che vedono restringere il loro potere e che in questo modo puntano a dire: “Noi siamo ancora indispensabili nel Paese”. Aung San Suu Kyi sta cercando di trovare una soluzione, per pacificare queste tensioni tra le varie religioni. In particolare, nello Stato Kachin c’è un conflitto armato che ancora non si risolve, che dura ormai da 60 anni e che ha portato centinaia di migliaia di persone a fuggire dai propri villaggi e andare nei campi profughi, dove le condizioni di vita non sono le più tranquille, perché vivono in grande povertà. Ci sono stati anche dei nubifragi anche nel 2015, che hanno alimentato ulteriormente le condizioni di difficile sopravvivenza dei profughi nei campi. Uno dei grossi problemi che hanno in questi Stati etnici è l’assenza di un riconoscimento della specificità etnica, ma soprattutto l’assenza di un federalismo che loro chiedono da molti anni perché negli Stati etnici ci sono soprattutto le grandi risorse naturali che hanno alimentato il benessere della giunta militare e nello Stato Kachin questo è un problema grossissimo.

D. – Il Myanmar è composto da 135 etnie, che da sempre hanno faticato a convivere in modo pacifico. Perché c’è questa situazione frammentata?    

R. – Perché appunto le etnie sono 135, e sono quelle principali. Poi ci sono delle sotto etnie. Dal ’62 in poi c’è stata la via birmana al socialismo ed è cominciata la dittatura, promossa dal generale Ne Win, il quale non amava per niente le minoranze etniche e aveva dichiarato che se, nel tempo, si fossero voluti vedere i Karen bisognava andare in un museo, e che aveva attuato una politica di discriminazione, di violenze e di emarginazione delle minoranze etniche. Adesso, dopo tanti anni, è difficile ricostruire un dialogo, perché nessuno crede all’altro. Il nuovo governo ha nominato il ministro per gli Affari religiosi, che dovrà discutere anche di queste cose.

D. – Il cardinale Bo ha fatto appello all’unità nella diversità etnica…

R. – La Birmania è un Paese dalle mille contraddizioni, perché è stato volutamente tenuto in una situazione di conflitto e di divisione. Questo ha permesso, infatti, alla dittatura di sfruttare le grandi risorse naturali del Paese, senza che nessuno potesse contestare il fatto che poi in realtà le popolazioni locali fossero rimaste poverissime. Quella della pace è la sfida madre. Si potrà intervenire meglio per affrontare il tema della povertà e dell’esclusione sociale, anche attraverso il contributo degli investimenti esteri, che non siano di rapina, ma che siano responsabili e che permettano al Paese di creare delle scuole, di avere una formazione professionale adeguata e di avere dei lavoratori qualificati. Il popolo birmano vuole la pace e si dovrà necessariamente arrivare a questo per il bene di tutti e anche per il bene di quella minoranza politica e dell’esercito, che fino adesso ha remato contro. Spesso i militari nelle istituzioni hanno votato per il cambiamento, quindi ci sono grandi aspettative, e la pace rappresenterà la chiave di volta per la crescita economica e sociale del Paese.

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Consiglio d'Europa: risoluzione apre la strada a utero in affitto

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Martedì prossimo la Commissione affari sociali del Consiglio d’Europa discuterà una nuova risoluzione sulla maternità surrogata, redatto dalla senatrice belga Petra De Sutter. Già lo scorso 15 marzo un altro testo sull’argomento, che condannava la maternità surrogata a fini commerciali ma lasciava aperta la possibilità a una “maternità surrogata no profit”, erà già stato bocciato dall’Assemblea. Sul perché e sui rischi di questa nuova discussione Michele Raviart ha intervistato Nicola Speranza, portavoce della Federazione europea delle Associazioni familiari cattoliche: 

R. – Per gli stessi addetti ai lavori – e questo bisogna ammetterlo - è stata anche una sorpresa. Ora, il 15 marzo a Parigi che cosa è successo? La Commissione ha rifiutato una bozza presentata dal senatore belga, Petra De Sutter. Questa proposta che cosa chiedeva? Di condannare la maternità surrogata commerciale, raccomandando di regolamentare altri tipi di maternità surrogata. Questo tipo di bocciatura, al primissimo stadio della procedura dell’Assemblea, è più unica che rara e normalmente – anche per ragioni di opportunità politica – il relatore in questione si dimette.

D. – Perché questa insistenza sul tema?

R. – C’è una spinta da grandi interessi economici e finanziari, volti a legittimare – in un modo o nell’altro – questa pratica; ma c’è anche un grande interesse mediatico in tutta Europa: recentemente il presidente della Repubblica in Portogallo ha rifiutato un progetto di legge, che puntava ad accettare la maternità surrogata non profit; oggi stesso, l’Assemblea nazionale in Francia discute progetti di legge per combattere in maniera più determinata questa pratica; anche in Italia il governo ha preso una posizione contro, molto chiara. L’Assemblea parlamentare (del Consiglio d’Europa) vorrebbe intervenire in qualche modo sul dibattito, ma il dibattito è stato in un certo senso sequestrato – per così dire – da frange che vorrebbero una legittimazione della maternità surrogata, contrariamente a quello che invece vediamo nella maggior parte dei Paesi europei.

D. – Il testo di questa nuova Risoluzione non è ancora stato reso pubblico, ma nella Risoluzione precedente si poneva l’accento sulla maternità surrogata per fini commerciali, che era totalmente da condannare, e una sorta di maternità surrogata ammessa laddove ci siano dei casi – per esempio – di donazione gratuita. Quali sono i rischi nel fare questa differenziazione?

R. – Il rischio di una nuova proposizione è che questa proposta riproponga, alla fine, la medesima legittimazione della maternità surrogata in maniera più subdola e capziosa. La distinzione tra maternità surrogata commerciale e no non profit non è ammissibile e questo semplicemente perché non è realistica! Quello che si genera, alla fine, è un vero e proprio mercato della riproduzione, che alimenta anche la tratta degli esseri umani e che lede profondamente non solo la dignità della procreazione umana, ma anche la dignità delle persone coinvolte, a cominciare dalle donne che sono spesso sfruttate e dai bambini: diventano un vero e proprio oggetto di scambio.

D. – Qualora questa risoluzione fosse approvata, quali sarebbero le conseguenze?

R. – Nessuna risoluzione dell’Assemblea Consiglio d’Europa è legalmente vincolante. Però bisogna dire che il Consiglio d’Europa ha una influenza culturale e politica molto importante e  non solo sui governi nazionali, ma anche sulla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che fa spesso riferimento alle Risoluzioni dell’Assemblea. Noi, come Federazione europea delle associazioni familiari cattoliche, abbiamo sostenuto – per esempio – una petizione contro il cosiddetto traffico della maternità, che ha raccolto 110 mila firme, che è stata recentemente ufficialmente accolta dal Consiglio d’Europa. Una risoluzione dell’Assemblea parlamentare che condanni chiaramente la maternità surrogata faciliterebbe la realizzazione di una Convenzione internazionale contro la maternità surrogata: possiamo evitare l’utero in affitto in Italia, ma poi lo vediamo praticano in Ucraina e vediamo tutti i problemi che questo genera.

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Giornata bambino africano. Amref: insegnare loro a sognare

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Era il 16 giugno del 1976 quando migliaia di studenti di Soweto, in Sudafrica, scesero in piazza per protestare contro la scarsa qualità dell'insegnamento dei neri sotto il regime dell'apartheid e contro il decreto che imponeva alle scuole di usare l'afrikaans come lingua paritetica all'inglese. Al grido di "Non sparateci - non siamo armati", quei ragazzi vennero uccisi dalla polizia. Da allora la storia dell'Africa e degli africani non fu più la stessa, da lì iniziò la lenta erosione dell'apartheid. Per ricordare le vittime, dal 1991, l'Organizzazione per l'Unità Africana prima e poi le Nazioni Unite, hanno indetto la Giornata del bambino africano, un'occasione per tenere alta l'attenzione sulle condizioni di vita di bambini e ragazzi nel continente. "C'è ancora tanta strada da fare" sostiene Guglielmo Micucci, direttore della sezione Italia di Amref Health Africa, in un continente immenso come l'Africa in cui ancora oltre 45 milioni di ragazzi non vanno a scuola. Al microfono di Valentina Onori il direttore di Amref Health Africa spiega le difficoltà e le iniziative in corso per i bambini "chokora", gli scarti, come vengono definiti dalle stesse comunità locali: 

R. – C’è ancora tutto un problema di mancanza di accesso alle infrastrutture sanitarie primarie: tre milioni di bambini sono morti nei primi cinque anni di vita per mancanza di assistenza sanitaria primaria. Così come tutto l’ambito dell’educazione porta a considerare quelle generazioni, come purtroppo spesso viene detto, come quelle ormai “perse”, perdute.

D. – Nell’area sub-sahariana oltre 45 milioni di ragazzi non vanno a scuola: è cambiato molto poco da Soweto

R. – È impensabile che il 60 % dei bambini nasce ancora in casa. Questi bambini non hanno accesso alla scuola: soprattutto le bambine. Quello che noi proviamo a fare è colmare quel gap.

D. – In che modo state lavorando?

R. – Portiamo avanti ormai da anni un Centro di recupero di ragazzi di strada nello slum di Dagoretti. Lì i ragazzi di strada vengono chiamati “immondizia” (chokora). Già questo è significativo di come vengono considerati anche da parte delle comunità di appartenenza. Un paio di mesi ero proprio lì in Kenya; parlavo con un ufficiale di polizia e lui non riusciva a comprendere l’importanza del lavoro che noi stavamo facendo. E lui diceva: “Perché destinate questi sforzi? Sono ragazzi “persi”. Ed è proprio lì che dobbiamo inserirci; per dare una risposta oggi, per permettere a quei bambini, tra 20 anni, di autodeterminarsi e poter essere loro i leader di quei Paesi. Stiamo portando avanti delle attività in collaborazione con la Trentino Volley, una squadra di pallavolo molto famosa qui in Italia. Da quando abbiamo aperto il Centro, si sono avvicinati lì ben 26.000 bambini.

D. – Qual è il futuro per questa generazione?

R. – Passa attraverso la possibilità di autodeterminarsi. Il continente africano non è un Paese: è un continente, enorme, pieno di ricchezze. Se non passa attraverso di lì il futuro del mondo, allora la vedo critica non solo per l’Africa ma per il mondo intero.

R. – Quanto crede che siano utili queste Giornate, al di là delle etichette?

R. – Penso che sia molto importante che si riesca a creare una forte collaborazione tra noi e media. Per noi sono, sì, dei momenti di celebrazione, ma cerchiamo anche di fare emergere quali sono le problematiche, ma non solo, anche le cose che funzionano in un continente come quello africano. Dall’altra parte, un atteggiamento dei media che deve facilitare il passaggio di questi messaggi: sono importanti soltanto se c’è un lavoro combinato, perché altrimenti rischiano di rimanere delle cose formali. Quindi il parlarne è già fondamentale.

D. – Attraverso le vostre attività ci sono risultati visibili, concreti?

R. – Assolutamente sì. Noi abbiamo fatto in passato attività di formazione di video maker. Alcuni ragazzi, che erano i cosiddetti beneficiari di quell’intervento. Oggi, portano avanti con professionalità il loro essere registi al servizio delle tv locali, dell’associazionismo che ha bisogno di documentare; erano loro i videomaker, non eravamo noi nella solita accezione occidentale.

D. – E ha notato delle differenze nei risultati e nell’inquadratura di una realtà diversa rispetto alla nostra?

R. – C’è tutto un pezzo di umanità che noi non riusciamo a rappresentare non vivendo in prima persona determinate emozioni e momenti, la vita quotidiana di quei luoghi. Noi possiamo portare la professionalità. Loro al contrario in quello che fanno ci mettono un’anima.

D. – Nella formazione della persona, prima che delle professionalità, quali difficoltà incontrate?

R. – La prima è quella di riuscire ad intercettarli; creare una relazione con loro; e da lì far sì che si crei il bisogno di venire al Centro. Una volta fatto questo iniziano tutta una serie di attività formative, sull’emersione delle competenze, dei desideri, dei sogni.

D. – Quali sono i desideri di questi bambini?

R. – Poter decidere della loro vita; poter riuscire a sognare in realtà. Quello che Amref prova a fare è aiutarli a rendersi conto che il desiderio e il sogno sono una cosa della quale sono degni e poi una cosa raggiungibile.

D. – L’immagine iconica degli scontri di Soweto era un bambino, Hector Pieterson, che poi fu ucciso dalla polizia. Quale potrebbe essere l’immagine iconica per ricordare i bambini africani, il 16 giugno 2016?

R. – Sicuramente un bambino che nasce: il primissimo istante della sua vita, perché è lì che si determina il futuro dell’Africa. Quello che noi facciamo da tanti anni è lavorare proprio sulla salute materna-infantile: il bambino che nasce, che riesce a fare il primo pianto e viene messo nelle mani di una madre che sopravvive al parto, è una delle poche chiavi che possono veramente costruire un futuro nuovo e diverso.

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Assisi: torna il Crocifisso a San Damiano. Gioia tra i frati

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“La realizzazione di un sogno straordinario”, così i Frati minori dell’Umbria definiscono il ritorno temporaneo del Crocifisso di San Damiano nel suo luogo naturale, l’omonima chiesa. Fino al 19 giugno i pellegrini potranno pregare di fronte alla celebre icona. L’immagine del Cristo, solitamente conservata nella Basilica di Santa Chiara ad Assisi, nel XIII secolo rivolse al Poverello di Dio, secondo la tradizione l’invito: “Francesco va’ e ripara la mia casa”. Eugenio Murrali ha intervistato fra Andrea Dòvio, della comunità di San Damiano: 

R. – Il senso è cogliere l’invito che Papa Francesco ha espresso nella bolla “Misericordiae Vultus”: di fissare lo sguardo sul volto di misericordia di Gesù e farlo in un modo francescano e clariano. Il crocifisso ha parlato al giovane Francesco che, diremmo, era in discernimento vocazionale e, in questo incontro, Francesco ha trovato una risposta alle domande più profonde del suo cuore, insieme San Damiano è il luogo in cui davanti al crocifisso hanno pregato per più di 40 anni Chiara con le sue prime compagne. Il desiderio è di valorizzare il santuario di San Damiano e il Crocifisso riportandoli insieme in questo connubio originario e offrire l’opportunità, anche se solo per qualche giorno, a tanti pellegrini di rinnovare l’esperienza di Francesco e di Chiara, un’esperienza che è un incontro personale di amore con il Cristo vivo, il Cristo risorto, che ha una parola da dirci.

D. – Quali sono stati gli eventi per accogliere il Crocifisso a San Damiano?

R. – Ci sono stati preparativi per alcuni mesi. L’idea è stata concepita dalla fraternità di San Damiano e dalla comunità delle Clarisse del Protomonastero. Il Crocifisso è stato calato dalla sua posizione attuale, la cappella di San Giorgio, nella basilica di Santa Chiara, riposto in una struttura lignea, trasportato qui a San Damiano e rimontato all’interno della Chiesa, in una posizione elevata, sopra l’altare, come presumiamo che fosse all’epoca. Ieri è stato un momento forte, emozionante: vedere aprirsi qui a San Damiano la cassa lignea e poter vedere da vicino il crocifisso con questo volto così noto, così amato. Una volta fatto questo c’è stata una piccola celebrazione d’apertura, guidata dal nostro Ministro provinciale.

D. – Nei prossimo giorni quali percorsi spirituali aspettano i pellegrini di fronte al Crocifisso?

R. – Confidiamo, anzitutto, nella capacità che questa icona ha di parlare. E’ anche il simbolo, insieme alla Madonna di Loreto, della Giornata Mondiale della Gioventù per l’Italia. Abbiamo, quindi, privilegiato la possibilità di una preghiera personale, permettendo l’accesso alla Chiesa, alla contemplazione del crocifisso continuativamente dalle 6.30 del mattino fino alle 11.00 di sera. Gli appuntamenti di preghiera comunitaria sono: al mattino, la preghiera delle lodi e della Messa; alla sera, un percorso catechetico, nel contesto della celebrazione dei Vespri, in cui saremo aiutati a meditare sull’invito di Gesù alla sequela.

D. – Quali sono state le risposte dei pellegrini?

R. – L’atmosfera è stata particolarmente festosa sia al momento dell’arrivo della reliquia sia poi in occasione della celebrazione eucaristica delle 18.30, presieduta da mons. Comastri. Molti sono entusiasti, perché comprendono che è un’occasione unica e una grande opportunità. Hanno quindi aderito con gioia all’invito a partecipare alle celebrazioni o anche a trattenersi in preghiera nel corso della giornata.

D. – Il Crocifisso è anche un percorso didattico: i colori hanno un loro significato. E’ un viaggio simbolico anche per i pellegrini?

R. – Questo forse è più difficile da cogliere per la cultura del nostro tempo. Per aiutare le persone, prima della traslazione, domenica, abbiamo invitato la prof.ssa  Milvia Bollati dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano a illustrarci proprio gli aspetti storici, artistici e iconografici dell’opera.

D. – C’era stato un precedente nel 1953…

R. – Era un precedente parziale, nel senso che nel 1953, probabilmente per la prima volta, il Crocifisso era uscito da Santa Chiara ed era uscito per una peregrinatio per le vie di Assisi, in cui erano stati toccati diversi punti importanti della città: partendo da Santa Chiara, arrivando a Piazza del Comune e passando, giusto per qualche minuto, sulla piazzetta di San Damiano. Il Crocifisso, però, non era rientrato in chiesa e, soprattutto, non era stato esposto all’interno della chiesa per un tempo prolungato per la preghiera delle persone.

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De Luca, Ucsi: Francesco pone sfide anche per il giornalismo

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“Le sfide del giornalismo al tempo di Papa Francesco”. E’ il titolo dell’ultimo numero della rivista Desk, trimestrale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana (Ucsi). Alessandro Gisotti ha chiesto al presidente nazionale dell’Ucsi, la vaticanista di RaiNews, Vania De Luca, di soffermarsi su queste sfide e sul processo di riforma dell’Ucsi, di cui è stata eletta presidente tre mesi fa al Congresso di Matera: 

R. – Noi ci siamo anzitutto domandati in che cosa consista il tempo di Francesco, che poi è il nostro tempo, e in questo tempo quali sono le sfide per noi che siamo giornalisti e comunicatori. C’è un passaggio dell’Amoris laetitia, che è una grande provocazione per i giornalisti: si dice che “ogni crisi nasconde una buona notizia, che occorre saper ascoltare, affinando l’udito del cuore”. Questo nostro tempo è un tempo, per tanti aspetti, di crisi; ma in ogni crisi – dice il Papa – c’è una opportunità da cogliere, perché in ogni crisi c’è una buona notizia. La buona notizia probabilmente è, per noi, quel “nuovo” che ancora non c’è, ma che dobbiamo costruire. Si rompono degli equilibri preesistenti: pensiamo anche alla nostra professione, a quel lavoro che abbiamo svolto in un dato modo e che, invece, i tempi, le tecnologie, le esigenze richiedono di fare in modo diverso; pensiamo al nostro mondo. Dov’è il nuovo che dobbiamo saper cogliere e che, come giornalisti, dobbiamo sapere intercettare, raccontare e – in qualche modo – prevedere ed orientare? Sono sfide enormi, rispetto alle quali ci si domanda anche se si è abbastanza preparati. Speriamo di sì, di esserne in grado!

D. – Sono solo tre mesi che lei è stata eletta presidente nazionale dell’Ucsi. C’è però già qualche progetto in cantiere, c’è già qualche indicazione e direzione su cui state lavorando?

R. – C’è una squadra al lavoro: è una bella squadra. Diciamo che le priorità sono, in questo momento, due grandi temi che ci stanno a cuore. Il primo: la riforma della Rai che è in corso, che ci interessa in quanto servizio pubblico e pubblico diretto ai cittadini. Quello che la Rai ha rappresentato nel panorama del Paese lo sappiamo tutti, quello che sarà in futuro è ancora non ben chiaro. Su questo ci stiamo facendo anche un po’ promotori, perché è un processo che ci interessa. L’altro grande tema è il rapporto tra i minori e i media: sta per sciogliersi il Comitato pubblico “Media e minori” e come Ucsi abbiamo sempre avuto molto forte questa sensibilità al discorso della pubblicità, della pubblicità ingannevole, del rispetto dei minori, delle fasce protette. E’ un tema che vorremmo continuare ad approfondire e seguire. E poi, al nostro interno, c’è il rilancio del sito ucsi.it. Diventerà un laboratorio, all’interno del quale intercetteremo anche delle professionalità più giovani e da volontari – perché siamo dei volontari nell’Associazione – cercheremo di fare gruppo e di fare un laboratorio anche di innovazione attraverso il sito.

D. – Papa Francesco mette l’accento spesso sull’investimento nei giovani. L’Ucsi è pronto a questa sfida e in che modo può investire nei giovani comunicatori?

R. – Oggi viviamo una grande contraddizione, relativamente proprio ai giovani: apparentemente hanno molte più opportunità dei nostri tempi, ma in realtà hanno molte più porte chiuse rispetto ai nostri tempi, perché ci sono percorsi formativi che li vedono disorientati, perché ci sono strade – e non solo di lavoro, ma anche di acquisizione di competenze specifiche – che spesso sono per pochi, sono canali chiusi. Noi vorremmo aprire in qualche modo: vorremmo cioè, al nostro interno, essere appunto laboratorio che aiuti anche la conoscenza, il confronto e l’acquisizione di professionalità sul campo. E poi vorremmo anche che, per questi giovani, l’Ucsi fosse una casa dalle porte e dalle finestre aperte. Noi dall’interno molto spesso saremo provocati ad uscire, perché non basta stare alla porta o stare alla finestra: vorremmo che la nostra piccola Associazione fosse una casa comune per giornalisti, che si ritrovano nello spirito più autentico dell’essere cattolici, che è poi quella capacità di costruire percorsi di “cosa comune” e di “cosa pubblica” con ciascuno e dovunque si trovi.

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Vittorio Bosio nuovo presidente Csi: coniugare fede e sport

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Vittorio Bosio è il nuovo presidente nazionale del Centro Sportivo Italiano. Sessantaquattro anni, già presidente del Comitato CSI di Bergamo, ha raccolto il 78 per cento dei voti dalle oltre 9800 società sportive, su 12.250, aventi diritto al voto e riunite domenica scorsa a San Donnino, frazione di Campi Bisenzio, in Toscana, per rinnovare i vertici dell’Associazione. Bosio subentra, dopo otto anni, a Massimo Achini, per due mandati consecutivi alla presidenza nazionale del CSI. Ascoltiamo al microfono di Luca Collodi,  il neo presidente del Centro Sportivo Italiano, Vittorio Bosio

R. – Il mio Csi ideale è un Csi che si mette a disposizione delle società sportive, dei ragazzi, degli adolescenti, degli adulti, per permettere a tutti – e sottolineo la parola ‘tutti’ – di fare un’attività sportiva sana con finalità educative.

D. – Oggi promuovere sport richiede responsabilità…

R. – Quando ci si mette in gioco e si “pretende” di fare educazione, si prova a fare educazione, è chiaro che si corrono dei rischi. Credo, però, che nell’attività sportiva ci siano ancora tante positività e che vadano sottolineate, come la grande partecipazione dei volontari. Abbiamo un popolo di volontari che si dà da fare veramente, per far sì che i ragazzi abbiano tutte le opportunità per cogliere nello sport uno strumento di divertimento e di educazione.

D. – Presidente Bosio, come coniugare Chiesa e sport?

R. – La fede cristiana credo che vada coniugata con il fatto che le parrocchie, in Italia, hanno fatto una grande azione nel Dopoguerra per sostenere l’attività sportiva con l’impiantistica, ma anche impegnandosi direttamente per far crescere l’attività sportiva all’interno della parrocchia. C’è stato un periodo in cui si è registrato anche un certo disinteresse, ma oggi c’è un forte ritorno, perché le parrocchie e le diocesi riconoscono nelle attività sportive uno strumento importante per avvicinare i ragazzi, per stare insieme, per educare. Credo che stiamo tornando ad un clima che aiuta lo sport, aiuta l’uomo, aiuta i ragazzi. Noi, al centro delle nostre attività mettiamo la persona.

D. – Nelle grandi città, nelle periferie, si guarda alle parrocchie per fare sport. Molti oratori, però, chiudono…

R. – Si può affrontare il problema, pensando che gli oratori e le strutture possono essere gestite anche da laici impegnati che aiutano la Chiesa. Io vivo a Bergamo e vengo da una realtà dove ci sono tanti oratori che stanno perdendo il sacerdote. Ma un parroco non può arrivare dappertutto, naturalmente. Credo, però, che l’impegno dei laici debba essere valorizzato in questo senso. Ci sono laici che hanno le qualità e le possibilità per dare una mano. E’ una nuova strada alla quale non eravamo abituati, perché il sacerdote seguiva anche l’attività sportiva dal punto di vista soprattutto educativo. Ci devono essere momenti importanti, perché bisogna investire sull’attività sportiva. Ma credo che la strada nuova da seguire sia quella dei laici, di un laicato sempre più impegnato.

D. – Bosio, gli Europei di Calcio attraggono violenza sociale. E’ l’immagine di un’Europa divisa?

R. – La cosa che ci preoccupa di più sono le notizie che arrivano fuori dagli stadi. Credo che in questo caso lo sport non stia dando un bell’esempio. Non diamo un esempio di unità. E oggi avremmo e abbiamo bisogno di un’Europa unita, abbiamo bisogno di essere uniti nell’accoglienza, nel fare sistema...  E lo sport dovrebbe essere uno degli strumenti di festa. Il campionato europeo dovrebbe essere una festa e chi ci va, dovrebbe andare per far festa. Adesso mi sembra che si stia trasformando in una guerriglia, in una guerra fuori dagli stadi e questo non può essere! Le istituzioni, sia sportive che politiche, devono assolutamente intervenire per far sì che queste cose non succedano più. Non diamo un bell’esempio. Questa è la vetrina e questo è quello che vedono i nostri ragazzi!

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Concluso con successo il Festival musicale dedicato a Händel

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Si è da poco concluso con grandissimo successo il Festival che ogni anno Halle dedica a Händel, che lì nacque nel 1685. Una serie di grandi appuntamenti con le opere, gli oratori e i concerti scritti dal “caro Sassone” ed eseguiti nelle chiese e nei teatri della città tedesca, circondati dallo spirito particolare che quei luoghi evocano per tutti gli appassionati. Il servizio di Luca Pellegrini

Nacque poco distante dalla magnifica Marktkirche, la Chiesa del Mercato evangelica intitolata alla "Nostra cara Signora", la Vergine Maria. Era il 23 febbraio del 1685 e di Georg Frederich Händel la città di Halle ne conserva orgogliosa il ricordo, avendogli anche dedicato un Festival annuale di grandissimo prestigio. La bella statua del compositore s’erge nell’ampia piazza, guardando l’abside della chiesa, posata lì nel 1859 a ricordo dei cento anni dalla sua morte. Le città tedesche hanno molto sofferto per la guerra, uscirono prostrate e distrutte nel 1945, e l’Est dovette ancora attraversare sofferenze nel corso degli anni durissimi della dittatura comunista. Ma la musica non ha mai fatto mancare la sua presenza, uno strumento di comunione che il popolo tedesco ha depositato nella sua tradizione e che dimostra di amare e rispettare. Anche quest’anno al Festival si sono ascoltate opere assai rare di Händel, oltre a concerti e oratori, tra i quali il più famoso di tutti, il “Messia”, che ogni anno è inserito al centro ideale del programma. Ascoltarlo in quella grande chiesa ove il compositore fu battezzato il giorno successivo alla sua nascita, il 24 febbraio, è sempre una grandissima emozione. Per il pubblico, ma anche per Clemens Birnbaum, direttore del Festival e della Fondazione “Casa di Händel”, come confessa ai nostri microfoni:

R. – Für das Festival als auch für die Besucher und auch für mich selber persönlich ist es immer …
Per il festival, per i visitatori e per me stesso vivere il Messia di Händel nella Chiesa in cui è stato battezzato: sembra quasi che lo spirito di Händel sia ancora palpabile e questo stimola i musicisti, stimola il pubblico e per questo sono in tanti a venire ad ascoltare il suo Messia proprio in quel luogo sacro, per vivere questa esperienza straordinaria. Infatti, Händel non è soltanto stato battezzato in quella chiesa; lì ha anche ricevuto le lezioni di musica. Uno degli organi della chiesa ha fatto risuonare le sue note sotto il tocco delle dita di Händel…E’ veramente un’esperienza straordinaria.

D. – L’anno prossimo ricorre anche il 500.mo anniversario della Riforma protestante e il Festival, che si inaugurerà il 26 maggio, prenderà spunto da questa ricorrenza per concentrarsi su molte opere sacre del compositore di Halle.

R. – Wir haben einen besonderen Schwerpunkt auf die Oratorien Händels gelegt, und das wird ein …
Abbiamo posto un accento particolare sugli Oratori di Händel, tra cui Esther, Deborah, Jephta, quest’ultima in versione scenica, quindi tutti argomenti biblici e tutti in teatro. C’è un motivo, per questo: al tempo di Händel i suoi oratori non venivano rappresentati nelle chiese di Londra, ma nei teatri, e non in versione scenica, ma da concerto. Ci siamo anche interrogati sui legami con la musica della Chiesa cattolica in quei tempi: per molto tempo, dal 1706, sappiamo che Händel ha vissuto a Roma, per questo ci siamo chiesti quale musica, quali compositori ha potuto ascoltare Händel, cresciuto con una educazione luterana, durante la sua permanenza a Roma. Ci sono compositori e musicisti molto interessanti che in questa sede non ci dicono niente, ma che al tempo di Händel erano dei nomi, visto che si esibivano nelle chiese maggiori della Città Eterna. Noi li riportiamo in contatto con Händel, per scoprire e cercare di capire se e quanto Händel abbia imparato dai maestri compositori delle maggiori chiese di Roma.

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Nella Chiesa e nel mondo



Cor Unum: missione in Ecuador e Colombia

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Dal oggi al 21 giugno il sottosegretario del Pontificio Consiglio Cor Unum, mons. Segundo Tejado Muñoz, visiterà le diocesi dell’Ecuador colpite dal terremoto, che alla metà di aprile ha provocato quasi 600 morti, diverse migliaia di feriti, alcune centinaia di dispersi, 21mila sfollati e 150 bambini colpiti. “Dopo un primo aiuto di emergenza inviato da Cor Unum nei giorni immediatamente successivi alla calamità, la missione sarà l’occasione per portare un concreto segno di vicinanza del Santo Padre alle popolazioni colpite e per valutare, assieme al nunzio apostolico e alla Chiesa locale, eventuali interventi a nome della Santa Sede a sostegno della ricostruzione di case, scuole ed edifici”, si legge in un comunicato. 

In Colombia l'annuale riunione della Fondazione Populorum Progressio per l’America Latina
Dal 21 al 24 giugno mons. Tejado Muñoz sarà, poi, a Bogotà, in Colombia, per l’annuale riunione del consiglio di amministrazione della Fondazione Populorum Progressio per l’America Latina affidata, fin dalla sua nascita nel 1992 da parte di San Giovanni Paolo II, al Pontificio Consiglio Cor Unum. Nel corso della riunione – prosegue il comunicato – i membri del consiglio saranno chiamati a valutare e deliberare il finanziamento di progetti in favore delle comunità indigene, meticce, afroamericane e contadine dell’America Latina e dei Carabi per l’anno 2016. 

Fino ad oggi i progetti realizzati dalla Fondazione sono più di 4 mila
​I progetti già presentati, che saranno posti al vaglio della Fondazione, sono circa 90 per un importo totale intorno a 1,5 milioni di dollari. Fino ad oggi i progetti realizzati dalla Fondazione sono più di 4 mila per un totale di circa 40 milioni di fondi stanziati. Tra i maggiori sostenitori della Fondazione Populorum Progressio, oltre a singole partecipazioni, si annovera in particolare la Conferenza episcopale italiana. (R.P.)

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Caritas Europa: passi avanti Ue nella lotta alla povertà

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Soddisfazione perché la presidenza olandese dell’Unione Europea “ha mantenuto le sue promesse di inserire la povertà nell’agenda europea: ora il Consiglio faccia dei passi in avanti concreti per sradicare la povertà in Europa”: è l’auspicio di Caritas Europa, contenuto in una nota ufficiale ripresa dall’agenzia Sir.

Eliminare la povertà in Europa
Nell’aprile scorso, l’organismo ha pubblicato il report “Eliminare la povertà in Europa”, con 18 raccomandazioni e azioni per costruire un nuovo welfare europeo fondato sull’inclusione sociale, gli investimenti, la protezione sociale e i diritti. Secondo Caritas Europa, le conclusioni del Consiglio Ue “sono un passo nella giusta direzione”. 

Migliorare il sistema di protezione sociale
“Siamo incoraggiati dal fatto che alcune delle nostre raccomandazioni siano state prese in considerazione dalle conclusioni del Consiglio Ue – afferma Shannon Pfohman, responsabile delle politiche e advocacy di Caritas Europa - in particolare quelle che riguardano il miglioramento dei sistemi di protezione sociale per ridurre la povertà e garantire il benessere dei bambini”.

Approccio integrato al contrasto della povertà
“Le conclusioni del Consiglio Ue – aggiunge - sono anche in linea con il nostro pensiero riguardo al monitoraggio del progetto e la creazione di un approccio integrato al contrasto della povertà. Questo dimostra che l’Europa ha intenzione di togliere dalla condizione di povertà 123 milioni di persone”. Ora, la Caritas Europa chiede a tutti i leader del continente di applicare le sue raccomandazioni, tra le quali “monitorare l’efficienza degli attuali sistemi di protezione sociale per ridurre la povertà; migliorare le condizioni di lavoro in Europa; incoraggiare gli Stati membri a implementare i redditi minimi di inserimento; incoraggiare gli Stati membri ad adattare i salari minimi ad un livello che permetta ad una famiglia di coprire le necessità di base e di vivere dignitosamente”. (A.T.)

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Chiesa francese chiede dialogo tra le parti per legge sul lavoro

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Proseguono, in Francia, le protese della popolazione contro la legge sul lavoro, presentata dal ministro Myrian El Khomri. La normativa, in sintesi, prevede l’allungamento dell’orario di lavoro e licenziamenti più facili, con indennità limitate se privi di giusta causa. A Parigi questi giorni un milione di persone ha sfilato in corteo contro la legge. Altre manifestazioni sono in programma il 23 e il 28 giugno. In questo contesto, la Chiesa cattolica lancia un appello al dialogo: “Non chiedo il ritiro della legge, ma una sua sospensione - afferma mons. Jean-Luc Brunin, presidente del Consiglio episcopale Società e Famiglia – così da permettere ad operai, imprenditori e responsabili politici di mettersi attorno al tavolo dei negoziati ed ascoltarsi”.

Stabilire un dialogo istituzionale sul diritto del lavoro
“Ciascuno ha qualcosa da dire e questo dialogo fino ad oggi è mancato – prosegue il presule – E penso che bisogna poter stabilire un dialogo istituzionale sulla questione del diritto del lavoro”. “Il governo – spiega ancora mons. Brunin - ha presentato un progetto di legge e lo ha poi discusso separatamente con le diverse organizzazioni sindacali, ma non c’è stato un dialogo ampio alla presenza di tutti”.

Lavorare per il bene comune
Richiamando alla memoria, inoltre, gli accordi di Grenelle negoziati nel maggio del 1968 tra il governo francese ed i sindacati, il presule lancia un appello ad organizzare una “Grenelle del lavoro”, come “simbolo di una concertazione più ampia possibile, che coinvolga tutte le parti in causa”. “Tutti hanno diritto al lavoro e tutti devono essere ascoltati – ribadisce il vescovo francese – perché se non c’è dialogo, aumenta il rischio di scontro e di violenza, si inasprisce l’intransigenza e si accentuano le radicalizzazione”. “Solo il dialogo  - conclude mons. Brunin - permette a tutti di esprimere le proprie esigenze e di poter individuare insieme il bene comune, per lo sviluppo economico del Paese”. (I.P.)

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Centrafrica: depredata la missione cappuccina di Ngaoundaye

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La missione cappuccina di Ngaoundaye, nel nord-ovest della Repubblica Centrafricana, è stata depredata. “Ieri un gruppo di Seleka, è arrivato a Ngaoundaye, sono entrati nella cucina della missione, mentre diverse persone, tra missionari e abitanti del posto, si sono rifugiati nelle stanze” racconta all'agenzia Fides padre Francesco, del Centro Missioni Estere dei Frati Cappuccini del Convento di San Bernardino di Genova, che è in contatto con i padri Cappuccini di Ngaoundaye.

La missione è rimasta senza viveri
“I Seleka erano alla ricerca di cibo e per fortuna non hanno fatto vittime nella missione” dice il religioso. “Alla missione sono ora senza viveri, perché tutta la dispensa è stata depredata. I Seleka si sono installati nella sede della gendarmeria e un frate intende recarvisi per chiedere di ottenere un po’ di cibo”. “La situazione nel villaggio rimane incerta, mentre sembra che anche nella vicina Bozum vi sia una situazione di caos” dice padre Francesco.

Atto di ritorsione dei Seleka contro i gendarmi di Ngaoundaye
​Secondo altre fonti missionarie, delle quali Fides omette il nome per ragioni di sicurezza, i Seleka, avrebbero affermato di aver compiuto l’incursione nel villaggio di Ngaoundaye, per vendicarsi di quanto avvenuto l’11 giugno. Quel giorno un gruppo di Seleka (gli ex ribelli che avevano preso il potere nel 2013 per poi essere cacciati dai cosiddetti anti Balaka, un altro gruppo armato), volevano passare per il villaggio con una mandria di buoi per recarsi nel vicino Camerun. I gendarmi di Ngaoundaye hanno cercato di bloccarli. Nella sparatoria che ne è seguita diversi Seleka sono rimasti uccisi. “Il ciclo di violenze in Centrafrica potrà fermarsi solo se si disarmano le diverse bande e gruppi che ancorano imperversano nel Paese” conclude padre Francesco. (L.M.)

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Canada. Leader religiosi: cure palliative accessibili a tutti

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Sostenere una “strategia efficace per le cure palliative a livello nazionale”: è quanto chiedono allo Stato i leader religiosi del Canada, mentre nel Paese continua il dibattito sulla legge relativa al suicidio assistito. Ribadendo che la compassione è un elemento fondamentale dell’identità canadese e che tale elemento dovrebbe guidare le politiche pubbliche in materia di fine-vita, i leader religiosi denunciano il rischio che il suicidio assistito diventi una scelta implicita per i malati terminali. Proprio per questo, quindi, migliorare l’accesso alle cure palliative e la loro qualità costituisce “un imperativo nazionale”.

Garantire accesso a cure palliative sia priorità del Paese
“La necessità di cure palliative di qualità, accessibili a tutti, dovrebbe essere la preoccupazione più urgente per il nostro Paese”, afferma mons. Noël Simard, vescovo di Valleyfield – Nel corso dei secoli, le comunità di fede sono state al capezzale dei moribondi per portare loro conforto e consolazione. Ed oggi, in quanto leader religiosi, ci impegniamo nuovamente in questo sacro compito di rispondere ai bisogni spirituali così importanti nelle cure palliative”.

Tutela dignità umana e aiuto a più vulnerabili, valori non solo religiosi
Sulla stessa linea, la rappresentante dell’Alleanza Evangelica in Canada, Julia Beazley: “Le persone in fin di vita – spiega – hanno bisogno della nostra attenzione, delle espressioni concrete del nostro amore. Le cure palliative attenuano la loro sofferenza, ma purtroppo esse non sono accessibili a tutti e ciò è deplorevole”. Non solo: l’esponente di religione ebraica Shimon Koffler Fogel evidenzia come “la tutela della dignità umana e l’aiuto ai più vulnerabili della comunità siano valori che trascendono le comunità religiose”.

Ogni vita è degna di essere vissuta e salvata
Di fronte all’invecchiamento della popolazione, quindi, migliorare l’accesso alle cure palliative di alta qualità “può fare la differenza” all’interno della società. Gli fa eco il rappresentate musulmano Sikander, membro del Consiglio canadese degli Imam: “È nostro dovere – dice – prenderci cura gli uni degli altri ed offrire l’aiuto necessario” a chi ne ha bisogno, perché “ogni vita è degna di essere vissuta e salvata”.

Serve un approccio olistico
Infine, i leader religiosi hanno siglato una “Dichiarazione comune sulle cure palliative”: in essa, viene ribadito “il valore intrinseco e la dignità di ogni persona, a prescindere dalla sua situazione, capacità o posizione” e si afferma che “la risposta appropriata per le persone la cui vita volge al termine è quella di offrire loro conforto e pace, amore e cura, garantendo cura olistica che includa sia il controllo del dolore che il sostegno psicologico, spirituale ed emotivo”.

Aiutare anche le famiglie degli ammalati
​Di qui, l’appello a fornire anche una rete di sostegno per aiutare le famiglie dei malati a “resistere alla prova della malattia e del dolore” del loro caro. “Visitare gli ammalati e curare i moribondi – conclude la Dichiarazione – sono principi fondamentali dei nostri rispettivi credo ed esprimono anche i valori comuni canadesi”. (I.P.) 

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Mongolia: inaugurata missione cattolica ad Erdenet

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Si chiama “Chiesa cattolica della Divina Misericordia” la missione cattolica inaugurata ad Erdenet, la seconda città più grande della Mongolia. L’autorizzazione è stata concessa dalle autorità civili per un periodo di tre anni e permetterà, in particolare ai sacerdoti missionari stranieri, di ottenere il visto di ingresso nel Paese. La città Erdenet, ricca di giacimenti di rame, è stata fondata nel periodo del regime sovietico ed ha visto i primi missionari cattolici solo nel 1991, dopo la caduta del Muro di Berlino.

Comunità cattolica locale è molto giovane
La comunità cattolica locale – spiega l’agenzia Eglise d’Asie – è quindi molto giovane: il primo insediamento ufficiale risale al 2003, data di inaugurazione di un asilo gestito dalla Congregazione del Cuore Immacolato di Maria e destinato ai bambini più poveri. Attualmente, si contano una ventina di fedeli che, ogni domenica, si incontra in una semplice camera, presa in affitto. Tuttavia, non mancano corsi di catecumenato per adolescenti ed adulti, mentre cresce il numero di fedeli che chiedono il battesimo per i propri figli. Previsti anche corsi di catechismo sui principi fondamentali della Chiesa cattolica. Tuttavia, l’insegnamento della religione nelle scuole è vietato per legge.

Paese a tradizione buddista
Da sottolineare che la concessione dell’autorizzazione alla missione è arrivata cinque mesi dopo la presentazione della richiesta da parte della comunità cattolica e ciò indica tempi relativamente brevi per il Paese, che ha una tradizione buddista tradizionalmente forte e radicata. Tuttavia, Erdenet è una città in cui vivono molti stranieri, dove quindi il confronto interreligioso è più vivo e dinamico. Senza dimenticare che il capo dello Stato, Tsakhiagiin Elbegdori, è originario proprio di questa città. Il 17 ottobre 2011 è stato anche ricevuto in udienza dall’allora Papa Benedetto XVI.

28 agosto, ordinazione del primo sacerdote mongolo
La portata missionaria della Chiesa cattolica in città è ampia e variegata: l’assistenza va dagli studenti ai pazienti dell’Ospedale psichiatrico e provinciale, dai migranti ai lavoratori delle miniere di rame che spesso operano in condizioni difficili. Secondo la legge nazionale, il capo ufficiale di un’organizzazione religiosa deve essere di nazionalità mongola. Ma poiché non esistono sacerdoti cattolici nati nel Paese (il primo verrà ordinato il prossimo 28 agosto) ufficialmente i responsabili delle comunità cattoliche sono i laici. Anche i proprietari terrieri devono essere cittadini mongoli e ciò crea qualche problema per i terreni in cui sorge una Chiesa. (I.P.)

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Filippine: Chiesa solidale con le vittime della strage di Orlando

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Ad Orlando, negli Stati Uniti, ci si adopera per organizzare i funerali delle vittime della strage di sabato scorso quando, in un locale per omosessuali, un uomo ha sparato all’impazzata sulla folla, uccidendo 50 persone. Solidarietà alle vittime è giunta da tante parti del mondo. Anche la Chiesa filippina, in una nota a firma di mons. Socrates Villegas, presidente della Conferenza episcopale locale, manifesta la sua vicinanza ai defunti ed ai loro familiari.

Nessuna persona umana sia oggetto di disprezzo
“Noi, vescovi della Chiesa filippina – scrive il presule – ci uniamo in preghiera con coloro che piangono i loro cari. Ma una tragedia come questa ci sfida a chiederci come possiamo tutti noi, non solo gli americani, diventare un popolo migliore”. “Si è trattato di un crimine d’odio – aggiunge mons. Villegas – perché le persone sono state uccise a causa del loro orientamento sessuale”. Ma “nessuna persona umana deve mai essere oggetto di disprezzo”, in quanto creata ad immagine e somiglianza di Dio. “Possiamo dissentire dagli orientamenti sessuali delle singole persone – continua il presule – ma questo non può giustificare l’odio contro di esse o la loro uccisione”.

Ogni forma di violenza è inaccettabile
Quindi, guardando al Giubileo straordinario della misericordia, mons. Villegas sottolinea che “la crudeltà con la quale tanti giovani sono stati uccisi” ad Orlando rende chiaramente evidente che “il mondo ha bisogno di misericordia” e che “è molto importante essere misericordiosi”. “La violenza – scrive ancora il presule – lascia solo lutto, perdita ed amarezza. Non possiamo e non dobbiamo accettare una società che tollera e, forse, anche fomenta forme di violenza”.

No all’emarginazione sociale, scegliere sempre dialogo e incontro
“Si possono disapprovare le azioni, le decisioni e le scelte degli altri – continua il presule – ma non vi è assolutamente alcun motivo per respingere una persona, né alcuna giustificazione per agire con crudeltà”. Anche nelle Filippine, mette in guardia il presule, bisogna lottare contro l’emarginazione sociale, un atteggiamento, quest’ultimo, “che non può essere cristiano, come ammonisce severamente Papa Francesco”. Di qui, l’esortazione della Chiesa filippina ad intraprendere la via “del dialogo e dell’incontro” con gli altri, perché “siamo tutti fratelli e sorelle”.

Educare i giovani al rispetto dell’altro
In quest’ottica, diventa centrale l’educazione dei giovani: per questo, i presuli di Manila sollecitano alcuni settori della società, come quello scolastico, ad essere “vigili sui casi di bullismo e molestie”. Anche il governo viene esortato ad “educare la nazione al rispetto per ogni forma di vita umana”. I cristiani, inoltre, vengono invitati a “mostrare al mondo che la fedeltà a Cristo e la cittadinanza nel suo Regno sono più importanti di qualsiasi altra cosa che possa creare disaccordo”.  Infine, mons. Villegas prega il Signore di concedere l’eterno riposo alle vittime e di aiutare tutti i fedeli a raggiungere la saggezza con la quale “si riconosce nell’altro un figlio di Dio”. (A cura di Isabella Piro)

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Austria: Plenaria vescovi su migrazioni e famiglia

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Rifugiati, matrimonio e famiglia sono stati i temi principali dell’Assemblea generale delle Conferenza episcopale austriaca (Öbk), che si è conclusa ieri presso il Santuario nazionale austriaco di Mariazell, dopo tre giornate fitte di impegni. A presiedere i lavori, il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna.

L’Amoris laetitia nel contesto locale
In particolare – riferisce l’agenzia Sir - l’Assemblea ha analizzato la situazione nazionale per ciò che concerne famiglia e matrimonio, alla luce dei due Sinodi, svoltisi nel 2014 e 2015, e della Esortazione apostolica di Papa Francesco “Amoris laetitia”. Il segretario generale della Öbk, mons. Peter Schipka, ha sottolineato all’agenzia cattolica Kathpress che i vescovi austriaci “stanno cercando ulteriori spunti in considerazione della realtà locale”, ricordando come anche i media abbiano “ricevuto molti argomenti di riflessione dal documento pontificio”.

Aiutare i rifugiati ad integrarsi
Al tema dei rifugiati, inoltre, i vescovi hanno dedicato un’intera giornata di lavori: “Non si tratta in primo luogo di come risolvere il nostro problema con i rifugiati, ma di capire come possiamo aiutare a risolvere i problemi dei rifugiati”, ha detto il card. Schönborn, che ha ribadito la necessità primaria: non è “semplicemente aiutare le persone bisognose in Europa, ma nei loro Paesi d’origine, in modo che non abbiano nemmeno bisogno di fuggire”. Per il porporato, infine, occorre aiutare “il processo di integrazione” dei rifugiati nei Paesi di accoglienza. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 168

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.