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Sommario del 21/06/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Armenia. P. Lombardi: Papa abbraccia le sofferenze di un popolo intero

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Si avvicina la data di inizio del 14.mo viaggio apostolico di Papa Francesco. Il Santo Padre sarà dal 24 al 26 giugno prossimi in Armenia, prima tappa della più ampia visita nel Caucaso, che a settembre vedrà il Pontefice anche in Georgia e Azerbagian. I momenti salienti del viaggio, dal titolo “Visita al primo Paese cristiano”, sono stati presentati stamani in Sala Stampa vaticana dal direttore, padre Federico Lombardi. Il servizio di Giancarlo La Vella

“Santa Madre di Dio, volgi il tuo sguardo sulla terra di Armenia”. Padre Lombardi ha iniziato la conferenza stampa citando una preghiera di San Giovanni Paolo II, a significare come il Paese caucasico, primo nel 301 d. C. ad accogliere il cristianesimo come religione ufficiale al culmine dell’opera evangelizzatrice di San Gregorio l’Illuminatore, sia particolarmente caro ai cattolici di tutto il mondo. Con i medesimi sentimenti Papa Francesco vi si reca ad abbracciare la profonda fede, il desiderio di pace e le sofferenze di un popolo intero, che in maggioranza vive oggi fuori della propria patria, ma mantenendo tradizioni religiose e culturali. Tre milioni e 300 mila quelli che vivono in Armenia. Tra i momenti significativi del viaggio, evidenziati da padre Lombardi, oltre agli incontri con le autorità civili e religiose, la visita al Memoriale di Tzitzernakaberd, che ricorda il massacro di un milione e mezzo di armeni nel 1915. E, rispondendo ai giornalisti sulla questione dell’utilizzo del termine “genocidio”, o “medz yeghern” (il grande male) come dicono gli armeni, padre Federico Lombardi ha così chiarito:

“Nessuno di noi nega che ci siano stati questi massacri, però non vogliamo fare di questo discussioni politico sociologiche. È una tragedia enorme, so di che cosa parlo. Uso il termine “medz yeghern”, la parola che usano i miei fratelli armeni e credo che sappiamo molto bene a cosa si riferisce”.

Ospite in Sala Stampa vaticana mons. Antonio Ayvazian, della Chiesa armeno cattolica della Siria. Ci ha parlato di come l’Armenia sta aspettando l’incontro con Papa Francesco:

R. – Questa visita è veramente la più bella occasione per mostrare al mondo civile e soprattutto al popolo armeno stesso, che il Santo Padre è vicino a questa gente che ha sofferto. La sofferenza secolare del popolo armeno sta nell’intimo del cuore del Santo Padre. È un’occasione per dire: “Io sono con voi. Avete il diritto di vivere tra i popoli; avete il diritto di vivere in pace e avete soprattutto il diritto di avere giustizia”.

D. – La realtà religiosa in Armenia è del tutto particolare…

R. – Un armeno non può essere tale se non è battezzato. Non può esistere un armeno che si dichiara tale senza avere il cristianesimo come "diploma" scritto nel suo sangue, nella sua genetica, perché il cristianesimo è così radicato nella mente e nella psicologia degli armeni. Per questo abbiamo avuto milioni e milioni di martiri. Le guerre in Armenia sono sempre state rivolte a conservare la religione cristiana.

D. – Come si sta vivendo questo Giubileo della Misericordia in Armenia?

R. – In questo popolo la misericordia c’è da sempre! Un armeno non può odiare. Anche quando odia si mette subito in pace con il suo vicino. Questo nel cuore del Santo Padre ha un valore: lui conosce bene gli armeni, sono brave persone che hanno sofferto molto, che amano la vita, sono innamorati della vita.

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Armenia. Una religiosa: il Papa a casa nostra, un grande dono

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Gyumri, seconda città dell’Armenia, è il luogo scelto per la celebrazione della Messa di Papa Francesco durante il suo imminente viaggio apostolico. In questa città, dopo il devastante terremoto del 1988, vive Suor Arousiag, di origine siriana. La religiosa 71.enne è attualmente la superiora dell’Orfanatrofio dell’Immacolata Concezione che si sta preparando ad accogliere quello che lei stessa definisce il suo “ospite illustre”. Davide Dionisi l’ha intervistata: 

R. – Noi siamo arrivate dopo il terremoto del 1988. Prima abbiamo lavorato a Spitak, l’epicentro del terremoto. Eravamo due sorelle. La gente di Spitak era tutta in lutto, adulti e ragazzi, perché la maggioranza di loro aveva perso l’intera famiglia. Poi siamo andate al villaggio Arevik, un villaggio cattolico. La gente voleva che noi andassimo lì per fare la catechesi. Abbiamo insegnato nella scuola pubblica con il permesso del Ministero dell’educazione.

D. – Parliamo adesso della visita del Papa: come la state raccontando alla comunità?

R. – Quando hanno detto che il Papa veniva in Armenia, all’inizio ho detto: “No, mi prendono in giro! Il Papa, quest’uomo per il quale prego ogni giorno, una persona che mi piace molto, viene da noi in questo piccolo orfanotrofio per vedere i nostri piccoli ragazzi?”. Ma l’arcivescovo mi ha detto: “È vero, il Papa viene da voi per pranzo e anche per riposare un po’. Preparate le camere”. Ho detto: “Ma, per questo Papa io lascerò tutto così com’è”, perché io so che lui non vuole che le persone facciano cose straordinarie per la sua visita.

D. – Quanti bambini avete nel vostro orfanotrofio?

R. – In totale 37, ma ne abbiamo 9 a Yerevan – ragazzi e ragazze – che studiano all’Università.

D. – Non farete niente di eccezionale, ma che cosa preparerete per il Papa?

R. – Prepareremo canti anche in lingua italiana per lui perché i nostri ragazzi sanno cantare in molte lingue. Abbiamo un coro professionale.

D. – Avete preparato un dono particolare?

R. – Sì, sì…

D. – Può anticiparcelo?

R. – Una statua di due ragazzi che cercano una casa, perché ospitiamo tanti ragazzi che provenivano dalla strada e che la polizia ha portato qui.

D. – Una statua in legno?

R. – In bronzo.

D. – E chi l’ha realizzata?

R. – Uno scultore di Yerevan, non molto famoso, ma che fa delle cose molto belle!

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Papa, tweet: i popoli primi artefici del proprio sviluppo

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “I popoli sono i primi artefici del proprio sviluppo, i primi responsabili”.

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Card. Parolin: le religioni fondamentali per la pace in Ucraina

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“Nulla giustifica per il credente l’odiare, il calunniare, il respingere il fratello. Tanto meno lo giustifica il riferimento a Dio”. E’ uno dei passaggi centrali del discorso del cardinale segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, al Consiglio Panucraino delle Chiese a Kiev. Durante il viaggio, chiusosi ieri sera, il porporato ha ricordato come nel corso dei secoli eventi drammatici abbiano caratterizzato la vita del popolo ucraino. Alessandro De Carolis: 

Le religioni hanno un ruolo fondamentale nel riportare la pace, soprattutto in Ucraina, martoriata dalla guerra. Il cardinale Parolin dice che “in questo momento di pesante difficoltà, aggravato dal peso di una crisi istituzionale, economica e morale che suscita diffuse sofferenze, noi comunità religiose siamo chiamate ad una responsabilità senza precedenti”. Per il porporato, dunque, è arrivato il momento per tutti di assumersi le proprie responsabilità. “Non saranno infatti né la politica né le ricchezze, né le contese reciproche a renderci credibili discepoli del Creatore - dice - ma lo spirito di servizio e la credibilità che viene dalla mancanza di secondi fini che non siano il bene di tutti”.

In sostanza, per il cardinale Parolin, bisogna ritrovare l’unità per far uscire il paese dalla difficile condizione in cui è precipitato. “La cultura cristiana, profondamente radicata in questa vostra terra - evidenzia il cardinale Parolin - potrà essere di ispirazione ai vostri giovani, molti dei quali sono noti per l’onestà e la generosità delle loro intenzioni, per il desiderio di giustizia, per la lotta contro la corruzione, il sopruso istituzionale, la mancanza di opportunità se non a prezzo del servilismo”. Ed ancora: “I vostri giovani vogliono onestà, coerenza, rispetto reciproco e vogliono vederlo soprattutto in noi e tra noi”, doti fondamentale per salvare l’Ucraina. Insomma, non si può e non si deve vivere secondo gli schemi del passato, secondo le vecchie “opposizioni”.

Il  Papa “è al vostro fianco – afferma il cardinale - testimone tra testimoni che solo l’amore misericordioso salva ed apre al futuro. Tutta la Chiesa cattolica, rappresentata simbolicamente da quanti hanno contribuito alla colletta, che Papa Francesco ha recentemente indetto per soccorrere le vittime della guerra nell’Ucraina orientale, vuole porre gesti concreti, segni profetici di attenzione alla persona umana. Popoli interi cercano vie che ci conducano alla vera libertà… Dio ci aiuti a rispondere alle loro attese”.

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Concilio panortodosso, missione e diaspora tra i temi centrali

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Prosegue il “santo e grande Concilio” delle Chiese ortodosse, riunite a Chania nell’isola di Creta, da domenica scorsa. I lavori sono cominciati lunedì. A presiederlo è il Patriarca ecumenico, Bartolomeo I. In totale sono presenti dieci Chiese, mentre quattro sono assenti: il Patriarcato di Mosca e le Chiese di Bulgaria, Antiochia e Georgia per motivi diversi. Sui temi affrontati, sentiamo padre Hyacinthe Destivelle, officiale del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, presente in qualità di corrispondente per l’Osservatore Romano. L’intervista è di Debora Donnini

R. – Questo “santo e grande Concilio della Chiesa ortodossa” è stato preparato da molti anni. La sua convocazione è stata decisa durante la Sinassi dei Primati nel gennaio 2016 e l’ordine del giorno è stato stabilito durante questa riunione dei Primati. Comporta sei temi: la missione della Chiesa ortodossa nel mondo, la diaspora, la questione dell’autonomia, la questione del digiuno, la questione del matrimonio e anche la questione delle relazioni con gli altri cristiani. Ieri, c’è stata la Sessione d’apertura del Concilio con il discorso del Patriarca Bartolomeo, che presiede questo Concilio, e il discorso degli altri nove Primati presenti. Questa sessione era aperta agli Osservatori: tra di loro c’erano due Osservatori da parte della Chiesa cattolica, il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e mons. Brian Farrell, segretario dello stesso dicastero. Il Patriarca ha sottolineato l’importanza di rinforzare l’unità della Chiesa ortodossa, la necessità di rafforzare anche la sinodalità. Il motivo di questo Concilio è soprattutto quello di rafforzare l’unità della Chiesa ortodossa che si compone di 14 Chiese. E l’unità si fa attraverso la sinodalità.

D. – Dopo questa prima sessione, quali sono stati i temi affrontati?

R. – E’ iniziata la discussione sui documenti all’ordine del giorno, che sono sei. Il primo tema è quello della missione della Chiesa ortodossa. Ma queste sessioni non sono aperte, quindi noi non sappiamo nel dettaglio quali siano gli argomenti, ma i testi di lavoro che saranno in discussione sono già pubblicati. E questo testo sulla missione della Chiesa ortodossa è piuttosto una riflessione sull’antropologia cristiana, perché la prima missione dell’annuncio evangelico della Chiesa è soprattutto quello di annunciare l’uomo nuovo, rinnovato in Cristo. Dopo questo testo ci sarà un altro argomento, che forse sarà affrontato già oggi pomeriggio, sulla diaspora. A causa delle migrazioni delle popolazioni ortodosse in Occidente nel XX secolo, le Chiese hanno dovuto nominare vescovi per la cura pastorale dei loro fedeli. Allora, si pone la questione della molteplicità di strutture ecclesiali nella diaspora. Questo testo formula una proposta transitoria per risolvere questo problema della diaspora.

D. – Tra i temi centrali, c’è anche quello della persecuzione dei cristiani in Medio Oriente?

R. – Non è un tema all’ordine del giorno, ma alla fine dei lavori il Concilio pubblicherà un messaggio nel quale sicuramente ci sarà la questione della persecuzione dei cristiani. Ma non è all’ordine del giorno dei lavori di questo Concilio, che verte piuttosto su questioni interne alla Chiesa ortodossa. Ma la persecuzione dei cristiani è sicuramente nel cuore di tutti i vescovi che sono qui.

D. – Secondo lei, questo Concilio aiuterà anche i rapporti tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica?

R. – Sicuramente, questo Concilio è molto importante anche per la Chiesa cattolica, innanzitutto perché l’unità delle Chiese ortodosse facilita il dialogo con la Chiesa cattolica, ma anche perché la Chiesa cattolica sta riflettendo anche sulla sinodalità.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale di Silvina Pérez dal titolo "Quale futuro per l'Unione europea": il 23 giugno il referendum in Gran Bretagna.

Testimoni coraggiosi: il cardinale Kurt Koch sulla visita del Papa in Armenia.

Dura come roccia: Dario Fertilio sull'Armenia nella letteratura del Novecento.

Serviva una legge? Anna Foa su negazionismo e ignoranza.

La lotta fra luce e tenebre: Carlo G. Cereti su leoni e tori dall'Antica Persia ad Aquileia.

Un articolo di Antonio Paolucci dal titolo "Antichità a colori": dai marmi policromi della Roma imperiale a Fabergé.

Nella dimensione della sinodalità: da Chania, Hyacinthe Destivelle sull'inizio dei lavori del Concilio ortodosso a Creta.

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Oggi in Primo Piano



Brexit. Ragni: in gioco anche ruolo città di Londra

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A due giorni dal referendum di giovedì sull’uscita o sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea, lo stadio londinese di Wembley sarà stasera ‘teatro’ del confronto tra l'ex sindaco di Londra, il conservatore Boris Johnson, capofila dei pro-Brexit, ed il suo successore, il laburista Sadiq Khan, difensore del 'Remain'. Secondo l’ultimo sondaggio del conservatore Daily Telegraph, il 53 per cento degli elettori sarebbe per il fronte del sì all’Ue, mentre il 47 per cento vorrebbe rompere con Bruxelles. Dalla Gran Bretagna, ce ne parla Francesco Ragni, direttore della rivista on line LondraItalia.com, intervistato da Giada Aquilino

R. – In realtà parliamo di sondaggi abbastanza ballerini, non particolarmente affidabili. Non dimentichiamo che, non più di dieci giorni fa, i sondaggi davano la vittoria del “Leave” a quasi 10 punti percentuali in più - il “Leave” era al 55 per cento contro il “Remain” al 45 per cento - e questo aveva creato una sorta di panico nel campo del premier Cameron. Poi, sfortunatamente, c’è stato l’omicidio di Jo Cox, che ha avuto un effetto importante. Adesso i sondaggi stanno dando nuovamente in vantaggio il “Remain”, anche se di poco.

D. – Può esserci quindi una sorta di reazione emotiva all’assassinio di Jo Cox o ci sono altre ragioni?

R. – C’è una forte reazione all’omicidio. Ce ne sono anche altre, perché questo è un referendum che si sta giocando molto sull’emotività. Ci sono anche problemi economici: Londra, per esempio, è molto cara; il Servizio sanitario pubblico, il National Health Service (Nhs), che è uno degli elementi cardine di questa discussione, è andato gradualmente peggiorando. Secondo alcuni, ciò viene visto come un effetto dell’aumento del numero della popolazione. Anche se, dall’altra parte, si dimentica che l’arrivo degli immigrati qualificati ha permesso anche al Nhs di continuare a erogare i servizi: quando si va in un ospedale a Londra, i medici e gli infermieri sono europei – spagnoli, italiani – e anche ad esempio indiani, semplicemente perché l’Inghilterra non produce sufficienti medici o infermieri per poter gestire il proprio servizio pubblico. Però la gente magari si ricorda del fatto che è andata in ospedale, ha visto una fila di immigrati che aspettavano di essere trattati ed è tornata a casa pensando: “Ecco, non ricevo l’assistenza che voglio, perché ci sono molti immigrati che stanno mettendo sotto stress il sistema”.

D. – Veniamo al duello allo stadio di Wembley tra l’ex sindaco di Londra, il conservatore Boris Johnson, e il suo successore laburista, Sadiq Khan, difensore del “Remain”: il nodo qual è?

R. – È una cosa interessante, perché in realtà uno dei temi latenti di questo referendum è quello della diseguaglianza tra Londra e il resto del Regno Unito. Londra, negli ultimi 10-20 anni, ha avuto un’accelerazione straordinaria, sviluppando una sua economia fortissima e, in questo senso, ha danneggiato molto il resto del Regno Unito. Il referendum viene in parte visto anche come un referendum su tale tema. Quindi è singolare che stasera a discuterne, in questo grande dibattito televisivo – l’ultimo live della Bbc – saranno proprio gli ultimi due sindaci di Londra, Boris Johnson e Sadiq Khan. Per cui sarà curioso vedere quanto il tema “Londra” emergerà. Addirittura c’è chi sta parlando di una secessione di Londra, del fatto che Londra possa diventare uno Stato a parte. Si parla di una “città Stato” con un ruolo mondiale, al di là di quello del Paese, che però a quel punto diventerebbe veramente sempre più una “Little Britain”, invece di una “Great Britain”.

D. – Girando per Londra e per il resto del Paese, si sono potute cogliere le vere ragioni dell’uno e dell’altro fronte - del “Remain” e del “Leave” - magari nei gazebo che sono sparsi un po’ dappertutto…

R. – Il fronte del “Remain” ha puntato molto sui temi economici ed ha prodotto una mole di studi economici in difesa delle ragioni della permanenza nell’Unione europea. Il fronte del “Leave” non aveva di questi argomenti: ha puntato sull’emotività, ha strumentalizzato temi come l’immigrazione. La sua campagna è stata più basata su slogan a effetto che non su dati effettivi.

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Unicef: critiche condizioni dei minori rifugiati in Germania

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Mai così tanti migranti nel mondo. L'emergenza umanitaria è ancora al centro delle politiche europee e delle organizzazioni internazionali coinvolte. L’Unicef lancia l’allarme per i piccoli rifugiati ospitati nei centri di accoglienza in Germania. Il servizio di Gioia Tagliente: 

Nell’infinita lotta ai traffici illeciti delle coste libiche nel Mediterraneo, i ministri degli Esteri dell’Unione Europea riuniti ieri in Lussemburgo hanno approvato la proroga di un anno dell’operazione "Sophia". La missione, nata nel 2015, ha permesso in un anno di salvare fino a 16 mila migranti e ha portato all’arresto di circa 70 criminali impegnati nel traffico di esseri umani provenienti dal sud. Il nuovo mandato prevede l’addestramento della Guardia costiera e della Marina libiche oltre che l’impegno per evitare il traffico di armi, come approvato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Una decisione che arriva durante la Giornata mondiale dei rifugiati indetta dall’Onu e che riguarda, in particolare, le partenze di imbarcazioni clandestine guidate da scafisti dalle coste della Libia. In questo contesto, i dati diffusi dall’agenzia Unhcr mettono i brividi: le persone costrette alla fuga nel 2016 sono state 65 milioni, contro i 59 del 2014. Purtroppo, la metà di loro sono bambini. Proprio questa mattina, Christian Schneider, rappresentate delle Nazioni Unite in Germania, ha presentato un rapporto in cui viene evidenziata la necessità di monitorare e sostenere al meglio i diritti degli oltre 300 mila bambini rifugiati nei centri di accoglienza in Germania. Le critiche sulle condizioni in cui vivono i piccoli profughi arrivano dall’Unicef: spesso le cure mediche non sono adeguate e i bambini non riescono ad andare a scuola per mesi.

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Onu: contro i Rohingya possibili crimini della Birmania

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Le gravi discriminazioni contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar potrebbero costituire crimini contro l'umanità. Lo denuncia un rapporto dell'Alto Commissario Onu per i diritti umani il cui focus comprende anche la condizione di altre minoranze del Paese. Quattro anni dopo le violenze nello Stato Rakhine oltre 120 mila musulmani Rohingya e Kaman stanno vivendo in campi profughi, sono esclusi dalla vita sociale e non hanno la cittadinanza birmana. "Non sarà facile eliminare tutte le discriminazioni", ha detto l'Alto commissario dell'Onu, Zeid, anche se dal Report emergono i primi sforzi del neonato governo birmano, nel rimuovere le violazioni dei diritti umani. Valentina Onori ne ha parlato con Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea dell'Asia all'Università di Bergamo: 

R. – Questo Report va a fotografare in modo piuttosto tardivo una situazione che era sotto gli occhi di tutti: la minoranza Rohingya in Birmania è soggetta a gravi discriminazioni, ma questo era già stato denunciato da diverse ong. La mancata nazionalizzazione di questa minoranza era già una situazione di discriminazione. Ricordo che in Myanmar è considerata un’etnia di fatto straniera. La situazione si è molto aggravata a partire dal 2012, con gravi scontri e autentici pogrom nello Stato di Rakhine che hanno portato circa 125 mila Rohingya a vivere in campi profughi, come una sorta di rifugiati interni, in condizioni davvero molto difficili. Poi, oltretutto, la mancanza di diritti la espone ad altre forme di sfruttamento.

D. – Aung San Suu Kyi rifiuta l’etichetta “Rohingya” perché sostiene che polarizzerebbe troppo il Paese. Per lei è preferibile la definizione “bengali”, che sia l’etnia Rohingya sia la comunità internazionale rifiutano. Il rifiuto anche di riconoscere il nome proprio di un intero popolo costituisce una base non proprio promettente per gli sviluppi futuri della pace, del riconoscimento dei diritti dei Rohingya…

R. – Non deve stupire, in quanto la Birmania è un mosaico etnico in cui alle etnie di minoranza vengono riconosciute determinate specificità. Chiamare anche solo i Rohingya con il loro nome equivale a dire: “Sono una delle tante minoranze etniche del Paese”. Questo è assolutamente osteggiato dai nazionalisti buddhisti. A livello ufficiale, la denominazione che viene data è quella di “Bengali”, perché vengono semplicemente ritenuti degli immigrati dal Bangladesh. Aung San Suu Kyi ha sempre definito i Rohingya come immigrati illegali dal Bangladesh. Finché non cambia questa posizione, non ci sono soluzioni. È molto difficile, a mio avviso, che il governo birmano cambi idea nonostante le pressioni internazionali. In un prossimo futuro, vorrebbe dire rimettere in gioco a livello locale tutta una serie di accordi – anche politici – ed equilibri sottili che potrebbero causare un danno al partito di Aung San Suu Kyi che si appresta a ridisegnare in qualche modo anche i rapporti tra le diverse etnie del Paese. Finchè Aung San Suu Kyi lottava per la democrazia contro la giunta militare, godeva di grande sostegno: a livello internazionale la sua immagine era portata come simbolo. Oggi trovandosi in una situazione di governo, di ricostruzione degli equilibri politici, ma anche etnici all’interno del Paese, emergono quelle che erano le ombre della figura di Aung San Suu Kyi e del suo partito.

D. – Quali sarebbero le possibili soluzioni?

R. – La soluzione vera del problema è quella del riconoscimento dei Rohingya come minoranza etnica. Ammettere un’etnia numerosa, oltretutto concentrata in una zona ben specifica del Paese e in crescita dal punto di vista demografico, creerebbe dei problemi. Ritengo che la situazione dei Rohingya sia molto diversa rispetto a quella delle altre etnie che hanno accettato in qualche modo di entrare all’interno del processo politico e di lasciare le armi.

D. – Nei campi profughi ci sono circa 30 mila bambini esclusi dalle cure mediche, dagli studi e da alcune professioni. La conseguenza della perdita di un’intera generazione è devastante anche per il futuro del Paese…

R. – Questo è chiaramente un disegno. Si vuole in qualche modo impedire che nasca una nuova generazione di Rohingya in grado, in qualche modo, di partecipare all’amministrazione del Paese e alle attività economiche che danno maggiore lucro.

D. – C’è il rischio di rivendicazioni jihadiste contro lo sfruttamento di questa etinia musulmana?

R. – Per il momento in Birmania no, però a livello internazionale sì perché si produce nell’area del Sudest asiatico e quella vasta galassia di rete, che è il mondo delle diverse sigle del jihadismo, fa spesso riferimento ai Rohingya. Sono utilizzati dalle organizzazioni jihadiste come esempio di musulmani che vengono uccisi, sfruttati, e quindi una sorta di bandiera da sventolare per convincere sempre più adepti alla causa del jihadismo internazionale e anche locale.

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Congresso contro la pena di morte, 140 gli Stati abolizionisti

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Al via da oggi al 23 giugno ad Oslo, in Norvegia, il sesto Congresso mondiale contro la pena di morte, con l’obiettivo di aumentare la sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale e di spingere sempre più Paesi ad aderire ad una moratoria completa delle esecuzioni. Finora 140 gli Stati abolizionisti ma la tendenza non è sempre positiva, come spiega Antonio Stango, coordinatore del Congresso, al microfono di Stefano Leszczynski

R. – Il dato è che ogni anno ormai aumentano i Paesi che aboliscono la pena di morte totalmente o che passano dall’abolizione di fatto all’abolizione anche di diritto, così come – e questa fu proprio un’idea lanciata nel 1994 da "Nessuno tocchi Caino" – aumentano i Paesi che votano in favore della moratoria universale delle esecuzioni all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il dato negativo, però, è che fra quei Paesi che mantengono la pena di morte e che praticano le esecuzioni, queste sono, soprattutto nell’ultimo anno, aumentate numericamente in alcuni di essi. Per esempio, nel caso dell’Iran, dell’Arabia Saudita e in quello dell’Iraq. C’è un grande Paese, che è la Cina, che esegue più sentenze capitali ma in cui, per buona sorte, c’è un trend di riduzione delle esecuzioni da alcuni anni a questa parte e ci sono più filtri per poter emettere e passare in giudicato una condanna capitale. Ci sono, quindi, segnali divergenti, ma è senz’altro vero che sempre più Stati stanno andando verso l’abolizione.

D. – Il Congresso mondiale contro la pena di morte, ormai arrivato alla sua sesta edizione, quest’anno avrà un focus speciale sull’Asia…

R. – Il Congresso è un’attività molto complessa che, oltre alle tre giornate ufficiali, vedrà una serie di eventi collaterali anche all’università di Oslo, dove si dibatteranno molti temi. Il focus particolare è appunto sull’Asia, che è la regione del mondo dove avvengono più esecuzioni e dove, comunque, ci sono segnali positivi che noi cerchiamo di cogliere. Ad esempio, la Mongolia, che sarà presente con il ministro della Giustizia al Congresso, ha definitivamente abolito la pena di morte dai propri codici penali nel 2015, con una normativa nuova che entrerà in vigore dal settembre di quest’anno. Quindi, ci sono esempi che noi cercheremo di proporre attraverso un dialogo multilaterale anche ad altri Stati. La questione del terrorismo legato alla pena di morte purtroppo è qualcosa che in alcuni Paesi ha portato a riprendere esecuzioni che non avvenivano da molti anni – è il caso ad esempio della Giordania. Si intende che la pena di morte per i terroristi non può essere la soluzione, tanto più per persone che scelgono purtroppo la morte come loro obiettivo per se stessi e per gli altri. Quindi, si dibatterà di questo. Fra l’altro, al tema di “Terrorismo e pena di morte” sarà dedicata la Giornata contro la pena di morte di quest’anno, il 10 ottobre.

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Rio 2016: una campagna contro la tratta di persone

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Denunciare i casi sospetti di tratta e sfruttamento delle persone nel corso delle prossime Olimpiadi di Rio. Questo l’obiettivo della campagna “Gioca a favore della vita”, lanciata dalla rete brasiliana delle religiose contro la tratta "Thalita Kum" e presentata oggi presso la Sala Marconi della nostra emittente. Il servizio di Elvira Ragosta

Accade per le Olimpiadi come per altri grandi eventi: da un lato rappresentano un momento di crescita economica e maggiori possibilità di lavoro per i Paesi che li ospitano, dall’altro acuiscono minacce già presenti, come la tratta delle persone per lo sfruttamento sessuale, lavorativo o della dignità. Per questo la campagna “Gioca a favore della vita” mira a informare e responsabilizzare cittadinanza, stampa e agenzie di viaggio su un fenomeno che può essere prevenuto e contrastato. A sostenere la campagna "Thalita Kum", la Rete internazionale della Vita Consacrata contro la tratta di persone e l’Unione internazionale delle Superiori generali. Suor Gabriella Bottani, coordinatrice di "Thalita Kum":

“La campagna verrà realizzata da 26 gruppi della rete, presenti in 26 Stati del Brasile, e in modo speciale a Rio de Janeiro, con attività principalmente di prevenzione, di divulgazione di materiali prodotti per la campagna, ma anche con attività di tipo educativo rivolte soprattutto ai giovani e agli adolescenti, che sono i gruppi principali in situazioni di rischio di tratta. È un lavoro fatto in partenariato con diverse Chiese. Non solamente della Chiesa cattolica: è un lavoro di stampo ecumenico ma anche di collaborazione con le organizzazione governative preposte a un lavoro contro la tratta”.

Oltre all’azione di sensibilizzazione attraverso i media e i social, la campagna, in collaborazione con gli uffici governativi brasiliani, mette a disposizione il numero telefonico gratuito, componendo il quale chiunque si trovi in Brasile e sia testimone o venga a conoscenza di casi di tratta o sfruttamento, potrà presentare denuncia anche in forma anonima. La campagna è già stata lanciata in brasile lo scorso 31 maggio a cura della rete brasiliana delle religiose contro la tratta e ha scelto di riproporre lo stesso slogan usato in occasione deli Mondiali di calcio del 2014. Un’esperienza, quella di due anni fa, che ha contribuito all’aumento del 42% delle denunce.

Sull’importanza dell’iniziativa interviene anche il card. Joao Braz de Aviz, prefetto del dicastero per la Vita Consacrata:

R. – Questa iniziativa, tutto il lavoro di "Talitha Kum", collegato direttamente all’Unione internazionale delle Superiori generali – un lavoro di Chiesa – è bellissimo. Soprattutto perché, facendo riferimento ai nostri carismi, i carismi della Chiesa, molti di questi sono portati a lavorare con gli ultimi. E questo è un tipo di lavoro veramente missionario, importantissimo. La nostra presenza e il lavorare insieme – questo è un aspetto molto importante – e anche la presa di coscienza attraverso i mezzi di comunicazione. Tutto questo aiuta moltissimo, perché facilita un intervento che trovi davvero una risposta.

D. – La campagna sarà attraverso tutti i mezzi di comunicazione: sarà rivolta in particolar modo ai turisti che si recheranno in Brasile. Ma quanto è importante il supporto anche dei fedeli, dei brasiliani?

R. – La Conferenza dei religiosi del Brasile è molto ben organizzata: è una struttura che ha iniziato a operare fin dagli anni ’50 ed è molto presente in tutto il territorio brasiliano, molto ampio ed esteso. Dal momento che la Conferenza è abbastanza preparata e ha anche preso molta coscienza del problema, il suo influsso potrebbe essere molto forte, soprattutto se si impegna in maniera diretta e in questo momento in vista delle Olimpiadi in Brasile ad agosto. Questa sarebbe una cosa straordinaria. Io penso che questo impegno ci sarà – già c’è ora – e si vede dal modo in cui la ci si sta muovendo. Però – naturalmente – quante più persone e mezzi si coinvolgono, quanti più organi di governo si muovono, meglio è.

Testimonial di questa campagna due atleti  italiani. Alessandra Sensini, velista e campionessa olimpica di windsurf, sottolinea quanto importante sia sensibilizzare anche gli atleti sul fenomeno della tratta, in particolare in concomitanza con i grandi eventi come le Olimpiadi:

“Onestamente, da atleta, fino adesso non avevo idea che i numeri fossero così alti e – ripeto – è molto, molto triste, perché eventi come le Olimpiadi devono essere eventi di felicità, di gioia, momenti di condivisione tra i vari Paesi. E quindi è importante anche per noi atleti o ex atleti dedicare il nostro tempo alla promozione di questa campagne, che stanno tra l’altro ottenendo dei risultati importanti”.

Massimiliano Rosolino, campione di nuoto e altro testimonial, punta l’attenzione sul concetto delle regole, non solo quelle che devono rispettare gli atleti durante le gare:

 “Dietro la volontà di essere al centro dell’attenzione per un evento sportivo così importante, comunque ci sono persone che vanno lì soltanto per infrangere le regole”.

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Forum Famiglie: servono genitori "immischiati" nella scuola

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Formare madri e padri consapevoli, presenti negli organi decisionali della scuola. Questo l’obiettivo del progetto “Immìschiati” promosso dal Forum delle Famiglie che, stimolato dalla rottura del patto scuola-famiglia, evidenziato anche da Papa Francesco in Amoris Laetitia, invita i genitori a coinvolgersi e a diventare rappresentanti di classe e di istituto. Prevista per il prossimo 16 luglio una giornata di formazione con i vari forum regionali. Al microfono di Paolo Ondarza sentiamo la vicepresidente nazionale del Forum, Maria Grazia Colombo

R. - È un lanciare la posizione del genitore proprio come protagonista all’interno di una responsabilità educativa. In fondo vuol dire: “Sei tu il genitore, sei tu l’educatore primario” e non solo perché te lo dice la Costituzione …

D. - Perché se non ci si “immischia” quali sono i rischi?

R. - Un vuoto: dentro la scuola abbiamo i docenti, gli studenti, i dirigenti, ma gli assenti – molte volte – sono proprio i genitori! È un “di meno” per la scuola …

D. - Oggi la scuola è pronta a rinvigorire il patto di corresponsabilità che dovrebbe essere alla base della vita scolastica degli studenti?

R. - Io non so se nella scuola ci sia questa grande richiesta di presenza dei genitori, però è vero che manca, perché penso sempre che un insegnante che non riesce, che non può confrontarsi con dei genitori perché sono assenti, non può essere un buon insegnante.

D. - E nel concreto “immischiarsi” vuol dire partecipare alla vita politica della scuola, cioè candidarsi alle cariche, ad esempio, di rappresentante dei genitori?

R. – Certo, ma non per “occupare” la scuola, ma come ospiti di eccezione. Noi, come forum, diciamo da sempre che la famiglia è un soggetto culturale, sociale e politico. Noi facciamo politica. Ognuno di noi attraverso la propria casa e la propria famiglia fa politica. Chi fa esperienza come rappresentante di classe nel consiglio d’istituto, compie i primi passi verso un impegno politico sociale; noi oggi abbiamo bisogno che la nostra gente partecipi.

D. - Per coinvolgersi si può partire dalla cose più concrete che possono essere le carenze in un istituto, ad esempio i banchi che non sono in buone condizioni, la mancanza di igiene nei bagni, etc …

R. - Tutto, esatto: noi abbiamo a cuore l’esperienza della scuola, tutta.

D. - Fino alla partecipazione al piano dell’offerta formativa. E qui rientra anche la tanto dibattuta questione del gender?

R. – Esattamente, è un tema che a noi sta particolarmente a cuore. Non può essere il motore di tutto, ma comunque è un tema che svela la domanda: “Come famiglia, cosa mi sta a cuore? Io cosa propongo a livello educativo? Cosa ho da mettere dentro il contenitore del piano di offerta formativa?”

D. - Immischiarsi vuol dire anche promuovere il “consenso informato”?

R. - Sì, con modalità che si possono vedere. Quando io parlo di pluralismo culturale vuol dire che devo avere la libertà, se non sono d’accordo, prima di essere informato, e non dopo, ma all’inizio nel momento della formazione della proposta educativa. Questa è la prima cosa e va detto che purtroppo non sempre questo avviene. Quindi è importante esprimere il proprio parere, certo in un clima di pluralismo per cui ci deve essere un confronto. A me fanno molta paura certi pensieri e certe posizioni ideologiche che purtroppo nella scuola hanno fatto molto male ultimamente e non ci permettono una possibilità di confronto e di crescita sulle questioni.

D. - A proposito di confronto sono attese a giorni le linee guida del Miur relative al comma 16 della "Buona Scuola" riguardante in particolare l’educazione di genere e il contrasto della violenza di genere. Voi all’interno del Forum nazionale genitori della scuola, sarete chiamati ad esprimere un vostro parere …

R. - Esatto. C’è una commissione composta di esperti -  noi non ne facciamo parte e non ne fa parte nessuna associazione di genitori – che sta preparando le linee guida di interpretazione di questo comma che usciranno ufficialmente il 5 luglio: le analizzeremo e poi diremo se siamo d’accordo o meno. Esprimersi prima della pubblicazione e dire saranno così o non saranno così, secondo noi  è poco produttivo.

D. - C’è chi paventa il rischio che nel comma 16 possa essere inserita la cosiddetta ideologia gender. Qualora si presentassero queste caratteristiche, ci saranno poi i tempi per una modifica, per un dibattito ulteriore?

R. - Noi siamo convinti di questo e comunque certamente non accetteremo in modo passivo quello che uscirà, quindi vigileremo. Le istituzioni - e nel caso specifico il Ministero - ha una grossa attenzione alle associazioni preposte alla rappresentanza dei genitori.

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Giornata leucemie. Mandelli: progressi ricerca entusiasmanti

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Il 21 giugno, giorno d’inizio dell’estate, è da anni anche il giorno di aggiornamento e sensibilizzazione, in Italia, su ciò che la scienza ha compiuto nella lotta contro le leucemie i linfomi e il mieloma. A promuovere la Giornata a tema è l’Ail, l’Associazione italiana contro le leucemie. Il suo presidente, l’eminente ematologo Franco Mandelli, parla della notevole evoluzione registrata dalle cure in questo settore. L’intervista è di Alessandro De Carolis

R. – Sono convinto che i progressi siano entusiasmanti e che continueranno, perché numerose malattie sono guaribili nella stragrande maggioranza dei casi: le leucemie acute del bambino guariscono in più dell’80% dei casi ed anche i linfomi di Hodgkin hanno una percentuale di guarigione elevatissima. Ci sono progressi notevoli, però, pure in una malattia in cui fino a pochi anni fa i risultati erano pochi, il mieloma, per il quale oggi ci sono numerosissimi nuovi farmaci che danno speranze incredibili, con un miglioramento della sopravvivenza passata da due, tre anni a più di dieci anni. Per me, che ho vissuto negli anni in cui le leucemie acute erano malattie incurabili, i linfomi di Hodgkin si curavano con la radioterapia e con la chemioterapia, con buoni risultati in non più del 50% dei casi, e il mieloma non era curabile, questi risultati mi sembrano veramente ancora oggi incredibili e sono convinto che miglioreranno ancora e anche presto.

D. – Parlando di lotta alle leucemie, il pensiero corre subito al ruolo dei donatori di sangue…

R. – E’ fondamentale, perché nelle leucemie, nelle malattie del sangue in genere, il donatore di sangue è indispensabile anche per la ricerca che ne deriva. Creare, infatti, nuovi protocolli terapeutici sarebbe impossibile senza il sangue. Il sangue è la parte integrante delle cure. Il sangue non si fabbrica in laboratorio e non si fabbricherà mai. I globuli rossi e le piastrine sono indispensabili, perché se non ci fossero qualche volta il paziente morirebbe.

D. – L’Ail ha allestito da tempo un progetto chiamato “Sognando Itaca”. Di che si tratta?

R. – E’ un progetto che non pensavo durasse e invece quest’anno mi sembra sia alla sua decima edizione. Una barca a vela percorre quest’anno, da Venezia a Brindisi, tutto l’Adriatico e arriva ad Itaca. Nella barca a vela entrano i pazienti e i familiari, assieme ai medici e agli infermieri, e trovano un supporto psicologico fondamentale. Intanto, infatti, si sentono non più dipendenti dai medici e dagli infermieri, ma addirittura si sentono pari a loro. Questa possibilità migliora lo stato psichico dei malati, riduce gli psicofarmaci, riduce le terapie del dolore. E’, quindi, anche una terapia.

D. – Quanto ha contribuito, secondo lei, nel sensibilizzare l’opinione pubblica, la Giornata che ormai da tanti anni l’Ail organizza in questo periodo?

R. – Io credo contribuisca molto, perché abbiamo un numero verde attivo dalla mattina alla sera, dove ematologi di chiara fama risponderanno alle domande dei malati. Uno può pensare che nei centri di ematologia i medici e gli infermieri siano gentili e che quindi non ci sia bisogno di telefonare, ma è utilissimo, perché il malato qualche volta addirittura si vergogna di porre delle domande: ha paura che non siano valide, che non siano opportune. Invece, al numero verde, anonimamente, si trova a parlare con un grande ematologo, che dà suggerimenti utilissimi. E’ talmente importante, devo dire, che addirittura i malati aspettano l’anno successivo, che ritorni il numero verde, per poter riparlare e migliorare le risposte che avevano già avuto l’anno prima.

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Fatebenefratelli premiato per aiuto ebrei contro nazisti

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L’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina di Roma è stato insignito del titolo “Casa di Vita”, per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati durante l’occupazione nazista. Un premio  assegnato dalla Fondazione internazionale Raoul Wallenberg e patrocinato dalla comunità ebraica di Roma e dalla Fondazione Museo della Shoah. Oggi a Roma l’inaugurazione della targa commemorativa. C'era per noi Michele Raviart: 

L’avevano chiamata “morbo di K”, dal nome dell’ufficiale tedesco Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma, e del generale Kesselring. Una finta malattia infettiva estremamente pericolosa, inventata dal medico del Fatebenefratelli Giovanni Borromeo, per proteggere dai rastrellamenti delle SS le decine di ebrei  ricoverati come falsi malati all’interno dell’ospedale. Tra di loro Gabriele Sonnino, che nel 1943 aveva 4 anni:

“C’erano tanti, tanti ebrei nascosti qui. Mio padre venne a sapere che qui aiutavano gli ebrei e noi ci rimanemmo circa un mesetto. Le SS non credevano che ci fosse tutta questa gente ricoverata. Poi dobbiamo parlare del Fatebenefratelli; per noi ebrei della comunità romana sono stati sempre eccezionali: nel periodo nazista, ma anche quando hanno fatto l’attentato alla Sinagoga. E quanti hanno aiutato i feriti”.

Tra i protagonisti più attivi nella resistenza all’occupazione, l’allora priore del Fatebenefratelli, il frate polacco Maurizio Bialek. Antifascista della prima ora, non solo fornì documenti falsi alle famiglie rifugiate e un riparo sicuro in vari monasteri, ma ospitò sotto l’ospedale anche partigiani e rifugiati politici. Fra Giampietro Luzzato, vicepresidente dell’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina:

“Questo riconoscimento è molto importante, perché dal ’43 al ’44 quest’ospedale si è prestato sia ad accogliere i rifugiati ebrei – più di 40 sono stati accolti nella sala Assunta, che allora era di degenza – e sempre sotto la sala Assunta c’erano invece i partigiani e i rifugiati politici. Qui poi c’era anche il comando della Resistenza; la radio. Per ben due volte i tedeschi fecero irruzione e cercarono, ma non riuscirono. Alla fine, poi, nel ’44 forse se ne accorsero anche, ma ormai era troppo tardi. Loro stavano partendo”

La targa “Casa di Vita” è un riconoscimento che sancisce il rapporto tra gli ebrei romani e l’ospedale, spiega Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica:

“Per noi è particolarmente importante ogni occasione in cui possiamo testimoniare persone o momenti in cui si è anteposto il bisogno della vita alla sofferenza e alla voglia di sacrificare invece l’altro. Questo è un esempio particolarmente sentito per noi, non solo per vicinanza del quartiere ebraico a quest’ospedale, ma proprio perché la sensibilità dei medici, che qui hanno operato, ha dimostrato che si potevano sicuramente salvare tante vite semplicemente mettendo questo bisogno di vita, di futuro e di libertà, al di sopra di ogni altro valore. La genialità di inventare un ‘morbo di K’ per salvare delle persone che fuggivano, loro malgrado, solo per essere ebrei, dalla deportazione o dal sacrificio addirittura della loro vita, è la testimonianza che certi valori, se sono ben radicati, devono prevalere”.

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Festa della musica: in tutta Europa musicisti ed eventi di piazza

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Il 21 giugno per celebrare il giorno del solstizio d’estate si celebra in tutta Europa una delle feste più affascinanti della cultura del vecchio continente, la Festa della Musica. Le sue origini sono a Parigi e risalgono ad un’idea del ministro Lang nel 1982: invitati, all’insegna della spontaneità, musicisti, professionisti e amatori col compito di animare strade e piazze di ogni città. Oggi è coinvolta tutta l’Europa: a Roma l’inaugurazione solenne ieri in Senato, con un coro molto speciale, e oggi ci sarà musica i tutti i luoghi più belli. Il servizio di Gabriella Ceraso

Il tema dell’integrazione guida quest’anno la Festa della musica e l’inaugurazione in Italia non poteva essere più appropriata, affidata a Senato al Coro misto della Casa circondariale "Dozza" di Bologna. Quaranta detenuti con un repertorio multiculturale che cantano in diverse lingue e che sono usciti per la prima volta dal carcere per rappresentare quale dono sia per loro la musica e che cosa significhi integrazione. Alessandro Cillario dell’Associazione "Mozart 14" li ha accompagnati:

R. – Questi coristi si avvicinano alla musica dal nulla, spesso non la conoscono, non conoscono neanche le note o un pentagramma e da lì iniziano: inizia una lunga storia, un amore quasi, che li riscatta, perché quando cantano, quando hanno la possibilità di esprimersi con questo linguaggio, scoprono se stessi e viaggiano anche oltre le celle di un carcere: si sentono liberi. Questo lo hanno testimoniato e lo hanno scritto un varie occasioni, perché spesso chiediamo loro di raccontarci come vivono questa esperienza. E quello che dicono è che non vedono neanche più le sbarre di un carcere e sono liberi…

D. – Integrazione significa anche accoglienza l’uno con l’altro. Questo è un coro misto: fanno anche questo genere di esperienza, insieme?

R. – Fanno questa esperienza perché è un coro misto in varie lingue – si va dall’israeliano, l’arabo, il francese, lo svedese, l’italiano, l’inglese… Anche il maestro del coro, Michele Napolitano, vuole proprio che ci sia un canto per ogni origine di ogni corista, in modo tale che ognuno si senta veramente partecipe e possa dare il proprio contributo, ma impari anche ad ascoltare gli altri, ad ascoltare l’esperienza, le culture, la voce degli altri coristi.

Musica e festa ad Atene, Barcellona, Berlino, Budapest, Bruxelles e ovviamente in tutta Italia dove suoneranno 8.200 artisti in 280 città."Una grande occasione di incontro e riscoperta dei luoghi" per il ministro della Cultura Franceschini: dal Museo Nazionale d’Abruzzo al Parco archeologico di Paestum, alla Chiesa di San Pietro a Tuscania alla Galleria nazionale di Bitonto. Ma la musica arriva anche in 10 ospedali, 50 carceri 25 biblioteche, dunque un momento di riflessione sul valore sociale della educazione musicale. Il presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, protagonista a Roma, Michele dall’Ongaro:

R. – La musica è un oggetto che va curato, che ci accompagna, che ci può insegnare e aiutare a superare i momenti più difficili e questo è un po’ l’obiettivo di questa festa. Abbiamo pensato di fare un percorso musicale che per noi è importante, simbolicamente: incominciamo nella cavea dell’Auditorium, poi andiamo fino al "Maxxi" che è poco distante, il Museo d’arte contemporanea, il Ponte della Musica, dedicato a Trovajoli, che porta al Foro Italico, dove si concluderà questo nostro percorso musicale.

D. – Cosa dice la musica a quest’Europa che oggi si anima in tutti i suoi angoli?

R. – A me sembra sia importante ricordarsi di Beethoven e della sua IX Sinfonia. Come è noto, l’ultimo Movimento mette in musica l’"Inno alla gioia" e Beethoven fa un’operazione strana: a un certo punto, tutto si ferma, si arresta di fronte a un accordo terribile e sullo sfondo si sente una specie di marcia di giannizzeri che entra nel teatro. E’ l’evocazione dell’assedio di Vienna da parte dei turchi: il nemico. Ma il testo dice: “Gioia. Siamo tutti fratelli". Si può essere fratelli anche del nemico: Beethoven ce lo racconta in musica e appunto fa chiamare “Fratello” l’assediante. Forse noi dovremmo ricordarci di questa geniale intuizione e pensare che, insomma, forse la musica ha dato risposte a problemi che la politica oggi non riesce a dare.

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Nella Chiesa e nel mondo



Onu lancia allarme carestia nello Yemen, 7 milioni a rischio

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Nello Yemen, almeno 7 milioni di persone - un quarto della popolazione - vivono livelli di emergenza di insicurezza alimentare. Ciò rappresenta un aumento del 15 per cento rispetto al giugno 2015. Circa 3 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni, inoltre, e donne incinte o che allattano hanno bisogno di servizi per il trattamento o la prevenzione della malnutrizione acuta. E’ il quadro drammatico tracciato dalle Nazioni Unite. In un comunicato congiunto della Fao e del Pam, si sottolinea che i motivi principali dell’insicurezza alimentare includono innanzitutto il conflitto in corso, una mancanza di carburante e restrizioni nelle importazioni che hanno ridotto la disponibilità dei beni alimentari di base nel Paese, che importa circa il 90 per cento degli alimenti di base.

Appello dell’Onu a porre fine al conflitto
Le importazioni di beni alimentari e di carburante per di più sono state, a marzo 2016, le più basse a partire da ottobre 2015 e hanno soddisfatto solo il 12 per cento dei bisogni di carburante del Paese. “In questa difficile situazione – si legge in un comunicato congiunto Fao-Pam – siamo riusciti a fornire sostegno nei governatorati più colpiti, ma il persistere del conflitto, gli spostamenti di popolazione e l’accesso limitato ai terreni agricoli e agli spazi per la pesca continuano a provocare ingenti perdite in agricoltura, mettendo a dura prova i mezzi di sostentamento degli agricoltori”. Dall’Onu infine l’appello a tutte le parti in conflitto “affinché assicurino un libero accesso alla consegna di assistenza umanitaria alla popolazione colpita”. (A.G.)

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Brexit. Chiese europee: serve una nuova visione

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L’Europa ha bisogno di una “nuova visione”: lo afferma la Conferenza delle Chiese Europee (Cec) - organismo che riunisce le Chiese cristiane delle tradizioni ortodosse, protestanti, anglicane del continente – in una lettera aperta inviata alle sue comunità e organizzazioni, per avviare “una discussione sul futuro dell’Europa e sul ruolo delle Chiese in questo processo”.

Lavorare insieme per nutrire la speranza
La pubblicazione della Lettera avviene – spiega la Cec, citata dall’agenzia Sir – alla vigilia del Referendum nel Regno Unito del 23 giugno (Brexit), “un segno delle difficoltà che sta affrontando il continente. Gli sviluppi in Europa verso una maggiore unità e cooperazione che solo fino a qualche decennio fa erano così apprezzati, oggi sono messi in discussione”. In questo momento storico, infatti, l’Unione europea si trova ad “un crocevia”. Molte sono le sfide che gli europei stanno affrontando: dalla crisi economica all’euroscetticismo, dalle migrazioni al terrorismo. Ma sono proprio queste sfide a chiedere oggi ai cittadini europei di “lavorare insieme per nutrire la speranza e cercare soluzioni costruttive ai problemi comuni”.

La sfida dell’euroscetticismo
Tra le sfide elencate nel corposo documento di 20 pagine, le Chiese mettono l’euroscetticismo: “In molti Paesi membri dell’Ue – affermano - l’euroscetticismo è in ascesa. Partiti politici e gruppi propongono ai loro rispettivi Paesi di uscire dall’Unione”. Si tratta di “un dilemma tra sovranità e interdipendenza” che “molto probabilmente, continuerà ad essere discusso in Europa per molto tempo”. Nonostante i traguardi raggiunti dall’Europa, continua la nota, l’Ue per molte persone “è diventata un’istituzione meccanicistica e tecnocratica, un progetto di burocrati, sempre più lontana dalle preoccupazioni dei cittadini. Qualcosa d’impenetrabile, d’ingombrante e di costoso”. Il sostegno popolare all’Ue, infatti, è in declino e “ciò è aggravato dal fatto che, in numerose occasioni, i leader nazionali attribuiscono all’Ue la responsabilità per ciò che non funziona”.

Guardare ai valore dell’identità europea
Cosa fare, dunque, di fronte alla situazione attuale? Le Chiese europee sottolineano il bisogno di “re-immaginare l’Europa come un insieme e riaffermare i valori che sono stati al cuore del suo progetto storico ed hanno realizzato nei 60 anni della sua storia i suoi successivi sviluppi”. Le domande essenziali da porre, sottolinea la Cec, devono riguardare i valori da porre al cuore dell’identità europea, per guardare al futuro del continente come ad “un insieme”.

Avviato un processo di consultazione tra le Chiese
Per questo, da oggi e fino a dicembre, la Cec lancia un processo di consultazione tra le Chiese che la costituiscono sulle reazioni suscitate dal documento. Le risposte contribuiranno alla preparazione dell’Assemblea in programma nel 2018. 

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Vescovi maroniti: no a smembramento Paesi del Medio Oriente

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Occorre fermare i piani di smembramento su base settaria con cui alcuni circoli internazionali pensano di risolvere i conflitti, ridisegnando i confini dei Paesi del Medio Oriente, a cominciare da Siria e Iraq, e preservare e incentivare la prospettiva di una convivenza collaborativa tra diverse componenti etniche e religiose che favorisca processi di democratizzazione anche a vantaggio dei popoli mediorientali. Questo il giudizio sulle convulsioni mediorientali espresso dai vescovi maroniti riunitisi la scorsa settimana a Bkerkè per celebrare il loro Sinodo annuale.

Siria e stallo politico in Libano al centro dell’Assemblea dei vescovi maroniti
L'assemblea sinodale, presieduta dal Patriarca Béchara Raï - riporta l’agenzia Fides - ha ascoltato con particolare attenzione le relazioni dei vescovi maroniti delle eparchie siriane, soffermandosi sulla tragica condizione vissuta dalla popolazione civile nell'area dl Aleppo. Riguardo alla situazione libanese - si legge nel comunicato finale dei lavori - è stato denunciato l'impatto devastante sulla politica, la sicurezza e l’economia del Paese dello stallo politico che da due anni ormai impedisce l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un empasse determinato in buona parte dalle divisioni tra le fazioni politiche cristiane.

Anche Sinodo greco-cattolico dedicato a crisi in Medio Oriente e in Libano
E la drammatica situazione della guerra in Siria, in Iraq e in Palestina e la paralisi istituzionale in Libano sono tra i principali temi all’attenzione del Santo Sinodo dei vescovi greco-cattolici riunito da ieri a Aïn Trez, sede del Patriarcato. Nella prima giornata di lavori – riferisce il quotidiano libanese L’Orient-le-Jour - i presuli hanno fatto il punto sulla situazione della diaspora greco-cattolica in Europa e in particolare in Svezia e Germania. Nel discorso di apertura, anche il patriarca Gregorio III Laham ha rinnovato l’appello a trovare al più presto una soluzione alla crisi politica libanese. Il presule ha poi insistito con forza sul dovere di non separare mai il futuro dei cristiani nella regione da quello dei musulmani: “Siamo la Chiesa degli Arabi”, ha detto senza risparmiare critiche all’Europa per le sue esitazioni di fronte alla minaccia dell’Is. La chiusura dei Sinodo è prevista sabato 25 giugno. (L.Z.)

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Nigeria. Vescovi al governo: garantire sicurezza della popolazione

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“Mai nella storia della nostra comunità abbiamo visto qualcosa di questo genere. Preghiamo e speriamo che mai dovremo essere testimoni di una tragedia di tale portata”: così, con queste accorate parole, mons. Godfrey Igwebuike Onah, vescovo di Nsukka, in Nigeria, ha tenuto la sua omelia ai funerali delle vittime del massacro nel villaggio di Nimbo. La strage, attribuita ad pastori Fulani, è avvenuta il 25 aprile, ma le esequie di alcune vittime si sono potute celebrare solo in questi giorni.

Perdonare i nemici
“Siamo grati a Dio, che qualcuno tra noi sia ancora vivo oggi per seppellire e onorare i nostri morti”, ha detto il presule, invitando poi la comunità al perdono: “Anche se è difficile perdonare l’attacco violento che ha provocato in noi tanto dolore – ha detto - sappiamo però che uno spirito che non perdona non porterà mai la pace. Preghiamo Dio di avere la grazia di perdonare e amare i nostri nemici”.

Appello al governo: garantire la sicurezza
Citato dall’agenzia Fides, inoltre, mons. Onah ha esortato i fedeli a “non avere paura”, lanciando al contempo un appello al governo affinché garantisca agli agricoltori la sicurezza, in caso di attacchi futuri dello stesso genere, evitando così un’escalation di violenza ed il collasso delle legge e dell’ordine.

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Svezia: progetto ecumenico su migrazione e integrazione

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Partirà il prossimo autunno il progetto “#Värme” (calore) che per tre anni vedrà le Chiese della Svezia impegnate in percorsi di formazione sulle questioni della migrazione e dell’integrazione. Lo annuncia il Consiglio cristiano di Svezia, che riferisce di aver ricevuto un contributo di 3,6 milioni di corone (356mila euro) da un fondo europeo.

Andare incontro ai richiedenti-asilo
L’obiettivo del progetto – spiega Lasse Svensson, attuale presidente del Consiglio cristiano di Svezia citato dall’agenzia Sir – è quello di formare “almeno 800 nuove persone coinvolte nell’incontro con i richiedenti asilo in Svezia”. La formazione è rivolta a sacerdoti, pastori, diaconi e volontari che animano la vita delle comunità locali. In 20 città della Svezia saranno attivati seminari di due giorni, il primo dedicato a questioni giuridiche (regole del diritto d’asilo e del lavoro), il secondo a questioni psico-sociali. Due seminari pilota saranno sperimentati nel tardo autunno 2016, quindi saranno attivati a cadenza regolare.

Adottare approccio globale
“Sulla base del grande numero di richiedenti asilo presenti in Svezia, che spesso entrano in contatto con le chiese locali durante il loro iter, i dipendenti e i volontari di molte comunità hanno espresso il desiderio di sviluppare una maggiore capacità di soddisfare al meglio le esigenze di queste persone”, spiega Björn Cedersjö, responsabile del gruppo di lavoro migrazioni presso il Consiglio cristiano che “con le sue 26 Chiese componenti, vuole adottare un approccio globale per una iniziativa di formazione”.

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Caritas Filippine: sviluppo e giustizia al centro della politica

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Puntare sullo sviluppo e mettere i poveri “al centro dell’agenda politica”: è l’appello della Caritas delle Filippine e di un gruppo di circa 30 organizzazioni religiose e civili al neoeletto presidente Rodrigo Duterte. La Caritas – si legge in una nota citata dall’agenzia Fides - invita l’amministrazione pubblica a compiere “maggiori sforzi per migliorare la vita dei poveri e degli emarginati”, nell’ottica di un “reale cambiamento”.

Incentivare agricoltura sostenibile e biologica
Se il presidente si definisce come artefice di questo rinnovamento - osserva la nota diffusa in occasione del primo anniversario dell’Enciclica di Papa Francesco Laudato si’ sulla cura della casa comune - “chiediamo che il cambiamento si basi sulla giustizia e la dignità umana”. La nota è condivisa da oltre 30 gruppi religiosi e organizzazioni della società civile che chiedono di “proteggere i diritti dei piccoli agricoltori, soprattutto i diritti di proprietà delle terre”, invitando a rivedere il meccanismo dei sussidi “per sostenere la produzione locale e il commercio equo”, incentivando “l'agricoltura sostenibile e biologica e la pesca”, applicando “una vera riforma agraria”.

Promuovere il bene comune
La Caritas filippina ricorda poi “l’erosione dei diritti dei popoli indigeni”, vittime di abusi nei loro diritti umani e propone un piano per “la promozione della giustizia climatica”, cancellando tutti i permessi di costruzione di centrali a carbone ed il fermo delle concessioni per lo sfruttamento minerario, spesso assegnate a multinazionali che calpestano i diritti delle popolazioni locali. “Il cambiamento è auspicabile se porta bene comune, giustizia e pace per l'umanità”, conclude padre Edwin Gariguez, segretario esecutivo di Caritas Filippine, ricordando l’importanza del tema del cambiamento climatico e del riscaldamento globale.

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Vescovi Francia: 2017 anno cruciale per il Paese

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Il 2017 sarà un anno cruciale per la Francia: sono previste, infatti, sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari. In vista, quindi, di questa importante tornata elettorale, la Conferenza episcopale francese (Cef) ha diffuso un ampio documento in cui afferma che “alla vigilia di quello che dovrebbe essere un vero dibattito democratico”, si vuole riflettere su alcune questioni decisive per il futuro del Paese. Tale riflessione, sottolinea la Cef, viene fatta “alla luce della tradizione cristiana” e del magistero di Papa Francesco.

Dibattito elettorale sia democratico e non violento
Suddiviso in sette punti, il documento della Cef si apre, innanzitutto, con la riflessione sulla democrazia e sull’importanza di evitare la violenza nel dibattito sociale. “Se vogliamo progredire nelle pratiche democratiche – affermano i vescovi d’Oltralpe – dobbiamo promuovere l’esercizio del diritto di voto, sviluppando un vero e proprio dibattito sociale”, lontano da “ambizioni personali”. Di qui, il richiamo ai media affinché non puntino solo alle polemiche ed alle controversie tra i candidati elettorali, senza promuovere un confronto pacifico, bensì sviluppando “una sorta di isteria nelle vita pubblica”.

Puntare su un’economia di condivisione e tutelare la vita
Al secondo punto, i vescovi francesi richiamano la necessità di guardare ad un progetto della società che non sia limitato ai meri “dati economici, come se l’economia fosse l’unico fattore di costruzione” importante. Ciò che conta, infatti, è “la costruzione della qualità della vita umana, personale e collettiva”, perché “il progresso tecnologico ed economico deve servire il bene di tutti e non solo il beneficio di pochi”. In quest’ottica, la Cef invita a procedere verso “un’economia di condivisione”, verso “una più equa ripartizione del lavoro e dei suoi frutti”, perché “la qualità umana di una società si misura anche nel modo in cui tratta i suoi membri” più emarginati. “Non possiamo restare indifferenti di fronte alle vittime della nostra società – scrive la Cef – Noi siamo responsabili del rispetto di ogni vita, dall’inizio alla fine”.

Avviare patto educativo tra scuola e famiglia
Il terzo punto analizzato dai vescovi riguarda l’istruzione, per la quale si chiede un miglioramento che sia frutto di una riforma a lungo termine e che passi attraverso “un patto educativo” tra famiglia e scuola, che non devono porsi in competizione, né essere diffidenti l’una nei confronti dell’altra. Inoltre, i vescovi puntano il dito contro “l’emarginazione di un numero crescente di famiglie e quelle misure che favoriscono il divorzio”, le quali provocano “le prime vittime nei bambini”, che ne pagano caramente le conseguenze. Di qui, il richiamo al fatto che “la coesione sociale non si può costruire trascurando il suo tessuto nutritivo, ovvero la coesione familiare”, perché spesso la disgregazione della famiglia è legata “al fallimento scolastico, all’emarginazione dei giovani, a volte anche alla delinquenza”. E come si legge nell’Esortazione apostolica Amoris Laetitia, “una famiglia unita è una risorsa per il futuro ed una speranza per il bene di tutti”.

Tutelare il diritto al lavoro
Quindi, la Cef si sofferma sulla solidarietà, richiamando lo Stato ad attuare tale principio “soprattutto nei momenti di grande difficoltà economica”, in una società in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri. “Sempre più cittadini sono privati del diritto al lavoro – incalzano i vescovi – ma è illusorio pensare che le indennità finanziarie possano compensare questa carenza”, mentre i giovani sono “le prime vittime di un sistema di disuguaglianze”. “Lo Stato – continua la Cef – deve gestire positivamente la tensione tra il liberalismo senza controllo e la salvaguardia dei meccanismi di tutela sociale, come l’assicurazione, il pensionamento o la disoccupazione”.

Migranti: impegnarsi per la solidarietà e l’accoglienza
Centrale, poi, la questione dei migranti: “Il nostro impegno per la solidarietà non può essere bloccato all’interno del Paese – afferma la Cef – I drammatici eventi che colpiscono le popolazioni in Medio Oriente o in Africa gettano sulla strada o in mare centinaia di migliaia di profughi, veri naufraghi dell’umanità”. “Come potrebbe il nostro Paese – si chiedono i vescovi – tirarsi indietro di fronte alla prospettiva di accogliere e integrare decine di migliaia di vittime, mentre la Giordania ed il Libano accolgono milioni di rifugiati?”. Non solo: i vescovi lanciano l’allarme sulle condizioni “disumane” in cui i migranti vengono trattati in Francia e per questo ribadiscono che “un impegno per l’integrazione non può essere raggiunto senza un accompagnamento culturale” che “dona il senso di una vita collettiva nazionale”.

Aiutare i Paesi d’origine delle migrazioni
La nota della Cef guarda, poi, al contesto europeo: “Siamo ben consapevoli del fatto che la Francia, da sola, non può risolvere queste situazioni drammatiche”, perché “l’accoglienza sarebbe un’illusione se non fosse accompagnata da un vero e proprio sostegno al Paese di origine della migrazione, un sostegno che sia economico e politico, per contrastare la povertà endemica ed i metodi anti-democratici di alcuni governanti”. Centrale, in quest’ottica, il senso di appartenenza dei popoli europei, così come la pratica della sussidiarietà, sancita nei documenti fondamentali dell’Ue, “rappresenterebbe una vera possibilità per l’Europa”.

Promuovere la responsabilità ecologica
Infine, il settimo punto della nota episcopale francese riguarda la salvaguardia del Creato: pensando alla Cop21, la Conferenza internazionale sul clima svoltasi a Parigi alla fine del 2015, i vescovi sottolineano “la responsabilità comune” nei confronti dell’ambiente, così come indicato nell’Enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco. “La questione ecologia non è semplicemente una visione naturalistica del mondo – scrivono i presuli – bensì una presa di coscienza morale dei rischi che lo squilibrio climatico ed economico comportano sul pianeta”.

No al fatalismo. Investire nella costruzione di una società più giusta
Ricordando che le risorse della terra non sono illimitate, i presuli esortano a ripensare, “con saggezza”, ai modelli di consumo attuali per “inventare un mondo meno distruttivi e più giusto”. Senza cedere al fatalismo e senza rinunciare a “lottare per il futuro”, quindi, la Cef esorta tutti ad impegnarsi nella “responsabilità per il bene comune”. “Dobbiamo investire tutte le nostre capacità per costruire una società più giusta e rispettosa – concludono i presuli – E questo si chiama speranza”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 173

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