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Sommario del 06/07/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa ai poveri: pregate per i colpevoli della vostra povertà

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I poveri ci permettono di incontrare Gesù, che come loro è stato rifiutato. Così, in sintesi, il Papa che ha ricevuto nell'Aula Paolo VI, in Vaticano, circa 200 persone, fra poveri e volontari di diverse associazioni, provenienti dalla diocesi di Lione, in Francia. Il pellegrinaggio è stato organizzato dall’organizzazione Amici di Padre Jospeh Wresinski, in occasione del centenario della nascita del sacerdote che ha dedicato la sua vita ai poveri. Ad accompagnarli il cardinale arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin. Centrale nel discorso del Papa l’invito rivolto ai poveri a pregare per i colpevoli della loro povertà. Il servizio di Debora Donnini: 

Maria, Giuseppe e Gesù fuggivano in Egitto, poveri, tribolati, “ma lì c’era Dio”. Papa Francesco riprende questa parte della vita di Cristo per spiegare come Gesù stesso abbia sperimentato il disprezzo degli uomini. “Quando vi capita di provare tutto questo – dice ai poveri  - non dimenticate che anche Gesù l’ha provato come voi”. Gesù ha dato la priorità ai poveri e la Chiesa, che ama quello che Gesù ha amato, “non può stare tranquilla finché non ha raggiunto tutti coloro che sperimentano il rifiuto”:

“Nel cuore della Chiesa, voi ci permettete di incontrare Gesù, perché ci parlate di Lui non tanto con le parole, ma con tutta la vostra vita”.

I poveri infatti testimoniano anche con “i piccoli gesti”. Il Papa ricorda, poi, padre Joseph Wresinski, fondatore di ATD Quarto Mondo, per sottolineare che si deve partire dalla vita condivisa e non da teorie astratte:

“Le teorie astratte ci portano alle ideologie e le ideologie ci portano a negare che Dio si è fatto carne, uno di noi! Perché è la vita condivisa con i poveri che ci trasforma e ci converte”.

Francesco si sofferma sul lavoro dei volontari della comunità di Sappel, dell’associazione Bonne Nouvelle-Quart Monde, del gruppo Bartimée e della fraternità di Pierre d’Angle, e sottolinea che i volontari suscitano intorno ai poveri una comunità e in questo modo restituiscono loro un’identità. E l’Anno della Misericordia è l’occasione proprio per vivere questa dimensione di solidarietà. Il discorso del Papa è tutto imperniato sull’amore di Dio verso i poveri: Dio “ripara tutte le ingiustizie”, “consola tutte le pene”. I poveri sono testimoni di Cristo. “I tesori della Chiesa sono i poveri”, diceva il diacono San Lorenzo. E il Papa ricorda quando Gesù dice “beati” ai poveri e “guai” ai ricchi, agli ipocriti. Quindi, affida ai poveri una missione:

“Vi do la missione di pregare per loro, perché il Signore cambi il loro cuore. Vi chiedo anche di pregare per i colpevoli della vostra povertà, perché si convertano!”.

Il Papa invita a pregare per i ricchi che non si accorgono che alla loro porta “ci sono tanti Lazzari”. E per i sacerdoti, per i leviti che “vedendo quell’uomo percosso e mezzo morto, passano oltre”, perché non hanno compassione. Infine ai poveri chiede di sorridere dal cuore a tutte queste persone. “Se fate questo - dice - ci sarà grande gioia nella Chiesa, nel vostro cuore e anche nell’amata Francia”.

E questa predilezione di Francesco per i poveri si traduce dalle parole in gesti quando il Papa saluta praticamente uno ad uno i presenti, si ferma a parlare con loro, li abbraccia e soprattutto li ascolta.

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Francesco: uniamo le nostre voci in favore dei popoli indigeni

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Papa Francesco si fa portavoce ancora una volta delle istanze dei popoli indigeni sempre più minacciati nella loro identità. L’occasione è questa volta l’Intenzione di preghiera per il mese di luglio. In un video per l’occasione, il Pontefice chiede a tutti di unirsi nel rispetto dei popoli indigeni. Il servizio di Alessandro Gisotti

“Voglio chiedere, a nome dei popoli indigeni, che sia rispettato il nostro stile di vita, i nostri diritti e le nostre tradizioni. Mi ascolteranno?”. A rivolgere la domanda, nel video di Papa Francesco per le Intenzioni di preghiera, è una giovane indigena che, nella sua lingua madre, si fa interprete delle esigenze di tutti i popoli indigeni. A lei come a questi popoli minacciati, risponde il Pontefice che, da sempre - fin dagli anni in cui era arcivescovo di Buenos Aires - ha avuto a cuore la loro sorte.

“Quiero hacerme eco y portavoz de los anhelos más profundos…
“Voglio farmi eco e portavoce dei desideri più profondi dei popoli indigeni – afferma Francesco – E voglio che tu unisca la tua voce alla mia”. Il Papa, mentre nel video scorrono le immagini dei volti di donne e uomini di diverse etnie e culture, chiede dunque ai fedeli, in questo mese di luglio, di pregare “con tutto il cuore perché siano rispettati i popoli indigeni, minacciati nella loro identità e perfino nella loro stessa esistenza”.

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Papa incontra genitori del giovane americano trovato morto nel Tevere

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Questa mattina, prima della udienza nell’Aula Paolo VI con i pellegrini provenienti da Lione, intorno alle 9.00, Papa Francesco ha incontrato i genitori di Beau Solomon, il ragazzo americano trovato morto nel Tevere nei giorni scorsi. Lo ha riferito il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi. Il Papa ha manifestato loro i sentimenti della più viva partecipazione e compassione e la sua vicinanza nella preghiera al Signore per il giovane così tragicamente scomparso.

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Brasile. Il Papa accetta la rinuncia di mons. Pagotto

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Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Paraíba (Brasile), presentata da S.E. Mons. Aldo di Cillo Pagotto, S.S.S., in conformità al can. 401 § 2 del Codice di Diritto Canonico. 

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Card. Stella a Lourdes per il Giubileo dei sacerdoti

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“Il sacerdote, testimone della misericordia”: questo il titolo del Giubileo dei sacerdoti, che si è concluso ieri al Santuario di Lourdes. Un grande appuntamento nel quadro del Giubileo della Misericordia, che è stata l’occasione per permettere ai sacerdoti di vivere anch’essi un percorso personale nell’ambito dell’Anno Santo. Molti i sacerdoti che vi hanno preso parte. Alcuni giunti da molto lontano, dalle “periferie”, come mons. Dominique You, vescovo di Conceiçao do Araguia in Brasile, che ha animato una conferenza dal tema: “La misericordia alla scuola dei poveri”. Mons. Nicolas Brouwet, vescovo di Tarbes e di Lourdes, in un invito ai sacerdoti aveva scritto: “un tempo  a voi dedicato affinché possiate, nella calma e nella preghiera, sostenuti dalla fraternità sacerdotale, accogliere i doni che il Signore vuole farvi durante quest’Anno Giubilare”. L’incontro è stato presieduto dal cardinale Beniamino Stella, Prefetto della Congregazione per il Clero. Il cardinale spiega al microfono di Hélène Destombes il senso di questa iniziativa, che si è svolta un mese dopo il Giubileo dei sacerdoti, tenutosi a Roma dal 1° al 3 giugno: 

R. – Lourdes è sempre il luogo della riflessione, della memoria cristiana e mariana. Qui, davanti alla Madonna, le esperienze sono profonde, soprattutto per i sacerdoti, ed è bello trovare la comunità dei confessori. Per loro l’esercizio della misericordia è di grande attualità. E’ bello sentire questi preti che confessano ed è bello sentire nel nostro cuore di sacerdoti e di vescovi questo appello alla conversione. Proprio nello sguardo della Madonna - come ha detto il Papa - lasciandoci guardare dal volto di Maria, apprendiamo veramente a sentire la misericordia e quindi, nell’esperienza personale, a saperla dare con generosità, con grande cuore e con grande discernimento anche di situazioni complesse che sono del mondo di oggi e delle nostre comunità cristiane.

D. – A questo incontro hanno partecipato diversi preti giunti da lontano, dalle periferie. La loro presenza ha alimentato la vostra riflessione?

R. – Sono sacerdoti che vivono la parrocchia. Penso che la maggior parte siano proprio sacerdoti in ministero di anime. Sono, quindi, quei semplici soldati, che hanno il primo impatto con le sofferenze del cuore, con le sofferenze della vita di tanti cristiani. Ed è bello sentire questi preti che portano le loro aspettative e anche le loro difficoltà. Io dicevo loro di tener presente che anche l’esortazione del Papa “Amoris laetitia” è per coloro che vivono queste esperienze difficili, ma che è soprattutto il prete ad essere interpellato, perché tocca soprattutto al pastore di anime portare la consolazione, portare l’aspettativa della misericordia laddove ci sono queste sofferenze del cuore, nella storia dei nostri cristiani in difficoltà per ragioni di matrimonio. Sono, quindi, sacerdoti estremamente sensibili alle problematiche della misericordia, proprio perché le portano tutti i giorni nel loro cuore e nei loro contatti con queste famiglie in difficoltà.

D. – Il prete: testimone della misericordia, attore della misericordia. Il Santo Padre durante il Giubileo dei preti a Roma, all’inizio del mese di giugno, aveva chiamato i preti ad "esagerare nella misericordia"…

R. – E’ una parola che è bella nella bocca del Papa, perché il Papa stesso ci insegna questo cuore grande, magnanimo, però allo stesso tempo esigente e coerente. Bisogna portare nel ministero questo cuore grande, che presenti anche però la radicalità del Vangelo, che presenti le esigenze profonde della Parola di Dio, un po’ come il Papa ci dà l’esempio: un grande cuore nell’accoglienza, ma anche un grande coraggio nell’annuncio della bellezza e della profondità del Vangelo.

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Vatileaks2. Richiesta assoluzione da avvocati di Vallejo e Chaouqui

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Con la richiesta di assoluzione da parte dei difensori di mons. Vallejo e Chaouqui si è chiusa la XIX udienza del processo in Vaticano per appropriazione e divulgazione illecita di documenti riservati. Assenti gli imputati Nuzzi e Fittipaldi, mercoledì pomeriggio 6 luglio ci saranno le arringhe dei loro avvocati oltre a quella del legale di Nicola Maio. Massimiliano Menichetti:

E’ Emanuela Bellardini, legale di mons. Vallejo ad iniziare le arringhe conclusive del processo. Da subito delinea la strategia difensiva: punta ad affermare che il suo assistito era in uno stato di “soggezione“ nei confronti della Chaouqui. Afferma che “nelle udienze non si è rintracciata la prova del sodalizio” e che non sussiste l’associazione criminale. Per il legale “non c’è concorso con Chaouqui, Maio” e “nemmeno con i giornalisti”. Sul reato di diffusione di documenti riservati dice che i “fogli consegnati a Nuzzi e Fittipaldi” erano già stati quasi tutti pubblicati.

L’ipercontrollo di mons. Vallejo
“In questi mesi di processo - afferma Bellardini - l’immagine del mio assistito si è offuscata, si è letto di tutto”. Ricostruisce il profilo del monsignore, dagli incarichi in Spagna fino all’ingresso in Prefettura e in Cosea. Parla delle difficoltà dell’imputato nel dover imparare una nuova lingua e del gravame imposto dalle responsabilità. Lo descrive come un uomo determinato, instancabile, ma che “vuole avere il controllo su tutto”, “un ipercontrollo”. Questo tratto lo unirà alla Chaouqui. Precisa che all’inizio i rapporti in Prefettura con il personale erano buoni, cita in tal senso le deposizioni di Fralleoni, Monaco, Pellegrino e Schiaffi. Puntualizza che essere Segretario della Prefettura degli Affari Economici e anche della Cosea però creò nel tempo “una spaccatura interiore in mons. Vallejo”. Anche i rapporti con i dipendenti cambiarono.  

Ammissione consegna documenti
Da subito - ricorda - il prelato ha ammesso di aver consegnato i documenti a Nuzzi e Fittipaldi, ma i motivi – spiega Bellardini – sono da rintracciare nei rapporti con la Chaouqui: “come si sono sviluppati e sono degenerati”. Afferma che il prelato si è sentito minacciato dal “mondo” che l’imputata incarnava. L’avvocato ricostruisce che la Chaouqui fu presentata a mons. Vallejo in un incontro presso l’associazione Messaggeri della Pace. Nacque subito un’intesa, “si fidava” al punto di chiedere al marito della donna di allestire la struttura informatica di Cosea.

Sicurezza informatica
Citando la deposizione di Gauzzi - spiega - che “la sicurezza non era una preoccupazione solo del prelato”, ma anche di Chaouqui. Ritorna sulla struttura del sistema informatico di Cosea e sulla possibilità di condividere documenti tra i membri della Commissione. Evidenzia che mons. Vallejo chiese al marito dell’imputata e a lei stessa delle password che aveva dimenticato e che “la casella di posta elettronica dell'ex Segretario era usata come una sorta di archivio”.

I due periodi
Bellardini guarda al periodo agosto 2013 - febbraio 2014 quando si sviluppano i lavori in Cosea. Il clima tra Mons. Vallejo e Chaouqui è sereno e tra i due si stringe un rapporto amicale con frequentazioni a cene ed eventi. Dopo il 2014 l’avvocato presenta però un cambiamento: il mancato incarico di mons. Vallejo nella Segreteria dell’Economia e la prossima chiusura di Cosea. Racconta delle pressioni che la donna cominciò ad esercitare sul monsignore ed il tentativo dell’uomo di arginarla, di “allontanarla”, fino ad interdirle l’accesso in Prefettura. L’avvocato afferma: “è Chaouqui l’estromessa” e chiede interventi e azioni per avere un “ruolo in Vaticano”, invece mons. Vallejo è sempre Segretario della Prefettura. “Lei si lamenta e lui è un ricettore di continue lamentele e richieste”.

Compiacimento e lusinghe
L’avvocato presenta anche un altro modo in cui la Chaouqui si relazionava con il prelato, fatto di “attenzioni, compiacimento e lusinghe, “che fecero breccia “nell’uomo” che ebbe un “momento di debolezza”. Il riferimento è alla notte trascorsa a Firenze. Bellardini poi cita le deposizioni di mons. Vallejo sulla convinzione che l’imputata facesse parte dei Servizi segreti, le pressioni percepite, il timore di essere controllato. “Lei - spiega Bellardini - faceva credere di appartenere ad una realtà diversa”. Letti in aula, a conferma del clima di soggezione, anche alcuni messaggi WhatsApp di Chaouqui a mons. Vallejo altamente offensivi, irriguardosi e di minacce.

No vincolo associativo
Per Bellardini il fatto che mons. Vallejo avesse la piena disponibilità dei documenti evidenzia che non c’era bisogno del vincolo associativo. L’imputato darà a Nuzzi e Fittipaldi documenti già noti - sostiene in sostanza l’avvocato - spinto solo dallo stato di soggezione nei confronti della Chaouqui. Fatto questo dichiarato anche ai gendarmi dallo stesso imputato.

Chiesta l’assoluzione
Quindi il legale chiede per il suo assistito l’assoluzione con formula piena da tutte le imputazioni o - in subordine - l’assoluzione dal reato di associazione a delinquere perché il fatto non sussiste e l’assoluzione per insufficienza di prove dal reato di divulgazione di documenti riservati in concorso o - in ulteriore subordine – l’assoluzione dal reato di associazione a delinquere perché il fatto non sussiste e il minimo della pena, con attenuanti, per il reato di divulgazione di documenti riservati in concorso.

L’avvocato Laura Sgrò
L’avvocato Laura Sgrò, ha chiesto per Francesca Immacolata Chaouqui l’assoluzione con la formula più ampia da tutti i capi di imputazione. “Il processo penale si fonda sui fatti” - dice - e non su come è percepita una persona. Parla di come la sua assistita è “stata dipinta” in questi mesi dalla stampa: paragonata al boss delle fiction “Keyser Söze” o a “Mata Hari”. “Dobbiamo dirci la verità Francesca non piace – sottolinea - parla quando deve stare zitta, sfida, non abbassa lo sguardo”, però non si condanna una donna “solo perché è antipatica”. “Va assolta o condannata sui fatti”.

Accusa fondata su illazioni
Sgrò ribadisce che “l’accusa è fondata su verità che sono frutto di illazioni e chiacchere”. Punta il dito su mons. Vallejo che essendo reo confesso - dice - “ha solo cercato di alleggerire la propria posizione processuale”. Il monsignore - ricorda -  ha sempre “tenuto fuori l’imputata dal rapporto con in giornalisti ed è stata una libera scelta senza alcuna pressione”. A sostegno di questo legge una serie di messaggi WhatsApp scambiati tra Nuzzi e il prelato dai toni amicali e distesi. Lo stesso fa in riferimento a Fittipaldi.

Nessuna soggezione
Ricorda che mons. Vallejo dichiarò di aver conosciuto Nuzzi prima che gli fosse presentato dalla Chaouqui, ma che fece finta di non averlo mai incontrato. Poi si incontrarono ancora ed i rapporti si intensificarono. Sottolinea il noto scambio di password, cita altri messaggi in cui i due si diedero appuntamenti e scambiarono informazioni in un clima di assoluta tranquillità.

La falsa versione di mons. Vallejo
“E’ falsa – dice – la versione di mons. Vallejo che asserisce di essere stato spinto a consegnare il materiale ai giornalisti”. Parla della perizia psichiatrica a cui si è sottoposto il prelato nell’aprile del 2015 da cui emerge un tratto equilibrato e consapevole e non certo di soggezione. Ed è lo stesso “periodo in cui l’imputato consegna le password a Nuzzi”. Affronta la questione dei Servizi segreti e ricorda che il sacerdote chiese all’ambasciatore Massolo conferma se la donna ne facesse parte, ottenendo una smentita. L’avvocato dunque si domanda retoricamente: “quindi di cosa aveva paura?”.

La consegna dei documenti
Cita le dichiarazioni del prelato quando asserisce che ha consegnato le “password” di documenti e casella email “in modo spontaneo” a Nuzzi e che la “Chaouqui non sapeva della sua intenzione".

Rapporto Chaouqui mons. Vallejo
Sgrò conferma il rapporto solido di amicizia tra Chaouqui e mons. Vallejo, ma poi degenerato al punto che a lei viene interdetto l’accesso in Prefettura. “Mons. Vallejo dice di temere per la sua vita e parla di un “certo mondo” dietro alla Chaouqui, ma vuole frequentare le amicizie” della donna “anche senza di lei”.

Le mezze verità di mons. Vallejo
L’avvocato attacca la credibilità dell’ex Segretario Cosea e porta come esempio quando i gendarmi gli trovarono un telefono cellulare che gli costò il ritorno in cella per inquinamento delle prove. “Mons. Vallejo negò - afferma  - perché “costruisce le verità un pezzo alla volta”. “Disse anche di aver buttato l’apparato” che venne trovato “dopo una perquisizione”. Aggiunge - per delineare ancora il profilo del prelato - che lui diceva di avere nella propria camera da letto “una cassa dei prosciutti con dei dossier” che costituiva una sorta di “assicurazione sulla vita”. 

Documenti segreti
Sgrò asserisce che la sua assistita non ha mai inviato “documenti segreti” e che lo stesso Nuzzi conferma che lei fu solo un contatto. Anche Maio - prosegue - dichiarò che l’imputata non aveva sottratto alcunché. Ricorda che in Prefettura anche “altri avevano le chiavi per accedere, ma non sappiamo chi fossero”.

In Prefettura malanimo e pettegolezzi
Afferma che il “quadro emerso in Prefettura è terribile” e per questo dovrebbe avere un valore probatorio “ridotto”. Torna a citare i testimoni Fralleoni, Schiaffi, Pellegrino e Monaco ricorda che tutti in sostanza non avevano rapporti con Chaouqui pur esprimendo dei giudizi nei suoi confronti. Sgrò domanda perché “mons. Abbondi non sia stato rinviato a giudizio, essendo stato legato dalle testimonianze al sodalizio criminale”. Si chiede anche chi siano “il tedesco e lo svizzero” evocati dalla Pellegrino nella sua deposizione e perché secondo la ratio del processo non siano stati chiamati a giudizio. Aggiunge: “Si parlava male del gruppo Cosea solo per malanimo e pettegolezzi” in un contesto che lo stesso mons. Abbondi “definisce di caos”. Nell’estate 2015 - ribadisce per smontare ulteriormente la tesi accusatoria – il gruppo "è solo mons. Abbondi” e l’ex Segretario, poi sarà solo mons. Vallejo. 

Analisi apparati
L’avvocato contesta la deposizione di Gauzzi. Ribadisce che l’ingegnere nella perizia informatica si “è dimenticato del telefonino sequestrato alla Chaouqui”. Ribadisce che “da nessuna parte trova riscontro che l’imputata abbia cancellato il sistema di messaggistica WhatsApp come sostenuto” dall’analista della Gendarmeria. Che “non è stata fatta un’analisi dei dati integrale”, “i periti non hanno visto gli apparati” e “la verifica si è fatta solo su ciò che era già" negli atti. Sulla questione del server presso le guardie svizzere e la gestione della “nuvola Cosea” precisa che il marito dell’imputata non percepì alcun compenso per la sua attività e che per l’acquisto dell’hardware e box furono spesi 110mila euro presso una società terza.

Vatican Asset Management
Torna ancora sul Vam, precisa che Nuzzi lo pubblica nel suo libro nel formato PowerPoint, probabilmente preso dallo stesso giornalista nella casella email di mons. Vallejo. E che Chaouqui dichiarò, durante il primo arresto, di averlo dato al cronista in formato Word. Questo documento - rimarca - era comunque già stato ampiamente trattato da organi della Santa Sede e il progetto bocciato dal Papa.

L’associazione criminale
Poi si volge al Promotore di giustizia che - secondo Sgrò - ha esteso a dismisura i tempi che individuano "l’associazione criminale”. Precisa che mentre in Prefettura si compiva l’attività di “copiosa copiatura di documenti”, nell’estate 2015, Chaouqui aveva già cessato il lavoro. Sul fatto che la sua assistita ha presentato i due giornalisti all’ex Segretario dice “che non c’è prova di correità né di complicità” e ripete che lo stesso mons. Vallejo “non aveva detto dell’intenzione di divulgare i documenti”. 

La requisitoria
L’avvocato Sgrò afferma poi che la requisitoria del promotore di giustizia non è andata “oltre affermazioni generiche”, che “non si è provato ma solo affermato un comportamento delinquenziale” e che è stata chiesta una pena maggiore per la sua assistita invece che per mons. Vallejo, definito “il motore primo” dei fatti delittuosi, “per altro sacerdote”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La missione dei poveri - Francesco a un pellegrinaggio della provincia di Lione.

Collezionista e pittore di Charles de Pechpeyrou - Una mostra al Museo Hergé di Louvain-la-Neuve racconta la passione del disegnatore per l’arte.

Il giubileo nella storia - Solène Tadié sul volume della Utet.

Come un cartello stradale - Ricordo di Valentino Zeichen di Edoardo Camurri.

Robert Ellsberg sulla conversione nelle memorie di Dorothy Day.

Europa a 27 e Alleanza atlantica - un articolo di Fausta Speranza sul primo vertice Nato dopo Brexit.
   

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Oggi in Primo Piano



Siria. Younan: stanno annientando i cristiani, stop soldi e armi all'Is

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In Siria, l'esercito governativo ha annunciato una tregua di 72 ore fino alla mezzanotte di venerdì prossimo, in coincidenza con la fine del Ramadan. Ma le violenze e gli attentati continuano: ieri un kamikaze in bicicletta si è fatto esplodere fuori da una panetteria nella provincia settentrionale di Hassakeh, controllata dai curdi, uccidendo oltre 10 persone. L’attacco non è stato rivendicato ma secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani è opera dei jihadisti dell'Is. Sulla situazione in Siria e in particolare dei cristiani, ascoltiamo il patriarca della Chiesa siro-cattolica Ignace Youssif III Younan, al microfono di Sergio Centofanti

R. – C’è tanta distruzione, tanto sangue, lacrime, gente che fugge … Non si trova una via di uscita né una fine a tutto questo. D’altro canto, però, vediamo che i politici dei Paesi occidentali hanno cominciato a ragionare: tutti dicevano che in breve tempo ogni cosa sarebbe cambiata e invece sono passati più di cinque anni! Con quale conseguenza? C’è un Paese distrutto e noi cristiani siamo stati le prime vittime di questa politica.

D. – I jihadisti sul terreno stanno arretrando…

R. – Sì, stanno arretrando; però continuano a ricevere le armi, anche piuttosto sofisticate. Le Nazioni Unite hanno già parlato di 30mila jihadisti venuti in Siria e in Iraq da ogni parte del mondo. Questo noi già lo sapevamo e lo dicevamo dall’inizio: “Non dovete lasciare che questi Paesi che hanno il petrolio mandino denaro e sostengano il jihad sotto il pretesto di una rivoluzione popolare”.

D. – Qual è la situazione dei cristiani in questi Paesi: si stanno estinguendo?

R. – I cristiani sono davvero demoralizzati. Ciò vuol dire che la crisi continua. Prima, nel Paese c’era un certo livello di sicurezza per tutti; si poteva andare dovunque e a qualsiasi ora, di giorno e di notte; i cristiani facevano il possibile per costruire un Paese orientato verso la laicità. Ora, invece, i cristiani stanno perdendo la fiducia. E noi dobbiamo far sentire la loro voce nel mondo per far capire ai potenti che noi, portatori di una civilizzazione millenaria, siamo proprio sul punto di essere annientati e cacciati via.

D. – Come vincere i jihadisti che si stanno diffondendo nel mondo?

R. – È chiaro: prima di tutto è necessario capire che non si devono mandare qui i jihadisti, né si deve finanziarli e inviare loro armi: da dove le prendono? L’origine dei finanziamenti è molto chiara: provengono da quei fanatici che si trovano dove c’è l’Islam radicale e politico. Sono loro che stanno finanziando i jihadisti. Se veramente la comunità internazionale vuole porre fine a tutto questo, deve esortare questi Paesi ad interrompere i finanziamenti, a smettere di inviare i jihadisti e ad essere loro complici. Andiamo al cuore del problema: il problema non è politico né sociale. I jihadisti ci saranno sempre: loro leggono nel Corano dei versetti violenti e dato che per loro questi versetti sono parole di Dio ci saranno sempre persone che penseranno che Dio vuole che essi diventino terroristi, pronti ad uccidere gli infedeli. Andiamo lì, allora, per vedere che tipo di educazione stanno dando ai bambini e ai giovani. Non è una questione politica e neanche economica: è una questione religiosa. Si tratta di gente che vuole imporre la propria religione, perché interpreta il proprio Libro alla lettera – testualmente – senza un’opera di esegesi, che invece è necessaria.

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Crisi in Venezuela: donne sconfinano in Colombia per trovare cibo

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Il 21 e il 26 luglio. Sono due date cruciali per il Venezuela, in profonda crisi economica e politica. In quei giorni, Caracas rispettivamente prenderà la presidenza di turno del Mercosur e si pronuncerà, attraverso il Consiglio nazionale elettorale, sul referendum chiesto con quattro milioni di firme dall’opposizione per revocare il mandato presidenziale di Nicolas Maduro. Nel frattempo, si aggrava il contesto sociale del Paese: centinaia di donne hanno attraversato il confine nord orientale con la Colombia per acquistare cibo e altri generi di prima necessità, che scarseggiano nei supermercati venezuelani; e anche gli ospedali sono a corto di medicinali essenziali. Giada Aquilino ne ha parlato con Gennaro Carotenuto, docente di Storia contemporanea all’Università di Macerata e studioso di questioni latinoamericane: 

R. – La situazione così grave si è creata essenzialmente per il crollo del prezzo del petrolio. Il governo di Hugo Chavez e, dopo la sua morte, quello di Nicolas Maduro non hanno modificato praticamente di una virgola la dipendenza del Paese dal petrolio. Quando questo è passato da 180 dollari, del periodo di massima auge, a meno di 40 dollari la situazione non è stata più sostenibile. Si è aperta una crisi economica oggettivamente brutale per la quale né il governo Maduro né un eventuale governo dell’opposizione hanno strumenti di difesa. Tutto questo si aggiunge alla crisi dei governi latino-americani integrazionisti, di centrosinistra, che sono andati al potere negli ultimi 15 anni, arrivati tutti alla fine di un ciclo storico. Una delle grandi conquiste  riguarda una serie di istituzioni integrazioniste che hanno garantito la pace e tutta una serie di altre cose nella regione nell’ultimo decennio abbondante e hanno per esempio impedito che l’America Latina diventasse parte di quell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe, ndr) voluta da George Bush. Anche queste istituzioni, espressioni di una politica di integrazione della regione che in qualche modo sta passando di moda, con i nuovi governi si trovano in difficoltà e questi Paesi stanno quindi ricominciando una relazione diretta con quelli che sono i Paesi centrali: essenzialmente gli Stati Uniti, ma anche per esempio i Paesi europei come la Spagna e in particolar modo le multinazionali spagnole.

D. - Il braccio di ferro tra Maduro e l’opposizione ha aggravato questa crisi o è solo una faccia della crisi?

R. - Penso che sia una faccia della crisi dovuta dal fatto che, durante la maggior parte degli ultimi 18 anni della vita del Paese, una parte dell’opposizione – attenzione: non tutta - ha sempre visto un’uscita violenta dal chavismo come opzione principale, in un contesto nel quale evidentemente il gruppo di potere intorno a Nicolas Maduro e le varie anime diverse del chavismo - che a volte sono contaminate da fenomeni corruttivi importanti - cercano di difendere un potere per il quale un cambio di segno politico non sarebbe la fine di un progetto di cambiamento sociale quale era quello di Hugo Cahavez, ma anche la fine di un potere personale e quindi della possibilità di arricchimento spesso illecito.

D. - Argentina e Brasile, membri principali del Mercosur, hanno criticato il governo Maduro, accusandolo di violare i diritti umani dei venezuelani. Tra due settimane Caracas prenderà la presidenza di turno di questo blocco regionale. Cosa accadrà?

R. - La questione dei diritti umani è importantissima. Ma è evidente che c’è stato bisogno di un cambio di segno politico totale sia in Argentina sia in Brasile per criticare la violazione dei diritti umani. Quello latino-americano è un continente molto complicato: se pensiamo che l’altro giorno la polizia in Messico ha sparato ad altezza d’uomo sui maestri che, nello Stato di Oaxaca, si opponevano al governo, vediamo che c’è anche un uso strumentale di queste questioni. La situazione dei diritti umani in Venezuela non è sicuramente peggiore di altre realtà.

D. - Centinaia di venezuelani hanno attraversato il confine con la Colombia per acquistare cibo e generi di prima necessità. Perché scarseggia il cibo e perché è venuto così “naturale” oltrepassare il confine?

R. - Il processo bolivariano ha comportato un’enorme nazionalizzazione della distribuzione del cibo. Quindi c’erano prezzi concordati e decisi dallo Stato al di fuori di una logica mercatista e questo ha delle enormi quote di inefficienza, anche se può garantire la distribuzione di alimenti o altri beni di prima necessità a quote della popolazione che prima ne erano escluse. Ma per molti anni c’è stato un contrabbando all’inverso: le persone compravano i prodotti anche di primissima necessità in Venezuela e li esportavano in Colombia. Ma esportare e contrabbandare in Colombia vuol dire spesso e volentieri attraversare semplicemente una strada.

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Massacri nel Nord Kivu. I vescovi: fermare saccheggio risorse

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Resta alta la tensione nel Nord Kivu, martoriata provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo, dove dall’inizio dell’anno sono stati chiusi sette centri di accoglienza perché le popolazioni locali accusano gli sfollati di etnia Hutu di essere dei complici delle FDLR (Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda), ribelli Hutu ruandesi che rendono instabile la regione da 20 anni a questa parte. Sempre nel Nord Kivu, nella città di Oicha, nove civili sono stati massacrati a seguito di un assalto attribuito ai ribelli delle Forze Alleate Democratiche (ADF), un gruppo islamico ugandese. I vescovi locali hanno richiamato l’attenzione sullo sfruttamento delle risorse, parlando di tensioni create ad arte per spopolare le aree più ricche. Sulle annose turbolenze nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, Marco Guerra ha intervistato Anna Bono, docente di Storia dei Paesi africani presso l'Università di Torino: 

R. – In quell’area la guerra è formalmente finita, ma in realtà continua! In quelle regioni si contano decine di gruppi armati, ciascuno con una sua base etnica, che si finanziano tutti con il contrabbando di risorse minerarie, che sono immense; con il contrabbando di prodotti di bracconaggio e con incessanti razzie di villaggi, con relativi episodi gravissimi di violenza che alimentano – a loro volta – le tensioni etniche. E c’è un’altra guerra che è finita, da ormai 20 anni in effetti, che ha però ancora delle ripercussioni enormi in queste regioni del Congo: è la guerra, anzi il genocidio dei tutsi in Rwanda  nel 1994. Questo genocidio dei tutsi da parte degli hutu in Rwanda si è concluso con la vittoria delle truppe tutsi, guidate da Paul Kagame. Man mano che queste truppe avanzavano, alcuni milioni di rwandesi hutu si sono riversati nel Paese vicino e cioè il Congo: lì, in Congo, si sono riorganizzati, creando dei gruppi armati che tuttora esistono e che tuttora tentano di contrastare e di intervenire in Rwanda contro il governo in carica, che continua ad essere un governo tutsi.

D. – Secondo i vescovi locali, queste tensioni potrebbero essere alimentate ad arte per spopolare aree ricche di risorse naturali…

R. – In effetti queste risorse sono uno dei fattori dell’instabilità, come purtroppo in gran parte del continente africano. Anzi, ormai da anni si parla della “maledizione del rame” per lo Zambia; della “maledizione del petrolio” per la Nigeria… L’abbondanza enorme, immensa in certi casi, di risorse naturali e preziose alimenta disordini e conflitti; ma li alimenta soprattutto – ed è proprio il caso della Repubblica Democratica del Congo – perché alla base di questa situazione ci sono - in Congo, come in altri Paesi - governi che sono i primi responsabili dell’instabilità e delle situazioni che ne derivano. Queste regioni orientali sono praticamente fuori controllo: manca cioè un controllo e una protezione da parte del governo. Hanno ragione i vescovi: da parte del governo che anzi sembra favorire lo sfruttamento di cui poi si avvalgono e si avvantaggiano le élite al potere in quel momento, in questo momento, a scapito delle popolazioni locali.

D. – Proprio qualche giorno fa sono stati arrestati una settantina di miliziani che agivano in Kivu con violenze di massa e stupri…

R. – Certo: lei si riferisce al Sud Kivu.. Sono due regioni confinanti, Nord e Sud Kivu, in cui si sono verificati in particolare numerosi casi di violenze sessuali, addirittura su bambini… In effetti sono state arrestate 75 persone, ma non è un caso isolato. La mancanza di interesse da parte del governo del Congo si traduce anche in questo: una mancanza di interesse che dura ormai da tempo ed è particolarmente evidente in questo periodo, perché il presidente – l’attuale presidente del Congo, Joseph Kabila – sembra non aver in mente nient’altro da mesi, se non trovare un espediente per aggirare la Costituzione: il suo secondo mandato presidenziale sta per scadere e su questo si concentra e cioè su come rimanere al potere e di non cederlo a qualcun altro.

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Il doppio business delle lobby delle armi

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Le lobby delle armi in Europa commerciano nelle zone di conflitto in Africa e Medio Oriente, da cui fuggono i profughi, e nello stesso tempo fanno affari miliardari sulla crescente militarizzazione delle frontiere dell’Unione Europea per il contrasto all’immigrazione clandestina. Il mercato della sicurezza dei confini continentali gli ha fatto guadagnare 15 miliardi di euro nel 2015: saranno 29 miliardi nel 2022. Lo afferma un rapporto Della Rete Italiana Disarmo di cui si è parlato nel convegno intitolato “Guerre, scelte di pace e riconversione industriale”, promosso a Roma dal Movimento politico per l’unità, legato ai Focolari. Era presente all'incontro Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo. Francesca Di Folco lo ha intervistato: 

R. - In effetti noi vediamo che gran parte delle aziende che lavorano nel settore della Difesa operano e collaborano anche a tutte le azioni, sinora messe in campo, di controllo dei confini, dei mari. Quindi certamente rappresenta un doppio business. Rimane solamente irrisolto il problema dei conflitti continuamente alimentati in questi Paesi da forniture di guerra, di armamenti, di munizioni e quant’altro, che proseguono per anni senza che – almeno apparentemente – la Comunità internazionale intervenga per bloccare. Il caso esemplare è la Siria: noi sappiamo che ufficialmente è la Russia che sostiene il governo Assad, ma le varie forze ribelli – dall’Is agli eserciti di opposizione – sono tutte formazioni che ricevono armi e munizioni da vie apparentemente ignote, ma che arrivano evidentemente invece in misura particolarmente rilevante: altrimenti non si potrebbe spiegare come una guerra, da una parte e dall’altra, possa essere sostenuta per 4-5 anni senza soluzione di continuità.

D. – A vigilare i varchi vi sono produttori e venditori di armi a Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, dai quali fuggono i rifugiati. Le aziende che infiammano la crisi sono quelle che ne traggono i maggiori profitti…

R. - Sì, noi abbiamo – purtroppo! – un ruolo significativo nei Paesi dell’Unione Europea – come la Germania, l’Italia, la Francia – che esportano in misura significativa armamenti e munizioni verso l’area mediorientale e nordafricana. Anzi, abbiamo rilevato che, nel corso di questi ultimi anni, vi è stato un grande incremento di esportazioni di armi e munizioni verso queste due aree, il Medio Oriente e il Nord Africa, proprio in concomitanza delle cosiddette Primavere Arabe e in contemporanea allo scoppio del conflitto siriano. Proprio i dati statistici ci offrono un quadro estremamente preoccupante: vediamo che c’è un flusso continuo di armamenti che costituisce un business certamente per le aziende, ma non aiuta a trovare soluzioni pacifiche per queste aree martoriate.

D. – Quali le maggiori soluzioni per una riconversione industriale?

R. – Intanto ci vuole – come prima soluzione – una volontà politica, perché noi abbiamo – in Italia – una legge specifica, che è la 185 del ’90, che al suo interno, all’art. 8, prevede anche possibili iniziative di diversificazione e conversione produttiva. Certamente la diversificazione e la conversione produttiva non sono facili da ottenere con un colpo di bacchetta magica. Ci vuole una programmazione economica, ci vuole un impegno politico, ci vuole un’analisi del mercato: ci vuole, in poche parole, un impegno collettivo delle forze politiche, delle forze industriali, delle forze sindacali, dei tecnici per arrivare ad individuare prodotti che possano essere – con le capacità tecnologiche, professionali, umane che hanno queste aziende - immessi sul mercato. Altrimenti rimane solamente una affermazione morale, rispettabile, ma – come abbiamo visto in questi anni – che non ha mai dato effettivamente risultati. Gli unici risultati che abbiamo visto quando alcuni prodotti militari sono stati utilizzati per uso anche civile, ma come ricaduta secondaria e non come pianificazione di un intervento di più vasto respiro, che punti quindi a ridimensionare la quota di produzione militare propriamente detta. 

Al convegno ha partecipato anche Rosalba Poli, del Movimento dei Focolari. Questa la sua proposta:

“La prima proposta che noi facciamo è quella di sostituire l’uso delle armi con l’uso di un metodo dialogico. La riconversione industriale è un discorso molto percorribile - ma certamente non a breve termine - indirizzato soprattutto a promuovere le industrie che guardino più ad un bene comune piuttosto che ad una produzione di armi che distrugge intere popolazioni”.

Tra le proposte emerse al convegno anche quella di riallocare almeno il 10% del budget militare nazionale e mondiale annui per creare un fondo globale gestito dalle Nazioni Unite per aiutare le popolazioni con le necessità umanitarie più urgenti.

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Nel mondo 250 milioni i minori che vivono in aree di guerra

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Sono 250 milioni i ragazzi e le ragazze che stanno crescendo in aree in conflitto, di cui 16 milioni i bambini, un dato del genere non si registrava dalla seconda guerra mondiale. E’ quanto è emerso da un rapporto dell’Unicef in cui si evince come la complessità e la durata delle emergenze umanitarie sono aumentate soprattutto in Afghanistan, Siria, Yemen, Sudan e Africa centrale. In media ogni giorno 4 scuole o ospedali sono obiettivi di attacchi armati, soprattutto nei Paesi Arabi il retaggio culturale è una delle cause di violenze sui minori. Dal 2014 solo in Nigeria il gruppo terroristico di Boko Haram ha colpito e distrutto 1.200 scuole, uccidendo oltre 600 insegnanti. Gioia Tagliente ne ha parlato con Giacomo Guerrera, presidente Unicef Italia:    

R. – In queste aree non c'è materiale sanitario a sufficienza; sono state distrutte delle scuole. E’ una situazione piuttosto drammatica, dove purtroppo la comunità internazionale non è riuscita ad intervenire in maniera adeguata.

D. – Come mai?

R. – Nel 2000 tutta la comunità internazionale, soprattutto i Paesi ricchi, avevano deciso di aiutare i Paesi poveri con il sette per mille del prodotto interno lordo e questa promessa non è stata mantenuta. Poi nel 2001 ci sono state le Torri Gemelle e sono aumentate le azioni terroristiche, per cui dal paradigma della solidarietà si è passati al paradigma della sicurezza: tutte le risorse sono state destinate alla sicurezza interna dei diversi Paesi. In questi 15 anni non sono stati raggiunti gli obiettivi di sviluppo che si sono conclusi nel 2015 e che dovevamo raggiungere anche attraverso questi aiuti. A questo punto sarà ancora più difficile raggiungerli e ancora più costoso.

D. – La cooperazione internazionale può fare qualcosa in questo senso?

R. – Dove la situazione è una situazione di crisi per conflitti, bisognerebbe allora che le nazioni mettessero mano ad un intervento forte, per cercare di mettere pace fra le parti contendenti, anche imponendolo se è il caso.

D. – Come mai le scuole sono obiettivi principali di attacco armato?

R. – L’istruzione serve a soggiogare le popolazioni, per cui è più facile imporre quelli che sono i loro credo. La mancata istruzione determina delle conseguenze a lungo termine. In media un anno di istruzione in più nei diversi Paesi determina il 5,6% in più del prodotto interno lordo. C’è anche un dato culturale che sta alla base di tutto questo: la discriminazione fra bambine e bambini.

D. – In cosa consiste?

R. – Dalle mutilazioni genitali femminili, la donna non viene considerata come è considerata giustamente in casa nostra e in tutti i Paesi evoluti, in maniera paritaria rispetto all’uomo. La donna in questi Paesi svolge un ruolo importante per il sostegno della famiglia ma non le viene riconosciuto e a questo punto poi si verificano tutte le discriminazioni possibili, prima fra tutte l’istruzione. A scuola non dovrebbero andare le donne, a scuola devono andare soltanto gli uomini. Ecco perché in molti Paesi c’è proprio un’azione violenta nei confronti delle scuole, soprattutto delle scuole frequentate da bambine. Le scuole, quindi, comunque, vengono bombardate, vengono distrutte. E’ chiaro che la volontà è quella di mantenere uno status quo che consolidi sempre questa discriminazione fra uomo e donna.

D. – Qual è l’impegno di Unicef?

R. – I programmi di Unicef sono sicuramente indirizzati nei Paesi in guerra a creare dei "blue dot", dei "punti blu" in cui i bambini possano ricevere aiuto, possano ricevere istruzione, possano ricevere quelli che sono gli interventi e gli aiuti necessari anche da un punto di vista psicologico. Questi bambini, infatti, in molti casi sono abbandonati, non hanno più neanche i genitori. Lo verifichiamo con quelli che arrivano a casa nostra, attraverso questa migrazione “biblica”. Questo, però, avviene anche nei loro Paesi. L’Unicef interviene creando dei punti di aggregazione con personale specializzato, oltre a fornire tutto ciò che è necessario da un punto di vista sanitario, alimentare e tutto ciò che serve. Chiaramente cerchiamo di recuperare i bambini ad una vita tranquilla, allontanandoli anche dalla loro famiglia, in alcuni casi, per parte della giornata, radunandoli all’interno di tende che sono come delle scuole. I bambini con grande disponibilità, con grandi sorrisi, con grande attenzione a questa attività che noi svolgiamo, riescono a dimenticare per alcune ore della giornata qual è il dramma che vivono assieme ai genitori.  

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Festival di Monaco: miglior film l'iraniano "The salesman"

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Si è chiuso da pochi giorni il Festival del Film di Monaco: un evento che investe tutta la bella città della Baviera con decine di proiezioni e un pubblico soprattutto di giovani, attenti e coinvolti. Il servizio di Luca Pellegrini: 

Con la consegna dei tre premi principali nel corso di una simpatica cerimonia, si è chiuso dopo dieci intensissimi giorni il festival del Film di Monaco di Baviera. Miglior film internazionale è stato riconosciuto “The salesman” dell’iraniano Asghar Farhadi, il Cinevision Award per la migliore novità a “Divines” di Houda Benyamina, regista francese di origini marocchine, e il Premio della Critica Fipresci a “Dinky Sinky” della tedesca Mareille Klein, storia delicata e intensa di una donna che cerca di diventare madre. Ogni festival ha la sua “anima”. Abbiamo chiesto alla Direttrice Diana Iljine una descrizione di quello bavarese.

R. – München ist ein Publikumsfestival: Anders als die großen A-Festivals, haben wir den Luxus, die …
Quello di Monaco [di Baviera] è un festival di pubblico: diversamente da quanto accade per i grandi festival, noi ci possiamo concedere il lusso di portare a Monaco i migliori film d’estate. Abbiamo un team che gira tutto il mondo e frequenta tutti i festival cinematografici e porta a Monaco, per la stagione estiva, i film migliori. Siamo molto severi nella nostra selezione. Ogni film deve avere non solo un contenuto interessante, ma anche una forma: è per noi un aspetto molto importante. Inoltre, noi siamo uno dei più grandi festival cinematografici estivi in Europa: il sole, l’estate, Monaco inducono questa sensazione piacevole di festival e questo significa che le persone vengono volentieri. Anche gli esperti del ramo si incontrano qui, perché qui possono vedere film che non sono riusciti a vedere a Cannes, incontrano i produttori, sceneggiatori, frequentano ricevimenti. Il pubblico, invece, frequenta volentieri il cinema nonostante il caldo: i cinema sono pieni, anche quelli all’aperto che sono molto frequentati la sera.

D. – E il vostro pubblico?

R. - Natürlich sind die Kinoleute oft gebildete Leute: Wir haben viele Studenten, wir haben viele Münchner …
Ovviamente, spesso le persone che frequentano il cinema sono persone colte: ci sono molti studenti, molti abitanti di Monaco, vengono con sempre maggiore frequenza persone che vivono intorno a Monaco. Quello che per me è molto importante è che chiunque può partecipare. Non c’è alcuna manifestazione – a parte quella dell’apertura – alla quale non si possa partecipare come uno spettatore qualunque, non si possa parlare con i registi alla fine della proiezione del film, camminare sul tappeto rosso … questa è la particolarità di Monaco: ci può andare chiunque.

D. – Siamo in Germania e quindi il Festival presenta molti film tedeschi. Quale tipo di realtà riflettono?

R. – Ich finde, dass die deutschen Filme …
Trovo che i film tedeschi siano, anche quando non sono esplicitamente di stampo politico, però molto impegnati con le questioni del nostro tempo, che sono la globalizzazione, la demografia nel senso dell’invecchiamento eccessivo della società o il mantenere unite le famiglie e la digitalizzazione. La digitalizzazione consente di produrre film in Paesi che finora non potevano produrre film perché un film costa molto denaro; la globalizzazione si rispecchia nei film perché in essi vediamo famiglie indifese, lacerate, confuse e questa sensazione la si ritrova in molti nostri film. Quando si parla di questioni demografiche, spesso riguardano gli anziani e i giovani, il nonno, la nonna e i bimbi, i nipoti: di questo trattano i nostri film e in maniera appassionata. Molti film toccano anche il tema dei rifugiati.

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Nella Chiesa e nel mondo



Chiesa asiatica in lutto per le vittime della strage di Dacca

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Di fronte “alla violenza che raggiunge il suo massimo livello, noi prendiamo forza dalla misericordia infinita di Dio, e siamo chiamati ad affrontare queste gravi sfide con la solidarietà pacifica di tutte le persone di buona volontà”. Lo dice all'agenzia AsiaNews il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc), in occasione della festa di Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di preghiera e digiuno islamico.

Costruire ponti di pace e promuovere riconciliazione
In particolare, il porporato ricorda le vittime della strage compiuta a Dacca, in Bangladesh, ad opera di terroristi islamici, e afferma che tutta la Chiesa in Asia è in lutto per l’attentato. “Insieme, come fratelli, dobbiamo promuovere lo spirito di fratellanza e solidarietà”, sottolinea l’arcivescovo. “Viviamo in un’epoca di grandi pericoli e grandi opportunità per l’umanità e il mondo – aggiunge - un’epoca che è anche una grande responsabilità per tutti noi. È indispensabile e urgente che i leader religiosi, i governi e le comunità lavorino insieme per costruire ponti di pace e promuovere la riconciliazione”.

Non cedere alla disperazione
Quindi, il porporato esorta a non cedere “alla disperazione, a forze e poteri pericolosi”, ribadendo che “le dimensioni di questo fenomeno ci fanno inorridire”. “Preghiamo e lavoriamo per la riconciliazione, la giustizia, la pace e lo sviluppo – continua l’arcivescovo Gracias - Assicuro che la Chiesa vuole continuare a costruire ponti di amicizia con i seguaci di tutte le religioni, per cercare il vero bene all’interno di ogni persona e nella società intera”.

Religioni siano fonti di armonia nella società
“Possa l’amicizia tra cristiani e musulmani – conclude il porporato - ispirare tutti noi a collaborare nell’affrontare queste sfide, e pertanto garantire che le religioni possano essere fonti di armonia per il benessere della società e dell’intera famiglia umana”. (I.P.)

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Comunità internazionale contro 800 nuovi insediamenti di Israele

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Il piano di Israele, che prevede la costruzione di centinaia di nuove case negli insediamenti della Cisgiordania e a Gerusalemme est, ha attirato le critiche degli Stati Uniti e di associazioni attiviste fra cui Peace Now, da tempo in prima linea contro l’occupazione. John Kirby, portavoce del Dipartimento di Stato Usa, ha definito i nuovi progetti in chiave espansionista “l’ultimo atto di un processo sistematico di confisca dei terreni”.

Comunità internazionale chiede la fine degli insediamenti
La politica espansionista di Israele - riferisce l'agenzia AsiaNews - è finita di recente nel mirino del Quartetto per il Medio Oriente, organismo composto da Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione Europea e Russia; in un recente rapporto i vertici del gruppo hanno chiesto a Israele di assumere “provvedimenti urgenti” per fermare l’espansione degli insediamenti nei Territori palestinesi. In risposta, fonti ufficiali israeliane riferiscono che lo stesso Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha autorizzato il piano per la realizzazione di centinaia di alloggi. 

I nuovi insediamenti minano le prospettive della soluzione a due Stati
Dagli ambienti di governo filtra la voce secondo cui sono in preparazione 560 nuovi edifici a Maale Adumim, sobborgo nella periferia di Gerusalemme; a questo si aggiungono 200 unità abitative all’interno della città stessa. Il piano prevede infine la creazione di 600 alloggi nella zona araba di Gerusalemme est. “Se confermato - afferma John Kirby - questo rapporto sarebbe l’ultimo atto di quello che appare un processo sistematico di confisca di terreni, espansione di insediamenti e legalizzazione di avamposti che minano le prospettive della soluzione a due Stati”. Forti critiche giungono anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, che attraverso il portavoce avanza “dubbi legittimi” in merito alle “intenzioni di lungo periodo” di Israele. Egli ricorda le dichiarazioni di alcuni ministri del governo, che parlano in modo aperto di “annessione della Cisgiordania”. 

Il nuovo progetto è un’ulteriore pietra “sulle possibilità di pace"
In una nota Peace Now, associazione che da anni si batte contro l’espansionismo di Israele, sottolinea che il nuovo progetto è un’ulteriore pietra “sulle possibilità di pace e sulla soluzione dei due Stati” e mette in pericolo “la sicurezza” stessa dei cittadini israeliani. “Le nuove unità abitative - prosegue il documento - non impediranno ulteriori vittime, ma rafforzerà l’estremismo su entrambi i fronti”. La vera risposta al terrore “è la fine dell’occupazione e il raggiungimento di un accordo”; nel frattempo i cittadini israeliani continuano a “pagare il prezzo” delle politiche di “estrema destra” volute dall’esecutivo. Critiche giungono infine anche da Yousif al-Mahmoud, portavoce dell’Autorità palestinese, contrario all’approvazione delle 800 nuove unità abitative complessive. Egli lancia un appello alla comunità internazionale, perché prenda provvedimenti urgenti contro l’escalation di Israele. 

Il diritto internazionale considera illegali questi insediamenti
Ad oggi almeno 570mila cittadini israeliani vivono in oltre 100 insediamenti costruiti da Israele a partire dal 1967, data di inizio dell’occupazione dei Territori in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Il diritto internazionale considera illegali questi insediamenti; una posizione contestata dal governo israeliano, che negli ultimi anni ha rafforzato la politica espansionista. I colloqui di pace tra le due parti si sono interrotti nel 2014, scatenando una escalation di violenze nella regione. (R.P.)

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Chiesa Sud Sudan: promuovere dialogo e pace

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I discorsi che incitano all’odio nei confronti degli avversari politici polarizzano il Paese, invece di pacificarlo: così, in sintesi, si è espresso mons. Edward Hiboro, vescovo di Tombura, in Sud Sudan, intervenendo, nei giorni scorsi, ad una trasmissione radiofonica di un’emittente locale.  “Uno dei fattori scatenanti la violenza nel Paese – ha detto il presule – è il modo in cui si scelgono il linguaggio e le parole per comunicare”. Con il risultato che, a volte, “la lingua fa molto più male della pistola”.

No alla divisione, sì alla ricerca del bene comune
Di qui, l’appello alla popolazione ad evitare “il linguaggio della divisione”, promuovendo, al contrario, la lingua “della costruzione”: scevro dalla negatività, dalla provocazione e dalla rabbia, il linguaggio – ha spiegato mons. Hiboro – deve portare alla comunicazione pacifica, non violenta, per il bene di tutto il Paese.

Conflitto nella regione di Wau
Le osservazioni del presule arrivano nel momento in cui, in Sud Sudan, si registra una nuova fiammata di violenza: a fine giugno, infatti, nella regione del Wau, si sono registrati scontri tra le milizie dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese e altri gruppi armati. Secondo fonti locali 40 persone sono state uccise, mentre migliaia si sono date alla fuga per l’instabilità dell’area. Simili tragici episodi, ha commentato il vescovo di Tombura, nascono proprio dalla mancanza di dialogo, perché “quando il dialogo è assente, le persone ricorrono subito alla violenza ed allo scontro”.

Spianare la strada per una nazione stabile
In quest’ottica, il presule ha esortato la Chiesa, le istituzioni e tutta la società civile ad impegnarsi concretamente nel dialogo: “Ogni leader dovrebbe riflettere sul tipo di Paese che si vuole”, per trovare il modo per raggiungere le persone “con la pace” e “spianare la strada per una nazione stabile”, ha concluso.

Cinque anni fa, l’indipendenza da Khartoum
​Intanto, il Sud Sudan si prepara a celebrare il quinto anniversario dell’indipendenza dal Sudan, ottenuta il 9 luglio 2011, in seguito ad un referendum popolare e dopo una lunga guerra civile con Khartoum. Ma il Paese ha affrontato, nel frattempo, un terribile conflitto etnico tra le forze governative del Presidente Kiir, di etnia dinka, ed i fedeli all’ex vice-Presidente Machar, di etnia nuer. Lo scontro, iniziato nel dicembre del 2013 dopo un fallito colpo di Stato ai danni di Kiir, ha costretto oltre 2 milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case. Nei mesi scorsi è stata siglata una tregua tra il governo ed i ribelli, ma gli scontri sono continuati. Secondo dati dell’Unicef, inoltre, circa 16mila bambini sono stati arruolati forzatamente nel conflitto armato. (I.P.)

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Chiesa Argentina: decisione politica contro la tratta di persone

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“Ascolta il rumore delle catene che non si sono ancora spezzate”: si intitola così il comunicato diffuso dalla Commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale argentina, in cui si lancia un forte appello affinché si ponga fine alla tratta di essere umani.

Preoccupazione per i tanti fratelli schiavi
“Nel celebrare il 200.mo anniversario della dichiarazione di indipendenza del nostro Paese – si legge nel testo – esprimiamo soddisfazione per il rafforzamento della democrazia e lo sviluppo delle capacità umane”. Allo stesso tempo, tuttavia, i vescovi si dicono “preoccupati” per “la condizione di schiavitù vissuta da molti fratelli e sorelle, in particolare a causa del traffico di esseri umani”.

Occorre decisione politica ed impegno di tutta la società
Quindi, i presuli ricordano un’omelia pronunciata dall’allora arcivescovo di Buenos Aires  ed esortano i fedeli a “chiedere a Gesù di imparare a prendersi cura per i nostri fratelli schiavi con la tenerezza che si meritano”. Un ulteriore appello la Chiesa argentina lo lancia alle istituzioni ed alla società, chiedendo “una decisione politica dello Stato a tutti i livelli e l'impegno di ogni cittadino per sradicare questo flagello nel Paese, in modo che ogni abitante della nostra terra abbia una vita piena e dignitosa”.

Lavorare in nome della libertà
​Infine, guardando al “volto misericordioso del Padre”, i presuli argentini pregano affinché “si aprano le strade per liberare il popolo schiavo e si curino le famiglie delle vittime e coloro che combattono contro questo flagello”, in nome della “libertà”. (I.P.)

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Cei: 181 progetti caritativi per il Terzo Mondo

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181 progetti approvati per i quali saranno stanziati 15.903.588,10 di euro. È quanto ha deciso il Comitato Cei per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo nell’ultima riunione tenutasi a Roma dal 24 al 25 giugno. I dati, diffusi oggi - riferisce l'agenzia Sir - riguardano progetti in Africa (48 per 6.897.182,10 di euro), America Latina (91 per 2.594.782 di euro), Asia (35 per 3.889.727 di euro), Medio Oriente (5 per 2.453.815 di euro) ed Est Europa (2 per 68.082). 

Finanziati dalla Cei due Centri in Burkina Faso e Rd Congo
“Tra i progetti più interessanti – segnala il Comitato Cei – c’è quello finanziato in Burkina Faso, in collaborazione con la diocesi di Tenkodogò, dove verrà costruito un Centro di formazione professionale con sei aree tematiche. Beneficiari del progetto saranno un migliaio di giovani che seguiranno i corsi biennali programmati”. C’è poi “un progetto finanziato nella Repubblica Democratica del Congo, nella diocesi di Mbujimayi, per aiutare le donne a contrastare la povertà e a prevenire la diffusione dell’Hiv. Si avvieranno due attività: la formazione professionale per la produzione e la commercializzazione del pane e la formazione professionale per l’allevamento dei conigli e la commercializzazione della loro carne”. 

Progetto ecosostenibile per i pescatori in India
Il Comitato Cei ricorda, infine, “il progetto di sviluppo ecosostenibile in India, nella diocesi di Alappuzha, dove, a causa dell’incostanza della quantità di pescato e della crescente meccanizzazione delle tecniche, la comunità di pescatori della zona vede ridurre sempre più l’unica fonte di reddito. Per questo si prevede un investimento sia sulla salvaguardia dell’ambiente che sulla formazione e istruzione degli abitanti”. (R.P.)

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Perù. Plenaria dei vescovi: Messa in carcere e in ospedale

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Carceri ed ospedali: sono questi i luoghi-simbolo dell’opera caritativa della Chiesa in cui la Conferenza episcopale del Perù (Cep) presiederà oggi la Messa inaugurale della 108.a Assemblea Plenaria. Si tratta di un modo, spiegano i presuli in una nota, per “stare vicino ai più bisognosi”, in questo “Giubileo straordinario della misericordia”.

Scelti due istituti penali e due ospedali
In particolare, la Cep ha scelto di celebrare una Santa Messa in due istituti penali - il “Castro Castro” a San Juan de Lurigancho e il Santa Monica de Mujeres a Chorillos – e in due ospedali: l’Istituto nazionale per la salute del bambino, situato a Breña, e il San Camillo di Barrio Altos, a Lima.

Giubileo sia vero incontro con misericordia di Dio
Ricordando, poi, quanto scritto da Papa Francesco nella Lettera con la quale si concede l'indulgenza giubilare, i vescovi auspicano che “la celebrazione dell’Anno Santo sia per tutti i credenti un vero momento di incontro con la misericordia di Dio”, “un’esperienza viva della vicinanza del Padre, quasi a voler toccare con mano la sua tenerezza, perché la fede di ogni credente si rinvigorisca e così la testimonianza diventi sempre più efficace”.

Aiutare i sofferenti 
​Per questo, la Cep ribadisce l’importanza che “anche coloro che soffrono a causa di malattie o perché privati della libertà personale” possano “condividere l’Anno giubilare, vivendo con fede e gioiosa speranza questo momento di prova”. Iniziata oggi, la Plenaria della Cep si concluderà venerdì prossimo, 8 luglio. (I.P.)

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Terra Santa: raccolta fondi sminamento sito del Battesimo di Gesù

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Il progetto di sminamento dell'area di Qasr al-Yahud, che si estende intorno alla riva occidentale del fiume Giordano, all'altezza del luogo che la tradizione identifica come il sito del Battesimo di Gesù, durerà due anni e richiederà l'impiego di risorse finanziarie pari almeno a 4 milioni di dollari. Per questo la Halo Trust, società britannica specializzata a cui sono stati affidati i lavori di bonifica, ha lanciato una sottoscrizione per finanziare il progetto, rivolta in particolare alle Chiese e comunità cristiane sparse in tutto il mondo.

L’area comprende antiche chiese e monasteri
Qasr el-Yahud, a pochi chilometri dalla città di Gerico, si trova nei Territori Palestinesi occupati da Israele nel 1967, proprio sul confine con la Giordania. L’area comprende antiche chiese e monasteri finora ritenuti non sicuri per via delle mine disseminate nella zona al tempo della Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967).

La bonifica permetterà il restauro dei luoghi di culto per i pellegrini
L'area in procinto di essere bonificata si estende su circa 100 ettari. In un primo momento, la fine dei lavori di sminamento era stata preannunciata per la fine del 2016. La bonifica dei campi minati - sottolineano i responsabili della società nei comunicati diffusi per lanciare la sottoscrizione – permetterà ai luoghi di culto presenti nell'area, appartenenti alla Chiesa cattolica, alla Chiesa copta, alla Chiesa siro-ortodossa e a diverse Chiese ortodosse – di essere restaurati per poter ospitare liturgie e offrire cura pastorale alle centinaia di migliaia di pellegrini che potrebbero tornare a visitare il sito.

Celebrare in sicurezza il sacramento del battesimo
A supporto della propria campagna di raccolta fondi, la società specializzata nella rimozione di mine e ordigni bellici inesplosi rende note anche le espressioni di sostegno giunte da alcuni capi di Chiese e comunità cristiane, compreso padre Pierbattista Pizzaballa, già Custode di Terra Santa e da poco nominato Amministratore apostolico sede vacante del Patriarcato latino di Gerusalemme. “Attendiamo il giorno in cui, grazie alla Halo, lì saremo in grado di celebrare in sicurezza il sacramento del battesimo” dice tra l'altro padre Pizzaballa, in una dichiarazione rilasciata quando era ancora Custode di Terra Santa. (G.V.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 188

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.