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Sommario del 27/06/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Armenia, croci e coraggio. Nuova unità per l'Europa dopo la Brexit

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Al popolo armeno auguro di avere “giustizia e pace”, all’Europa di ritrovare una nuova “unità” dopo la “Brexit”. È stato un nuovo dialogo a tutto campo quello intavolato da Papa Francesco con i giornalisti che erano a bordo con lui sul volo di rientro dall’Armenia. Tanti i temi toccati, dai rapporti ecumenici alla presenza del Papa emerito in Vaticano, dall’istituzione di una commissione sulle diaconesse alla scelta di usare il termine “genocidio” circa lo sterminio armeno del secolo scorso. Il servizio di Alessandro De Carolis

“Non conoscevo un’altra parola”. E soprattutto non aveva senso tacerla dopo averla già utilizzata. Francesco, il Papa della schiettezza, soddisfa la curiosità dei giornalisti che inevitabilmente vogliono sapere le ragioni del "vocabolo-tabù", sempre al centro di questioni ogni volta che si parli dell’uccisione di massa degli armeni del primo Novecento e delle responsabilità turche nella vicenda:

“Io non conoscevo un’altra parola. Io vengo con questa parola. Quando arrivo a Roma, sento l’altra parola, ‘Il Grande Male’ o ‘la tragedia terribile’ (…) e mi dicono che no, che quella è offensiva – quella del 'genocidio' – che si deve dire questa (…) Ma, dopo aver sentito il tono del discorso del presidente e anche con il mio passato con questa parola e aver detto questa parola l’anno scorso a San Pietro, pubblicamente, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso, almeno. Ma lì io volevo sottolineare un’altra cosa, e credo – che non sbaglio – che ho detto: in questo genocidio, come negli altri due, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte”.

La pietra e la tenerezza
Degli armeni, Francesco celebra il coraggio e la fedeltà secolare alla fede cristiana, la capacità di non aver smarrito la “tenerezza”, la bellezza dell’“arte”, in mezzo a una vita costellata di “croci di pietra”. “Prego – dice – perché trovi la giustizia e la pace”:

“Io so che tanti lavorano per questo e anche io sono stato molto contento, la settimana scorsa, quando ho visto una fotografia del presidente Putin con i due presidenti armeno e azero: almeno parlano… E anche con la Turchia: il presidente della Repubblica nel suo discorso di benvenuto ha parlato chiaro. Ha avuto il coraggio di dire ‘mettiamoci d’accordo, perdoniamoci e guardiamo al futuro’. Ma questo è un coraggio grande!”.

Brexit, unità e conflitto
Non può mancare un nuovo commento del Papa sul tema del giorno, la “Brexit”, stavolta più articolato rispetto all’accenno fatto all’andata. Un giornalista, ovviamente inglese, gli chiede se sia preoccupato del fatto che l’uscita del Regno Unito possa comportare la disintegrazione dell’Europa e addirittura una guerra. Per Francesco, questi venti di stampo secessionistico sono da valutare “bene” per evitare il pericolo, afferma, di una “balcanizzazione” del continente:

“La guerra già c’è in Europa! Poi c’è un’aria di divisione e non solo in Europa, ma negli stessi Paesi. Si ricordi della Catalogna, l’anno scorso la Scozia (…) Per me sempre l’unità è superiore al conflitto: sempre! (…) E il passo (…) che deve dare l’Unione Europea per ritrovare la forza che ha avuto nelle sue radici è un passo di creatività e anche di 'sana disunione': cioè dare più indipendenza, dare più libertà ai Paesi dell’Unione”.

Il dialogo degli ortodossi
I temi di attualità ecumenica abbondano, primo fra tutti il Concilio panortodosso di Creta, che dopo decenni di preparazione ha visto alcune Chiese, tra cui il Patriarcato di Mosca, rinunciare a prendervi parte. Ma il parere del Papa è positivo:

“Il solo fatto che queste Chiese autocefale si siano riunite, in nome dell’ortodossia, per guardarsi in faccia, per pregare insieme e parlare e forse dire qualche battuta, ma quello è positivissimo. Io ringrazio il Signore. Al prossimo saranno di più. Benedetto sia il Signore!”.

Lutero aveva delle ragioni
Una domanda chiama in causa Francesco anche sui 500 anni della Riforma protestante, che vedrà il Papa volare tra quattro mesi in Svezia per una celebrazione. Lutero? Credo che le sue intenzioni “non fossero sbagliate”, opina il Papa, forse erano “alcuni metodi” a non essere “giusti”. E tuttavia, la Chiesa – ammette – ha la sua parte di responsabilità nel processo che mise in moto la Riforma:

“C’era corruzione nella Chiesa, c’erano mondanità, c’era attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato. Poi era intelligente e ha fatto un passo avanti giustificando il perché faceva questo. E  oggi luterani e cattolici, protestanti e tutti, siamo d’accordo sulla dottrina della Giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato (...) Oggi il dialogo è molto buono e quel documento sulla Giustificazione credo che sia uno dei  documenti ecumenici più ricchi, più ricchi e più profondi, no? E d’accordo, ci sono divisioni, ma dipendono anche dalle Chiese”.

Una Chiesa che chiede perdono
Sul rispetto verso gli omosessuali – sul quale viene sollecitato a partire da una recente affermazione del cardinale Marx – Francesco ribadisce che nessuno può ergersi a giudice di queste persone e ricorda il Catechismo che invita ad accompagnarne il cammino verso Dio. Quindi soggiunge:

“Io credo che la Chiesa non solo debba chiedere scusa – come ha detto quel cardinale ‘marxista’… (ride) – a questa persona che è gay, che ha offeso, ma deve chiedere scusa ai poveri anche, alle donne e ai bambini sfruttati nel lavoro; deve chiedere scusa di aver benedetto tante armi. La Chiesa deve chiedere scusa di non essersi comportata tante, tante volte – e quando dico ‘Chiesa’ intendo i cristiani: la Chiesa è santa, i peccatori siamo noi – i cristiani devono chiedere scusa di non aver accompagnato tante scelte, tante famiglie”.

C'è un solo Papa
Francesco conferma di avere sulla scrivania l’ipotesi di una commissione di studio per l’istituzione delle diaconesse nella Chiesa e assicura che durante la visita ad Auschwitz, il mese prossimo, vorrà come fatto al mausoleo del genocidio armeno “andare in quel posto di orrore senza discorsi”, con la preghiera del “silenzio”. Infine con la consueta, affettuosa simpatia che sempre gli riserva, Francesco torna a parlare di Benedetto XVI. Con "coraggio", "scienza" e "teologia - riconosce - "ha deciso di aprire" la porta al Papato emerito, "ma - ribadisce Francesco - c'è un solo Papa":

“Lui per me è (…) il nonno saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera. Mai dimentico quel discorso che ci ha fatto, ai cardinali, il 28 febbraio: ‘Fra voi sicuro ci sarà il mio successore. Prometto obbedienza’, e lo ha fatto. Poi ho sentito, ma non so se è vero questo... Sottolineo: ho sentito – forse saranno dicerie ma vanno bene con il suo carattere – che alcuni sono andati lì a lamentarsi perché questo nuovo Papa… E li ha cacciati via, con il migliore stile bavarese: educato, ma li ha cacciati via. E se non è vero, è ben trovato, perché quest’uomo è così: è un uomo di parola, un uomo retto, retto, retto”.

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La visita del Papa al Monastero di Khor Virap

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"Sono felice di aver visitato l'Armenia, Paese che per primo abbracciò la fede cristiana, e ringrazio tutti per l'accoglienza": è quanto ha scritto Papa Francesco su Twitter (@Pontifex), a conclusione del suo viaggio. La cerimonia di congedo si è svolta all’aeroporto della capitale, Yerevan, alla presenza del capo di Stato armeno Serzh Sargsyan, del Catholicos Karekin II e dei vescovi cattolici. L’aereo è decollato alle 16.48 ora italiana ed è arrivato a Ciampino alle 20.30, con qualche minuto di anticipo. Prima di rientrare in Vaticano, Francesco si è recato, come di consueto, nella Basilica di Santa Maria Maggiore per ringraziare la Salus Populi Romani del felice esito del viaggio, la cui ultima suggestiva tappa è stata la visita al Monastero di Khor Virap. Ce ne parla Sergio Centofanti

Il viaggio di Papa Francesco si è concluso, tra le note di un antico canto armeno, in uno dei luoghi più sacri dell’Armenia: il Monastero di Khor Virap che significa “prigione in profondità”.  Qui, ai piedi del Monte Ararat, c’è un pozzo profondo dove San Gregorio l’Illuminatore, l’evangelizzatore di questa Nazione, venne imprigionato per 13 anni, alla fine del III secolo, da Re Tiridate III che perseguitava i cristiani. Il sovrano, colpito da una grave malattia, fu guarito proprio grazie alle preghiere di San Gregorio: si convertì e nel 301 proclamò l’Armenia “Nazione cristiana”, la prima della storia.

Il Monastero è meta di pellegrinaggi da tutto il Paese. Devastato da un violento terremoto nel 1679, venne ricostruito gradualmente con vari rifacimenti ed aggiunte come la torre campanaria innalzata nel 1800. Il Monastero è sotto la diretta giurisdizione del Catholicos armeno apostolico. Papa Giovanni Paolo II lo ha visitato il 27 settembre 2001.

In questo luogo, Papa Francesco e Karekin II hanno pregato insieme, poi hanno liberato due colombe bianche, emblema di pace e di purezza, verso il Monte Ararat, simbolo dell’Armenia e oggi in territorio turco, dove secondo una tradizione si posò l’Arca di Noè dopo il diluvio. Il Papa ha lasciato in dono al Monastero una lampada in argento e vetro che reca una croce armena e ricorda la prigionia di San Gregorio. 

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Lombardi: un grande successo il viaggio del Papa in Armenia

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A conclusione del viaggio del Papa in Armenia ascoltiamo il commento del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, al microfono di Sergio Centofanti

R. – Questo viaggio ha avuto tre aspetti fondamentali che veramente sono stati tutti coronati da grande successo, se così si può dire: l’incontro del Papa con il popolo armeno che ha apprezzato moltissimo la vicinanza del Papa, la comprensione della sua storia e della sua tradizione cristiana. Alcuni momenti fondamentali – l’incontro al Palazzo presidenziale e poi soprattutto la grande preghiera ecumenica nella piazza di Yerevan, che è stata veramente una cosa assolutamente eccezionale, perché una manifestazione religiosa, di preghiera in un luogo pubblico con tutti i rappresentanti anche della Nazione, credo che non si fosse mai vista. Poi, l’aspetto ecumenico e quindi l’accoglienza del Catholicos della Chiesa apostolica armena che è stata meravigliosa. Il Papa ha abitato nella casa del Catholicos per tre giorni e quindi veramente è stato un momento di incontro molto profondo e sincero. E ci sono stati anche momenti specifici di preghiera comune, sia alla visita alla Cattedrale di San Gregorio l’Illuminatore proprio all’arrivo, sia poi la grande Divina Liturgia di questa mattina, in cui abbiamo visto tutto lo splendore di questa liturgia orientale, la sua spiritualità profonda, il suo profondo senso dell’adorazione del mistero eucaristico e quindi un vero gusto spirituale per coloro che erano in grado di entrare nel significato dei canti, delle parole e dei riti. E poi, oggi, c’è stata anche a conclusione questa Dichiarazione congiunta che ha sigillato con un documento questi tre giorni. Anche i toni dei discorsi, in particolare da parte del Papa, sono stati di grandissimo incoraggiamento all’ecumenismo, al dialogo e all’unione di intenti e a procedere anche verso l’unità eucaristica. Quindi, direi che è un passo importante nel cammino ecumenico con questa Chiesa orientale molto significativa, perché praticamente si identifica con la Nazione armena. E poi anche l’incoraggiamento per i cattolici armeni che sono una comunità di minoranza, una comunità relativamente piccola ma molto molto viva e ben inserita nella vita del Paese, e che hanno sentito la presenza del Pastore universale e quindi hanno potuto anche raggiungere la loro visibilità con la Messa in piazza a Gyumri: hanno potuto mostrare al Papa la loro attività di carità, l’orfanotrofio e altre attività di carità … Quindi, una grande festa, veramente, anche per i cattolici armeni sia per quelli che sono presenti nella patria storica dell’Armenia sia per quelli che sono nella diaspora, che si sentono molto legati all’origine della Patria. Tanti armeni erano venuti dalle varie parti del mondo per questa occasione sia della Chiesa apostolica sia anche della Chiesa cattolica; c’erano tutti i vescovi armeni cattolici, per esempio, a concelebrare con il Papa. Io direi che tutti questi aspetti sono stati raggiunti pienamente e anche possiamo dire che la presenza del Papa qui, come sempre, ha voluto essere un messaggio di pace per la regione, sperando che questo venga capito e venga apprezzato.

D. – In questo senso, il fatto che il Papa abbia usato la parola “genocidio” ha causato delle reazioni: si è parlato di “mentalità da crociati” da parte turca …

R. – Quello che importa è la verità delle intenzioni del Papa, che certamente non aveva intenzione di fare nessuna guerra di religione ma semplicemente di mettere le premesse su una base di riconoscimento delle sofferenze del passato perché invece in futuro queste sofferenze o mancanze di rispetto per la vita e per i diritti degli altri non avvengano mai più. Questa è l’intenzione del Papa e stiamo a questa sua intenzione.

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Nomina episcopale in Spagna

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In Spagna, Papa Francesco ha nominato ausiliare dell’arcidiocesi di Valencia, il sacerdote Arturo Pablo Ros Murgadas, vicario episcopale della medesima arcidiocesi. Il presule è nato il 10 giugno 1964 a Vinalesa, arcidiocesi, provincia e Comunità Autonoma di Valencia. Dopo aver lavorato per un periodo in banca, è entrato nel Seminario Maggiore di Valencia, dove ha seguito i corsi filosofici e teologici presso la Facoltà di Teologia “San Vicente Ferrer”, conclusi con il Baccalaureato in Teologia (1987-1993). È stato ordinato sacerdote il 29 giugno 1993 a Valencia. È stato Vicario parrocchiale della Parrocchia La Asunción, di Torrent (1993-1996), Parroco delle Parrocchie di San Vicente Ferrer e di Nuestra Señora de la Buena Guía, a Valencia (1996-2000), Assistente diocesano dei Cursillos de Cristiandad (1996-2000), Membro del Consiglio Presbiterale (1998-2003); Superiore del Seminario Maggiore di Valencia (2000-2005), Parroco di Requena dal 2006 e dal 2010 è anche Vicario Episcopale dell’arcidiocesi di Valencia.

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Papa, tweet: Gesù ci invita a fargli spazio nel cuore

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Gesù ci cerca e ci invita a fargli spazio nell’intimo del nostro cuore. Ce ne accorgiamo?”. 

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Viganò: vi racconto il primo anno del dicastero per la Comunicazione

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Ricorre oggi il primo anno del Motu Proprio con il quale Papa Francesco ha istituito la Segreteria per la Comunicazione. Al microfono di Alessandro Gisotti, il prefetto del dicastero, mons. Dario Edoardo Viganò, ripercorre questi 12 mesi e indica i prossimi passi nella riforma dei media vaticani: 

R. – Io raccolgo le riflessioni intorno a tre punti. Anzitutto un piccolo lavoro ordinario nella costruzione del nucleo iniziale della Segreteria per la Comunicazione: quindi penso all’organizzazione propria di un dicastero nuovo, quel lavoro che va dalla stesura degli Statuti all’organizzazione degli uffici. Questo è stato il primo lavoro. Il secondo è l’analisi dell’esistente: sono 9 le istituzioni coinvolte ed era importante conoscere il loro modello di lavoro, le persone e quindi non tanto una storia di quanto già esiste e ancora meno un giudizio sulla storia dei media vaticani. Un’analisi, invece, per cogliere le professionalità presenti; individuare quelle da far crescere, nella logica della valorizzazione del personale e, soprattutto, nella costruzione di gruppi misti di lavoro. Il terzo aspetto è comunicare: comunicare alle istituzioni. Io personalmente ho girato tutte le istituzioni per raccontare un po’ – a grandi linee – il processo della riforma e poi comunicare ai gruppi la logica di lavoro della riforma, le motivazioni, quali sono i criteri che guidano questo cammino. Un lavoro affascinante, certo anche con quale difficoltà e qualche fatica ma un lavoro decisamente affascinante, che oggi ha visto coinvolte circa 400 persone, per un totale di oltre 140 riunioni. E siamo all’inizio…. Verso fino luglio e certamente a partire da settembre inizieranno dei seminari - seminari che abbiamo organizzato insieme alla Business School della Luiss e alla Facoltà di Management e di Economia della stessa università - e lì alcune persone cresceranno per capire cosa vuol dire lavorare in team, qual è il processo motivazionale… Insomma tutto quel lavoro che è un importante accompagnamento nei processi di riforma.

D. – All’inizio di questo mese, all’inizio di giugno, nella sessione del C9 lei ha potuto aggiornare il Papa e il Consiglio dei Cardinali, che hanno espresso grande soddisfazione sullo stato di attuazione della riforma. Può condividere qualche elemento di questo incontro, oltre a quello che abbiamo potuto leggere nel comunicato pubblicato dalla Sala Stampa nell’occasione?

R. – Anzitutto lo stile di lavoro: io credevo di dover essere presente per un’ora nel pomeriggio, invece - da prima delle 16 fino alle 19 - sono state tre ore di lavoro insieme al Santo Padre e ai nove cardinali. Un lavoro che è stato anzitutto quello di ascolto dei passi che io ho raccontato, che abbiamo fatto tutti insieme, e delle prossime tappe. E poi i cardinali hanno preso la parola e hanno fatto molte, moltissime domande e anche molto concrete, molto tecniche. E’ stato un momento molto importante di conoscenza delle realtà stesse. Penso, ad esempio, quando ho raccontato loro alcuni numeri e questo è importante perché loro devono assumersi l’onore di alcune decisioni. Oltre a questo metodo, prima di concludere, c’è stata l’occasione per sintonizzarsi su alcune questioni molto concrete, in cui ho chiesto l’assunzione di una responsabilità condivisa.

D. – Lei ha più volte sottolineato che la riforma dei media vaticani riguarda non solo le strutture, ma anche i processi di comunicazione. Perché è così importante per lei?

R. – Direi che è la parte vera: è la vera riforma. Qualcuno, in fondo, mi dice: “Certo, fare un portale multimediale è come scoprire l’acqua calda”… E un po’ è anche vero questo, se uno si fermasse su ciò che appare: sì, può essere un portale più bello, costruito meglio, però tutto sommato quello che si vede è quello che si vede già ora pressappoco... La riforma sta in tutto ciò che non si vede e cioè nel sistema attraverso il quale verranno processate le notizie e soprattutto nel sistema di un nuovo workflow del lavoro. I lavori non saranno più individuali, singoli, ma saranno lavori di team – questo lavoro di team è importante – sapendo che nessuno ha la verità in tasca, soprattutto nel mondo della comunicazione. Impariamo a mettere da parte le proprie esperienze per disporsi ad apprendere, perché questa umiltà è l’elemento necessario di ogni riforma. Le strutture sono strutture e come si vede dall’analisi che è stata fatta delle nove realtà, ciò che è penalizzato è il lavoro, il processo appunto: è come se un motore, che ha tutto, non funziona bene e anziché produrre energia producesse solo calore; la macchina si surriscalda e ad un certo punto si blocca. Qui c’è un motore e il problema è che tutto ruoti bene perché funzioni e possa andare veloce, sappia frenare, sappia accelerare quando c’è da superare… Quando c’è qualcosa che non funziona, la macchina si surriscalda ed è un disastro!

D. – Fin dalla prima riga del Motu Proprio, con il quale è stata istituita la Segreteria per la Comunicazione, si sottolinea che il contesto comunicativo è oggi caratterizzato dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali. Come influisce questo dato così forte sulla visione e sulla realizzazione anche della riforma dei media vaticani?

R. – Mettere in relazione, come ha fatto il Santo Padre, il contesto attuale e la necessità della riforma di un sistema comunicativo è quanto di più nuovo e quanto di più proprio della riforma che ci possa essere. Perché? Perché l’attenzione al contesto storico e culturale non è una concessione delle piccole élite culturali, piuttosto è l’elemento centrale nella logica della fede cristiana, perché non dimentichiamo che la fede cristiana è una fede che vive propriamente della dinamica della legge dell’incarnazione e quindi non è pensabile lasciar fuori il contesto. In Italia, nel Secondo Dopoguerra, le modalità di annuncio del Vangelo e di catechesi erano modalità che la Chiesa assumeva molto diverse da quelle che oggi sono le forme attestabili della comunità cristiana in Italia. Quindi, il contesto determina la prassi della Chiesa, nel senso che la comunità, la comunità cristiana, discerne come essere comunità fedele al Vangelo in un contesto culturale oggi mutato. In questo senso l’attenzione al contesto digitale è quella che ci fa assumere come prospettiva quella che io chiamo “User first”: cioè cercare di smetterla di guardarci l’ombelico, nella certezza che gli altri ci ascoltino e ci guardino. Questo non è un presupposto possibile! E’ piuttosto l’atteggiamento di cercare chi sono i nostri interlocutori, ascoltarli, ascoltare il loro cuore, le loro domande; comprendere la modalità di fruizione dei media che oggi loro hanno: se penso ai media oggi, l’85 per cento sono fruiti in mobilità. Se noi facciamo una radio di programmi, già siamo penalizzati da questo punto di vista… Quindi credo che sia un invito – il Motu Proprio - ad uscire dall’arroganza di una comunicazione unidirezionale e sapere che siamo chiamati a raccontare, a narrare il Vangelo della Misericordia a uomini e donne concreti, a uomini e donne che vivono, giorno dopo giorno, immersi nei media.

D. – Nel primo anno della Segreteria per la Comunicazione è nato anche l’account Instagram di Papa Francesco e il successo è stato immediato. Quale lezione si può trarre da un risultato così?

R. – Certamente Instagram è stato una caso di studio, vista la crescita esponenziale. Devo anche dire che è un caso di studio per il fatto che gli elementi di commento maggiori sono gli elementi più di tratto spirituale, di vicinanza, di condivisione. E anche questo è un elemento interessante, perché quando abbiamo avuto gli incontri con i responsabili di Instagram, uno dei suggerimenti fatti dalla loro équipe era quello di postare foto molto "backstage". La scelta è stata diversa, ma non ha assolutamente penalizzato: sembra invece una strada che è particolarmente apprezzata. La lezione non lo so...  i social media permettono di dire qualcosa, di raccontare: un po’ come quelle frecce scoccate al cuore di Dio, che durano un istante; o come quando una persona viaggia per strada, a piedi o in macchina, vede una edicola della Madonna, dice una giaculatoria… E’ un po’ come un mantenere viva nel cuore una dinamica di visione spirituale della propria esistenza.

D. – Il portale unico dei media vaticani è uno dei grande progetti in programma per questo anno. Cosa cambierà per il navigatore interessato all’informazione riguardante il Papa e la Chiesa rispetto a quanto succede oggi?

R. – Il Portale sarà l’assetto visibile di quel processo di cui parlavo: noi vedremo un nuovo portale. L’idea è quella dell’iceberg: noi vedremo una punta, ma è importante tutto ciò che sta sotto. E quindi sarà un portale che avrà video, podcast, immagini, notizie scritte, possibilità di ascoltare live – ad esempio – la radio… Insomma un portale che non sia “molti-mediale”, ma multimediale, pensato perché immediatamente una notizia possa essere processata secondo i linguaggi propri dei vari media. Il vantaggio qual è? Il vantaggio è che non ci sarà più la cannibalizzazione degli utenti, che oggi invece sono utenti basiti, se non addirittura spaesati di fronte a una pletora di portali, di siti e anche di App. Io penso, ad esempio, quanto il portale vaticano non sia stato minimamente visitato il giorno della elezione di Papa Francesco… Siamo stati di fatto inesistenti per il pubblico, che ha preferito il portale di Wikipedia per capire chi era Jorge Mario Bergoglio. Quindi c’è un lavoro da fare molto importante sia di web reputation che di posizionamento. E questo credo che sia molto interessante: cioè diventare noi non una tra le fonti, ma diventare noi la fonte! Non certo la fonte ufficiale, perché questa è la Sala Stampa, ma certamente una fonte importante.

D. – Altro punto forte della riforma dei media vaticani – come è noto – in questo 2016 è l’integrazione della Radio Vaticana e del Centro Televisivo Vaticano. Cosa cambierà per l’ascoltatore e il telespettatore? Cosa migliorerà, secondo lei, per l’utente proprio su quel tema dello “User first”?

R. – C’è un aspetto broadcast anzitutto: quindi certamente ci sarà l’unificazione della Radiotelevisione vaticana, chiamiamola così… poter proseguire in quelle sperimentazioni che già facciamo, soprattutto penso nelle grandi celebrazioni del Santo Padre. Certamente c’è un ripensamento, un riposizionamento e un ampliamento – spero – della copertura di 105, la Radio Vaticana Italiana, perché credo che questa sia molto importante che rimanga radio: è una radio! Quindi è importante che possa venir raccontato, è importante che le persone possano ascoltare la Radio Vaticana, in italiano, probabilmente con molte news, anche in altre lingue. Un radio di flusso su cui bisogna lavorare molto, ma credo che ci siano delle grandi professionalità e si potrà procedere da questo punto di vista. Da ultimo, invece, come diceva già padre Federico Lombardi in occasione dell’80.mo della Radio, quella che noi comunemente chiamiamo “Radio Vaticana” non è più una radio: cioè le redazioni linguistiche sono redazioni che saranno il cuore pulsante, che saranno i protagonisti dell’hub content dell’unico portale: l’unico portale avrà delle redazioni multilinguistiche e multiculturali, in cui ciascuno non solo avrà un approccio testuale, ma anche – per esempio – proseguirà a fare o a fare meglio o fare differentemente quel momento breve – che va dai 12 minuti e in altre redazioni molto di più - di audio, che diventeranno dei podcast, che verranno poi scaricati e messi a disposizione. Quindi questo credo che sia un po’ il cammino che ci attende in questi mesi: un cammino che vede sempre più gente entusiasta di essere protagonista di questo cambiamento e di essere protagonista all’interno di un cambiamento che il Santo Padre, Papa Francesco, ci ha chiesto. Mi accorgo da tutte le email che ricevo e dagli incontri che faccio che c’è davvero grande entusiasmo.

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Vaticano: si studia impatto investimenti su popolazioni e ambiente

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Fare dell’Anno della Misericordia un anno di reale impatto positivo sulla povertà: questo l’obiettivo degli accademici, dei politici e degli ecclesiastici riuniti in questi giorni in Vaticano per la seconda Vatican Impact Investing Conference, appuntamento sui temi dell’investimento responsabile che guarda all’impatto degli investimenti finanziari sulle popolazioni e sull’ambiente, promosso dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e dal Catholic Relief Service.

Canalizzare gli investimenti per realizzare la propria missione sociale
La conferenza si è aperta ieri con il saluto del cardinale Peter Turkson, presidente di Giustizia e Pace. Nella giornata di domani si parlerà di imprese sociali, dell’aiuto fornito dalle nuove tecnologie, dell’imprenditorialità giovanile e di quella femminile, dell’importanza del talento e della “capacity building”. L’iniziativa, infatti, secondo la volontà degli organizzatori, punta “a esplorare come la Chiesa cattolica e altre istituzioni religiose possono incanalare l’impatto degli investimenti per sostenere la propria missione sociale” e in particolare si vuole “sviluppare strategie per catalizzare investimenti privati al fine di servire i più poveri e i più vulnerabili”.

Francesco: l’etica ritrovi il suo spazio nella finanza
Grazie a questo appuntamento, dunque, personalità diverse hanno potuto interagire, confrontarsi e imparare da imprenditori di successo che a loro volta sono entrati in contatto con diversi leader di pensiero del settore. Un’esperienza valida e perciò ripetuta dopo la prima conferenza di due anni fa, sempre in Vaticano, sull’investimento responsabile. “È importante che l’etica ritrovi il suo spazio nella finanza e che i mercati si pongano al servizio degli interessi dei popoli e del bene comune dell’umanità – aveva detto in quell’occasione Papa Francesco – non possiamo tollerare più a lungo che i mercati finanziari governino le sorti dei popoli piuttosto che servirne i bisogni, o che pochi prosperino ricorrendo alle speculazioni finanziarie mentre molti ne subiscono pesantemente le conseguenze”. (R.B.)  

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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A conclusione della visita del Papa in Armenia, in prima pagina un editoriale del direttore dal titolo "Sguardo positivo".

Partita a scacchi sulla Brexit.

Charles de Pechpeyrou su una lotta che non deve fermarsi: dopo gli attentati i francesi sono meno contrari alla tortura.

La vittoria di Bae: Cristian Martini Grimaldi a colloquio con il pastore protestante che a Seoul ha aperto bar gestiti da persone con disabilità.

Contro l'esclusione: alla Summer School del Movimento cristiano lavoratori tenutasi all'Università cattolica del Sacro Cuore.

Da Chania, un articolo di Hyacinthe Destivelle dal titolo "Pagina nuova del cammino comune": chiuso nell'isola di Creta il santo e grande concilio ortodosso.

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Oggi in Primo Piano



Brexit: diplomazia europea si mobilita per il futuro dell'Ue

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L’Europa del dopo referendum Brexit si interroga sul futuro delle istituzioni comunitarie. Oggi pomeriggio vertice a Berlino tra Renzi, Merkel e Hollande. Anche il segretario di Stato Usa Kerry vola a Bruxelles per incontrare l’Alto rappresentante per la politica Estera europea Mogherini. Intanto, la Commissione europea resta alla dichiarazione dei quattro presidenti letta da Jean Claude Juncker venerdì scorso secondo cui "ci aspettiamo che venga notificato al più presto l'art.50 per avviare l’uscita dall’Ue. Lo afferma il portavoce, Margaritis Schinas, precisando che per la Commissione "non ci sarà alcun negoziato" con la Gran Bretagna "se non sarà stato prima notificato l'art.50". Sul fronte interno, per il primo ministro scozzese Sturgeon il parlamento di Edimburgo potrebbe opporre il veto al voto di uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Elvira Ragosta ne ha parlato con Christian Blasberg, docente di Storia Contemporanea alla Luiss: 

R. – Io ritengo che le chances di andare a referendum siano abbastanza alte. Questo partito indipendentista in Scozia sicuramente ha preso forza e questa cosa potrebbe sicuramente avere il sopravvento nell’opinione pubblica. Dall’altra parte, però, avevo visto un commento, durante la notte elettorale tra giovedì e venerdì, che proprio il partito nazionalista scozzese si era impegnato poco in quella campagna per evitare il “Brexit” e questo gli è stato un po’ rimproverato. Però, visto che con il “Brexit” le cose si sono messe in moto in maniera abbastanza drammatica, credo che anche la Scozia potrebbe certamente avviare questo processo verso l’indipendenza dall’Inghilterra, che sarebbe un altro grande colpo storico all’assetto dei Paesi europei e dell’Unione Europea in quanto tale.

D. – Intanto, sul sito del Parlamento inglese continua la raccolta di firme da parte di quei cittadini delusi dai risultati del referendum, per chiedere una nuova consultazione elettorale sulla “Brexit”. Quanto è possibile tecnicamente un nuovo referendum?

R. – A breve termine, credo che non sarà possibile. Certamente, questi cittadini che adesso raccolgono queste firme sono ovviamente persone che già giovedì scorso hanno votato per il “Remain”, quindi per rimanere nell’Unione Europea, quindi sono persone che sicuramente erano abbastanza sicure che il “Remain” avrebbe vinto e adesso sono scioccate per il fatto che invece non ha vinto e si mobilitano. Però, se uno guarda, per esempio, la carta geografica e verifica dove soprattutto questa raccolta di firme ha molto avuto successo, finora, vede che questo riguarda la città di Londra – quindi, pro-europea – ma anche i centri universitari e i loro dintorni, come i centri di Cambridge e Oxford e alcuni altri, quindi luoghi dove si concentra un po’ l’Inghilterra borghese. Mentre questa campagna ancora ha poco successo nei centri industriali e nei centri rurali, i quali erano invece a favore del “Brexit”. Credo che ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che una parte consistente di quelli che hanno votato a favore del “Brexit” possano cambiare opinione. Sicuramente la società britannica è molto divisa, molto spaccata e questo “Brexit” ha portato una rottura profondissima tra i vari ceti della società inglese: questo sì. Quindi, sicuramente la drammaticità dell’evento si sta vedendo anche in questa massa di firme che sono state raccolte.

D. – Lo choc europeo del dopo-referendum ha messo in luce una serie di problematiche relative al ruolo politico ed economico dell’Unione Europea. Da più parti si chiedono cambiamenti importanti per rafforzare l’Unione. Come proseguire, come ipotizzare un rafforzamento?

R. – E’ difficile da dire. Sicuramente molti commentatori in questi giorni puntano sul fatto che l’Europa non ha capito i suoi cittadini e gran parte dei cittadini si sente poco rappresentato dalle istituzioni europee e che quindi in questa direzione sicuramente bisogna fare qualcosa. Dall’altra parte, certo, abbiamo in questi giorni i vertici: oggi abbiamo l’incontro a tre tra Merkel, Hollande e Renzi e quindi ci sono diverse iniziative. Certo, finché il cittadino mantiene questa idea che l’Europa va avanti da un vertice all’altro, che praticamente gli affari europei  - in qualunque senso – siano gestiti soltanto dai soliti ceti governativi che sono in ogni Paese abbastanza screditati, non solo in Italia: anche in Francia, il governo sta messo molto male, in Germania sta perdendo colpi e così via … Ci vuole veramente un processo che incominci veramente a integrare i cittadini nel processo del fare decisioni, in qualunque senso queste decisioni vadano. Ma il cittadino dev’essere interpellato, deve essere coinvolto in questo processo di decisioni. Certamente, bisogna aumentare, bisogna rafforzare il senso di identità con l’Europa; l’Europa finora è stata praticamente un’entità riguardo cui il cittadino si poneva soltanto la domanda: “Cosa può fare l’Europa per me”, e se la risposta è negativa – “l’Europa non può fare niente per me” – allora a questo punto “l’Europa a me non serve, se esco non mi interessa”. Se, invece, si arriva a vedere l’Europa come un ideale al di sopra delle condizioni economiche che si possano creare e ci si chiede, quindi, “cosa posso fare io a favore dell’Europa, per migliorare l’Europa, per cambiare l’Europa senza mettere in questione l’Europa in quanto tale”, questo dovrebbe essere un obiettivo da raggiungere!

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Spagna: vince il Pp ma non può governare da solo

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In Spagna, lo schieramento popolare del premier, Mariano Rajoy, è il primo partito ma non può governare da solo. Seguono i socialisti e la formazione di estrema sinistra "Podemos". Frena il partito di centro destra "Ciudadanos". E’ questo l’esito delle elezioni tenutesi ieri nel Paese contrassegnate da un verdetto delle urne che stravolge i sondaggi della vigilia. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Non c’è stato il sorpasso di "Podemos", come pronosticato da diversi sondaggi. Il movimento euroscettico, alleato con la formazione di estrema sinistra "Izquierda unida", resta la terza forza politica del Paese. Il vincitore delle elezioni è il partito popolare che conquista 137 seggi su 350. Ma nonostante l’incremento di consensi, rispetto alle elezioni di dicembre, si tratta di una affermazione parziale. La formazione guidata dal premier Rajoy non ha infatti i numeri per governare da sola. L’unica alleanza possibile per formare un governo, ma difficilmente realizzabile, è quella con il partito socialista, seconda forza del Paese. Perde terreno anche la formazione di centrodestra "Ciudadanos". Dopo le elezioni, segnate da una bassa affluenza - inferiore al 70% - si apre ora in Spagna la complessa fase delle trattative. Il premier Rajoiy, che rivendica il diritto di governare, ha affermato che nessuno sarà escluso dai negoziati.
 
La fotografia di queste elezioni in Spagna è più o meno la stessa, ingiallita, di quelle di sei mesi fa. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il ricercatore per l’area Europa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), Matteo Villa

R. – E' abbastanza simile. È chiaro che cambia qualcosa dal punto di vista dei punti percentuali: c’è chi vince di più e si riconferma, c’è chi perde, però è chiaro che un governo con questo tipo di configurazione rimane un grosso problema per la Spagna.

D. – Il Partito popolare vince dunque le elezioni, ma in Spagna resta il rebus della governabilità: nessuno ha i numeri per formare un governo da solo…

R. – Questo forse è il secondo punto centrale. Il primo è ciò che è cambiato rispetto a quello che ci attendevamo: un’affermazione di Podemos e Sinistra Unita come il primo partito delle sinistre. Ciò non è accaduto, sebbene di pochi punti percentuali, anche se alla vigilia si pensava che sarebbe successo. Questo ci fa pensare che a questo punto un governo sia quasi necessario e l’unico che esce dalle urne come il più probabile è una grande coalizione tra il Partito popolare e quello socialista.

D. – Quanto ha inciso sul voto la vicenda “Brexit”?

R. – Credo poco, nel senso che siamo veramente di fronte a uno scenario elettorale molto simile a quanto accaduto prima. Credo che forse quello che è stato penalizzante per Podemos e Izquierda Unida sia stato, più che altro, il confronto con la Grecia. In campagna elettorale si è continuato ad agitare lo spettro di Syriza, che vincendo le elezioni in Grecia ha gettato il Paese nell’ingovernabilità. C’era chi aveva molto timore di questo risultato. E dall’altra parte c’è una grossa differenza demografica: i giovani votano verso sinistra o i partiti alternativi e anti-sistema, mentre gli anziani continuano a guardare al Partito popolare o ai Socialisti.

D. – Il Partito socialista è la seconda forza politica del Paese: è possibile questa volta la strada, l’unica che può assicurare un governo, di un’alleanza con il Partito popolare?

R. – Penso di sì, anche se c’è un problema. Il Partito popolare ha preso il 4% in più rispetto alle elezioni di dicembre. Questo complica il quadro, perché il Partito socialista aveva detto: “Noi non entreremo in una grande coalizione in cui c’è Mariano Rajoy, il primo ministro del Partito popolare. Noi vogliamo che si dimetta”. È chiaro che se il primo partito si afferma e prende il 4% in più, Rajoy potrebbe fare molte più resistenze. Quindi, questo complica ulteriormente lo scenario. Penso che, comunque, quella di una coalizione sia l’unica alternativa possibile al momento.

D. – E in questo scenario arretra il partito di centrodestra, Ciudadanos, che perdi molti consensi rispetto alla tornata elettorale scorsa…

R. – Un altro partito che non riesce ad affermarsi. Di fatto però, ormai, dal bipartitismo classico spagnolo,siamo passati a una sorta di quadripartitismo, in cui i due partiti anti-sistema insieme prendono un terzo dei voti. Anche se non si affermano, questo rende il Paese difficilmente governabile.

D. – Queste elezioni sono state segnate anche dal crollo dell’affluenza alle urne: una delle più basse nella storia della Spagna post-franchista…

R. – Questo forse ce l’aspettavamo. È un trend che comunque è normale per tutte le democrazie occidentali. Però, soprattutto in un momento in cui i partiti non cambiano e, da dicembre ad oggi non è cambiato praticamente nulla, ci attendevamo che i risultati fossero simili. Le persone o votano per partiti anti-establishment oppure, disilluse, non vanno a votare.

D. – A questo punto, non è escluso il ritorno al voto?

R. – Non è escluso. Spero sia un’alternativa abbastanza remota, perché la Spagna in questo momento è senza un governo da quasi otto mesi. Il rischio è che “Brexit” possa complicare le cose dal punto di vista della stabilità finanziaria dei Paesi periferici. Abbiamo visto gli spread tra Btp e Bund che schizzavano in alto. La stessa cosa è successa con gli spread tra Bonos – ossia i titoli del debito pubblico spagnolo – e quelli tedeschi.

D. – Come leggere questo voto in chiave europea? Questa incertezza porterà nuovi scossoni nell’Unione Europea?

R. – L’aspetto importante forse riguarda i tre Paesi che ancora devono avere appuntamenti elettorali e che li avranno da qui a un anno: Italia, con il referendum costituzionale, la Germania e la Francia, che l’anno prossimo andranno entrambe alle urne. E sarà quella probabilmente la chiave che forse rallenterà i negoziati e ci complicherà le cose.

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Accordo di riconciliazione tra Israele e Turchia

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Accordo di riconciliazione raggiunto tra Israele e Turchia sei anni dopo l’attacco da parte israeliana alla nave turca Mavi Marmara, che stava violando il blocco navale della Striscia di Gaza. Nell’incidente rimasero uccisi 9 cittadini turchi e 2 soldati israeliani. Domani la firma, mentre oggi a dare l’annuncio da Roma è stato il premier dello Stato ebraico Netanyahu che ha sottolineato l’importanza strategica e le grandi implicazioni economiche dell’intesa, definita “un segnale di speranza” dall’Onu. Il servizio di Paolo Ondarza: 

L’intesa prevede indennizzi pari a 20 milioni di dollari da parte di Israele ai parenti delle vittime e la possibilità che Ankara invii aiuti alla popolazione della Striscia di Gaza attraverso il porto di Ashdod. Inoltre, la Turchia rinuncia alla richiesta di rimuovere il blocco marittimo della Striscia e garantisce che non porterà i soldati israeliani davanti alle corti internazionali. Nessuna richiesta da parte di Israele di interruzione del dialogo con Hamas, a patto che quest’ultima non compia azioni contro lo Stato ebraico da territorio turco. Il commento di Maria Grazia Enardu, docente di Storia delle relazioni internazionale all’Università di Firenze:

R. – E’ la ripresa dei rapporti fra due Paesi che sono sempre stati amici, sin dal momento in cui è nato Israele, perché tutti e due hanno come principale avversario il mondo arabo. Riprende una collaborazione che, a livello politico e soprattutto militare, è andata avanti per decenni. Quindi tutto torna come prima: la Turchia ha promesso - una cosa che a noi pare trascurabile, ma che è invece molto importante per gli israeliani – di cercare di influenzare Hamas per far restituire ad Israele i corpi di alcuni soldati. Detto questo, anche un accordo non completo – come questo – è estremamente importante. Ha dietro di sé influenze che si vedono meno: l’Arabia Saudita, che ha contatti non formali con Israele ed è anche sostenitrice di Erdogan, vuole che ci siano rapporti stabili tra i Paesi che le sono più legati, soprattutto in funzione anti-iraniana. Aggiungerei anche che due Paesi e due governi che hanno ricevuto negli ultimi mesi i rimproveri dell’Unione Europea, approfittano e approfitteranno nei prossimi mesi delle distrazioni europee per portare avanti i colossali interessi economici.

D. – Distrazioni europee e Brexit in testa?

R. – Soprattutto, anche perché il Brexit – come vediamo in questi giorni – rischia di andare avanti per mesi prima di cominciare e per anni quando sarà iniziato…

D. – Questo accordo va ad influire in quelli che sono gli equilibri nel Medio Oriente?

R. – Assolutamente sì! Forse la cosa su cui influisce meno è la Siria, perché sia Israele che Turchia hanno in Siria interessi non proprio precisi. Però sulle questioni di fondo, sull’assetto del Mediterraneo orientale i due Paesi sono in accordo: vogliono una tranquillità dettata sui loro termini.

D. – In questi sei anni, gli Stati Uniti si sono particolarmente impegnati al fine del raggiungimento di questa intesa. Perché?

R. – Perché la Turchia è un Paese Nato e anche un Paese che continua ad essere una sorta di contrafforte all’espansione russa e quindi in una doppia chiave – Nato, ma anche anti-russa – la Turchia è indispensabile. E qualunque Paese, come Israele, rafforzi la Turchia non può che giovare a questa logica.

D. – Le implicazioni economiche, cui prima faceva riferimento, a detta anche del premier Netanyahu, sono immense…

R. – Sono immense, come i grandi giacimenti di gas e petrolio: in particolare uno che è stato giustamente chiamato “Leviatano”, che si trova in una zona che va dalla Siria al Libano, a Israele, a Gaza e all’Egitto, quindi tutta una enorme fetta di mare, in cui c’è già un giacimento in funzione, quello di Tamar, di fronte ad Israele, ma non in acque territoriali. E ora ci sono queste novità che riguardano il “Leviatano”. Ma siccome è fuori dalle acque territoriali, c’è un problema di sicurezza in termini di terrorismo, missili di Hezbollah e qualunque altra eventualità: Israele non ha la forza militare per controllare, ma un’intesa – che è anche un’intesa militare, perché lo è sempre stata – con la Turchia garantisce sicurezza in questo e quindi sviluppo anche non solo per l’economia di Israele e di Turchia, ma anche di Paesi che sono previsti in questo allineamento, come l’Egitto di al-Sisi, che ha un disperato bisogno di risorse. 

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Falluja liberata da Is. Camporini: cautela, Daesh è solo sintomo

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Falluja è stata completamente liberata dall'Is. Lo ha annunciato il generale Abdul-Wahab al-Saad capo delle forze antiterrorismo dell'operazione militare irachena iniziata un mese fa nella città che da più di due anni era una delle roccaforti del sedicente Stato islamico più influenti della zona. E' iniziata quindi, la bonifica, ovvero le operazioni di rimozione di tutte le trappole esposive che i miliziani del Califfato hanno lasciato in varie aree della città. “Dopo Falluja ci riprenderemo anche Mosul”, queste le parole del premier iracheno. Sul significato di questa mossa militare e su quello che comporta nell'area, Valentina Onori ha intervistato il generale Vincenzo Camporini, vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali: 

R. – Tutto si inquadra in una situazione che ha origini storiche molto lunghe. Stiamo parlando della contrapposizione tra sciiti e sunniti in un Paese come l’Iraq, che è stata il risultato di una fusione a freddo avvenuta all’inizio del secolo scorso. Quindi non abbiamo risolto i problemi: questi continuano a rimanere. Non dimentichiamoci che l’Iraq, durante il periodo di Saddam Hussein, era governato da una élite sunnita che opprimeva la maggioranza sciita. Si tratta di appartenenti a gruppi che poi, con la caduta di Saddam, hanno visto il risorgere dell’irredentismo sciita a danno dei sunniti: Falluja è sunnita. E non deve sorprendere il fatto che, a un certo punto, Daesh si sia manifestato con la conquista di Falluja due anni fa, perché c’erano tutte le condizioni affinché ci fosse una fiammata di irredentismo sunnita, sotto le bandiere del Califfato. C’è stata una lunga preparazione per la riconquista di Falluja da parte del governo iracheno con tutta una serie di problemi legati anche all’appartenenza di buona parte delle forze che hanno operato contro Falluja – forze sciite. Si temevano poi fatti come quelli avvenuti nel passato con milizie sciite che prendevano le loro vendette nei confronti di popolazioni, che avevano come unica colpa quella di essere sunnite. Il problema di Falluja non è risolto: non è una conquista per cui si possa dire che il problema è risolto. Ci sarà sicuramente uno strascico, ci sarà da vigilare con grandissima attenzione per evitare che ci siano fenomeni di vendette postume. La ripopolazione di Falluja dovrebbe essere meno dolorosa e faticosa rispetto che in altre regioni, perché la città sembra non avere subito quella totale distruzione, che è invece avvenuta in altre circostanze.

D. – All’esercito iracheno adesso spetta tutto un lavoro di bonifica della zona…

R. – Sì, perché Daesh è lì – immagino che qualche piccola sacca di resistenza ancora ci sia – e ci rimarrà a lungo. Perché, aver controllato il territorio e avere avuto la possibilità di mettere dispositivi esplosivi e quant’altro, fa sì che non ci sia l’immediata agibilità dell’area, e che quindi debba essere fatto un lavoro di bonifica molto attento. Infatti, il rischio di perdite umane dovute a trappole esplosive rimarrà ancora per lungo tempo.

D. – A dicembre anche Ramadi era stata liberata dall’Is, ma i combattimenti poi sono continuati; la situazione peggiore è quella dei civili intrappolati…

R. – A Ramadi la battaglia è stata molto più lunga e ha comportato una radicale distruzione della città. Di Ramadi è rimasto in piedi ben poco: sembrava di essere a Dresda nel 1945. Ramadi è stato forse l’episodio più tragico. A Falluja la battaglia è durata di meno; le distruzioni sono meno evidenti e visibili, però prima che si possa tornare alla normalità passerà molta acqua sotto i ponti…

D. – Quali scenari si potrebbero immaginare?

R. – L’attenzione del governo iracheno ora si sposterà su Mosul, cosa che tra l’altro è nel desiderio anche della leadership militare americana. Mosul rappresenta infatti la capitale del Califfato ed è la città più importante nelle mani di quest’ultimo. La caduta di Mosul significherebbe che al-Baghdadi ha perso la guerra. Daesh, il Califfato, non sono altro che il sintomo di una malattia molto più grave: eliminiamo il Califfato, ma se non curiamo la malattia, prima o poi, un fenomeno che si richiami a questo rinascerà. E la malattia – purtroppo – è la volontà di dominio e di potere delle Potenze regionali: Iraq, Iran, Turchia, che si stanno disputando il ruolo egemone nell’area, sfruttando queste rivalità storiche, facendo combattere agli altri la guerra tra loro per riconquistare posizione. L’ondata espansionistica dell’Is è cessata da tempo e ora siamo nel riflusso della marea. Però non facciamoci illusioni: i motivi di ostilità non verranno cancellati con l’eliminazione dell’Is. Bisognerà trovare un equilibrio tra le Potenze regionali. Nel momento in cui Arabia Saudita, Iran e Turchia si renderanno conto che continuare ad osteggiarsi l’uno l’altro non porta nessun vantaggio e che è invece il caso di sedersi ad un tavolo delle trattative per trovare un compromesso che non scontenti troppo nessuno: questo sarà un momento in cui ci sarà un barlume di pace nell’area.

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Concilio pan-ortodosso, Bartolomeo: abbiamo scritto pagina storica

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Si è concluso ieri con la celebrazione della Divina Liturgia il Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa, che si è svolto in questi giorni nell’isola di Creta. "Abbiamo scritto una pagina di storia", ha detto il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I chiudendo i lavori. Le Chiese hanno deciso di convocare un Concilio ogni 7/10 anni. Il servizio di Marina Tomarro: 

Una grande apologia del dialogo. E’ stato questo il messaggio finale del Grande Concilio delle Chiese ortodosse. Un'esaltazione dell’importanza del dialogo tra le varie confessioni ortodosse ma anche dialogo ecumenico con le altre Chiese cristiane, perché, come ha spiegato il Patriarca Bartolomeo I, “l’unità ortodossa serve anche la causa dell’unità dei cristiani”, e poi quello interreligioso per cercare di contrastare l’esplosione dei fondamentalismi, e perché unica strada per una reciproca fiducia pace e riconciliazione. A questo proposito forte è stato l’appello rivolto alla comunità internazionale perché compia ogni sforzo possibile per “una risoluzione dei conflitti armati” in Medio Oriente.

Un lavoro intenso che ha visto la presenza di 290 delegati di 10 Chiese ortodosse, che  hanno emendato i 6 documenti e pubblicato una Enciclica e un Messaggio finale, rivolto “Al popolo ortodosso e a tutte le persone di buona volontà”. Un incontro non del tutto semplice, sia per la complessità delle tematiche affrontate sia per l’assenza delle Chiese di Russia, Bulgaria, Georgia ed Antiochia che all’ultimo momento hanno deciso di non partecipare. “Ma – ha aggiunto Bartolomeo – tornando a casa, possiamo dire di aver dato prova ancora una volta della nostra unità in Cristo”.

Le Chiese ortodosse, come si legge nel messaggio finale, entrano nel Terzo millennio con un atteggiamento nuovo e accettano la sfida di farlo pur rimanendo fedeli alla loro tradizione. “Questo Concilio - si legge - ha aperto il nostro orizzonte verso il mondo. La Chiesa ortodossa, è sensibile all’invocazione di pace e giustizia dei popoli del mondo. E proclama la buona notizia della Sua salvezza, annunciando la Sua gloria e le Sue meraviglie tra tutti i popoli". 

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Don Masi: le mafie si sconfiggono anche con lo stato sociale

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Imponevano l’acquisto dei loro prodotti, pane compreso, a piccoli negozi e supermercati rionali, stabilendone anche il prezzo di vendita al dettaglio. Per questo, a Napoli, sono state emesse 24 ordinanze di custodia cautelare a carico di altrettanti uomini del clan camorristico Lo Russo, con accuse che vanno dall’associazione mafiosa, al traffico di stupefacenti, all’estorsione, alla detenzione di arma da fuoco. In Calabria intanto non si sono ancora placati entusiasmo e soddisfazione per l’arresto, ieri, del secondo latitante, ormai da 20 anni, dopo Matteo Messina Denaro. Il boss calabrese Ernesto Fazzalari, 46 anni, è stato catturato in provincia di Reggio Calabria dai carabinieri del Ros. Su Fazzalari pende un ergastolo per associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi ed altro. Francesca Sabatinelli ha intervistato don Pino De Masi, responsabile regionale di ‘Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie’: 

R. – Ieri mattina presto, ho telefonato al procuratore De Raho (procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, ndr) dicendo: “Regalateci tante domeniche di queste! Tanti risvegli di questi!”. E’ stato un risveglio bello, quello di ieri mattina, e una domenica bella. Credo che l’arresto di ieri sia molto importante. Intanto, dimostra che questo territorio non è più territorio di ‘Ndrangheta, ma territorio occupato dalla 'Ndrangheta che la ‘Squadra Stato’ sta cercando di riprendere totalmente. La novità credo che stia proprio qui: in Provincia di Reggio Calabria esiste finalmente una ‘Squadra Stato’, composta dal prefetto, dai procuratori, dal questore e dal comandante provinciale dei Carabinieri e della Finanza. E questa ‘Squadra Stato’ ha vinto ieri.

D. – In questi 20 anni, comunque, Fazzalari  è stato coperto, è stato aiutato, ci sono state delle connivenze fortissime, questo è un segnale negativo sul territorio…

R. – Sì, certamente, il fatto stesso che Fazzalari sia stato trovato a due passi da Taurianova (luogo di origine del boss, ndr) indica chiaramente che in questi anni ha potuto godere di tanti favori della gente del luogo. Questo è un dato di fatto. Ma io sottolineerei, con questo, l’altro dato di fatto: è stata un’operazione perfetta, che certamente è stata realizzata anche con la collaborazione di persone, collaborazione di gente del territorio.

D. – Questo è quello che ha messo in luce il procuratore De Raho…

R. – E questo mi sembra molto importante, no? Incomincia la reazione della società. Io credo che in questo momento la gente del nostro territorio abbia voglia di ripartire, lasciandosi alle spalle una storia negativa e quindi incomincia a collaborare. Credo che ci sia, però, anche un altro aspetto positivo in questo momento e cioè che anche nella stessa associazione ‘ndranghetista incominciano le defezioni, incominciano i collaboratori; anche le donne… Questo è un momento molto importante per la ’Ndrangheta calabrese, perché la collaborazione comincia ad essere una realtà: prima non avevamo collaborazione…

D. – Questo a cosa è dovuto, secondo lei? Dove è stata la chiave di volta?

R. – La chiave di volta è stata che la ‘Squadra Stato’ funziona. Se la repressione funziona, se la legge sui beni confiscati funziona, allora una mamma incomincia a riflettere e dice: “Ma io cosa lascio ai miei figli? Non lascio più ricchezza, non lascio consenso…” e questo perché la repressione e la confisca funzionano, allora vale proprio la pena farli incamminare sulla strada della delinquenza? Non vale più la pena! Quindi io credo che la vittoria dello Stato sia su due fronti: sul campo repressivo, ma anche sul campo del cambiamento reale grazie a quella legge della confisca dei beni.

D. – Non si può non citare anche la forte azione sul territorio della Chiesa…

R.  – Certo! La Chiesa sta facendo il suo dovere sul fronte anzitutto della coscientizzazione e quindi dell’educazione delle coscienze, ma anche sul fronte di segni concreti. In questo territorio è nata la Cooperativa 'Valle del Marro–Libera Terra', anche per volere del vescovo di allora che si chiamava Luciano Bux; la mia parrocchia ha fatto del Palazzo Versace - segno del potere mafioso - il Centro polifunzionale padre Pino Puglisi, con tutta una serie di servizi, abitata da ragazzi e da gente di ogni tipo, ecco, questi sono segni concreti, espressione della Chiesa, che incoraggiano le persone a fare passi positivi e a lasciare la mentalità ‘ndranghetistica, ma anche la partecipazione attiva.

D. – Diciamo anche che si dovrà intervenire sulle cause che hanno alimentato il fenomeno criminale e quindi la povertà, la disoccupazione…

R. – Certo, certo. Assieme a questa presenza di Stato, di ‘Squadra Stato’, non può e non deve mancare la presenza dello stato sociale. Ricordiamo che questi territori sono territori in cui la gente manca dei diritti fondamentali: manca il diritto alla salute, manca il diritto al lavoro soprattutto, e spesso, manca il diritto all’istruzione. E allora, senza la tutela dei diritti, senza una presenza di stato sociale, non possiamo dire di poter sconfiggere le mafie. E’ un lavoro di rete,  un lavoro di natura culturale, un lavoro di natura repressiva, un lavoro di natura sociale e di sviluppo sociale del territorio. 

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Nella Chiesa e nel mondo



Messico. Il vescovo di Tapachula: basta torture nelle carceri

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“Aumentare la consapevolezza e la preparazione professionale di quanti sono impegnati nelle indagini sui crimini che affliggono la nostra società per non fabbricare più colpevoli, ma arrivare alla verità dei fatti rispettando la dignità della persona umana”. È questo l’appello lanciato ieri dal vescovo di Tapachula, Chiapas, Messico, mons. Leopoldo Gonzáles Gonzáles, durante l’omelia della Messa che ha celebrato ieri e in cui ha ricordato la Giornata internazionale di sostegno alle vittime della tortura.

La tortura usata come mezzo per infliggere dolore
Come riporta l’agenzia Fides, il presule ha sottolineato che nel suo Paese la tortura non è “solo utilizzata come mezzo per estrarre una confessione o informazioni, ma anche per infliggere dolore, per far soffrire e per punire”. Questo accade specialmente nelle carceri di massima sicurezza, in cui i detenuti vengono spesso tenuti in regime d’isolamento: “L’assenza di contatto umano – ha proseguito il vescovo – provoca grande sofferenza mentale e fisica e così si aggiunge dolore alla pena inflitta dalla sentenza”. Secondo i dati, infine, nelle carceri messicane non accennano a diminuire i casi di violenza a opera delle autorità e dei responsabili della sicurezza. (R.B.)

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Elezioni in Australia. Mons. Fisher: votare con responsabilità

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Urne aperte, in Australia, il 2 luglio, per le elezioni federali anticipate. In vista dell’appuntamento elettorale, mons. Anthony Colin Fisher, arcivescovo di Sydney, ha diffuso una nota in cui sottolinea che “decidere per chi votare non è sempre una scelta facile, ma è una responsabilità molto importante, per i cattolici come per gli altri”.

Tutelare dignità della persona e promuovere bene comune
“Una percentuale insolitamente alta di elettori australiani – scrive il presule – non è particolarmente interessata a queste elezioni”. Forse, ipotizza l’arcivescovo, perché le parti in causa non parlano di argomenti che appassionano i cattolici. Ad esempio, domanda mons. Fischer: “Quale partito politico, oggi, difende la famiglia, i nascituri, gli anziani, i rifugiati? Chi si batte per i diritti dei lavoratori e contro la tratta di esseri umani?”. Inoltre, quando tali questioni vengono prese in esame, ciò avviene “senza alcun riferimento a eventuali principi-guida o alla riflessione sulla dignità della persona e del bene comune”. Troppo spesso, ad esempio, sottolinea l’arcivescovo di Sydney, la questione dei richiedenti asilo o dei migranti guarda più “ai timori della gente che alla sua generosità”.

Cattolici contribuiscano alla società in spirito di verità, giustizia e solidarietà
Il presule invita, poi, a non cadere nell’errore comune secondo il quale i cattolici si preoccupano solo di temi come l’aborto, l’eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso. “Si tratta certamente di questioni importanti – scrive mons. Fischer – ma non sono gli unici argomenti di cui bisogna parlare”, perché il dovere dei cattolici è quello di “contribuire, insieme alle autorità civili, al bene di tutta la società, in spirito di verità, giustizia, solidarietà e libertà”. Di qui, l’invito ai fedeli a lavorare affinché “le leggi e la politica rispettino sempre la dignità della persona e promuovano il bene comune”, tenendo presente “la sfida” rappresentata da Cristo: “Cosa abbiamo fatto per chi ha fame, sete o è solo?”.

Difendere la libertà
“Ogni persona è un nostro amico, per lo meno potenziale – scrive ancora mons. Fisher – per questo è necessario aiutare chi è nel bisogno. Solidarietà significa non ragionare soltanto in base ai propri interessi”, bensì guardare a tutte le sfide poste dalla società, come l’assistenza agli anziani, le questioni delle popolazioni indigene, i temi ambientali. Non solo: mons. Fisher esorta i cattolici a essere “vigili” per difendere la libertà, in modo che tutti “possano fare ciò che è giusto e possano farlo in modo responsabile”. Un appello, in particolare, arriva per la difesa della libertà religiosa. “Possa lo Spirito Santo – conclude la nota – concedere a tutti gli elettori la saggezza”.

Governo in stallo da mesi
La decisione di indire elezioni federali anticipate in Australia è arrivata nei mesi scorsi, dopo che il Senato ha respinto per la seconda volta un disegno di legge del governo mirato all’istituzione di un ente di controllo sull’industria delle costruzioni, cui è seguito lo scioglimento di entrambi i rami del parlamento di Canberra. (I.P.) 

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La famiglia in Africa, tema della 17.ma Plenaria del Secam

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Manca meno di un mese alla 17.ma Plenaria del Secam, il Simposio delle Conferenza episcopali di Africa e Madagascar, e i preparativi sono in corso per accogliere oltre 100 rappresentanti della Chiesa cattolica continentale a Luanda, capitale dell’Angola.

Riflessione alla luce dell’"Amoris Laetitia"
In programma ogni tre anni, l’Assemblea 2016 si terrà dal 18 al 24 luglio e avrà per tema “La famiglia in Africa ieri, oggi e domani, alla luce del Vangelo”. Una riflessione quanto mai attuale, considerata la recente pubblicazione dell’Esortazione apostolica “Amoris Laetitia sull’amore nella famiglia”, siglata da Papa Francesco e frutto dei due Sinodi sulla famiglia, tenuti in Vaticano nel 2014 e nel 2015. Ad aprire ufficialmente i lavori sarà una celebrazione eucaristica presso la parrocchia della Sacra Famiglia di Luanda.

Nuovi media e nuove ideologie: quale impatto sulla famiglia africana?
Dopo la prolusione introduttiva del presidente del Secam, l’arcivescovo di Lubango, Gabriel Mbilingi, i lavori proseguiranno con una serie di seminari suddivisi per argomento. Si analizzeranno, ad esempio, le nuove sfide pastorali della famiglia africana oggi, la questione dell’evangelizzazione delle famiglie, l’impatto che i nuovi media, così come le nuove ideologie, hanno sulla vita familiare africana. Il tutto con l’obiettivo di rafforzare e moltiplicare l’impegno del Secam nei confronti delle famiglie del continente.

Organismo inaugurato da Paolo VI nel 1969
Nei giorni successivi, si prevede anche l’esame degli Atti conclusivi della 16.ma Plenaria svoltasi nel 2013 a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, assieme all’analisi dei rapporti stilati dai diversi Dipartimenti che compongono il Secam. Per il 23 luglio, inoltre, è previsto l’annuncio del tema, del luogo e della data in cui si svolgerà la 18.ma Plenaria, mentre il 24 luglio si terrà la celebrazione conclusiva dell’Assemblea. Inaugurato ufficialmente nel 1969 da Papa Paolo VI, durante la sua visita in Uganda – la prima volta di un Pontefice in Africa – il Secam compirà 50 anni nel 2019. (I.P.)

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“Rompi il Muro”, progetto di scolarizzazione dei bimbi africani

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Si chiama “Rompi il Muro” la nuova iniziativa della ong spagnola "Plan International" che si occupa della scolarizzazione dei minori nel continente africano. Questo nuovo progetto – precisa l’agenzia Fides – si propone l’obiettivo di raccogliere 100 mila sms che andranno a finanziare un anno di scuola per mille bambini.

Un impegno in tre continenti
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Plan International" è un’organizzazione presente in Asia, America e Africa, in cui si occupa in particolare del sostegno e della tutela dei minori nei campi dell’istruzione, della salute sessuale e riproduttiva, dell’alimentazione e dell’assistenza alla prima infanzia, ma è impegnata anche sul fronte delle emergenze in risposta, ad esempio, a terremoti e cataclismi. Attualmente, lavora in Ecuador in difesa dei bambini terremotati. (R.B.)

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A Monaco di Baviera l’Incontro ecumenico “Insieme per l’Europa”

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Si svolgerà dal 30 giugno al 2 luglio a Monaco di Baviera, in Germania, l’incontro ecumenico “Insieme per l’Europa”, promosso dal Movimento dei Focolari e al quale parteciperanno cristiani appartenenti a oltre 300 movimenti e comunità della rete ecumenica omonima. L’evento potrà essere seguito in diretta internet in sette lingue e ospiterà i videomessaggi personali di Papa Francesco e del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I.

L’Europa di domani ha bisogno di incontro, riconciliazione, futuro
Il titolo dell’appuntamento di quest’anno – Insieme per l’Europa è un cammino di unità nella diversità iniziato nel 1999 e che da allora coinvolge un numero sempre crescente di persone – è “Incontro, riconciliazione, futuro”. Tra i temi che verranno affrontati, l’integrazione e la riconciliazione, la solidarietà con i più deboli, la sostenibilità e la tutela ambientale, il dialogo tra musulmani e cristiani, il matrimonio, la famiglia e l’economia. Non si potrà, naturalmente, trascurare l’esito del recente referendum britannico, “uno dei molti sintomi della frammentazione dell’Europa – scrivono gli organizzatori in un comunicato – ulteriore conferma che non bastano misure funzionali a dare senso e convinzione a una comune appartenenza, ma servono nuove riflessioni e proposte coraggiose”. Uno sguardo e un senso di responsabilità, però, che vanno oltre i confini dell’Europa, perché essa, come dice la presidente dei Focolari, Maria Voce, “ha da donare al mondo l’esperienza di questi duemila anni di cristianesimo che ha fatto maturare idee, cultura, vita, azioni che servono per il mondo di oggi e che, purtroppo, finora non sono venute tanto in rilievo”.

I valori che l’Europa incarna: giustizia, accoglienza, pace
L’edizione di Monaco porta con sé quel bagaglio di esperienze che è stata la tavola rotonda svoltasi a Ginevra il 21 aprile scorso, organizzata dal Consiglio ecumenico delle Chiese e dal Movimento dei Focolari, intitolata “Europa, quale identità, quali valori” in cui si è parlato a lungo di giustizia, accoglienza, riconciliazione e pace. (R.B.)  

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Spagna. I vescovi sulla Giornata per la responsabilità nel traffico

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“Beati i misericordiosi”: è ispirato al Giubileo straordinario della misericordia il messaggio della Conferenza episcopale spagnola (Cee), diffuso in vista della Giornata per la responsabilità nel traffico che si celebrerà il prossimo 3 luglio, prima domenica del mese.

Agire con pazienza e comprensione
“Ascoltare sulle nostre strade e autostrade questo motto – scrive in una nota mons. José Sánchez González, presidente del Dipartimento per la Pastorale della mobilità della Cee – ci riempie di gioia e ci permette di vivere di conseguenza”. “L'esperienza personale della misericordia, infatti – continua il presule – ci porta a essere misericordiosi con gli altri così come Dio lo è con noi”. Di qui, l’invito a “non perdere le buone maniere” sulla strada, in auto o a piedi, “non essere giudici spietati” con coloro che incrociamo lungo il nostro percorso, bensì ad agire con “pazienza, comprensione ed educazione”.

Agire come il Buon Samaritano
“Misericordiosi come il Padre è il motto di questo Anno Giubilare – scrive ancora mons. Sánchez González – ed esso ci invita a non condannare, bensì a perdonare”. Di qui, il richiamo del presule al passo evangelico sul Buon Samaritano che si prende cura del viandante ferito e abbandonato sul ciglio della strada: “Anche oggi, a causa di incidenti di vario genere – sottolinea il presule – possiamo incontrare persone ferite. E ora come allora, molti continuano per la loro strada, assorti nei loro problemi e desiderosi solo di arrivare a destinazione il prima possibile”. Certo, continua il messaggio, fermarsi per aiutare chi ha bisogno “può complicarci la vita, farci perdere tempo e anche denaro”, ma questo è quello che insegna Gesù: “Va’ e fa’ lo stesso”, ovvero agire come il Buon Samaritano.

Praticare le opere di misericordia
Il messaggio della Cee sottolinea, inoltre, che spesso praticare le opere misericordia significa spostarsi, muoversi, ad esempio per “andare a visitare i malati o i detenuti”. Purtroppo, però, spesso “la strada è associata con la morte di centinaia di persone che ogni anno perdono la vita in incidenti stradali”. Di qui, l’invito alla preghiera affinché Dio protegga tutti i viaggiatori e li spinga a essere misericordiosi verso il prossimo. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 179

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.