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Sommario del 29/06/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: la preghiera è "via d'uscita" della Chiesa per la missione

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È la preghiera la chiave che salva la Chiesa dalla paura di chiudersi di fronte ai pericoli, la “via d’uscita” che apre al coraggio della missione. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa presieduta nella Basilica vaticana per la solennità dei Santi Pietro e Paolo. Durante la celebrazione, il Papa ha benedetto i sacri palli che verranno imposti ai 25 nuovi arcivescovi metropoliti. Presente come da tradizione alla Messa una delegazione inviata dal Patriarca ortodosso ecumenico, Bartolomeo I. Il servizio di Alessandro De Carolis

Una storia di liberazione venata di paure, di cuori che restano in catene nonostante la fede e di prigionie infrante grazie al miracolo della preghiera. È la storia della Chiesa della prima ora e dell’ultima, sempre tentata – afferma il Papa – di barricarsi quando le cose vanno male.

La via d’uscita
La Basilica vaticana è gremita, dominata dalla macchia rossa davanti all’altare della Confessione, le porpore dei cardinali e le casule scarlatte dei 25 arcivescovi metropoliti di tutti i continenti dei quali Francesco benedice i palli, segno del vincolo speciale che i presuli hanno col Vicario di Cristo. Anche dalla liturgia emerge un simbolo, quello delle “chiavi” che Gesù promette a Pietro “perché – rimarca il Papa – possa aprire l’ingresso al Regno dei Cieli, e non certo chiuderlo davanti alla gente, come facevano alcuni scribi e farisei ipocriti”. Eppure, prosegue Francesco, la liturgia del giorno è anche una storia di “tre chiusure”. La prima riguarda ancora Pietro, messo in cella da Erode e liberato da un angelo grazie, chiarisce il Papa, alla potenza di una intercessione:

“Mentre Pietro era in prigione, ‘dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui’ (At 12,5). E il Signore risponde alla preghiera e manda il suo angelo a liberarlo, ‘strappandolo dalla mano di Erode’. La preghiera, come umile affidamento a Dio e alla sua santa volontà, è sempre la via di uscita dalle nostre chiusure personali e comunitarie. E’ la grande via di uscita dalle chiusure”.

Dalla paura al coraggio
Pietro fugge dal carcere e va a cercare riparo nella casa della madre di Giovanni, detto Marco. Solo che la domestica, pur riconoscendolo, invece di lasciarlo entrare corre a riferire alla sua padrona. Questo brano degli Atti degli Apostoli non fa parte della liturgia del 29 giugno ma Francesco lo cita perché gli permette di completare la sua riflessione sui rischi delle altre chiusure, dei timori che talvolta inducono i cristiani a ignorare anche le “sorprese di Dio”:

“Questo particolare ci parla della tentazione che sempre esiste per la Chiesa: quella di chiudersi in sé stessa, di fronte ai pericoli. Ma anche qui c’è lo spiraglio attraverso cui può passare l’azione di Dio: dice Luca che in quella casa ‘molti erano riuniti e pregavano’. La preghiera permette alla grazia di aprire una via di uscita: dalla chiusura all’apertura, dalla paura al coraggio, dalla tristezza alla gioia”.

Uscire sulle strade del Vangelo
Anche qui la preghiera come chiave che apre e libera. La cui forza porta Pietro a fare la sua professione di fede, narrata nel Vangelo, e successivamente, restituito alla libertà del carcere, lo libera anche, dice il Papa, dal “suo io orgoglioso e pauroso” verso la missione che Gesù gli ha affidato:

“La vita di Simone, pescatore galileo – come la vita di ognuno di noi – si apre, sboccia pienamente quando accoglie da Dio Padre la grazia della fede. Allora Simone si mette sulla strada – una strada lunga e dura – che lo porterà a uscire da sé stesso, dalle sue sicurezze umane, soprattutto dal suo orgoglio mischiato con il coraggio e con il generoso altruismo. In questo suo percorso di liberazione, decisiva è la preghiera di Gesù: ‘Io ho pregato per te [Simone], perché la tua fede non venga meno’”.

Preghiera via di unità tra i cristiani
Come di consueto, alla Messa per la solennità dei due massimi Apostoli partecipa una delegazione del Patriarcato ortodosso ecumenico. Anche su questo versante, conclude Francesco, la preghiera apre una via d’uscita “dalla divisione all’unità”:

“I santi Pietro e Paolo intercedano per noi, perché possiamo compiere con gioia questo cammino, sperimentare l’azione liberatrice di Dio e testimoniarla a tutti”.

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Il Papa prega per le vittime di Istanbul: Dio converta i cuori dei violenti

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Dolore e preghiera nelle parole del Papa all’Angelus per le vittime del drammatico attacco ieri sera all’aeroporto di Instanbul. Abbiamo tanto bisogno di pace, ha detto. Nella Festa dei Santi Pietro e Paolo, Francesco affida alla Vergine Salus Populi Romani la città di Roma, perché sappia fondare sui valori spirituali e morali la sua missione nel mondo intero. Il servizio di Roberta Gisotti

Grande la pena di Francesco per le molte persone uccise e ferite nell’“efferato attacco terroristico”:

“Preghiamo per le vittime, per i familiari e per il caro popolo turco. Il Signore converta i cuori dei violenti e sostenga i nostri passi sulla via della pace”.

Dedicata ai due patroni di Roma, Pietro e Paolo, la catechesi dell’Angelus:

"E' l’intera Chiesa universale che guarda ad essi con ammirazione, considerandoli due colonne e due grandi luci che brillano non solo nel cielo di Roma, ma nel cuore dei credenti di Oriente e di Occidente”.

Pietro “umile pescatore” e Paolo “maestro e dottore”, che “per amore di Cristo lasciarono la loro patria e, incuranti delle difficoltà del lungo viaggio e dei rischi e delle diffidenze che avrebbero incontrato, approdarono a Roma”:

“Qui si fecero annunciatori e testimoni del Vangelo tra la gente e suggellarono col martirio la loro missione di fede e di carità”.

Se qui a Roma – ha ricordato il Papa - conosciamo Gesù, “lo si deve al coraggio apostolico di questi due figli del Vicino Oriente”:

“Pietro e Paolo oggi ritornano idealmente tra di noi, ripercorrono le strade di questa Città, bussano alla porta delle nostre case, ma soprattutto dei nostri cuori".

Vogliono portare ancora una volta Gesù - ha aggiunto - "il suo amore misericordioso, la sua consolazione, la sua pace”:

“Ne abbiamo tanto bisogno di questo”.

Da qui l’invito: “Accogliamo il loro messaggio! Facciamo tesoro della loro testimonianza!”:

“La fede schietta e salda di Pietro, il cuore grande e universale di Paolo ci aiuteranno ad essere cristiani gioiosi, fedeli al Vangelo e aperti all’incontro con tutti”.

Poi un saluto ai nuovi arcivescovi metropoliti presenti alla Messa in San Pietro per la benedizione dei loro Palli, segno di comunione con tutta la Chiesa, specie con la Sede di Pietro.

“Li incoraggio a proseguire con gioia la loro missione al servizio del Vangelo”.

E ancora un omaggio alla Delegazione venuta a Roma, a nome del Patriarca Ecumenico, "il carissimo fratello Bartolomeo”, presenza che è un “segno dei fraterni legami esistenti” tra le due Chiese:

“Preghiamo perché si rafforzino sempre più i vincoli di comunione e la comune testimonianza”.

Il Papa ha infine affidato alla Vergine Maria Salus Populi Romani, la città di Roma:

“Perché possa trovare sempre nei valori spirituali e morali di cui è ricca il fondamento della sua vita sociale e della sua missione in Italia, in Europa e nel mondo”.

Dopo la recita mariana, il Papa ha lanciato un appello a margine della Conferenza internazionale sugli investimenti responsabili, sul tema “Fare dell’Anno della Misericordia un anno di impatto per i poveri”:

“Possano gli investimenti privati, unitamente a quelli pubblici, favorire il superamento della povertà di tante persone emarginate”.

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Il Papa ricorda la "Girandola", a sostegno dei cristiani perseguitati

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Oggi all’Angelus il Papa ha ricordato che stasera (alle 21.30) si svolgerà a Piazza del Popolo a Roma (l'anno scorso è stato organizzato a Castel Sant'Angelo) l'ormai tradizionale spettacolo di fuochi d’artificio per la festa dei Santi Pietro e Paolo. L'evento, ideato da Michelangelo, è noto con il nome “La Girandola”. La manifestazione pirotecnica sarà accompagnata da celebri brani musicali tratti da Puccini, Rossini e Respighi. Il ricavato dell’iniziativa andrà a sostegno di opere di carità della Custodia di Terra Santa nei Paesi del Medio Oriente e in particolare per i cristiani perseguitati. Marta Facchini ne ha parlato con Giuseppe Passeri, direttore tecnico della manifestazione: 

D. – Ci può raccontare la storia della Girandola?

R. – La Girandola nasce nel 1481, in occasione dell’elezione di Papa Sisto IV. All’inizio non erano veri fuochi d’artificio così come li concepiamo noi: era solo un gioco di luci fatto con materiali un po’ rudimentali. Perché si pensa a Michelangelo? Perché proprio con l’arrivo di Michelangelo in Vaticano, con le sue opere, la Girandola subì un totale e radicale cambiamento. Basti pensare che il “via” alla vera girandola veniva dato dai Papi e c’è un affresco in Seconda Loggia in cui si vede – mi sfugge ora il nome del Papa – nell’atto di ammirare questo fuoco d’artificio. La Girandola ha radici molto profonde, nel papato. E questa Girandola ha continuato ininterrottamente per oltre 400 anni ad essere rappresentata: ha visto guerre, passaggi di potere, ha visto di tutto. Eppure, la Girandola rimaneva sempre lì, imperturbabile nella sua esecuzione, e, cosa singolare, tutti gli architetti più significativi della storia di Roma hanno dato il loro apporto. Basti pensare al Bernini, al Vespignani, a Valadier, Posi, Poletti, Elpidio Benedetti, che era un abate ma si intendeva molto di fuochi d’artificio, stranamente. La storia della Girandola non può essere dimenticata in questo modo, perché è una delle rappresentazioni più storiche che siano mai state presentate a Roma, in Europa e nel mondo.

D. – Per la sua X edizione, la Girandola si sposta da Castel Sant’Angelo al Pincio. Come mai questa scelta?

R. – E’ stato un percorso filologico, perché in effetti la Girandola è stato un fuoco d’artificio itinerante: non ha avuto una sua collocazione fissa. All’inizio, il Bernini volle farla sui Colli Vaticani, e infatti io l’ho fatta in occasione dei 500 anni della Guardia Svizzera. Poi si spostò a Castel Sant’Angelo. In Europa, il fuoco d’artificio cominciava a subire delle variazioni. Non era più il fuoco barocco italiano, era un fuoco barocco diverso: si parlava di queste sfere che sono in realtà vere e proprie palle che si mettono nel mortaio e vanno lanciate in aria, e Castel Sant’Angelo non era più all’altezza di poter accogliere un fuoco di questa portata. Quindi, l’alto magistero dei pirotecnici di allora, che comunque faceva riferimento anche alla Camera apostolica, decise di trovare un’altra collocazione, più sicura e più idonea per battere quella concorrenza che si andava a manifestare, come ho detto, con i bombardieri di Norimberga che facevano questo fuoco d’artificio con le sfere ormai da decenni, o come anche i fratelli Ruggeri che sì, erano italiani, però ormai lavoravano in Francia e stavano facendo faville, con questo fuoco d’artificio! Un po’ di competizione: come adesso ci sono gli Europei di calcio, lì c’erano queste feste in cui i partecipanti si opponevano uno all’altro e Roma non voleva passare in secondo piano, dopo che per secoli e secoli aveva primeggiato.

D. – La Girandola sarà eseguita in sincronia musicale su un patrimonio classico del Romanticismo italiano. Quali compositori si potranno ascoltare?

R. – Ne abbiamo scelti tre, tutti italiani per fare della Girandola un ricordo, anche – visto che era un fuoco d’artificio prettamente italiano. Abbiamo pensato di ricordare Rossini, di cui si celebrano quest’anno i 200 anni dalla prima rappresentazione del “Barbiere di Siviglia”, ma noi abbiamo scelto “La gazza ladra” che ha una musica particolare che si addice perfettamente a un fuoco d’artificio, appunto, quindi, un omaggio a Rossini. Poi, ci troviamo a Villa Borghese: come non fare “I pini di Villa Borghese” di Ottorino Respighi? E, per concludere, facciamo “Nessun dorma” di Puccini.

D. – La Girandola sostiene la Custodia di Terra Santa, la comunità dei Frati Francescani che opera in Medio Oriente…

R. – Da un po’ di anni, noi promuoviamo questa opera di solidarietà perché io personalmente sono convinto che un fuoco d’artificio, una festa come questa che noi facciamo è vero che raccoglie molte persone e dà molta allegrezza e molta gioia, però pensare anche a chi quella sera non può essere lì e a chi soffre in silenzio ed è solo, emarginato e abbandonato, è una nota stonata per una festa del genere. Perciò, ho cercato di convogliare il gesto di solidarietà verso chi quella sera non potrà avere la possibilità di percepire questa allegrezza e magari gli può arrivare con un gesto di quelle persone, che dà più soddisfazione. Infatti, ricordare chi non c’è in un momento di gioia è forse un atto di misericordia notevole, perché vuol dire che una parte del cuore è con loro.

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Tweet: seguire Gesù nell'annuncio del Vangelo nonostante le difficoltà

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Papa Francesco ha pubblicato oggi un tweet sull'account @Pontifex in nove lingue: "Il Signore oggi ripete ad ogni Pastore: seguimi nonostante le difficoltà; seguimi nell’annuncio del Vangelo a tutti".

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Nomine in Colombia ed Etiopia

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Il Santo Padre Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Soacha (Colombia), presentata da S.E. Mons. Daniel Caro Borda, in conformità al can. 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico.

Il Papa ha nominato Vescovo di Soacha S.E. Mons. José Daniel Falla Robles, finora Vescovo titolare di Calama ed Ausiliare di Cali (Colombia), nonché Segretario Generale della Conferenza Episcopale Colombiana. S.E. Mons. José Daniel Falla Robles è nato a Bogotá il 7 ottobre 1956. Prima di entrare in Seminario ha ottenuto i titoli di Ingegnere Industriale e di Magister in Amministrazione Aziendale presso l’Università di “Los Andes” a Bogotá. Ha compiuto gli studi ecclesiastici di Filosofia e Teologia presso il Seminario Maggiore di Bogotá. Ha ricevuto l'Ordinazione Sacerdotale il 28 novembre 1992 per l’arcidiocesi di Bogotá. Come sacerdote ha svolto i seguenti incarichi: Formatore del Seminario Maggiore di Bogotá, Rettore del Seminario Minore arcidiocesano, Parroco di “Nuestra Señora del Campo”, Direttore della Fondazione “Caja de Auxilios del Clero”, Parroco di “San Diego” e Rettore del Santuario di “Monserrate”. Il 15 aprile 2009 è stato nominato Vescovo titolare di Calama ed Ausiliare di Cali. Ha ricevuto la consacrazione episcopale il 20 giugno 2009. Dal 2012 è Segretario Generale della Conferenza Episcopale colombiana.

Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Málaga – Soatá (Colombia) il Rev.do José Libardo Garcés Monsalve, del clero dell’arcidiocesi di Manizales (Colombia), finora Parroco della Cattedrale e Cancelliere arcidiocesano. Il Rev.do José Libardo Garcés Monsalve è nato ad Aguadas, arcidiocesi di Manizales, il 26 settembre 1967. Ha compiuto gli studi di Filosofia e di Teologia presso il Seminario Maggiore di Manizales. Ha ottenuto la Licenza in Filosofia e Scienze Religiose presso l’Università “Santo Tomás” in Colombia e la Licenza in Psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ha ricevuto l'Ordinazione Sacerdotale il 27 novembre 1993 per l’arcidiocesi di Manizales. Ha svolto i seguenti incarichi: Vicario Parrocchiale della Parrocchia “San José” di Pácora, Economo e Formatore nel Seminario Maggiore “Nuestra Señora del Rosario” di Manizales, Parroco della Parrocchia “Nuestra Señora de los Dolores” a Manizales e Parroco della Parrocchia Universitaria. Dal 2013 è Parroco della Cattedrale “Nuestra Señora del Rosario” e, dal 2015, Cancelliere arcidiocesano.

Il Papa ha nominato Vicario Apostolico di Awasa (Etiopia) il Rev.do Don Roberto Bergamaschi, S.D.B., assegnandogli la sede titolare di Ambia. Il Rev.do Sacerdote Roberto Bergamaschi, S.D.B., è nato a San Donato Milanese, in provincia di Milano, il 17 dicembre 1954. Entrato tra i Salesiani, ha emesso la prima professione religiosa l’8 settembre 1975 a Pinerolo e quella Perpetua il 13 settembre 1981 a Roma. Dal 1975 al 1982 ha studiato Filosofia a Torino - Crocetta e Teologia a Cremisan in Terra Santa. È stato ordinato presbitero il 2 ottobre 1982 a Brescia da S.E. Mons. Armido Gasparini, M.C.C.J., primo Vicario Apostolico di Awasa. Dopo l’ordinazione ha svolto le seguenti mansioni: missionario in Etiopia a Dilla (1982-1993); Parroco a Zway, nel Vicariato Apostolico di Meki (1993-2000); Vicario Visitatore dell’Ispettoria Salesiana di Etiopia-Eritrea (1998-2010); Direttore ad Adwa, nell’Eparchia di Adigrat (2000-2004); Direttore delle Opere Salesiane di Gotera, ad Addis Abeba (2004-2007); Direttore delle Opere Salesiane di Mekanissa, ad Addis Abeba (2007-2009); dal 2009: parroco della Parrocchia Santa Maria Ausiliatrice a Dilla, Vicariato Apostolico di Awasa. È membro del Consiglio di Missione e del Consiglio Presbiterale.

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Santa Sede: promuovere sport per la pace, troppi interessi economici

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E' necessario promuovere lo sport per la pace e la fraternità nel mondo, depurandolo di tanti interessi economici: è quanto ha ribadito l’arcivescovo Ivan Jurkovič, osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, nel corso della 32.ma sessione ordinaria del Consiglio dei diritti umani in corso nella città elvetica. Il servizio di Gioia Tagliente: 

Mons. Ivan Jurkovič ha sottolineato l’impegno incessante della Santa Sede a promuovere lo sport come linguaggio universale capace di incoraggiare valori positivi. Per questo il prossimo ottobre si terrà in Vaticano la prima conferenza mondiale su fede e sport, un’iniziativa promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura.

In particolare, come ha affermato Papa Francesco, è importante ricordare il valore della Carta Olimpica per lo sviluppo armonioso del genere umano e l’educazione dei giovani attraverso lo sport, praticato senza discriminazioni di alcun tipo. Il presule ha inoltre sottolineato come le prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro siano una importante occasione per rafforzare i “principi etici” dello sport che al giorno d’oggi è troppo spesso associato ad un aspetto economico, all’eccessiva competitività e alla violenza.

A questo proposito, i Giochi Paraolimpici dimostrano come lo sport sia espressione di talento anche per le persone con disabilità. Infine, la Santa Sede incoraggia gli Stati membri, il Comitato Olimpico Internazionale e il Comitato Paraolimpico Internazionale a continuare i loro sforzi per promuovere l’ideale olimpico e il rispetto della dignità umana in tutto il mondo e in ogni sport.

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Oggi in Primo Piano



Strage Istanbul, 41 morti. Bizzeti: paura non vince il terrorismo

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Ancora senza un nome la strage di ieri sera all’aeroporto Atatürk di Istanbul, dove in un attacco terroristico sono rimaste uccise 41 persone, 239 i feriti. Tra le vittime 13 stranieri. Per il premier turco, Yildirim, dietro all’attentato vi sarebbe lo Stato islamico. Il presidente Erdogan, condannando l’accaduto, ha sottolineato che è avvenuto durante il mese sacro islamico del Ramadan. Per oggi proclamata giornata di lutto nazionale. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Si è ripreso a volare all’aeroporto Atatürk, mentre continua il lento riconoscimento delle vittime dell’attacco di ieri sera. Ancora sconosciuta la matrice della strage, che Ankara è decisa ad attribuire allo Stato islamico. Si cerca di ricostruire le azioni del commando, forse composto da sette persone, armate di mitra e cinture esplosive. Una di loro, una donna, sarebbe stata arrestata, altre tre sarebbero fuggite, ma si tratta di informazioni ancora tutte la confermare. Tre i kamikaze che, prima di farsi esplodere nell’area degli arrivi internazionali, avrebbero aperto il fuoco, uno di loro con un kalashnikov. Secondo le prime dichiarazioni non si tratterebbe di turchi. Soltanto venti giorni fa, la città era stata colpita da un altro attacco, con 12 morti e rivendicato dai curdi del gruppo Tak. Altre due invece le azioni terroristiche attribuite all’Is, a gennaio contro il quartiere turistico di Sultanahmet e a marzo nella via dello shopping Istiklal. Il commento di mons. Paolo Bizzeti, vicario apostolico di Anatolia:

R. – Questo attentato si inserisce in una serie di attentati che hanno colpito la Turchia e anche l’Europa in diverse città di primo piano. Dunque, c’è certamente una strategia di destabilizzazione, c’è certamente una volontà di imporsi all’attenzione da parte di queste organizzazioni terroristiche. Il problema di fondo – a mio parere – è molto grave e si può affrontare soltanto se si vincono queste spinte alla divisione, alla contrapposizione. Dobbiamo controbattere alle voci che insegnano l’odio verso gli altri, da qualunque parte esse vengano.

D. – Perché la Turchia?

R. – La Turchia è un crocevia, è una nazione che è stata anche molto ospitale, che ha accolto molti rifugiati. La Turchia è un luogo in cui ci sono tante presenze, la Turchia sicuramente si trova coinvolta nelle vicende del Medio Oriente, essendo in prima linea, essendo a contatto stretto. Poi, certamente, ci sono anche delle divisioni all’interno…

D. –  Lei in questo momento si trova molto distante dal luogo dell’attentato, è ovvio però che le ripercussioni siano in tutto il Paese. Cosa capta in questo momento, all’indomani di una strage di questo tipo?

R. – Certamente, il dolore e lo smarrimento delle persone è generalizzato. Dobbiamo stringerci ancora di più, con affetto, a questa nazione. La gente è smarrita, perché fino a ieri la Turchia è stato un Paese tranquillo e ormai da molti anni… Io credo, però, che le reazioni delle persone non siano diverse da quelle che si respirano a Bruxelles, a Parigi. Ovunque la gente è smarrita, perché vede innalzarsi di nuovo muri, vede di nuovo contrapposizioni, ascolta le parole di queste persone che predicano la divisione, l’odio e la contrapposizione. Allora, dobbiamo capire che le vie della pace passano, prima di tutto, attraverso le parole quotidiane che vengono diffuse: se vogliamo entrare in un reale processo di pace, dobbiamo mettere in un cantone tutti coloro che predicano l’intolleranza, che predicano la mancanza id rispetto degli altri. La gente normale, anche in questo Paese, è convinta che la pace sia possibile. Tuttavia, purtroppo, molti sono i fattori che si sono accumulati in questi anni e che hanno portato a questa situazione, che adesso è un po’ fuori controllo. D’altra parte, non ci si può aspettare, facendo la guerra in alcuni Paesi del Medio Oriente, che poi non ci siano delle conseguenze. E io penso che tutti siamo coinvolti, in vario modo e a vario titolo, nelle guerre che hanno insanguinato il Medio Oriente negli ultimi anni.

D. – Al di là del gravissimo costo umano che queste azioni hanno, ci sono delle forti ripercussioni economiche per un Paese che ha sempre fatto del turismo una importantissima voce del suo bilancio. Stiamo vedendo, in queste ore, che la Turchia sta cercando di tornare rapidamente alla normalità. Lo stesso governo non intende divulgare troppo le drammatiche immagini e ha messo quasi un fermo alle notizie che possono circolare. Perché, secondo lei, questa strategia del governo?

R. – Io credo che le ripercussioni sul turismo, ormai da un anno, un anno e mezzo, siano molto gravi – lo vediamo anche noi riguardo ai pellegrinaggi dei cristiani, che praticamente sono scomparsi. Tuttavia, questa propaganda della paura, questo terrorismo mediatico, fa il gioco dei terroristi. Per cui, io ritengo che effettivamente dobbiamo rispondere al terrorismo continuando a vivere la nostra vita quotidiana con serietà, con impegno, perché queste persone cercano una grande pubblicità per poter esercitare la loro attrattiva. Noi dobbiamo, invece, spingerli in un angolo e far capire che sono persone che non esprimono la volontà della gente, la volontà dei popoli. Per cui, ritengo opportuno che si distingua tra le notizie e quel ricamare sulle notizie che diffonde la paura. Con la paura non si vince il terrorismo!

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Parroco Aleppo: guerra in Siria è per il potere in Medio Oriente

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Le forze del regime siriano e quelle dell’opposizione stanno guadagnando terreno nelle regioni di Aleppo occupate dai jihadisti dell’Is, il sedicente Stato islamico. Ma la situazione resta drammatica come riferisce il parroco francescano di Aleppo, padre Ibrahim Sabbagh, al microfono di Luca Collodi

R. – Siamo proprio nel mirino del caos, perché non si trova una via d’uscita diplomatica e neanche militare.

D. – Cosa blocca la pace?

R. – La mancanza di un accordo internazionale. Come diceva il Papa, è una guerra mondiale a pezzi in Medio Oriente, è più che una guerra civile. Quindi, per arrivare a una pace bisogna arrivare a un accordo ed è quello che ci manca oggi.

D. – Che interessi si confrontano, in Siria?

R. – Prima di tutto, l’interesse economico, che è molto importante, perché ci sono questi grandissimi pozzi di petrolio e di gas. Ma oltre a questo e legato all’elemento economico c’è la posizione geografica della Siria e il passaggio del gas: è la fonte di quel passaggio del gas che è argomento di discussione tra diversi Paesi. Poi, c’è l’elemento religioso: dal mio personale punto di vista è soltanto secondario. Il primo è l’elemento economico e legato a questo c’è un altro elemento imponente, che è quello del dominio, del potere: chi dovrà controllare tutto il Medio Oriente …

D. – Qual è la situazione sul campo?

R. – Sempre secondo il mio punto di vista, la Siria si trova divisa, oggi; divisa in diverse grandi parti. C’è a ovest la forza dell’esercito regolare, ma poi anche la parte della Russia, mentre nel nordest c’è la presenza di curdi e la presenza, anche, dell’Isis. Noi ad Aleppo, con la nostra posizione siamo al centro, nell’occhio del ciclone, a una distanza di 70 km dalla frontiera turca, lunga oltre 240 km, da dove passa oggi il 55% di questi gruppi militari.

D. – La Turchia, quindi, lascia passare questi gruppi paramilitari?

R. – Non sappiamo se con intenzione o se ha la difficoltà che ha dichiarato in passato di controllare tutta questa lunga frontiera. Ma il dato di fatto è che il 95% di questi gruppi militari organizzati, armati fino ai denti passano di là ogni volta che l’esercito regolare vuole fare qualche mossa.

D. – Chi sono questi gruppi paramiltiari? Chi li arma?

R. – E’ quella la domanda fa, oggi, a tutto il mondo e insiste molto su questo elemento. Perché un “mostro” – o diversi “mostri” di decine di migliaia di persone addestrate e organizzata e armate – un mostro simile non può essere creato senza un padre e una madre. E la domanda dell’origine è proprio questa. Oggi tantissimi Paesi fanno la guerra in delega: alcuni di questi Paesi fanno la delega a questi gruppi armati.

D. – Aleppo  in che situazione è, in questo momento?

R. – La città è divisa: da una parte, nella parte est, ci sono questi gruppi militari e dall’altra parte noi, come comunità cristiane, viviamo nella parte ovest con le diverse altre comunità, sia quella sunnita sia quella sciita, sia quella dei curdi, come abbiamo vissuto una volta. E questa parte ovest è controllata dall’esercito regolare, però è praticamente circondata da questi gruppi di militari che di continuo lanciano i missili sulla popolazione: sulle chiese, sulle moschee, sugli ospedali, sulle scuole e sulle abitazioni della povera gente e sulle strade.

D. – Chi ha interesse a cancellare la Siria?

R. – Direi che ci sono tante parti che hanno interesse. Posso dire soltanto che chi ha interesse di continuare questa guerra è in numero maggiore di chi ha interesse a fare la pace. Sono stati spesi miliardi e miliardi per far avanzare questa guerra. E quelli che hanno interesse in questa guerra, sono in numero maggiore di quelli che hanno interesse a far pace.

D. – Colpisce tutto il popolo siriano, non soltanto la popolazione cristiana…

R. – Certamente. Tante volte ci sentiamo bersaglio per esempio dei colpi di missili come popolo. Qualche volta, però, sentiamo un odio mirato contro i cristiani.

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Brexit. Per Regno Unito possibile un modello Norvegia

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“Non è il momento per modificare i trattati, ma di completare le riforme. Dobbiamo attuare, non innovare". Queste le parole del presidente dell'esecutivo comunitario, Jean-Claude Juncker, al termine del vertice informale dei 27 capi di Stato dell'Ue. Stando alle parole della cancelliera tedesca, Angela Merkel, sarebbe già pronta un’agenda strategica per creare occupazione, crescita e aumentare la competitività per il benessere dei cittadini europei. Il premier britannico, David Cameron, ha riferito alla Camera dei Comuni di non aver sentito pressione a Bruxelles per attivare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona, che di fatto avvierebbe il definitivo divorzio del paese dall’Unione. Ma secondo la bozza di dichiarazione redatta dai 27, nessun negoziato potrà essere avviato senza la notifica del Regno Unito. Sui processi in corso che porteranno alla definitiva uscita del Regno Unito dall’Europa, Valentina Onori ha sentito Federiga Bindi, della cattedra Jean Monnet all’Università di Roma Tor Vergata: 

R. – L’uscita è un fatto previsto e neanche traumatico, perché si parla dei due terzi dei voti. A confronto, per esempio, la maggioranza necessaria per la sospensione di un terzo è molto più alta. Quindi, è una cosa prevista: smettiamo di dire che questa è una cosa inaspettata, terribile, etc… E’ una cosa prevista. Due: gli inglesi hanno fatto un primo referendum 30 anni fa in cui hanno deciso di rimanere. Adesso, ne hanno fatto un secondo, che lo stesso primo ministro ha voluto fare per vincere le elezioni e non sempre le ciambelle riescono col buco. Il primo ministro ha perso il referendum.

D. – L’art. 50 prevede la recessione del rapporto, il divorzio di un Paese dall’Unione Europea. Quali sono i tempi?

R. – L’articolo prevede che il Paese notifichi al Consiglio Europeo la decisione di uscire e quindi ci vuole un atto formale da parte del governo britannico che notifichi la decisione di uscire e che il Paese esce non appena pronto o, in ogni caso, entro due anni. Quindi, potrebbe essere anche un mese: chiaramente un mese è impossibile, perché dal punto di vista tecnico ci sono tante decisioni da prendere. Il Consiglio eventualmente può decidere di allungare questi due anni. Sono tempi che potrebbe anche essere abbastanza brevi.

D. – Che tipo di rapporto si andrebbe a ricreare tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna con un nuovo premier?

R. – Il tipo di rapporto tra Inghilterra e Unione Europea è giusto quello di cui stanno discutendo. Ci sono degli esempi, se vogliamo: la Norvegia, che per ben due volte ha votato “no” a far parte della comunità europea, è rimasta parte dell’Efta, fondata dallo stesso Regno Unito nel ’61. Vorrei far notare: ha fatto parte del Mercato unico ed è direi – dal mio punto di vista – il più scomodo di tutti, perché loro subiscono tutto l’Acquis Communautaire (legislazione europea) e non ne hanno alcuna influenza. Io credo che per l’Inghilterra ci sarà una cosa simile. C’è una forte influenza dall’altra parte dell’Atlantico. I "think tank" americani e anche quelli americani presenti a Bruxelles sono terrorizzati dall’idea che il Regno Unito esca dall’Unione Europea, perché chiaramente verrà a mancare il loro "cavallo di Troia". C’è tutto un sistema di "think tank" e media americani che, a mio avviso, sta creando panico e disinformazione nel tentativo di spingere gli europei a non far uscire l’Inghilterra. Questo non è assolutamente fatto loro e dovrebbero rispettare la sovranità dell’Europa per una volta.

D. – Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha detto che il Brexit potrebbe non verificarsi…

R. – Sono delle dichiarazioni francamente irresponsabili. E questo perché quello che Kerry sta dicendo è che non è detto che quello che il popolo ha detto debba avere un seguito. Uno Stato sovrano non deve entrare negli affari domestici di un altro Stato sovrano, tanto più laddove c’è un voto: una nazione che ha portato il resto del mondo occidentale in guerra negli ultimi 15 anni nel nome della democrazia direi che è il più grosso controsenso e la più grossa ipocrisia che potesse venire fuori. L’affermazione di Kerry mostra tutta l’ambivalenza e l’ipocrisia delle varie amministrazioni americane nei riguardi del processo di integrazione europea.

D. – Quali potrebbero essere le conseguenze nel libero scambio di merci nei mercati europei?

R. – Più ci mettono a tirar fuori questo art. 50 e peggiori saranno le condizioni di negoziato per loro: quando gli Stati negoziano, la condizione principale per avere un buon negoziato è quella di creare un ambiente favorevole e amichevole tra chi negozia. Più il Regno Unito innervosisce gli ex-partner europei, più questi saranno meno disponibili a concedere quello che il Regno Unito vuole che gli venga concesso.

D. – Pensa che Junker mantenga il pugno duro?

R. – Io lo spero fortissimamente. Perché è l’unica cosa giusta da fare. Se noi non abbiamo il pugno di ferro con il Regno Unito, tutta una serie di Paesi euroscettici, a cominciare dalla Polonia, dice: “Io faccio un referendum, il referendum viene bocciato. A quel punto, questi mi pregheranno in ginocchio di rimanere e per farmi rimanere, mi danno quello che voglio!”. No, Non è cosi.

D. – Nel referendum della Gran Bretagna si è detto che le generazioni degli ultrasessantenni hanno scelto al posto dei giovani…

R. – Ma i giovani hanno lasciato che scegliessero per loro. Non sono andati a votare e i risultati si sono visti. Siccome il differenziale è di 4 punti: se i giovani fossero andati a votare, il risultato sarebbe stato differente. Non possono far altro che fare mea culpa.

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Sud Sudan: 40 morti e oltre 26 mila gli sfollati nel Wau

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Nuova fiammata di violenza in Sud Sudan. Scontri si registrano tra le milizie dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese e altri gruppi armati nella regione del Wau. Secondo fonti locali 40 persone sono state uccise, migliaia sono in fuga per l’instabilità dell’area. Massimiliano Menichetti:

Migliaia di persone hanno lasciato tutto a causa delle violenze dalla regione del Wau, nella parte nordoccidentale del sud Sudan. Si uniranno agli oltre due milioni e cinquecentomila di profughi della guerra civile scoppiata nel 2013. Un conflitto politico nato tra il presidente del Sud Sudan Salva Kiir e il suo ex rivale, Riek Machar, ora tornato alla carica di vicepresidente, accusato dal primo di aver tentato un golpe. Continui i tentativi di mediazione come la ripresa delle ostilità nonostante gli accordi di pace siglati nel 2015. Sul terreno intanto è lotta tra la poliedrica formazione dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese, le milizie Janjawid, l’esercito e una galassia di gruppuscoli e bande locali. In questo scenario la situazione umanitaria è al collasso. Mara Nuzzi, responsabile area Sud Sudan di Comitato Collaborazione Medica, ong presente nel Paese dal 1983: 

R. – Gli incidenti sono scoppiati il 24 giugno. Ci sono stati diversi morti, ma quasi 26 mila persone sfollate interne, molte delle quali sono state messe al sicuro all’interno delle basi delle Nazioni Unite. Lì stanno ricevendo i primi aiuti umanitari.

D. – In questo caso, gli attacchi erano portati dall’Esercito di liberazione del popolo sudanese?

R. – In realtà, non solo. Molto spesso ci sono anche piccole bande di popolazione locale che hanno attaccato, lo abbiamo saputo, alcune macchine di operatori umanitari – non per fare del male agli operatori, perché non è mai successo nulla, però per rubare soldi o tutto quello che c’era nei veicoli. La situazione è abbastanza complessa. Sono state annullate tutte le attività: in una zona un po’ più a nord, c’è un’epidemia di morbillo che sta causando diversi problemi, per cui ci siamo messi d’accordo anche con il Ministero per intervenire. Ma tutto è rallentato, appunto, da questi scontri, dall’impossibilità di avere poi movimento sicuro sul terreno. E quindi, in realtà la situazione è abbastanza complessa. Attualmente, noi redigiamo quasi tutti i giorni dei bollettini sulla sicurezza nella zona: sembra sia leggermente più tranquilla, ma in realtà si riportano informazioni e dati di parecchi morti e ancora scontri sporadici, ad esempio, tra l’esercito governativo, che sta cercando di portare la situazione alla normalità, e la popolazione locale. Non c’è ancora luce verde da parte delle Nazioni Unite per i movimenti sul terreno.  Per quanto ne sappiamo noi, i voli umanitari tra le diverse parti del Paese ancora bloccati.

D. – Qual è la situazione globale della popolazione?

R. – Purtroppo, dal 2013, nonostante gli Accordi di pace firmati nell’agosto dell’anno scorso, la situazione in realtà non è migliorata di molto, anche perché le tensioni tra il presidente e il vicepresidente continuano, anche per la questione della nuova mappa amministrativa che vogliono proporre con la suddivisione di 28 Stati. Sono quasi un milione e 700 mila gli sfollati interni e 700 mila quelli che sono invece fuggiti nei Paesi limitrofi. Però sono quasi il doppio, sono quasi cinque milioni e 100 mila persone la popolazione che le Nazioni Unite calcolano nella sfera di bisogno di aiuto umanitario. La situazione umanitaria peggiora continuamente anche perché negli Stati al Nord del Paese ci sono tantissimi scontri tra le diverse fazioni, senza contare i normali scontri che avvengono in realtà all’interno della popolazione per il possesso o il furto delle vacche, che sono in realtà i motivi principali degli scontri etnici e di microcriminalità all’interno del Paese.

D. – In questo contesto, qual è la vostra attività?

R. – Il nostro appoggio va, attraverso il Ministero della salute, soprattutto nell’ambito sanitario, per cui noi siamo responsabili – chiaramente con il supporto dei donatori internazionali – della supervisione e della gestione dei pre-ospedali nelle diverse parti del Paese, 25 dispensari e otto centri di salute. Noi ci occupiamo della salute primaria della popolazione, sia sfollata che locale.

D. – Voi siete lì dal 1983: non vedete una via comunque per la stabilizzazione del Paese?

R. – Gli Accordi di pace avevano dato questa speranza, ma per un motivo o per un altro – soprattutto per questa insistenza da parte del presidente della suddivisione del Paese in 28 Stati – sta creando ancora  molta tensione. Sembra quasi un’operazione di suddivisione dello Stato a base mono-etnica, ma in realtà, in Sud Sudan esistono 60 etnie diverse. La mancanza di stabilità politica non porta ovviamente la possibilità di poter iniziare un discorso più ampio a livello economico e sociale, che giustamente darebbe un minimo di sollievo alla popolazione.

D. – Come ong, qual è il vostro allarme?

R. – Noi abbiamo bisogno di appoggio, come sempre. Noi abbiamo in mano il sistema sanitario del Sud Sudan che attualmente è finanziato al 95% dalla cooperazione internazionale. Però, noi stiamo vedendo che il supporto internazionale sta venendo meno ed è anche comprensibile Ma il Sud Sudan, dopo la Siria, è attualmente classificata come la seconda emergenza umanitaria al mondo.

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Onu: Italia e Olanda condividono seggio in Consiglio di Sicurezza

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Italia e Olanda hanno raggiunto un accordo per condividere un seggio non permanente in Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Roma lo terrà nel 2017, l’Aja nel 2018. L’intesa è arrivata dopo che i due Paesi si sono contesi uno dei due scranni spettanti all’Europa Occidentale in cinque votazioni in Assemblea generale, finite tutte in sostanziale parità. Abbiamo dato "un messaggio di unità" all'Unione Europea ha commentato il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni. Di “perfetto esempio di cooperazione europea”, ha parlato il presidente di turno del Consiglio Ue, l’olandese Mark Rutte. Sul significato di questo voto e sui meccanismi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Marco Guerra ha intervistato Elena Sciso, ordinario di diritto internazionale alla Luiss di Roma: 

R. – Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è costituito da 15 membri. Di questi, cinque sono membri permanenti, nel senso che mantengono il loro seggio continuativamente, mentre dieci si avvicendano secondo una turnazione biennale. Questi dieci seggi non permanenti sono distribuiti tra tutti i membri delle Nazioni Unite sulla base del contributo che questi Stati membri danno al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e sulla base di un criterio di equa distribuzione geografica. Significa che devono essere eletti ogni due anni tre Stati africani, due Stati dell’Asia, uno dell’Europa orientale, due dell’America Latina e due dell’Europa occidentale, e poi altri Stati che sono fuori da questi gruppi regionali. L’Europa occidentale aveva diritto quindi a ottenere due seggi non permanenti in questa elezione del Consiglio di sicurezza: la Svezia è stata eletta, rimangono l’Italia e l’Olanda che, avendo riportato fino alla quinta votazione un numero di voti sostanzialmente paritario, hanno deciso di fare questa proposta, che dovrà adesso essere accettata dall’Assemblea generale, di suddividersi il seggio un anno ciascuno per il periodo dei due anni che spetterebbe al nuovo membro non permanente.

D. – Perché è così importante avere un posto al Consiglio di sicurezza dell’Onu?

R. – Perché il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è un organo che formalmente ha la responsabilità principale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Di fatto, è l’organo che adotta decisioni, cioè che adotta delibere che vincolano tutti gli altri Stati membri delle Nazioni Unite, mentre l’Assemblea generale – che è un organo a composizione plenaria nel quale ciascuno Stato membro delle Nazioni Unite, sono 193, ha un suo rappresentante – può discutere di tutto ma non ha poteri di decisione, salvo che per il bilancio o per la missione dei nuovi membri. Quindi, di fatto le decisioni delle Nazioni Unite sono prese da questo organo, il Consiglio di sicurezza.

D. – Condividere un seggio al Consiglio di sicurezza è un modo per mostrare l’unità dell’Europa, così il ministro degli Esteri Gentiloni. Possiamo confermarlo?

R. – Direi proprio di sì, soprattutto in questa fase anch’io – sinceramente – lo leggo in questa prospettiva. Sottolineare l’unità di intenti nella politica internazionale, quantomeno degli Stati membri dell’Unione Europea.

D. – Con la Brexit, però, si complica anche la questione della rappresentanza europea all’Onu…

R. – Si complica un po’ il modo di partecipazione dei Paesi membri dell’Unione Europea all’Onu. Perché, vede, nell’ambito del Trattato di Lisbona tutti gli Stati membri dell’Unione Europea sono vincolati a concordare una posizione comune all’interno delle organizzazioni internazionali nelle quali si trovano a operare. Ovviamente, nel momento in cui la Gran Bretagna sarà fuori dall’Unione, quando si perfezionerà questo processo di recesso, non sarà più vincolata a questa forma di rappresentanza degli altri Stati dell’Unione.

D. – A che punto è il processo di riforma delle Nazioni Unite? A cosa è dovuta questa impasse?

R. – In origine, nel 1945, si è reciso di attribuire una posizione preminente in seno a questi organi a cinque Stati che erano di fatto i vincitori della Seconda Guerra mondiale, quindi gli Stati Uniti, l’allora Unione Sovietica, la Cina, la Francia e l’Inghilterra. Un equilibrio che sicuramente oggi non corrisponde agli equilibri complessivi della comunità internazionale. Sulla base di questo, è stata proprio l’Italia – se non ricordo male – nel 1993 ad avanzare una proposta. La proposta italiana del 1993 mirava da un lato a eliminare progressivamente questo potere di veto dei membri permanenti, dall’altro ad aggiungere a queste due categorie – membri permanenti e membri non permanenti – una terza categoria di membri semi-permanenti, che avrebbero dovuto essere eletti per un periodo di tempo maggiore dei due anni: una categoria intermedia tra membri permanenti e membri non permanenti. Questa proposta non è passata. Negli anni Duemila, sono state avanzate altre proposte, sempre tese ad allargare il numero dei membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza. Perché queste varie proposte non sono passate? Perché in realtà gli emendamenti, quindi le modifiche alla Carta delle Nazioni Unite, devono passare attraverso una procedura particolarmente pesante: devono essere approvati dai due terzi dei membri dell’Assemblea generale, compresi però i voti positivi dei membri permanenti. Fino ad oggi è chiaro che questi membri permanenti sono stati piuttosto restii a rinunciare in parte ai loro privilegi. Si è parlato anche negli anni scorsi della possibilità di attribuire un seggio permanente in Consiglio di sicurezza all’Unione Europea in quanto tale: questa proposta è stata rapidamente ritirata perché in realtà si scontrava con varie difficoltà. Le Nazioni Unite prevedono solo la partecipazione di Stati, non di organizzazioni internazionali.

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Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan: due cristiani e un musulmano condannati a morte per blasfemia

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In Pakistan, un tribunale antiterrorismo della provincia del Punjab ha condannato a morte tre imputati, di cui due cristiani e uno musulmano, in base alla Legge sulla blasfemia. Alla base del caso c'è un tentativo di estorsione denunciato alla polizia un anno fa. La vicenda ha però assunto connotati più gravi quando è emersa una registrazione audio con contenuti blasfemi, offensiva dell'Islam, ritrovata dalla polizia nella casa di uno degli imputati. I tre sono stati incarcerati per azioni connesse con la blasfemia, reato per cui il Pakistan prevede l’ergastolo o la pena capitale. Un parente di uno degli accusati ha denunciato il fatto che durante il processo i giudici non hanno disposto una perizia per verificare l'autenticità della voce contenuta nella registrazione. Voce che - sostiene - non appartiene assolutamente a quella del suo parente imputato.

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Canada. Vescovi: legge sull'eutanasia è una sconfitta sociale

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“Una decisione storica deplorevole” e “un fallimento” del governo e della società canadesi che si sono dimostrati incapaci “di garantire una protezione umana autentica alle persone sofferenti e vulnerabili”. Con queste parole mons. Douglas Crisby, presidente della Conferenza episcopale canadese (CEcc/Cccb), ha ribadito lunedì la ferma condanna dei vescovi della C-14, la nuova legge sul suicidio medicalmente assistito, approvata dal parlamento di Ottawa il 17 giugno scorso.

Paradossale legittimare un omicidio
“E’ paradossale che con una legge la nostra società possa legittimare l’omicidio come un modo accettabile di mettere fine alla sofferenza”, sottolinea nella nota il vescovo di Hamilton, ricordando che “la grande maggioranza delle persone morenti in Canada oggi non hanno accesso alle cure palliative o all’assistenza domiciliare di qualità”.

L’assistenza medica al suicidio non è un gesto umanitario
Ai chi invoca motivazioni umanitarie per giustificare l’eutanasia, mons. Crosby ribatte che la “soppressione deliberata della vita umana con un intervento diretto non ha nulla a che vedere con un atto umanitario” e che occorre piuttosto “ridurre al minimo il dolore e la sofferenza delle persone morenti e di quelle tentate dal suicidio e non sopprimere la loro esistenza. Fare dell’assistenza medica al suicidio un ‘diritto’ – aggiunge –  non è una vera cura, né un gesto umanitario. E’ una falsa pietà, una deformazione della bontà verso i nostri fratelli e sorelle”. Secondo il presidente dei vescovi canadesi, la nuova legge lascia piuttosto intendere “che una persona cessa di essere tale e perde la propria dignità semplicemente perché perde alcune sue capacità fisiche e mentali”.

Le cure palliative l’unica vera opzione compassionevole
A questa falsa pietà mons. Crosby contrappone la vera compassione umana che “consiste nella condivisione del dolore dell’altro, nell’accompagnamento nel suo cammino”. In questo senso, conclude, “le cure palliative restano incontestabilmente la sola scelta morale, efficace e indispensabile, l’unica opzione compassionevole” oggi. (L.Z.)

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Brexit. Card. Nichols: inaccettabile razzismo anti-immigrati

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“Dobbiamo riflettere su quanto accaduto in questi giorni tumultuosi e valutare con attenzione cosa è necessario fare adesso”. E’ l’accorato appello rivolto dal cardinale Vincent Nichols, presidente della Conferenza episcopale inglese e gallese (Cbcew) che in una nota esprime una ferma condanna dei gravi episodi di intolleranza contro immigrati comunitari verificatisi in questi giorni nel Paese. Dalla proclamazione dei risultati del voto sul "Brexit", in cui il "Leave" ha prevalso, più di cento aggressioni e intimidazioni a fondo razziale sono stati registrati in Gran Bretagna, in particolare contro la comunità polacca, la più numerosa fra gli immigrati di origine comunitaria.

L’odio e il razzismo sono intollerabili
“Questa ondata di razzismo e odio è inaccettabile e non va tollerata”, afferma l’arcivescovo di Westminster, che peraltro invita a non cedere alla paura e a confidare in Dio: “Se non lasciamo spazio alla Provvidenza, la società si chiude in se stessa e diventa molto più egocentrica e divisa”.

Ascoltare la voce degli esclusi e superare le divisioni
Il cardinale Nichols chiama quindi in causa le responsabilità dei leader politici britannici: “Sono certo che ogni leader debba riflettere sulla nostra capacità di ascoltare e dare voce a chi si sente senza voce. Dobbiamo recuperare il senso degli obiettivi del nostro vivere insieme”, che sono “il bene comune che non esclude nessuno. I politici, gli imprenditori e i banchieri devono ciascuno fare il proprio lavoro, ma l’obiettivo fondamentale – sottolinea il primate inglese – è di costruire un mondo in cui la forza sia usata per il servizio e nessuno sia escluso”. In questo senso, “la grande sfida che attende oggi chi guida la nostra Nazione è di parlare a tutti. Se, infatti, la vittoria al referendum continuerà a dividere il Paese, diventeremo una nazione sempre più debole e non saremo in grado di svolgere un ruolo sulla scena politica internazionale per affrontare i grandi problemi del mondo”, conclude la dichiarazione. (L.Z.)

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Riad riapre le porte ai musulmani sierraleonesi dopo Ebola

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È caduto il divieto dei pellegrini musulmani sierraleonesi di recarsi nei luoghi santi dell’Islam. A due anni dallo scoppio della terribile epidemia di ebola, l’Arabia Saudita ha tolto le restrizioni per i musulmani della Sierra Leone. Ottocento di loro potranno raggiungere la Penisola araba per il tradizionale pellegrinaggio (uno dei precetti della fede islamica). Il comitato organizzatore della Sierra Leone - riferisce l'Agenzia Sir - ha annunciato con soddisfazione la disponibilità di Riad, anche se ha lamentato il numero limitato di posti riservati ai propri fedeli. Il Governo di Freetown aveva infatti chiesto i permessi per tremila pellegrini, ma per mancanza di spazio, le autorità saudite non hanno risposto positivamente. Al di là della diatriba sui posti disponibili, la notizia è positiva perché dimostra come ormai si sia allentato l’allarme sull’epidemia di ebola.

Dal 2014, il virus ha colpito, secondo le statistiche dell’Organizzazione mondiale della Sanità aggiornate a maggio, 28.616 persone causando 11.310 morti. I Paesi più colpiti sono stati la Sierra Leone (14.124 casi, 3.956 morti), la Guinea (3.804 casi, 2.536 morti) e la Liberia (10.666 casi, 4.806 morti). Contagi sono stati registrati in Mali, Nigeria, Senegal, Spagna, Regno Unito, Italia e Stati Uniti. Dal gennaio 2016, l’epidemia è stata dichiarata ufficialmente conclusa, ma il virus ha messo in ginocchio i Paesi più colpiti. La Banca mondiale valuta l’ammontare delle perdite del Prodotto interno lordo (Pil) per questi tre Paesi in 2,2 miliardi di dollari (1,4 miliardi per la Sierra Leone, 535 milioni in Guinea e 240 milioni in Liberia). Nel 2015 questi Paesi hanno ricevuto delle promesse di aiuto per oltre cinque miliardi di dollari, che non saranno certo troppi per risanare queste economie in crisi. La strada per una ripresa sia sociale che economica è ancora lunga. La decisione dell’Arabia Saudita di ammettere i pellegrini sierraleonesi al pellegrinaggio nei luoghi santi è però un primo passo nella direzione giusta.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 181

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.