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Sommario del 08/07/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Sarà Beato Giuseppe Mayr-Nusser: morto per aver obbedito a Gesù e non a Hitler

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Papa Francesco ha ricevuto in udienza il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, autorizzando il Dicastero a promulgare i Decreti riguardanti nove prossimi Beati e 6 nuovi Venerabili Servi di Dio. Il servizio di Sergio Centofanti

Tra i prossimi nuovi Beati c’è la stupenda figura di Giuseppe Mayr-Nusser. Nato nel 1910 a Bolzano in una famiglia di contadini profondamente cristiana, diventa dirigente dell'Azione Cattolica sud-tirolese. Sposato ad appena 22 anni, ha presto un figlio. Va a Messa tutte le mattine. E’ l’epoca in cui in Europa imperversano nazismo e fascismo. Ama leggere Tommaso Moro, il cancelliere inglese che nel 16.mo secolo si oppose per motivi di coscienza a Enrico VIII e preferisce essere decapitato piuttosto che contraddire la propria fede cattolica. Aderisce in segreto ad un movimento antinazista. Oggi  - dice - “dare testimonianza è la nostra unica arma efficace”,  oggi, più che mai, si deve mostrare a tutti che “l’unico capo che solo ha diritto ad una completa, illimitata autorità e ad essere il nostro ‘condottiero’ è Cristo”. Viene arruolato a forza dai nazisti nelle famigerate SS. Scrive alla moglie: “Prega per me, affinché nell’ora della prova io possa agire senza esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza (…) tu sei una donna coraggiosa e nemmeno i sacrifici personali che forse ti saranno chiesti potranno indurti a condannare tuo marito perché ha preferito perdere la vita piuttosto che abbandonare la via del dovere”.  Al momento del giuramento a Hitler si rifiuta. Imprigionato viene spedito su un treno merci verso il campo di concentramento di Dachau. Muore di stenti e maltrattamenti durante il viaggio: aveva 34 anni. Muore perché ha obbedito a Cristo e non al Führer.

Tra i prossimi Beati ci sono anche 7 missionari spagnoli del Sacro Cuore di Gesù, tra cui Antonio Arribas Hortigüela, uccisi in odio alla fede il 29 settembre 1936 durante la guerra civile spagnola: uccisi per il solo fatto di essere religiosi.

Sarà infine Beato anche Luigi Antonio Rosa Ormières, sacerdote francese e Fondatore della Congregazione delle Suore del Santo Angelo Custode, vissuto nel 1800. Grande educatore, la sua azione era diretta soprattutto ai più poveri. Era amato da tutti per la sua semplicità e la sua fiducia nella Provvidenza. Dove c’è la persona – diceva – c’è la Chiesa. La sua passione era quella di "formare veri discepoli di Gesù”.

Diventano Venerabili Servi di Dio:  

Alfonso Gallegos, dell’Ordine degli Agostiniani Recolletti, Vescovo Titolare di Sasabe, Ausiliare di Sacramento; nato il 20 febbraio 1931 e morto il 6 ottobre 1991.

Raffaele Sánchez García, Sacerdote diocesano; nato il 14 giugno 1911 e morto l’8 agosto 1973.

Andrea Filomeno García Acosta, Laico professo dell’Ordine dei Frati Minori; nato il 10 gennaio 1800 e morto il 14 gennaio 1853.

Giuseppe Marchetti, Sacerdote professo della Congregazione dei Missionari di San Carlo; nato il 3 ottobre 1869 e morto il 14 dicembre 1896.

Giacomo Viale, Sacerdote professo dell’Ordine dei Frati Minori, Parroco di Bordighera; nato il 28 febbraio 1830 e morto il 16 aprile 1912.

Maria Pia della Croce (al secolo: Maddalena Notari), Fondatrice della Congregazione delle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia; nata il 2 dicembre 1847 e morta il 1° luglio 1919.

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Vatileaks2. Prosciolti i giornalisti, condanna per mons. Vallejo e Chaouqui

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Dopo 21 udienze e otto mesi si è chiuso il primo grado del processo in Vaticano per appropriazione e divulgazione di documenti riservati. Il Tribunale ha prosciolto i due giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, assolto Nicola Maio e condannati mons. Angel Lucio Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui. Massimiliano Menichetti

E’ il presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano Giuseppe Dalla Torre a leggere il dispositivo per il processo iniziato a fine novembre 2015. I cinque imputati sono attentissimi, Nicola Maio tiene la mani serrate sul viso. Il Tribunale “rileva” “il difetto di giurisdizione”, ovvero non può giudicare, per quanto riguarda gli imputati Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi. La sentenza, perciò, non entra nel merito se ci siano state pressioni o meno da parte dei giornalisti per avere i documenti riservati. I giornalisti sono prosciolti e si lanciano uno sguardo che pesa di emozione. 

Assolto dai capi d’accusa l’ex segretario esecutivo di Cosea, Nicola Maio. La condanna a 18 mesi di carcere è per mons. Angel Lucio Vallejo Balda, ex segretario della Commissione incaricata di studiare e raccogliere dati sugli enti vaticani e della Santa Sede. Secondo i magistrati ha dunque sottratto e consegnato ai giornalisti i documenti riservati. Il prelato resterà in semilibertà entro i confini vaticani. Condannata, per “concorso” Francesca Immacolata Chaouqui a 10 mesi di detenzione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.

“Un grande giorno per questo Stato”, commenta Nuzzi, che dopo la lettura del dispositivo abbraccia il collega Fittipaldi. La stessa cosa fa Maio con il legale che l’ha difeso per otto lunghi mesi. Più defilati Francesca Immacolata Chaouqui e mons. Vallejo Balda. Centrale anche la parte della sentenza relativa alla “libertà di stampa e manifestazione del pensiero” in Vaticano dove si precisa che "sono radicati e garantiti dal Diritto Divino". Per tutti gli imputati è caduta l’accusa di associazione criminosa. L’Ufficio del promotore di Giustizia e gli imputati hanno 3 giorni di tempo per un eventuale ricorso.

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Padre Lombardi: il processo si doveva fare

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Sul processo Vatileaks2 ascoltiamo una nota del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi

Si doveva fare? E’ stato fatto correttamente? Con quali conclusioni? Si doveva fare. Perché c’è una Legge, per di più una Legge recente (2013) e promulgata per contrastare le fughe di notizie. Negli anni recenti è stato sviluppato il sistema giuridico e penale vaticano per renderlo più completo e metterlo all’altezza delle esigenze odierne di contrasto dell’illegalità in diversi campi. Non si possono dichiarare intenzioni e stabilire norme e non essere coerenti nel metterle in pratica, perseguendo chi non osserva le leggi.

Si doveva fare, per dimostrare la volontà di combattere con decisione le manifestazioni e le conseguenze scorrette delle tensioni e polemiche interne vaticane, che da un certo tempo si riflettono troppo frequentemente anche all’esterno tramite indiscrezioni o filtrazioni di documenti ai media, creando un circolo e un contesto ambiguo e negativo di interazioni fra discussioni interne e rilanci esterni tramite le comunicazioni sociali, con conseguenze negative anche nell’opinione pubblica, che ha diritto a una informazione obiettiva e serena. Questa è una “malattia”, come direbbe Papa Francesco, da combattere con determinazione.

Per conoscere e valutare i diversi aspetti di questa situazione era giusto affrontare coraggiosamente anche la dimensione del ruolo e della responsabilità effettiva o meno dei giornalisti nella vicenda, nonostante le prevedibili polemiche a proposito della tutela della libertà di stampa. Questa va certamente tutelata, ma la professione giornalistica può avere anch’essa dei limiti da rispettare se vi sono in concorrenza altri beni importanti da tutelare, ed è giusto verificare se questo è avvenuto o no. Come è stato ribadito più volte, questo non era in alcun modo un processo contro la libertà di stampa.

Anche Benedetto XVI, pur non essendovi ancora la legge attuale, aveva ritenuto giusto che la giustizia “umana” facesse il suo corso nei confronti del suo maggiordomo fino alla sentenza. Analogamente ora, anche se la responsabilità della divulgazione risaliva chiaramente a un ecclesiastico importante, non sarebbe stato giusto usare per questo motivo un trattamento diverso.

Il processo si è fatto con la piena volontà di rispettare le leggi e procedure previste, le esigenze del diritto e della difesa degli imputati. Con giudici e avvocati competenti e con dibattimento pubblico trasparente. Sono state ascoltate testimonianze assai autorevoli, come quella più volte ricordata – nel dibattimento e fuori – del Dr Paolo Mieli. Il tempo complessivo del processo è stato contenuto, anzi breve, se si tiene anche conto dei circa due mesi impiegati per la perizia informatica che era stata richiesta dalla difesa. (Primi arresti 31.10 e 1.11.2015, Rinvio a giudizio 24.11, Udienze in totale 21).

La sentenza è stata formulata dal Collegio giudicante in piena autonomia, con atteggiamento di giustizia e di clemenza insieme, secondo lo spirito del rinnovamento della legislazione penale voluto da Paolo VI nel 1969. Come tutti coloro che hanno seguito il processo hanno facilmente compreso, il dibattimento ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione del giudizio del Collegio, che non si è mosso sulla base di posizioni preconcette, giungendo infine a sentenze di assoluzione di cui non ci si può che rallegrare.

Le motivazioni della sentenza verranno depositate nelle prossime settimane e potranno essere conosciute. Vi sono ora tre giorni di tempo perché gli imputati possano proporre appello.

Ci si augura che, nonostante la tristezza che ogni reato e la conseguente vicenda processuale necessariamente causano, se ne possano trarre le conclusioni e le riflessioni utili per prevenire in futuro il ripetersi di situazioni e vicende simili.

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Mirabelli: un processo accurato che ha fatto chiarezza

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Sulla sentenza del Tribunale vaticano ascoltiamo il commento del prof. Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale italiana, al microfono di Massimiliano Menichetti

R. – Anzitutto il numero delle udienze e la durata del dibattimento mostrano l’accuratezza dell’Istruttoria dibattimentale che è stata sviluppata nel Tribunale e la posizione di apertura o meglio la assicurazione dei diritti di difesa che è stata garantita nel corso del processo. Una sentenza che mostra la ponderazione con la quale si è proceduto e l’ampiezza delle garanzie con le quali si è arrivati a questa decisione.

D. – E’ una stranezza o no il fatto che nel Dispositivo si precisi che durante lo svolgimento processuale si è perfezionata l’Istruzione durante il corso del dibattimento…

R. – Il dibattimento serve proprio perché, nella parità delle armi tra Accusa e Difesa, si accertino i fatti, si raccolgano le prove, il Tribunale possa direttamente averne conoscenza e acquisirle e quindi ponderarle e decidere. Perciò è del tutto fisiologico che sia così. Non sminuisce il ruolo dell’Accusa che, ovviamente, ha una ipotesi dalla quale parte con la indicazione delle prove che ritiene sia necessario acquisire; non sminuisce il ruolo della Difesa che, nel dibattimento, esprime la sua massima forza. Mi pare che vi sia stata una Istruttoria dibattimentale molto accurata: molto accurata! Credo che sarebbe davvero da auspicare che in ogni Ordinamento si proceda con questa ponderazione.

D. – Come primo punto è stato dichiarato il difetto di giurisdizione del Tribunale in relazione ai due giornalisti…

R. – Una sottolineatura che nel Dispositivo vi è, che può apparire anche ultronea, ma che è rilevante, è l’affermazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero e alla libertà di stampa, che anche l’Ordinamento Vaticano tutela e che è anzi un fondamento – si dice – di Diritto divino: questa libertà è un fondamento di Diritto divino. Questo rende giustizia delle varie impostazioni, anche acutamente critiche e talvolta strumentali, che sono apparse su diversi organi di stampa in relazione al processo. Questa affermazione appare ultronea forse rispetto al giudizio, ma è una enunciazione forte da parte di un Organo giurisdizionale, il Tribunale vaticano, per quel che riguarda l’Ordinamento vaticano. Quanto, poi, alla affermazione del difetto di giurisdizione, immagino e ritengo che abbia un riferimento alla non territorialità dei fatti in ipotesi commessi e attribuiti ai due giornalisti. E giacché i due giornalisti non sono pubblici ufficiali dell’Ordinamento vaticano e non sono equiparati ai pubblici ufficiali dell’Ordinamento vaticano, non vi è una ultra-territorialità della giurisdizione vaticana. La giurisdizione vaticana si può esprimere per fatti commessi all’estero da persone che non sono cittadini vaticani o che possono anche essere cittadini vaticani, ma che hanno la qualifica comunque di pubblici ufficiali dell’Ordinamento vaticano: in questo caso la ultra-territorialità e la competenza giurisdizionale dei tribunali vaticani varrebbe.

D. – Due le condanne: l’ex segretario di Cosea, mons. Vallejo Balda e la dott.ssa Chaouqui…

R. – La condanna non è per una associazione criminale, ma è per gli episodi che si sono verificati di sottrazione illegittima e illecita di documenti e diffusione illecita di questi documenti. Perciò, appunto, l’art. 116 bis del Codice Penale, che costituisce una innovazione introdotta nel Codice Penale di base nel 2013. Una innovazione legittima, perché viene sanzionata penalmente una attività illecita costituita dalla sottrazione di documenti riservati e dalla loro illegittima diffusione. E’ questo il reato per il quale Vallejo Balda è stato condannato alla pena di 18 mesi di reclusione e per il concorso dell’altra imputata in questa attività illecita commessa dal principale imputato vi è una condanna anche della stessa ad un pena più tenue, 10 mesi di reclusione: una pena la cui esecuzione rimane sospesa.

D. – Pene più miti rispetto a quelle chieste dal Promotore di Giustizia, dall’Accusa…

R. – Pene più miti rispetto a quelle chieste dal Promotore di Giustizia, anche una valutazione in parte diversa dei fatti. Ma questo è fisiologico nel processo: basta frequentare le aule di giustizia, le aule anche di giustizia italiane, per vedere come assai spesso le pene erogate dall’organo giudicante siano inferiori a quelle richieste dal Pubblico Ministero; qualche volta può accadere anche che le pene erogate siano superiori a quelle richieste dal Pubblico Ministero, in casi – a volte – davvero singolari.

D. – Professore, la libertà di stampa sembra essere entrata in questo procedimento in un modo singolare…

R. – La libertà di stampa non è mai stata oggetto di limitazione, né era una offesa alla libertà di stampa il processo, che riguardava – anche nella prospettiva dell’Accusa – non la pubblicazione di libri, la critica, le informazioni diffuse, ma riguardava la sottrazione illegittima di documenti, sottrazione alla quale – nell’ipotesi dell’Accusa – avrebbero partecipato, concorrendo moralmente ad essa, i due giornalisti. La pubblicazione non era l’oggetto del giudizio, ma la illegittima acquisizione dei documenti. Ci sono state molte posizioni nella stampa, di critica a questo processo, quasi come se fosse un processo diretto a conculcare la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa. Non è stato mai cosi! La decisione lo manifesta: la decisione del Tribunale lo manifesta. Forse un atteggiamento più sereno da parte della stampa – starei quasi per dire più responsabile – sarebbe stato opportuno. Quelle posizioni critiche vengono smentite da questa decisione.

D. – Il processo lancia anche un messaggio. Cosa ci insegna?

R. – Direi questo: anzitutto il processo ha offerto una occasione di chiarezza. Il processo non solo era giustificato, ma si è concluso con una condanna. Perciò i fatti erano illeciti e costituivano il reato, appunto, previsto dalle norme penali, dall’art. 116 bis del Codice Penale Vaticano. In conclusione che cosa si può dire? Un processo molto accurato, che ha fatto chiarezza, che ha distinto le singole posizioni con una sentenza che potrà anche essere impugnata sia dalle parti private, se ritengono non soddisfatte le loro richieste, sia dalla parte pubblica, dal Pubblico Ministero, se ritiene – anche il Pubblico Ministero – che non sia soddisfacente la soluzione data e le motivazioni che saranno offerte dal Tribunale quando la sentenza sarà depositata. Ecco, mi attenderei che all’esito della decisione del Tribunale ci siano commenti di rettifica rispetto alle posizioni che in passato sono state assunte, di critica forte, nei confronti di questo processo, della esistenza di questo processo, mentre c’era solamente da attendere che la decisione ci fosse, come c’è stata ora.

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Lampedusa, 3 anni fa la visita di Francesco. Nicolini: giornata storica

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Oggi, 8 luglio, ricorre il terzo anniversario della visita di Papa Francesco a Lampedusa, che fu meta del suo primo viaggio apostolico. Il Pontefice lanciò in mare una corona di fiori e incontrò alcuni migranti sul Molo a Punta Favarolo, celebrando la Messa nel campo sportivo. Oggi il presidente del Senato Pietro Grasso, in visita sull'isola, ha detto che gli italiani sono fieri dell'accoglienza e delal solidarietà che qui ricevono i profughi. A tre anni dal viaggio del Papa sull’isola che nel Mediterraneo rappresenta la Porta d’Europa, Elvira Ragosta ha intervistato il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini: 

R. – Come sindaco ricordo una giornata che ha segnato la storia della mia isola e che ha segnato anche la politica del Mediterraneo. Non si sarebbe mai vista l’Europa, gli organismi europei, mettere in agenda il tema “immigrazione” se Papa Francesco non fosse arrivato a Lampedusa allora con una emozione enorme, una consapevolezza che, finalmente, le cose sarebbero cambiate. Come persona, è uno dei ricordi più belli che conservo, non solo della mia sindacatura, ma della mia vita.

D. – Cosa è cambiato a Lampedusa in questi tre anni? Il Pontefice parlò di globalizzazione dell’indifferenza, di una società che ha dimenticato l’esperienza di piangere…

R. – Io dico che le cose sono cambiate tantissimo dalla visita di Papa Francesco, anche se di fatto le politiche europee non sono cambiate, le norme non sono cambiate e il regolamento di Dublino non è stato ancora modificato. Quello che, però, ha segnato un cambiamento epocale è avere chiamato i morti, avere trasmesso l’idea che quei morti sepolti in fondo al mare sono persone e avere dato il nome a questo grande cinismo, che caratterizza non solo la politica, ma la vita del nostro tempo.

D. – Tanti i salvataggi anche in questi giorni nel Mediterraneo, ma a Lampedusa com’è la situazione nell’hotspot adesso?

R. – In questo momento noi abbiamo 300 persone qui e direi che Lampedusa ha chiuso la pagina emergenziale che caratterizzava la gestione dell’accoglienza sino a tutto il 2013. Non ci sono più grandi sovraffollamenti del centro, che erano le criticità maggiori. Quando in un centro di 400 posti ci infili mille persone, non puoi mai garantire un’accoglienza umana e dignitosa. Ovviamente un grande aiuto, sia per salvare più vite umane possibili sia per decongestionare Lampedusa, lo danno le navi della Marina, della Guardia Costiera, ma anche delle organizzazioni private. Continuiamo ad accogliere e, soprattutto, siamo il porto più vicino per le situazioni che richiedono immediato soccorso: per le donne, le donne incinte, i bambini, gli ustionati, le persone che stanno male.

D. – I lampedusani sono stati un esempio di accoglienza - lo aveva sottolineato anche Papa Francesco - e tante lezioni di coraggio e di umanità sono state scritte nella sua isola porta d’Europa. Come continua questo impegno dei lampedusani ora che la situazione di emergenza è passata?

R. – Siamo impegnati innanzitutto a far sapere che, appunto, l’emergenza si può governare, si può gestire, e si può continuare a fare turismo e a vivere una vita serena. Se questa esperienza di Lampedusa venisse conosciuta più profondamente da tutti, secondo me sarebbe facile trovare Comuni, sindaci disposti ad accogliere. 

D. – Visti da Lampedusa, come vengono letti i cambiamenti decisi in ambito europeo in questi tre anni dalla fine di Mare Nostrum: dal piano di redistribuzione dei migranti ai muri, che si sono sollevati in alcuni Paesi europei?

R. – A volte con impotenza, a volte con rabbia, a volte con speranza. Il vero tema epocale di questo tempo è quello del Mediterraneo. Quindi che ci sia bisogno di tempo, si comprende, perché ci siano le risposte giuste, lo so, e tutti ne dobbiamo essere consapevoli. Ci sono state fasi come quella dell’approvazione del piano di ricollocamento, che facevano pensare ad un percorso di solidarietà tra gli Stati, e invece poi ci accorgiamo che il piano di ricollocamento non è ancora attuato e che ogni Stato ritiene di potersi chiudere in un’isola. Lo viviamo veramente con straniamento perché mentre Lampedusa cerca di aprirsi al mondo, perché qui abbiamo sofferto di solitudine per tanto tempo e abbiamo compreso che da quando non siamo più soli le cose per noi sono migliorate e stanno migliorando, invece gli Stati, quindi realtà molto più grandi di Lampedusa, non hanno ancora compreso questo e pensano che la soluzione sia diventare isole. Questo ci sembra molto strano e probabilmente c’è ancora bisogno di tempo per comprenderlo.

Tante le organizzazioni non governative impegante nei soccorsi nel Mediterraneo. Ascoltiamo, al microfono di Samuel Bleynie, Giovanna Di Benedetto, portavoce di Save the Children:

R. – Il viaggio del Papa è stato un momento molto importante! Tre anni fa, Lampedusa era il principale punto di approdo in Europa e il messaggio del Papa ha voluto portare un messaggio contro la globalizzazione dell’indifferenza e quindi a favore della solidarietà. Diciamo che – e questo in generale e quindi non a Lampedusa – questa solidarietà si è vista poco, perché noi il Papa lo abbiamo rincontrato tre anni dopo – quest’anno nell’Isola di Lesbo – in una situazione europea in cui sono stati eretti dei muri e in cui le persone sono state allontanate e di certo non sono state aperte le porte. Tre anni fa Lampedusa era il principale punto di approdo in Europa, poi nell’ottobre dello stesso anno ci sono stati due grandissimi naufragi al largo di Lampedusa e da allora è partita l’Operazione “Mare Nostrum”, che è durata un anno, e le successive operazioni italiane ed europee. Il Centro di Lampedusa, quindi, non è stato più l’unico punto o il principale punto in cui arrivassero migranti: ora è uno dei tanti porti in cui arrivano le persone… Diciamo, anzi, che per quasi un anno è stato chiuso il Centro di Lampedusa e il principale punto di approdo è diventato soprattutto la Sicilia Orientale, i porti di Pozzallo, di Augusta, in cui arrivano le navi militari o le navi delle organizzazioni non governative o i mercantili, che portano i migranti che hanno salvato in mare. Quindi da questo punto di vista c’è stato un cambiamento forte: da luogo principale - e tra l’altro luogo simbolo di arrivo e rimane il luogo simbolo – non è più il principale porto di approdo, perché le persone che vengono salvate e soccorse in mare vengono portate nei principali porti della Sicilia, ma anche in Puglia, in Calabria e talvolta anche in Campania e in Sardegna.

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Schönborn: Amoris Laetitia, atto di Magistero colmo di Misericordia

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“L’Amoris Laetitia è un atto del magistero che rende attuale” l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia. E’ quanto afferma il cardinale Christoph Schönborn in una lunga intervista con il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, pubblicata sul numero in uscita oggi del quindicinale dei Gesuiti. L’arcivescovo di Vienna - che aveva presentato il testo dell’Esortazione apostolica post-sinodale durante la conferenza stampa ufficiale, l’8 aprile scorso – sottolinea che con questo documento, nel segno della Misericordia, si superano le categorie nette di “regolare” e “irregolare” nel guardare alle famiglie. L’inclusione, evidenzia, è la parola chiave del documento. Il servizio di Alessandro Gisotti

Amoris Laetitia colpisce per “la sua semplicità e il suo sapore di Vangelo”. Esordisce così il cardinale Christoph Schönborn nella lunga e articolata intervista con padre Antonio Spadaro. Il direttore di Civiltà Cattolica non manca di rivolgere al porporato austriaco le domande “scomode” che sono emerse in alcuni ambienti riguardo all’Esortazione apostolica che ha concluso il cammino dei due Sinodi sulla famiglia. Alcuni, annota il gesuita, hanno parlato di Amoris Laetitia come di un “documento minore”, “senza pieno valore magisteriale”.

Amoris Laetitia, atto di magistero di grande qualità pastorale
Per il cardinale Schönborn, questa osservazione è inaccettabile. E’ evidente, afferma, che “si tratta di una atto di magistero”, è chiaro che il Papa esercita qui “il suo ruolo di pastore, di maestro e di dottore della fede”. E aggiunge che è giusto parlare di “un documento pontificio di grande qualità, di un’autentica lezione di sacra doctrina, che ci riconduce all’attualità della Parola di Dio”. Per l’arcivescovo di Vienna, l’Esortazione è “un atto del magistero che rende attuale nel tempo presente l’insegnamento della Chiesa”. Amoris laetitia, riprende, “è il grande testo di morale che aspettavamo dai tempi del Concilio e che sviluppa le scelte già compiute dal Catechismo della Chiesa Cattolica e dalla Veritatis Splendor” di San Giovanni Paolo II.

Francesco espone la dottrina in maniera dolce, con misericordia
Il porporato austriaco sottolinea che Francesco ha uno sguardo realista sulla situazione delle famiglie ai nostri tempi ma al tempo stesso “non rinuncia all’ideale o al patrimonio dottrinale”. Altro elemento che colpisce, soggiunge, è il linguaggio misericordioso dell’Amoris Laetitia che incarna una “pastorale positiva” tesa ad “esporre la dottrina in maniera dolce, collegandola alle motivazioni profonde delle donne e degli uomini”.

Francesco supera le categorie di regolare e irregolare
Tra le voci critiche, annota il direttore di Civiltà Cattolica, c’è chi ritiene che Amoris Laetitia cada “nell’etica della situazione”, quindi in una “gradualità della legge”. Un’obiezione non ricevibile, per il porporato, perché “dietro a una chiara oggettività del bene e della verità, l’Esortazione evidenzia il progresso nella conoscenza e nell’impegno a compere il bene dell’uomo in via”. In questo “percorso di crescita”, dunque, “sussistono fattori che possono spiegare che è possibile non essere soggettivamente colpevoli, se non rispettiamo oggettivamente una norma”. Il cardinale Schönborn evidenzia inoltre che “il fatto rilevante di questo documento è che esso supera le categorie di regolare e irregolare”, giacché “siamo tutti soggetti al peccato e tutti abbiamo bisogno della misericordia”. Non si tratta affatto, precisa, di “relativismo, ma al contrario” il Papa è “molto chiaro sulla realtà del peccato”, ma “va al di là di questa prospettiva per mettere in pratica il Vangelo: chi tra voi non ha mai peccato scagli la prima pietra”.

Amoris Laetitia fa passo avanti nella direzione di Familiaris Consortio
L’arcivescovo di Vienna si sofferma poi sulla questione dell’accesso ai Sacramenti dei divorziati risposati. Amoris Laetitia, osserva, si colloca a “livello molto concreto della vita di ognuno” e rileva che “un soggetto, pur conoscendo bene la norma può avere grande difficoltà nel comprendere valori insiti nella norma morale o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente”. Già Giovanni Paolo II, in Familiaris Consortio, ribadisce “distingueva alcune situazioni”, “apriva dunque la porta a una comprensione più ampia passando per il discernimento delle differenti situazioni che non sono oggettivamente identiche, e grazie alla considerazione del foro interno”. Francesco ha perciò proseguito nella direzione indicata da Karol Wojtyła “ma facendo un passo in avanti”.

Papa non vuole casistica astratta, coscienza ha ruolo fondamentale
Qualcuno, incalza padre Antonio Spadaro, critica il fatto che il Papa, in questo ambito, si riferisca a “certi casi” senza “farne una sorta di inventario”. Se lo facesse, risponde il cardinale Schönborn, si cadrebbe “nella casistica astratta” e si creerebbe anche “un diritto a ricevere l’Eucaristia in situazione oggettiva di peccato”. Il Papa, invece, ci mette “di fronte all’obbligo per amore della verità, di discernere i casi singoli in foro interno come in foro esterno”. La coscienza assume dunque “un ruolo fondamentale”. L’arcivescovo austriaco conclude la sua conversazione con il direttore di Civiltà Cattolica mettendo l’accento sull’appello alla misericordia di cui è permeato tutto il documento. Un appello che rimanda “all’esigenza di uscire da noi stessi” per incontrare Cristo. Un incontro d’amore che dona gioia, Evangelii Gaudium, ma che “non può avvenire se non andando all’incontro con gli altri”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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9 luglio 1816, bicentenario dell'indipendenza dei Paesi latinoamericani: l'omelia del cardinale Jorge Mario Bergoglio del 12 dicembre 2011, gli articoli di Francesca Cantù, Dario Fertilio e Silvina Perez.

Tibhirine luogo teologico: Alberto Fabio Ambrosio sull'redità dei trappisti assassinati nel 1996.

Quando l'aereo è in volo sembra lento: il cardinale Kurt Kock offre cinque indicazioni per il cammino ecumenico.

Iraq senza pace.

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Oggi in Primo Piano



Dallas: 5 poliziotti uccisi. Obama: attacco feroce e calcolato

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E' finita in strage una manifestazione di protesta, ieri sera a Dallas, contro le uccisioni di afroamericani da parte di poliziotti negli Stati Uniti. Alcuni cecchini, sembra quattro, hanno aperto il fuoco contro la polizia, uccidendo 5 agenti e ferendone 12. Anche 2 civili sono rimasti feriti. Il servizio di Elvira Ragosta: 

A Dallas “c’è stato un attacco feroce, calcolato e spregevole contro le forze dell’ordine”. Così il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, commenta da Varsavia la sparatoria della notte scorsa in Texas e promette giustizia. I cecchini hanno sparato sulla polizia da una postazione elevata. Tre di loro sono stati arrestati, il quarto sarebbe morto dopo uno scontro a fuoco con gli agenti in un garage: aveva minacciato una strage, dicendo di aver piazzato vari ordigni in città. Un testimone ha rivelato ai media statunitensi di aver visto dalla sua camera d’albergo un uomo armato di fucile, scendere da un Suv e dirigersi verso un agente che era a terra per sparargli più volte alla schiena. La riflessione di Gregory Alegi, docente di Storia delle Americhe all’Università  Luiss:

R. - È un evento molto difficile da leggere a caldo e con informazioni incomplete. È forte la tentazione di collegarlo alle vittime nere della polizia delle ultime 48 ore, ma c’è un dato dissonante: buona parte della forza di polizia di Dallas è di colore. Abbiamo visto rispondere alle domande dei cittadini e della stampa, il capo della polizia di Dallas che è nero, per cui non ha molto senso esprimere rabbia o in qualche modo "vendicare" vittime della violenza della polizia uccidendo poliziotti neri.

D. - Il fatto che questa manifestazione e la sparatoria poi accadano in Texas, in una zona in linea d’aria molto vicina al luogo dell’uccisione di JFK ci può dire qualcosa in più, secondo lei?

R. - La vicinanza con il luogo dell’omicidio di Kennedy che in linea d’aria disterà forse 800 metri, non di più, è tra i fatti che mi hanno subito colpito. Ci riporta ad uno Stato dove le armi sono particolarmente diffuse ed è particolarmente diffusa una mentalità violenta: è permesso l’open carry, quindi il trasporto pubblico con la fondina, come nel far west. Quindi sicuramente c’è un uso, un ambiente favorevole. È uno Stato tradizionalmente conservatore in cui queste forme di violenza in qualche modo stupiscono meno. Quello che però non torna è appunto sparare alla polizia nera per protestare contro vittime nere.

D. - Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dice: “Le uccisioni di afroamericani da parte della polizia non sono una questione solo nera o ispanica ma una questione americana” …

R. - Il presidente Obama pone una domanda reale. Il 62 per cento della popolazione statunitense è classificata come caucasica, bianca: solo il 50 percento di vittime della polizia sono bianche. Al contrario la popolazione nera è il 12 per cento, ma il 26 per cento dei morti, quindi uno su quattro, è di colore. È vero che la popolazione di colore ha una maggiore incidenza statistica in termini di criminalità, ma è difficile sfuggire alla fortissima sentazione che nei confronti di neri vi sia una maggiore propensione a tirare il grilletto. Quindi la questione è sicuramente nazionale, è sicuramente un fatto di approccio e di sensibilità delle forze dell’ordine, però tornando a Dallas, buona parte dei poliziotti della città sono neri, quindi c’è anche un aspetto più sottile da vedere, perché i lavori nei settori pubblici negli Stati Uniti hanno una maggior presenza di neri, sono tra l’altro impieghi che hanno storicamente facilitato la nascita di una classe media di colore. Quindi bisogna capire perché se i poliziotti che sparano sono bianchi o neri e perché "vendicare" vittime nere sparando a poliziotti neri.

D. - In base a quanto detto finora, in attesa di capire il collegamento tra i cecchini e il motivo della protesta, possiamo dire che questo episodio resta e resterà circoscritto alla notte scorsa  e al Texas?

R. - Lo speriamo tutti. Sarebbe consolante se fosse così. Però l’incidenza di questi episodi comunque con una connotazione razziale negli ultimi anni è andata aumentando e vediamo la facilità di comunicazione e di auto trasmissione della rabbia fa pensare che invece potrebbe essere un dilagare. Se dovesse prevalere il buonsenso si potrebbe circoscrivere al Texas, ma il governatore del Minnesota ha detto molto chiaramente che la vittima nel suo Stato era vittima della polizia... Non so se i due fatti aiutano a spegnere o a rinfocolare le polemiche. Staremo a vedere.

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Iraq. Attentato contro mausoleo sciita: 35 morti e 60 feriti

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Iraq di nuovo sotto assedio, sale a 35 morti e oltre 60 feriti il bilancio del duplice attentato avvenuto questa notte a Nord di Baghdad ad opera di miliziani armati contro un mausoleo sciita. L’attacco è stato compiuto da due diversi comandi, il primo ha colpito l’ingresso del recinto sacro ed il secondo ha agito all’interno sparando su guardie e civili. Il sedicente Stato Islamico ha rivendicato l’attentato che si è compito a distanza di soli pochi giorni dall’ultimo feroce attacco a Baghdad, in un quartiere prevalentemente sciita, che ha visto la morte di oltre 290 persone e 200 feriti. Purtroppo il conflitto storico tra sciiti e sunniti potrebbe essere una delle motivazioni principali di questi ultimi eventi sanguinari. Poco più di una settimana fa il governo di Baghdad, in prevalenza sciita, ha ripreso il controllo di Falluja, roccaforte dei sunniti e dell’Is. La guerra contro l'Occidente e i conseguenti attacchi terroristici potrebbero essere solo parte di un conflitto ben più strutturato che ha origine pregresse. Gioia Tagliente ne ha parlato con Massimo Campanini orientalista e studioso delle culture islamiche:  

R. – Il conflitto fra sunniti e sciiti è una motivazione esteriore: credo che l’Is o chi per esso abbia essenzialmente intenzione di destabilizzare ulteriormente un Paese già fragile, che rimane in piedi così surrettiziamente. Quindi è chiaro che si cerca di scatenare le ire e le rivalità interne tra le varie comunità.

D. – Come nasce il conflitto tra sciiti e sunniti?

R. – E’ una realtà moderna, perché sunniti e sciiti hanno convissuto insieme per secoli. Il problema si è presentato quanto si sono opposte le duplici tendenze egemoniche dell’Iran, da parte sciita, e dell’Arabia Saudita, da parte sunnita. Queste tendenze egemoniche si sono, quindi, scontrate e hanno consentito la strumentalizzazione dell’opposizione dogmatica, dottrinale tra le due correnti.

D. – Quali sono le motivazioni di questo scontro?

R. – All’interno dell’Iraq sono motivazioni che riguardano il desiderio, secondo me, di destabilizzare il regime interno. Le differenziazioni dottrinali tra sunniti e sciiti sono molto profonde, però non sono state per secoli motivazione di scontro a livello di guerra religiosa. Gli scontri tra sunniti e sciiti sono sempre stati – quando ci sono stati – politici. Ancora oggi hanno una valenza e un significato politico. Ripeto: quello interno all’Iraq da parte degli attentatori è destabilizzare un regime e uno Stato fragile che si regge precariamente; per quanto riguarda il quadro internazionale, tutto deve essere letto nell’ottica della lotta egemonica tra l’Iran che è sciita, e l’Arabia Saudita che è sunnita.

D. – L’Is e la guerra religiosa contro l’Occidente è solo la punta dell’iceberg?

R. – Non bisogna enfatizzarne il carattere religioso. I cristiani sono convissuti per secoli in Medio Oriente insieme ai sunniti, insieme agli sciiti: non c’è mai stata una guerra dichiarata contro i cristiani in quanto tali. Quello che avviene adesso è un motivo e una questione politica che viene utilizzata in chiave settaria, ovviamente in obbedienza a questi profili, a questi scopi, a questi obiettivi di carattere egemonico o destabilizzante, ma non è una questione che deve essere letta come una guerra di religione: è una guerra politica. C’è una strumentalizzazione della religione a fini politici: che coinvolga i sunniti, gli sciiti o i cristiani, il discorso è sempre quello.

D. – Ipotizza una fine di questo conflitto?

R. – A mio avviso a breve termine no! Per quanto riguarda il conflitto iracheno è chiaro che una vera e propria soluzione può venire soltanto da una federalizzazione dello Stato e chiaramente da una eliminazione dell’Is e delle organizzazioni estremiste che operano in questi Stati disgregati, come l’Iraq o la Siria. Bisogna risolvere il nodo dell’Is. Dal punto di vista militare, se ci fosse una volontà politica delle potenze occidentali, compresa la Russia, sarebbe facilmente raggiungibile. Il problema è che bisogna che ci sia appunto una volontà politica.

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Economia: la Brexit aumenta l'incertezza nei mercati

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Continuano le ripercussioni della Brexit sull’economia internazionale. La Commissione Europea ha condannato il deficit di Spagna e Portogallo ma ha suggerito di non comminare nessuna multa per l’incertezza dei mercati. La Fed, la Banca centrale americana, ha preso tempo per decidere i nuovi tassi d’interesse, mentre crollano i consumi dei cittadini britannici, ai minimi da 21 anni. Sulle ragioni di questi comportamenti dopo l’uscita del Regno Unito dall’Euro, Michele Raviart ha intervistato Carlo Altomonte, docente di politica economica europea alla Bocconi di Milano: 

R. – In un contesto come quello di quest’anno dove permane una forte incertezza legata sia alle sorti dell’economia cinese sia alla struttura futura del ciclo americano, il tema Brexit lascia dubbi sulla capacità di reazione europea. Per cui sicuramente ha un impatto negativo globale. Di per sé non è un elemento tale da invertire le sorti del mondo, ma in questo contesto aggiunge sicuramente incertezza.

D. - Si invoca la ragione della Brexit anche, per esempio, su una decisone che ha preso la Commissione europea che ha constatato il deficit per la Spagna e per il Portogallo, ma ha anche suggerito di non comminare nessuna multa …

R. - Il Regno Unito ha un impatto relativamente limitato con l’integrazione sul resto dell’Unione Europea. Per un’economia come quella italiana o spagnola o francese conta molto di più cosa fa la Cina e cosa fanno gli Stati Uniti; però in questo contesto di elevata incertezza una decisione troppo rigida sul fronte del deficit avrebbe potuto anche spaventare i mercati finanziari e quindi creare ulteriori tensioni sul fronte degli spread e comunque della stabilità macroeconomica complessiva.

D. - Dall’altro lato dell’Oceano, la Fed ha detto di attendere per decidere i nuovi tassi di interesse. Che cosa significa la Brexit per gli Stati Uniti?

R. - Siccome è un aumento del tasso di interesse da parte della Fed sarebbe stato comunque visto da parte degli investitori come un ulteriore fattore di stress, in questo momento gli Stati Uniti e la Fed hanno deciso di restare alla finestra, di consentire ai mercati di digerire con calma il tema Brexit ritenendo che almeno per il mese di giugno non ci sarebbe stato nessun aumento dei tassi. C’è una possibilità a luglio, che però diventa un po’ più remota, perché comunque ci sono gli effetti di trascinamento ancora della situazione di incertezza economica sui mercati finanziari e perché comunque i dati del mercato del lavoro americani negli ultimi quattro o cinque mesi sono stati positivi, ma non brillantissimi. Praticamente vedremo una Fed ancora alla finestra nell’attesa che si plachino un po’ le acque sui mercati finanziari.

D. - Il Regno Unito in questo momento sta registrando il più grosso calo di consumi da molti anni a questa parte. Si può dire che almeno in questo breve periodo la Brexit stia nuocendo principalmente proprio al Regno Unito?

R. - La Brexit in questo momento ha nuociuto al Regno Unito e anche agli altri Paesi europei attraverso i canali dei mercati finanziari. Pensiamo a tutte le tensioni sulle banche italiane che sostanzialmente hanno fatto venire fuori un problema latente da tempo. La mia sensazione è che purtroppo il Regno Unito sia solo all’inizio dei suoi problemi, nel senso che aldilà del crollo dei consumi e degli investimenti è uno Paesi più indebitati d’Europa sia con l’estero sia a un livello di indebitamento privato. Sganciarsi da un’oasi di stabilità - se vogliamo finanziaria - per avventurarsi da soli nel mare dei mercati con i fondamentali del Regno Unito secondo me è da pazzi. Però l’hanno fatto. Adesso ne subiranno le conseguenze.

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Italia, tasso natalità più basso nell'Ue: giovani non sono priorità

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Lo scorso anno l'Italia è stato il Paese con il tasso di natalità più basso tra quelli dell'Ue. Lo scorso anno le nascite sono state quasi 486 mila contro le 801 mila della Francia, le 777 mila del Regno Unito e le 738 mila della Germania. Lo ha reso noto Eurostat. A guidare la classifica dei Paesi con il maggior tasso di natalità è l'Irlanda. In fondo alla graduatoria, prima dell'Italia, compaiono invece il Portogallo e la Grecia. Alessandro Guarasci ha sentito il presidente del Centro Internazionale Studi Famiglia Francesco Belletti: 

R. – È come se ci fosse un’alleanza perversa tra i due livelli: da un lato, il clima culturale sembra proprio penalizzare i giovani che vogliono metter su famiglia e accogliere la vita; e, dall’altro lato, non c’è nessun segnale della società che dice che un figlio è un patrimonio di tutti; genera il futuro del Paese; e quindi bisogna sostenere le famiglie. Invece, a parte qualche bonus un po’ estemporaneo, guardando alle politiche, sembra veramente che le nuove generazioni siano un fastidio per questo Paese.

D. – Soprattutto in Italia, le politiche di sostegno sono più sbilanciate, secondo lei, sulla terza età? E soprattutto, non si rischia poi di alimentare un conflitto generazionale?

R. – Di fatto, esiste un oggettivo squilibrio, perché il pro-capite destinato alla terza età rispetto alla prima infanzia è assolutamente sbilanciato a favore degli anziani. Questi ultimi, d’altra parte, sono tuttora una risorsa del Paese, che hanno anche costruito. Quindi, il riequilibrio è evidentemente difficile; ma il vero problema è che, in assenza di un welfare intergenerazionale pubblico, sono le famiglie a dare il sostegno: le nuove generazioni sono sostenute da quegli anziani, che ricevono, all’interno della propria famiglia, un maggiore beneficio di welfare. Tuttavia, anziché farlo fare alle famiglie, sarebbe però più equo se lo facesse lo Stato. Bisognerebbe spostare almeno un punto del Pil a favore delle nuove generazioni e dell’evento nascita. E per far questo ci vuole una strategia di lungo periodo: una giovane coppia ha bisogno di sapere che per 25 anni verrà sostenuta e accompagnata dai servizi, dalla scuola, dal fisco: un po’ da tutto. Però questo segnale manca: se si ascolta la politica oggi, si vede che le nuove generazioni non sono la priorità del Paese.

D. – Eurostat ci dice che a livello continentale la popolazione è cresciuta, se pur di poco; ma questo è dovuto comunque agli immigrati. Si fa ancora fatica a capire il valore che gli immigrati portano nelle società europee, secondo lei?

R. – Sì, purtroppo la tentazione della chiusura e dell’isolazionismo è molto forte e ciò anche in popoli che si pensavano molto accoglienti. Noi stessi, in questi 20 anni, come Italia, abbiamo fatto i conti con un atteggiamento di chiusura che non pensavamo di avere. Abbiamo sempre pensato di essere un Paese accogliente; ma quando si tratta di dividere piazze, scuole e servizi, siamo molto più corporativi ed egoisti di quanto pensiamo. Questa è una grande sfida culturale, perché nessuna parte del mondo può pensarsi isolata dalle altre e le migrazioni sono un movimento talmente potente che nessuno può chiamarsene fuori. Quindi si tratta di essere realistici: prima ancora di muoversi per motivi morali – che pure sono fondamentali – bisogna pensare che, o ci si pensa in interculturalità – in una società mista ­– oppure non si pensa al proprio futuro. È un po’ come la questione dei figli: il futuro di questo Paese sarà a mille colori e con giovani; ma se non li facciamo e se non accogliamo la gente che scappa da guerre, povertà ed estrema miseria, allora facciamo solo finta di costruire il futuro. Invece ci difendiamo, ma non avremo futuro. 

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Ddl su cannabis, Ceis: si crea esercito di tossicodipendenti

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In Italia, approderà il 25 luglio alla Camera una proposta di legge per la legalizzazione della cannabis. I favorevoli sostengono, tra l’altro, che sarà un passo in avanti nella lotta contro la criminalità organizzata. Per i contrari, invece, le ripercussioni saranno gravissime. Amedeo Lomonaco ha intervistato Roberto Mineo, presidente del Ceis (Centro Italiano di Solidarietà di don Mario Picchi), che ieri ha presentato alla Camera dei deputati la propria relazione su questo disegno di legge: 

R. – Credo, senza ombra di dubbio, che l’impatto sarà veramente devastante: vuol dire, semplicemente, che possiamo autorizzare milioni di cittadini a fare uso legale di una sostanza stupefacente, che non può più essere considerata una droga cosiddetta leggera – come si diceva negli anni Ottanta – in quanto è stata modificata a livello genetico. Noi siamo preoccupati in relazione proprio alla salute dei nostri giovani. Mi fa specie, poi, che anche gli adulti possano farne uso a livello legale: immagino un conduttore di mezzi pubblici, un pilota di aerei o un chirurgo che possa fare uso di questa sostanza prima di intraprendere la sua professione…

D. – Se questa proposta di legge completerà il proprio iter, quali saranno le ripercussioni per il Sistema Sanitario Nazionale Italiano?

R. – Saranno devastanti! Ci troveremo di fronte ad un problema sanitario e sociale veramente grande, che non potrà essere controllato. Il costo sociale sarà elevatissimo, veramente elevato!

D. – Per quanti sono favorevoli a questo disegno di legge, la legalizzazione della cannabis sarà un passo in avanti nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata. Ma un mercato legale, in questo ambito, può realmente contrastare traffici e attività illegali?

R. – Non ci sarà assolutamente una riduzione della criminalità organizzata. Questo ce lo ha insegnato anche il gioco d’azzardo: legalizzando il gioco d’azzardo, la criminalità organizzata ha moltiplicato le sue entrate. Noi abbiamo portato in Parlamento anche la relazione che concerne la legalizzazione avvenuta nello Stato del Colorado. Sono aumentati gli incidenti stradali, sono aumentate le malattie psicotiche e sono aumentate, ovviamente, tutte le malattie che riguardano l’apparato circolatorio…

D. – C’è anche chi sostiene che la cannabis possa avere un uso terapeutico…

R. – Mi sembra assurdo proporre un prodotto terapeutico al pari di una sigaretta. Non si può pretendere di dare ad un malato, con qualsiasi tipo di patologia, una medicina sotto forma di sigaretta. Questo vuol dire produrre dei danni alla stessa stregua di quello che può provocare il fumo: cancro ai polmoni, problematiche patologiche per le vie respiratorie… E’ assurdo questo!

D. – Si stima che 13 milioni di italiani abbiano provato la marijuana e che il mercato della cannabis, in Italia, ammonti ad oltre 12 miliardi di euro l’anno. Qual è la proposta del Ceis per una politica di contrasto seria contro questo fenomeno?

R. – La politica di contrasto per ogni forma di dipendenza è una politica che prevede prevenzione e informazione. Occorre prevenzione nelle scuole e nelle famiglie: non si sa più niente e specialmente i nostri giovani sono alla sbando, non hanno informazioni. Le istituzioni sono sorde su questo versante. Non esiste, al momento, una campagna reale ed efficace per contrastare queste patologie gravi. Chi ci rimettere sono i nostri giovani. Non possiamo creare – facendo una legge – un altro esercito di tossicodipendenti.

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Presentato il Giffoni, il festival cinematografico dei ragazzi

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E’ stato presentato a Roma il 46° Giffoni Experience, il Festival per i bambini e i giovani che saranno ospiti ancora una volta nella cittadina campana in provincia di Salerno dal 15 al 24 luglio per condividere un’esperienza umana e di cinema unica e inimitabile. Il servizio di Luca Pellegrini: 

Torna Giffoni con i suoi giovanissimi giurati, provenienti da 51 paesi del mondo, tornano i film, che sono 175, torna l’entusiasmo e una delle più belle esperienze di cinema e di cultura che insegnano a condividere e ad assumere un atteggiamento maturo e critico in una delle fasi più delicate della crescita. Giffoni è una esperienza unica. Ogni hanno ci sono novità che Claudio Gubitosi, ideatore e direttore del Festival, annuncia con orgoglio. Gli abbiamo chiesto quali sono quelle del 2016:

R. – La novità è che Giffoni si fa, è vivo, è in salute, è in crescita e che abbiamo dovuto costruire altri cinema, perché c’è stata una richiesta enorme da parte dei ragazzi. Pensate che siamo arrivati a 4150 giurati. Parlare di novità è sempre particolare per Giffoni, perché l’impostazione dell’evento culturale sta lì, è forte quest’anno. La complessità del progetto di Giffoni è che è composto da tanti programmi. Certo, quello di luglio è la parte più visibile, la parte più forte, quella storica. Siamo arrivati a 46 anni. La domanda la prendo come uno spunto, perché la novità è proprio il fatto che un’idea che ha 46 anni non è ancora nata. Nel senso che è talmente forte ed attraente, che mette a dura prova tutto quello che è la nostra organizzazione. Avremo momenti importanti dove i ragazzi e le famiglie potranno ritrovare un loro modo di amarsi e pure di conoscersi. Abbiamo costruito un cinema tutto per le famiglie. Questa è una scelta di politica culturale. Ho voluto dare un grande segno ai giovani del cinema italiano, a quelli noti e a quelli non noti. Quindi tanto cinema italiano, senza escludere ovviamente i talenti internazionali.

D. - Quest’anno Giffoni sceglie un tema che è in sé un obiettivo: “Destinazione”. Ce lo vuole spiegare?

R. – Guardi, è un tema aperto. Cosa succede ad un ragazzo a Giffoni? Si conosce, si mette a nudo, si guarda allo specchio, accetta la propria personalità, accetta la propria identità e anche la propria diversità. E’ in quel momento che Giffoni dà l’opportunità di creare, come quest’anno farà, la destinazione di ognuno di noi o le varie destinazioni. La cosa importante è che si parte sempre da un punto per arrivare alle destinazioni. Ma non è solo questo: immaginate quelli che invece scelgono l’Italia e l’Europa per vivere e invece muoiono. C’è tutto un lavoro quindi che faremo durante questo evento. C’è un’Europa in grande movimento. Questo è un interrogativo che si debbono porre tutti. Noi da Giffoni facciamo solo provocazioni. Ed io sono sicuro che i ragazzi che hanno scelto questo tema, sapranno viverlo nel migliore dei modi e forse, perché no, diranno anche a noi quali destinazioni poi prendere.

D. - Lei Gubitosi compie quest’anno 65 anni d’età: 46 li ha passati dedicandosi al Festival che ha creato. Che cosa significa per lei avere raggiunto questa meta?

R. – Di avere fatto una cosa che ha lasciato il segno nel tempo, ma che si è auto rinnovata anno per anno e che il tempo non ha corroso, anzi non ha toccato. E il fatto che ci siano decine di migliaia di bambini che non conoscono Giffoni, ma che vogliono venire, lo dice chiaramente. Quindi avere investito la mia vita in questa idea e aver reso famoso Giffoni; avere investito la mia vita nel mio Paese, in questa idea, e nello stesso tempo, avere intuito che il mondo cambiava e che si doveva stare al passo con i tempi, con i ragazzi, e quindi fare quello che loro volevano e non quello che tu desideravi. Quando arriveremo a regime, i ragazzi saranno felici di lavorare e avranno una casa: Giffoni.

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Nella Chiesa e nel mondo



Crisi in Venezuela, vescovi: repressione non conduce alla pace

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“Il sistema che ci governa è già esaurito e gli attuali governanti dimostrano la loro incapacità di risolvere gli urgenti problemi” del Venezuela. Con queste parole, il presidente dell’episcopato venezuelano, mons. Diego Padrón, ha iniziato il capitolo dedicato alla realtà nazionale durante il discorso di apertura, ieri, della 106.ma Assemblea Plenaria della locale Conferenza episcopale. Il Paese è in balia di una crisi politica ed economica che negli ultimi mesi è precipitata in una grave emergenza umanitaria. L’incapacità del governo di provvedere ad alimenti e medicine per la popolazione e la forte repressione delle forze di sicurezza contro le proteste dei cittadini sono state indicate dal presule come chiari segni della palese mancanza di volontà di dialogo da parte delle autorità e del rischio di un’imminente esplosione sociale.

È urgente permettere l’ingresso di medicine
Nuovamente, il presidente dell’episcopato si è fatto portavoce dell’accorato appello dei vescovi venezuelani affinché il governo permetta l’ingresso di medicine nel Paese. Ripetutamente, in questi ultimi mesi, la Conferenza episcopale ha chiesto all’esecutivo di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari, specificamente medicine e presidi sanitari. La carenza di medicinali negli scaffali delle farmacie, negli ospedali e nei centri sanitari pubblici e privati raggiunge il 90 per cento, secondo dati delle federazioni nazionali dei farmacisti e dei medici. “La capillarità di Caritas Venezuela e la cooperazione di istituzioni private - ha detto mons. Padrón - ci pone in grado di ricevere e di distribuire adeguatamente le tantissime offerte di donazioni che riceviamo dall'estero”. “Sappiamo che questa non è la soluzione - ha aggiunto il presule - ma è un palliativo che non dovrebbe tardare ancora”.

Ingovernabilità: disperazione e rabbia della gente
Per iniziare l’analisi della situazione politica, il presidente dell’episcopato ha affermato che “gli interessi del governo non sono gli interessi del Paese, della sua gente e delle sue istituzioni”. “L’ingovernabilità - ha aggiunto - insieme alla brutale repressione e alla carenza di risposte serie e stabili che superino l’improvvisazione e la provvisorietà provocano la percezione generalizzata che la crisi globale si acutizza e si prolunga senza limiti”. Il presule ha ricordato la rivolta sociale del febbraio 1989, conosciuta come il ”Caracazo”, durante la quale orde di persone assaltavano negozi e distruggevano strutture pubbliche in segno di protesta per gli aumenti dei costi dei biglietti dei trasporti pubblici, come conseguenza di una crisi che oramai è considerata insignificata davanti alla depauperata situazione attuale del Paese. Mons. Padrón ha riferito che le città di Cumana e di Tucupita - dove ci sono state forti proteste - hanno sperimentato gli effetti di politiche economiche e sociali sbagliate e dell’indolenza delle autorità. “La percezione generale - ha detto - è di grande incertezza, disperazione, depressione, rabbia e violenza sociale”.

Non permettere l'ingresso di aiuti umanitari è rifiutare il dialogo e la pace
Mons. Padrón ha poi affermato che un governo che non è riuscito ad abbattere la presunta “guerra economica” - della quale dice di essere vittima - né a fornire alimenti e medicine alla popolazione e che addirittura “non permette che le istituzioni religiose o sociali possano ricevere aiuti umanitari per alleviare le sofferenze e il dolore della gente, manca dell’autorità morale necessaria per invocare il dialogo e la pace”. Il presidente dell’episcopato ha ribadito che il governo, in diciassette anni, nonostante le ingenti risorse, non è riuscito a controllare e dominare la delinquenza, né a garantire la pace e la tranquillità dei cittadini. “La repressione, da sola, non è la via che ci condurrà alla pace”, ha aggiunto.

Un dialogo politico senza  mete concrete è inutile
Mons. Padrón ha insistito sulla necessità di un dialogo, tuttavia ha avvertito che esso deve iniziare con il riconoscimento, da parte del governo, della gravità della situazione in tutti gli ambiti della vita nazionale e la dimostrazione della volontà di cambiamento. “L’incremento del potere militare - ha aggiunto - non risolverà i problemi etici e sociali”. “La smania di potere e la voglia di rimanervi non giustifica qualunque azione né qualunque politica”, ha affermato mons. Padrón, per spiegare che i venezuelani sono davanti ad un bivio morale, perché “non è possibile accettare che la vita umana ceda il posto alla divinizzazione dell’ideologia politica”.

La democrazia è demolita, il referendum è la soluzione
Di fronte a questa situazione, il presidente dell’episcopato ha ricordato che sta al popolo, come detentore primario del potere, decidere la propria sorte. “Consultarlo ed eseguire la  sua volontà è un imperativo morale che non può essere sovrastato da alcuna autorità, ha aggiunto il presule affermando pure che il “referendum per la revoca del mandato presidenziale del presidente Maduro è iniziato già il 6 dicembre scorso”, quando le elezioni legislative sono state vinte dall’opposizione.  Mons. Padrón ha poi detto che “la democrazia in Venezuela è stata spezzata” perché chi ha l’obbligo di ascoltare e dialogare con tutti i settori della società non lo sta facendo, anzi tende ad eliminare ed ignorare tale dovere.

Noi vescovi non siamo profeti del disastro
A conclusione del suo discorso alla Plenaria dell’episcopato, l’arcivescovo di Cumaná ha richiamato il governo e l’opposizione ad evitare che la vita dei venezuelani continui a deteriorarsi, cercando di non cadere in una spirale di odio e di morte, quando ancora esistono dei meccanismi costituzionali che offrono una via di uscita legittima dalla crisi. “Noi non siamo profeti del disastro, ma pastori e profeti della speranza”.  Insieme a tutti i vescovi,  mons. Padrón ha esortato i fedeli a vivere questo Anno della Misericordia nel segno dell’incontro, del perdono e della riconciliazione. Infine, la preghiera al Padre misericordioso ed alla protezione della Madonna di Coromoto, patrona del Venezuela, perché il popolo venezuelano possa uscire da questa crisi e trovi una strada pacifica e democratica. (A cura di Alina Tufani)

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Vescovi Usa: non si calpesti la legge sulla libertà di coscienza

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Attuare immediatamente la legge sulla libertà di coscienza (Hr 4828): è quanto chiedono al governo degli Stati Uniti i vescovi del Paese. In una lettera aperta, a firma del card. Timothy Dolan e di mons. William Lori, presidenti – rispettivamente – dei Comitati episcopali Pro-Vita e per la Libertà religiosa, i presuli sottolineano l’importanza di garantire a tutti gli operatori sanitari di continuare a lavorare “senza essere costretti dal governo” a praticare aborti, ovvero “a distruggere bambini innocenti non ancora nati”.

La casistica dei singoli Stati
In particolare, la Chiesa Usa sottolinea una contraddizione: mentre le leggi federali già esistenti tutelano l’obiezione di coscienza all’aborto, nella pratica dei singoli Stati ciò non avviene. In California o a New York, ad esempio, tutti gli enti sanitari devono offrire una copertura assicurativa per l’aborto, “perché le compagnie di assicurazioni non hanno obiezioni morali e religiose al riguardo”. O ancora: nello Stato di Washington la Corte Suprema ha stabilito che gli ospedali pubblici che offrono assistenza per i casi di maternità debbano offrire anche la possibilità di abortire. E “questa politica – sottolineano i vescovi – va applicata anche se l’ospedale pubblico viene acquisito da un ente cattolico”, “in violazione dei principi religiosi della Chiesa”.

Diritto alla vita ed alla libertà, elementi fondanti di una nazione
Si tratta di “azioni inquietanti”, che “costringono gli operatori sanitari a partecipare alla distruzione della vita umana”, scrivono il card. Dolan e mons. Lori. Per questo, “occorre porvi immediatamente rimedio”. Di qui, il richiamo dei presuli al “rispetto per coloro che non desiderano partecipare ad una interruzione volontaria di gravidanza” e il forte appello a “sostenere il diritto alla vita ed alla libertà, elementi fondamentali dell’esistenza della nazione”. (I.P.)

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Vescovi Ghana: attacchi a magistrati minacciano libertà e sicurezza

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“Qualsiasi attacco alla magistratura, custode della legge, è un attacco alla libertà ed alla sicurezza del Paese”: così, in una nota, la Conferenza episcopale del Ghana (Ceg) commenta la notizia di minacce ai membri della magistratura locale, avanzate da due relatori ospiti di una trasmissione dell’emittente radiofonica “Montie Fm”, con sede ad Accra.

Non sottovalutare la portata di simili episodi
“Sono notizie che ci preoccupano molto – affermano i presuli – Siamo del parere che queste presunte minacce rappresentino una questione molto seria che non dovrebbe essere sottovalutata”. Di qui, l’esortazione agli inquirenti affinché adottino “provvedimenti” per avviare le indagini sui possibili colpevoli e garantire, a tutti i cittadini, le giuste tutele istituzionali.

I media devono aiutare lo sviluppo del Paese
Inoltre, in vista delle elezioni generali previste entro la fine dell’anno, la Ceg sottolinea come simili episodi finiscano per “surriscaldare il clima politico nel Paese”. Al contrario – ribadiscono i presuli - “i programmi radiofonici dovrebbero riflettere sulle questioni che possono portare allo sviluppo del Ghana”. Di qui, l’appello ai direttori delle testate nazionali affinché “siano prudenti nella scelta degli ospiti per i loro programmi giornalistici”.

Promuovere armonia e pace
Un’altra esortazione viene rivolta a tutti i cittadini, perché “imparino a pronunciare parole che portano armonia e pace”: “Senza la pace e l’unità – concludono infatti i vescovi ghanesi – il Paese non può andare avanti nella giusta direzione”. (I.P.)

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Chiese cristiane d'Europa contro l'anti-gipsismo

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La Commissione delle Chiese per i migranti in Europa (Ccme), organismo della Conferenza delle Chiese europee (Cec/Kek), è entrata, il 6 luglio, a far parte dell’Alleanza contro l’anti-gipsismo. Si tratta di coalizione di una settantina di organizzazioni nata per promuovere i diritti dei Rom, Sinti, Itineranti e tutti quei gruppi comunemente stigmatizzati come “zingari” (gipsies, in inglese) e per sensibilizzare le istituzioni europee sulle discriminazioni di cui sono vittime. La Conferenza delle Chiese europee e un'associazione ecumenica fondata nel 1959. Ne fanno parte oltre 120 Chiese e comunità cristiane protestanti, ortodosse, anglicane e vetero-cattoliche.

L’anti-gipsismo un termine impiegato oggi in senso troppo restrittivo
A questo scopo essa ha appena pubblicato sul sito http://antigypsyism.eu, un documento di riferimento che propone una definizione più precisa di questo nuovo termine. Anche se comincia ad essere riconosciuto a livello istituzionale, non esiste ancora, infatti, un’interpretazione comune del suo significato. Esso è  spesso impiegato oggi in senso restrittivo per indicare atteggiamenti ostili ai rom o l’espressione di stereotipi negativi oppure discorsi di odio razziale. In realtà  - si sottolinea – si riferisce ad una ben più vasta gamma di pratiche discriminatorie molto più subdole. Solo la piena comprensione del fenomeno - si sottolinea - permetterà di elaborare politiche per contrastarlo. 

Un fenomeno diffuso
Il documento ne indica quindi alcune caratteristiche chiave, i suoi diversi aspetti e le sue molteplici manifestazioni che richiedono approcci specifici. Tre, in particolare, i punti sui quali viene richiamata l’attenzione delle istituzioni europee. Il primo è che l’anti-gipsismo non è fenomeno minoritario, ma un atteggiamento diffuso in Europa, che ha le sue origini nel mondo in cui la maggioranza della società considera e tratta quelli che definisce “zingari”. Occorre quindi concentrare l’attenzione su tale maggioranza e fare sentire la voce delle vittime di questo stigma sociale.

L’anti-gipsismo: una forma di razzismo “diverso” accettata dalla società
In secondo luogo, è necessario rimettere in discussione l’opinione diffusa secondo la quale l’anti-gipsismo sarebbe la conseguenza della povertà e del particolare stile di vita dei rom. Il rapporto di causa-effetto – si sottolinea - va invertito: è l’anti-gipsismo che alimenta la loro povertà e segregazione. Di qui la necessità di politiche di promozione sociale mirate che non si limitino all’assegnazione di case e alla scolarizzazione dei bambini nomadi. Infine, il documento evidenzia come quello che distingue l’anti-gipsismo da altre forme di razzismo sia la sua generale accettazione sociale: le discriminazioni verso i rom sono “troppo spesso ritenute legittime e giustificabili”. La sua ampia diffusione e radicamento nella mentalità comune – conclude il documento - rende ancora più urgente e difficile sradicarlo. (L.Z.)

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Giappone. Vescovi: egoismo dell’uomo non distrugga il mare

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Il mare sta morendo. E la causa principale è l’egoismo dell’uomo. Così, in sintesi, si legge in un messaggio dei vescovi del Giappone per la Domenica del mare, che ricorre il 10 luglio. Nel documento, a firma di mons. Michele Matsuura Goro, presidente della Commissione episcopale nipponica per i rifugiati e i migranti, si sottolinea che le difficoltà e i pericoli che vivono gli uomini di mare “non vengono più soltanto dalla natura. Il mare diviene infatti sempre più pericoloso a causa dei test nucleari e dello scarico in acqua di materiale radioattivo e inquinante”, mettendo in condizioni di “altissimo rischio” l’uomo e tante specie marine.

I media non dimentichino gli operatori del mare
La lettera del presule giapponese – riferisce l’agenzia AsiaNews - si intitola “Sulla stessa barca. Con la misericordia del Padre” e ricorda che nell’anno del Giubileo “tutti siamo chiamati ad amarci l’un l’altro come membri della stessa famiglia guidata dal nostro Padre”. Tuttavia, questo amore misericordioso non sempre coinvolge gli uomini di mare: “È raro – scrive infatti mons. Matsuura Goro - leggere notizie che riguardano queste persone. Forse perché gli eventi sul mare non fanno notizia”, anche se i marittimi affrontano ugualmente gravi pericoli.

Il mare è dono della creazione di Dio, non va contaminato
Il mare, ribadisce mons. Matsuura, “è un dono meraviglioso della Creazione di Dio. Non dobbiamo più contaminarlo per nutrire l’ego dell’essere umano. Il pane quotidiano che consumiamo viene anche da chi lavora in mare”. “Siamo tutti sulla stessa barca – conclude il presule - quindi dovremmo prestare la medesima attenzione a chi lavora in mare e in terra, sostenendoci gli uni con gli altri”. Infine, un appello alla preghiera: “In occasione di questa Domenica del Mare, preghiamo per i naviganti e per le loro famiglie”. (I.P.)

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Canada: 4 mila giovani iscritti alla Gmg di Cracovia

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Sono circa 4mila i giovani canadesi iscritti a partecipare alla 31.ma Giornata mondiale della Gioventù a Cracovia insieme a Papa Francesco. Ad accompagnarli - informa il sito della Conferenza episcopale canadese - una delegazione di nove vescovi, tre dei quali guideranno le catechesi centrate sul motto di questa edizione "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia". Sono il card. Gérald Cyprien Lacroix, arcivescovo di Québec e primate della Chiesa canadese, mons. Albert LeGatt, arcivescovo di Saint-Boniface, e mons. Bryan Bayda. vescovo dell’eparchia di Saskatoon degli Ucraini.

La celebrazione nazionale del 26 luglio per la Festa dei SS. Anna e Gioachino
Diversi ragazzi saranno coinvolti in alcune cerimonie, liturgie ed eventi della Gmg e dal 20 al 25 luglio i pellegrini potranno partecipare alle iniziative in organizzate dalle diocesi polacche per la Gmg. Tra i momenti salienti della loro partecipazione la celebrazione nazionale il 26 luglio per la Festa dei Santi Anna e Gioachino, i genitori della Vergine Maria e i nonni di Gesù. L’evento si terrà nel padiglione centrale dei pellegrini di lingua inglese, nell’arena Tauron di Cracovia, affidato ai Cavalieri di Colombo. Qui il card. Lacroix presiederà un momento di preghiera insieme ai ragazzi, ad altri vescovi, sacerdoti, religiosi, agenti della pastorale giovanile, artisti e musicisti.

La copertura televisiva di Salt and Light
Gli eventi più importanti della settimana saranno coperti dal network cattolico canadese “Salt and Light” le cui dirette e servizi potranno essere seguiti in Canada sul satellite e sulla tv via cavo e in tutto il mondo sul sito internet www.seletlumieretv.org o www.saltandlighttv.org. La copertura della rete televisiva diretta da padre Thomas Rosica, coordinatore nazionale per la Gmg 2016 e già organizzatore della Gmg di Toronto, sarà inoltre ritrasmessa anche in Australia dalla televisione cattolica di Boston, dal centro audiovisivi della diocesi di Hong kong e dall’ordinariato militare cattolico degli Stati Uniti. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 190

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.