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Sommario del 11/07/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco nomina Greg Burke nuovo direttore della Sala Stampa

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Papa Francesco ha accolto la rinuncia, presentata da padre Federico Lombardi, dall'ufficio di Direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Il Pontefice ha nominato nuovo direttore, con decorrenza dal primo agosto 2016, Greg Burke, finora vice-direttore del medesimo ente. Il Papa ha inoltre nominato vice direttore della Sala Stampa della Santa Sede, con decorrenza dal primo agosto 2016, Paloma García Ovejero. I due giornalisti sono stati ricevuti stamani in udienza da Papa Francesco. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Due laici, due giornalisti di livello internazionale alla guida della Sala Stampa della Santa Sede. A succedere a padre Lombardi, dopo 10 anni di straordinario lavoro, Papa Francesco ha chiamato come direttore della Sala Stampa, Greg Burke. Nato 57 anni fa a Saint Louis negli Stati Uniti da una famiglia di tradizione cattolica praticante, Burke dopo aver frequentato uno dei licei dei gesuiti della città, si è laureato nel 1983 in Letterature Comparate presso la Columbia University di New York, specializzandosi poi in giornalismo. In quegli anni entra come membro numerario nell'Opus Dei.

Greg Burke: da Time a Fox News, poi la nomina come Advisor della Comunicazione in Vaticano
Greg Burke ha lavorato presso la "United Press International" di Chicago, per la "Reuters" e per il settimanale "Metropolitan", finché è stato inviato a Roma come corrispondente del settimanale "National Catholic Register". Nel 1990 inizia a collaborare col settimanale Time ed è corrispondente fisso della rivista quando, nel 1994, proclamerà San Giovanni Paolo II uomo dell'anno. Nel 2001, il giornalista statunitense inizia a lavorare per la televisione come corrispondente da Roma per Fox News. Nel 2012 viene chiamato in Segreteria di Stato, Sezione per gli Affari Generali, come Consulente per la comunicazione. Dal 21 dicembre 2015 è vice direttore della Sala Stampa della Santa Sede.

Paloma Ovejero: dal 1998 giornalista della "Cadena Cope, Radio Española"
Come vicedirettore della Sala Stampa Vaticana, Francesco ha nominato  Paloma García Ovejero. Nata a Madrid 41 anni fa, dopo essersi laureata in giornalismo nel 1998 presso l'Università Complutense di Madrid, si è specializzata in gestione delle strategie della comunicazione alla New York University. Dal 1998 è redattrice e conduttrice della "Cadena Cope, Radio Española", con la qualifica di capo Redattore. Dal settembre 2012 è corrispondente per l'Italia e per la Città del Vaticano, collaborando, oltre che per la "Cadena Cope, Radio Española", anche con altre emittenti televisive e diverse testate giornalistiche.

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Greg Burke: Sala Stampa parla al mondo, grato a padre Lombardi

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Per la prima volta, dunque, uno statunitense viene nominato direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Poco dopo la nomina, il nuovo direttore ha concesso alla Radio Vaticana la sua prima intervista soffermandosi sul suo incarico, sulla comunicazione sempre più internazionale della Chiesa e sulla figura di padre Federico Lombardi. Ascoltiamo Greg Burke al microfono di Alessandro Gisotti: 

R. - Sono molto entusiasta, direi “excited” in inglese. Allo stesso tempo, però, devo dire che non nascondo anche un po’ di paura. Mi rendo conto che la Sala Stampa non sia un lavoro facile. Una cosa è fare il giornalista, e questo mi è piaciuto molto in questi anni, ma questo lavoro qui mi sembra una cosa ben più complicata!

D. – Si sottolinea da parte di molti: un nuovo direttore laico, un vice direttore laico e per di più donna; e anche una diversità culturale e linguistica, un anglofono e un'ispanofona…

R. – Sì, credo che la parola di oggi sia “international”, internazionale. La Chiesa cattolica, per sua natura, è universale. In questo universo oggi chiaramente lo spagnolo è molto importante per il mondo cattolico. Ma se vuoi parlare con tutto il mondo, bisogna anche parlare inglese, non c’è dubbio!

D. – Succedere a padre Federico Lombardi in questo incarico cosa vuol dire per lei?

R. – In questi anni ho visto in padre Lombardi una pazienza sconfinata: proprio così… Ma non solo questo: io ho usato la parola inglese “gracious“, perché è un po’ gentilezza, ma anche cortesia. Lui sempre riesce a essere molto gentile con le persone, molto disponibile; una dedizione totale al Santo Padre, al lavoro. Io spero – almeno in parte – di avere queste virtù!

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Mons. Viganò: da padre Lombardi grande visione ecclesiale

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Nel salutare padre Federico Lombardi, in Sala Stampa Vaticana, il prefetto della segreteria per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò, ha sottolineato due aspetti della “lunga lezione” di padre Lombardi, che lascia come eredità ai nuovi responsabili della Sala Stampa. Ascoltiamo una parte dell’intervento di mons. Viganò: 

Padre Federico ci ha lasciato, come stile della sua professione, la visione ecclesiale delle vicende: uno sguardo cioè che ha sempre tenuto insieme le differenti sensibilità, le differenti prospettive, segnate anche dalle differenti provenienze della cultura nella Chiesa. Per cui la Chiesa non è una esperienza monolitica, è una esperienza molto multiforme e quindi padre Federico ha sempre cercato di fare questo lavoro mettendo insieme una visione di Chiesa, che sia una visione ampia, una visione capace di tenere insieme - appunto - delle differenze, perché le differenze non sono luoghi dell’inimicizia, ma semplicemente l’arricchimento di una Chiesa, che proprio perché è Chiesa è così. La seconda grande ricchezza di padre Federico è quella di aver vissuto quella che più volte ci ha richiamato Papa Benedetto prima e Papa Francesco poi e cioè una ermeneutica spirituale della Chiesa. La Chiesa non è una parte che sceglie una posizione, piuttosto che un’altra: la Chiesa è cattolica e non riconosce a nessuno il ruolo dell’antagonista. E’ proprio questa visione, di una ermeneutica spirituale, che padre Lombardi ci ha insegnato.  

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Programma del viaggio del Papa in Georgia e Azerbaijan

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La Sala Stampa vaticana ha reso noto il programma del viaggio apostolico di Papa Francesco in Georgia e Azzerbaijan, dal 30 settembre al 2 ottobre prossimi. Nel primo pomeriggio il Pontefice arriverà all’aeroporto internazionale di Tbilisi. Dopo la cerimonia di benvenuto alle 15:00 circa è prevista la visita di cortesia al Presidente della Repubblica. Nel cortile del Palazzo presidenziale si terrà il saluto con le autorità, la società civile e con il Corpo diplomatico.

Presso il Palazzo del Patriarcato ci sarà invece l’incontro con sua Santità e Beatitudine Ilia II,  Catholicos e Patriarca di tutta la Georgia. L’abbraccio con la comunità assiro-caldea si terrà invece preso la chiesa cattolica di S.Simone il tintore.

Il giorno dopo, sabato primo ottobre, ci sarà la Santa Messa nello stadio M. Meskhi, poi l’incontro con i sacerdoti, religiosi e religiose presso la chiesa dell’Assunta. Toccante sarà la visita agli assistiti e con gli operatori delle opere di carità della Chiesa davanti al Centro di assistenza dei Camilliani. Quindi la visita alla cattedrale patriarcale Svietyskhoveli di Mskheta.

Domenica 2 ottobre dopo la cerimonia di congedo all’aeroporto internazionale di Tbilisi la partenza in aereo per Baku. All’arrivo all’aeroporto internazionale “Heydar Aliyev” è prevista l’accoglienza ufficiale. Poi la Santa Messa nella chiesa dell’Immacolata nel Centro salesiano a Baku e il pranzo con la comunità salesiana e con il seguito papale.

La cerimonia protocollare di benvenuto si terrà nel Piazzale del Palazzo presidenziale di Genclik. Poi la visita di cortesia al Presidente. L’incontro con le autorità si terrà nel Centro “Heydar Aliyev”. Nell’omonima Moschea si terrà il colloquio privato con lo Sceicco dei Musulmani del Caucaso. Dopo l’incontro con il vescovo ortodosso di Baku e con il presidente della Comunità ebraica si terrà la cerimonia di congedo all’aeroporto di Baku e la partenza per Roma.

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Salesiani alla Gmg di Cracovia: dove ci sono giovani, c’è Don Bosco

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Dalla terra di Don Bosco a quella di Karol Wojtyla per la Gmg con Papa Francesco. E’ con questo spirito che centinaia di giovani legati al mondo salesiano si stanno preparando a partire dal Piemonte per recarsi a Cracovia. D’altro canto, Don Bosco è ancora oggi una delle figure più amate dai giovani di tutto il mondo ed è sempre stato molto ammirato da Jorge Mario Bergoglio, le cui radici si trovano poprio in terra piemontese. Sulla presenza dei salesiani alla Gmg di Cracovia, Alessandro Gisotti ha intervistato don Stefano Mondin, delegato della Pastorale giovanile salesiana del Piemonte e Valle d'Aosta: 

R. – Per noi è sicuramente un’esperienza che ci sfida in quanto dove ci sono i giovani non possono non esserci i salesiani! E’ un’esperienza di gruppo dove i salesiani Figli di Maria Ausiliatrice e i giovani vivranno assieme un pellegrinaggio per conoscersi, per conoscere le realtà della Chiesa e per scoprire in questo cammino, attraverso le varie tappe che faremo, che cosa significa Misericordia e cosa vuol dire sentirsi amati di nuovo e lasciarsi amare dal Signore. Don Bosco ci ha insegnato che la fraternità si costruisce nella preghiera, nel gioco, nello scambio, nella confidenza, nel dialogo uno a uno e questo sarà tra gli elementi essenziali del nostro pellegrinaggio sia di andata che di ritorno, un’esperienza forte che vivremo assieme.

D. - Quanti giovani saranno presenti nella famiglia salesiana alla Gmg da parte vostra?

R. – Dal Piemonte partiranno 430 giovani che appartengono un po’ a tutte le realtà piemontesi; a questi si aggiungeranno poi 22 giovani che arrivano dal Medio Oriente, dalle nostre realtà salesiane. Faremo questo gemellaggio in cui vivremo assieme non solo la condivisione di fede, ma anche lo scambio di quella che è la realtà difficile che stanno vivendo nella guerra, ma dove la speranza regna e Don Bosco è veramente incarnato in questa terra.

D. - È anche un modo per dire che la Gmg deve essere per tutti e non solo per i giovani che hanno possibilità economiche …

R. - Questo è sicuramente un elemento fondante per Don Bosco; avere un occhio per i giovani, ma soprattutto per i più poveri, tanto che ci siamo impegnati per trovare dei benefattori che ci hanno aiutato a pagare tutto il viaggio e anche il pernottamento per questi giovani che poi torneranno con noi nella terra di Don Bosco per conoscerlo meglio e per far sì che i nostri ragazzi possano ricevere il dono da chi ha avuto meno per scoprire il vero significato della vita.

D. - Cracovia è un po’ la “casa della Gmg” perché vi è nato Giovanni Paolo II. E’ nato come uomo, come sacerdote e poi vescovo prima ancora, ovviamente, che come Papa …

R. - Giovanni Paolo II è stato molto legato a Don Bosco. Noi salesiani in modo particolare che accompagneremo questi giovani dobbiamo tantissimo a San Giovanni Paolo II. La mia vocazione è avvenuta nel 2000, nella Gmg a Tor Vergata: lì ho visto una chiamata forte e come sono tornato ho iniziato il cammino di discernimento che oggi mi ha portato ad essere salesiano.

D. - Quali frutti i giovani riporteranno a casa da queste esperienze che sono un punto di partenza più che un punto di arrivo?

R. - La speranza grande è che attraverso la fraternità e la comunione scoprano che nel volersi bene e nel lasciarsi voler bene tutti noi possiamo ripartire. La ricerca di autostima e di serenità che noi cerchiamo è nel lasciarci perdonare e nel perdono. Questo è il cammino che noi abbiamo proposto e che ancora stiamo proponendo ai nostri ragazzi in quest’Anno della Misericordia.

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Nomine episcopali di Papa Francesco

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In Canada, Francesco ha nominato arcivescovo metropolita di Regina mons. Donald Joseph Bolen, finora vescovo di Saskatoon.

Francesco ha nominato il card. Pasinya Laurent Monsengwo, arcivescovo di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo), Suo Inviato Speciale al III Congresso per l’Africa e Madagascar sulla Divina Misericordia, che sarà celebrato a Kigali (Rwanda) dal 9 al 15 settembre 2016.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Opere non parole: all'Angelus il Papa commenta la parabola del Buon Samaritano e invita alla prossimità verso i più bisognosi.

La profondità delle piccole cose: Lucetta Scaraffia recensisce il libro di Elizabeth Strout "Mi chiamo Lucy Barton".

Un articolo di Anna Foa dal titolo "Nel 'recinto degli ebrei'": cinque secoli di storia nel libro di Donatella Calabi.

Quella mano distesa: Liam Bergin sul "Noli me tangere" di Tiziano.

Un articolo di Gabriele Nicolò dal titolo "Un prete scomodo": il Teatro di san Miniato dedica uno spettacolo a don Primo Mazzolari.

L'otre e il vino nuovo: Achim Buckenmaier sulle implicazioni teologiche in "Iuvenescit ecclesia".

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Oggi in Primo Piano



Sud Sudan: scontri a Juba, oltre 200 vittime. Onu chiede fine violenze

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Si intensificano i combattimenti a Juba, capitale del Sud Sudan, dove da cinque giorni si stanno affrontando i militari fedeli al Presidente Salva Kiir e la Guardia del vicepresidente Riek Machar. La popolazione è in fuga dalla città e oltre 30mila civili si sono rifugiati nel compound delle Nazioni Unite. Almeno 270 le vittime secondo fonti governative e l’Onu chiede di mettere immediatamente fine alle violenze. Il servizio di Marco Guerra: 

Pesanti esplosioni e colpi di armi leggere si sono udite per tutta la mattinata a Juba. Testimoni riferiscono di carri armati nelle strade ed elicotteri che sorvolano la città. i combattimenti più violenti si registrano nel quartiere di Tomping, dove sorge l'aeroporto e una base Onu; e nelle zone di Jebel e Gudele nei pressi della base che ospita il vice presidente Riek Machar. I colpi di artiglieria non hanno risparmiato nessuna delle due sedi delle Nazioni Unite e si registra una vittima tra i caschi blu cinesi. Oltre 10mila persone hanno lasciato la città e il dipartimento di Stato Usa ha ordinato la partenza di tutto il personale non necessario dall'ambasciata. Appelli alla calma arrivano da diversi esponenti del governo e dallo stesso Riek Machar.Tuttavia il Paese sembra ricaduto nella guerra civile interrotta l’aprile scorso con il reintegro di Machar nella sua carica e il governo di coalizione. Ma sulla situazione sul terreno e l’emergenza umanitaria sentiamo Chiara Scanagatta, deskoffice per il Sud Sudan di Medici con l'Africa Cuamm :

R. – Sia sabato che domenica la situazione è stata molto tesa, con combattimenti molto serrati a Juba, nella capitale. Non c’è stato nessun episodio sul territorio, al di fuori di Juba, almeno non nelle zone dove lavoriamo noi. Gli scontri si sono concentrati soprattutto dove di solito i militari hanno le loro basi e una di queste zone è vicino anche ad uno dei complessi delle Nazioni Unite.

D. – Qual è la situazione umanitaria e quali le emergenze che deve affrontare la popolazione in questo momento?

R. – Il Paese è già provato da una situazione umanitaria molto difficile. Sicuramente se i fatti di questi giorni avranno un seguito, la situazione andrà ulteriormente ad aggravarsi. Il Paese, però, già versava in condizioni estremamente critiche. Diciamo che dal conflitto iniziato nel dicembre del 2013, non c’è mai stata una vera ripresa. Anzi, la crisi economica degli ultimi mesi, dovuta al crollo del prezzo del petrolio e alla svalutazione della moneta locale, non hanno fatto altro che aumentare questa crisi. Diciamo che gli accordi di pace non hanno mai messo fine veramente agli scontri. Quindi il flusso di profughi e di sfollati è continuato sempre in questi mesi. Chiaramente, la situazione è andata via via peggiorando, per cui la popolazione è estremamente provata dalla mancanza di tutto, dei servizi di base. Il Paese, infatti, non ha le strutture per offrirli, se non attraverso le ong e gli attori esterni.

D. – Le agenzie parlano di diverse migliaia di sfollati. C’è appunto un rischio di creare un nuovo flusso di profughi?

R. – Beh, sicuramente la gente scapperà. Se il conflitto partito da Juba si estende nel resto del territorio, la gente si sposterà. Ocha aveva stimato almeno due milioni di sfollati per il 2016, quindi ben prima di tutti questi fatti. Alla fine dell’anno scorso, dunque, queste erano state le stime. Tutto questo, quindi, potrebbe peggiorare ulteriormente la situazione.

D. – In quali condizioni stanno operando le ong con il riaccendersi delle violenze?

R. – In questi giorni l’aeroporto è rimasto semiaperto e poche compagnie volavano. Questo ovviamente rende molto più difficile l’invio di persone, ma anche di materiale. Se uno deve comprare i farmaci al di fuori del Sud Sudan, o qualsiasi altro materiale, chiaramente questo lo compromette. Oggi sembra essere proprio chiuso come misura precauzionale. Chiaramente non ci sono voli interni e diventa anche più difficile spostarsi dalla capitale alle basi sul territorio. E poi, ovvio, in queste situazione di conflitto si resta chiusi in casa e si è molto meno operativi: non si può fare rifornimento di cibo, di acqua, di gasolio e nel momento in cui anche il gasolio inizia a scarseggiare, il generatore deve essere tenuto chiuso per delle ore. Non c’è più modo, quindi, di caricare il cellulare, di caricare i computer e quindi anche di mantenere delle comunicazioni costanti. Ovviamente più il conflitto si prolunga, più la situazione diventa critica. Adesso, naturalmente, si sta guardando come si evolveranno i fatti e poi si agirà sulla base di quelli che sono gli eventi. Si mettono in atto delle misure di precauzione, che possono essere appunto far uscire il personale non essenziale, non direttamente coinvolto nello svolgimento delle attività, ridurre gli spostamenti e tenere sempre molto monitorata la situazione.

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Iraq. Acs nei villaggi liberati dalla violenza dell'Is. Solo macerie

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Rimangono soltanto macerie a Telskuf, villaggio iracheno a una trentina di km da Mosul liberato in maggio dal controllo del sedicente Stato islamico (Is). Lo ha visitato nei giorni scorsi una delegazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre, che dal giugno 2014 ha realizzato interventi in Iraq per oltre 20 milioni di Euro. Tutti gli abitanti, inclusi gli oltre 12 mila cristiani che lì vivevano, hanno lasciato le loro case ormai due anni fa, quando i gruppi jihadisti conquistarono larga parte della Piana di Ninive. I cristiani della zona sono tuttora rifugiati ad Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, o ad Alqosh, unica città cristiana risparmiata dalle violenze, nonostante l’Is continui a perdere terreno, dopo la pesante sconfitta delle scorse settimane a Falluja: secondo un’analisi del Centro studi britannico Ihs, il sedicente Stato islamico ha perso nella prima metà del 2016 il 12 per cento del territorio sul quale esercitava il controllo in Siria e in Iraq. Nella zona di Ninive, nelle ultime ore almeno 47 miliziani dell'Is sono rimasti uccisi in un bombardamento aereo della coalizione internazionale. Intanto, scenari come quello di Telskuf continuano purtroppo ad essere frequenti, come spiega Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre - Italia, intervistato da Giada Aquilino

R. – In questa avanzata sia da parte dell’esercito del governo iracheno, sia da parte delle truppe dei peshmerga curdi si stanno riconquistando alcuni territori, alcune città, alcuni villaggi. Più che frequenti questi scenari sono la regola fissa, nel senso che, laddove si riesce a rientrare in questi luoghi, si assiste a scenari apocalittici: si trovano esclusivamente macerie. E qui non è in discussione il fatto che siano state date alle fiamme le auto o che ci possano essere dei fori di proiettile sui muri. Si trovano distrutte le abitazioni private e i luoghi di culto, i luoghi di preghiera, si trovano decapitate le statue sacre e le immagini della Madonna, perché nella follia e nel fanatismo accecanti delle truppe del Califfato islamico l’obiettivo – nel momento in cui si occupavano i territori – era quello di cacciare tutte le minoranze religiose, e i cristiani innanzitutto, al fine di sradicare totalmente questo o quel gruppo dal proprio territorio. Se ne dovevano eliminare le tracce: si dovevano bruciare i libri, si dovevano devastare i movimenti e i luoghi di culto, in alcuni casi le chiese sono state trasformate in moschee e ci sono immagini di croci abbattute, sostituite da bandiere nere del Califfato islamico. È quello che, liberando i territori, si sta trovando sistematicamente.

D. – Nel caso di Telskuf, da due anni gli oltre 12 mila cristiani della zona sono rifugiati ad Erbil e Alqosh. Cosa raccontano?

R. – Sono stato ad Erbil poche settimane fa. Raccontano di attimi, momenti nei quali tutti hanno dovuto maturare la decisione di fuggire, di scappare, di lasciare la loro vita per poter salvare le proprie famiglie. L’alternativa era convertirsi all’islam - e quindi rinnegare le proprie radici e la propria identità religiosa - oppure la morte.

D. – Anche grazie ad Aiuto alla Chiesa che Soffre, che ha realizzato molti interventi, donando scuole, prefabbricati, viveri, assistenza medica, come vivono queste persone oggi?

R. – Ci sono luci e ombre. Le luci sono rappresentate certamente, a distanza di due anni, dal fatto che grazie in forma pressoché esclusiva alla Chiesa locale hanno avuto la possibilità di inserirsi e direi anche di integrarsi, per esempio, nel tessuto di quella che è la comunità di Erbil. L’integrazione è avvenuta anzitutto grazie alla “voce scuole”: 7 mila bambini, tra Erbil e le zone confinanti, hanno avuto la possibilità di riprendere gli studi e lo fanno in scuole meravigliose e con un corpo didattico eccellente. Penso ad esempio alla collaborazione con le suore della Congregazione di Santa Caterina ad Erbil. Vivono tuttavia però - e queste sono le ombre - in condizioni a dir poco disagiate perché vivono magari in 8 persone in container tra i 18 e i 20 metri quadrati nella migliore delle ipotesi; oppure vivono in case prese in affitto con due soli bagni e tre famiglie ad alloggiarvi, quindi 20 persone più o meno. Vivono in condizioni ancora disagiate, ma con uno spirito, un sorriso e una fede incrollabili e hanno un solo desiderio: tornare a casa loro.

D. – Le ultime informazioni riferiscono che il sedicente Stato islamico starebbe perdendo terreno. Tra queste persone come si vivono queste notizie?

R. – Forse non ci credevano neanche loro fino ad alcuni mesi fa. Non che si possa immaginare a breve il rientro a Mosul, la roccaforte di questo sedicente Stato islamico, però è chiaro che le sconfitte che sul campo stanno riportando gli uomini del Califfato segnano e concretizzano la speranza.

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Mons. Audo: ad Aleppo sotto le bombe, tenaci segni di vita di fede

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Al momento "non c'è una data" per la ripresa dei colloqui per rilanciare i negoziati di pace per la Siria a Ginevra ma dovrebbero ripartire “al più presto possibile", e con le condizioni per  "garantire una vera negoziazione". Lo ha affermato l'inviato Onu per la crisi in Siria, Staffan De Mistura, nel corso di una conferenza stampa con il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che si è tenuta questa mattina a Roma alla Farnesina. De Mistura ha sottolineato che le Nazioni Unite hanno l’intenzione ferma di rilanciare i negoziati, perché ha spiegato "da adesso a settembre abbiamo una finestra di opportunità aperta per trovare una formula che combini la lotta al terrorismo e la tensione politica". E la chiave  potrebbe essere in una possibile intesa tra Russia e America. E a proposito del ruolo di Mosca, De Mistura ha sostenuto che è  "fondamentale e importante. La Russia - ha detto - è parte della volontà di una transizione per una soluzione politica". Intanto sempre più drammatica la situazione ad Aleppo. In queste ore sono morte 9 persone  tra gli insorti siriani contro i quartieri di Aleppo controllati dai governativi. Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani. L'agenzia Sana controllata dal governo, accusa gli insorti di aver ucciso 8 civili ad Aleppo ovest. Intanto prosegue la battaglia tra le parti per il controllo della strada Castello, l'unica via che collega Aleppo est, in mano ai ribelli, all'entroterra occidentale. Ascoltiamo il commento di monsignor Antoine Audo, vescovo di Aleppo dei caldei raccolto da Marina Tomarro: 

R. – Prima cosa: l’esercito ha preso una strada che si chiama Via del Castello, nelle periferie di Aleppo; è una strada che va verso la Turchia. In questo modo ha fatto un blocco attorno ai gruppi armati. Per questa ragione, mi sembra, che vogliano attaccare di nuovo per mostrare che sono potenti, arrabbiati e fare vendetta. Questo è il primo punto, perché c’è un cambiamento importante sul terreno. Si può spiegare in questo modo. La seconda cosa: è vero hanno lanciato bombe importanti sul centro città, sotto l’edificio del governo. Era la festa dei musulmani e tutti i giovani erano fuori. Il numero delle vittime è arrivato a 40 e quello dei feriti è di circa 250, una cosa terribile. Sono cadute bombe tutto il giorno e tutta la notte; anche oggi nella strada dove siamo noi ad Aleppo sono cadute bombe; una persona è stata uccisa e ci sono tre feriti. Questa è la situazione.

D. - Come sta reagendo la popolazione in queste ore così drammatiche?

R. – Il fatto che spiega quanto la gente sia stanca della situazione è questo: tutti coloro che possono andare via lo fanno. Quando cammino per la strada ogni girono vedo questa povertà sulle facce della gente, l’umiliazione, soprattutto nei bambini che dormono nelle strade, da soli, senza parenti, senza un riferimento. Questa situazione di povertà è ovunque ed è veramente terribile.

D. - Quanto è importante l’intervento delle Nazioni Unite proprio per la pace nel suo Paese?

R. - Penso che il Papa abbia dato un messaggio molto importante attraverso la Caritas dicendo che oggi la pace è possibile e che non c’è una soluzione militare; serve una soluzione politica: tutte le parti devono sedersi introno ad un tavolo per discutere insieme, mettersi d’accordo. Senza questa soluzione politica la guerra continuerà. Bisogna chiedersi: chi vuole continuare questa guerra? Per quale motivo? A queste domande bisogna trovare le vere risposte.

D. - La situazione è molto grave, ma si riesce a ritrovare una normalità in mezzo a tutta questa disperazione?

R. - Penso che ci troviamo in una situazione paradossale: da una parte, è vero, c’è una guerra, c’è la povertà; dall’altra parte c’è la chiesa che insieme a gruppi di giovani e famiglie si danno da fare per organizzare una settimana si preghiera, di solidarietà. Per esempio, la settimana scorsa circa 220 focolarini in Siria si sono incontrati in un paese tra le nostre montagne, per passare una settimana meravigliosa di riflessione e di convivenza. I responsabili mi hanno chiamato per dirmi che hanno vissuto un’esperienza di speranza e di vera conversione nel sacramento di riconciliazione in questo Giubileo. Tra due giorni noi di Caritas Siria ci ritroveremo in 175 a Tartus per discutere il nostro lavoro.  Anche ad Aleppo, 150 persone delle famiglie dell’equipe Notre Dame faranno una settimana di ritiro. Così malgrado tutto, se da una parte ci sono violenze, disperazione e desolazione, dall’altra parte c’è l’appello di Dio, c’è questa consolazione che viene dal Vangelo, dal cuore della fede.

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Mogadiscio ancora sotto attacco di Al Shabaab: morti 11 militari

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In Somalia, a Mogadiscio, continuano gli attacchi da parte dei miliziani somali di Al-Shabaab. Questa mattina l'attacco a una base dell’esercito somalo a circa 50 km dalla capitale. I terroristi islamici affiliati di al-Qaeda hanno usato un’autobomba e poi un comando armato, uccidendo almeno 11 militari.  Gioia Tagliente ne ha parlato con Arduino Paniccia, docente di studi strategici dell’Università di Trieste, esperto in relazioni internazionali: 

R. – La situazione somala si è, in realtà, stabilizzata seppur parzialmente nel corso dell’ultimo anno. Certo, non è facile per un Paese in guerra da un quarto di secolo e nel quale opera forse la più forte cellula islamica affiliata ad al-Qaeda, che è al-Shabaab. Quindi la situazione è in miglioramento ma naturalmente restano una serie di grandissimi problemi e non solo militari, ma anche economici.

D. – Qual è il movente degli al-Shabaab?

R. - Al-Shabaab non vuole ovviamente la stabilizzazione del Paese e soprattutto gioca anche contro il Kenya. Uno degli obiettivi di al-Shabaab è la missione militare dell’Unione Africana e naturalmente i rappresentanti delle Nazioni Unite: cerca di colpire a livello internazionale per impedire, appunto, che la Comunità internazionale stessa aiuti anche economicamente il governo filo-occidentale di Sheikh. Quindi continua a colpire con l’obiettivo di evitare un forte intervento internazionale, che è indispensabile alla Somalia per riprendersi e per ripercorrere un cammino di stabilità.

D. – Questi continui attacchi raccontano come le istituzioni locali siano ancora molto deboli e che forse ci vorrebbe una maggiore cooperazione internazionale?

R. – Certamente la missione militare dell’Unione Africana non è stata sufficiente, soprattutto perché all’interno della missione le truppe kenyote hanno tentato, più volte,di agire indipendentemente e ovviamente regolando i conti con al-Shabaab. E questo sicuramente è stato un punto di debolezza. Ma dobbiamo anche prendere atto che nel Summit di Nairobi di maggio si sono presentati tutti i grandi investitori internazionali, con l’intenzione di riuscire ad aiutare ed eventualmente rafforzare la missione militare dell’Unione Africana e anche di riprendere tutto il piano di rifacimento delle infrastrutture, delle scuole, degli ospedali, che è fondamentale per riportare quantomeno la parte centromeridionale della Somalia a uno stato di vita decente.

D. – La Somalia è anche crocevia per il flusso migratorio, con il triste dato dei criminali che trafficano con gli esseri umani…

R. – Questo avviene nelle zone soprattutto a nord del Paese, delle quali in questo momento non ci siamo occupati, che sostanzialmente si sono dichiarate indipendenti, anche se non riconosciute da nessuno, e che sono state il perno della pirateria e adesso sono il perno del traffico di esseri umani. Io credo che il governo oggi faccia fatica a coprire i due obiettivi: se si vuole veramente combattere questo vergognoso traffico, ciò va fatto con moltissime forze internazionali. Quindi, l’aiuto internazionale non solo deve andare anche adesso per la parte economica al governo in carica, ma deve soprattutto coprire la parte della lotta al traffico di esseri umani, che l’attuale governo somalo non è assolutamente in grado di fare, perché già l’impegno contro al-Shabaab è quasi al di sopra delle proprie forze.

D. – Come si interviene in una situazione come quella somala, che è del tutto peculiare rispetto a quella della Libia, Iraq e Siria?

R. – La guida delle operazioni, seppur in maniera non eclatante e non rilevante, è passata oggi nelle mani di Gran Bretagna e Stati Uniti, più alcuni altri Paesi, anche lontanissimi come - per esempio – il Giappone. E' strano che l'Italia, che poteva essere in prima linea e lo è stata per molti anni, sia oggi assolutamente nell’ombra. Questo, a mio parere, non porta grandi vantaggi, perché abbiamo visto più volte, com’è stato sottolineato anche nelle fasi dell’Iraq, che l’intervento degli Stati Uniti  non ha portato i risultati che si speravano, anzi spesso non è riuscito a portarli affatto. Comunque, in questo momento, è l’asse Gran Bretagna-Stati Uniti che, in qualche modo, sta guidando sia la parte degli investimenti esteri, sia più a latere la consulenza di tipo militare, che è notevolmente aumentata da quanto le Nazioni Unite, nel 2013, hanno abrogato il blocco delle forniture di armamenti al nuovo esercito somalo. Dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea appare chiaro che l’Europa, in questo momento, soprattutto a causa dell’uscita di scena dell’Italia, non è l’interlocutore della vicenda somala. Non resta, quindi, altro che trattare a livello internazionale, in sede Nazioni Unite, con gli Stati Uniti, cercando di trovare una linea comune.

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Vescovo di Fermo: non fare preferenze tra vittime. Aiuti alla vedova

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Si sono svolti ieri nel Duomo di Fermo i funerali di Emmanuel Chidi Namdi, il nigeriano ucciso da un ultrà. Salvatore Tropea ha intervistato mons. Luigi Conti, arcivescovo della città marchigiana, che durante l’omelia ha sottolineato come “i veri disperati siamo noi che rischiamo di uccidere la speranza” di chi viene in cerca di aiuto e di accoglienza. 

R. – Ho fatto questa affermazione nel contesto di una liturgia, nella quale il Vangelo del Samaritano mi ha provocato in questo senso. Perché dico che i veri disperati siamo noi? Perché la nostra società ha perso tanti di quei valori su cui si è imbastita la vita della comunità e anche – direi – l’equilibrio sociale della società civile. Chiamiamo “disperati” quelli che hanno una sola ragione per attraversare il deserto, attraversare il mare, e cercare una dignità laddove è possibile. Emmanuel e la sua promessa sposa uscivano dalla persecuzione di Boko Haram. E’ evidente quindi che loro lì erano nella disperazione e qui avevano trovato la speranza. E allora la via, che la Chiesa peraltro, che Papa Francesco indica continuamente, è quella di portare il Vangelo in queste periferie esistenziali, che sono anche i nostri giovani o meno giovani vuoti dentro.

D. – In questi giorni abbiamo assistito ad un vero e proprio processo mediatico, ma don Vinicio Albanesi ha detto che anche l’aggressore in realtà è una vittima. Come interpretare correttamente questa affermazione?

R. – Il processo mediatico è partito a causa di una superficialità emotiva del primo momento. Dopo è stato molto difficile fermarlo, proprio perché forse una malattia dei media, in genere, è quella di fare lo scoop e di trovare, laddove possibile, l’odore dello scandalo, l’odore della violenza. Adesso diventa veramente difficile tornare indietro. Gesù, nel momento in cui ha visto quest’uomo, lui si è fatto samaritano, e non ha aperto un processo mediatico contro i briganti, non ha aperto un fascicolo come fanno le nostre procure. Mi domando perché; è strano insomma. Possibile che Gesù non volesse giustizia? Quello che però gli premeva soprattutto era di dire: “A questo punto è necessario farsi prossimo”. Il fatto che don Vinicio abbia detto che anche questo ragazzo, Amedeo, è una vittima, è veramente un passo importante. Bisogna però tener conto di questo: noi non possiamo avere una preferenza tra le vittime di questa vicenda, dobbiamo amarli tutti allo stesso modo e restituire se possibile a questo Amedeo l’opportunità di crescere, di maturare e di vivere felice.

D. – La Chiesa di Fermo cosa farà adesso per aiutare la compagna di Emmanuel e starle accanto?

R. – E’ stata presa in casa dalle Piccole Sorelle, che la sorvegliano giorno e notte: stanno con lei, condividono con lei tutta la loro esistenza. Tra l’altro il Papa all’Angelus ci ha preceduti, perché ha detto che è necessario farsi vicini anche allo straniero. Nel caso della promessa sposa di Emmanuel, questo sta già avvenendo. In prospettiva, siccome lei aveva iniziato gli studi di medicina nella sua nazione, saremo disposti ad aiutarla a portarli a termine. Ci sono, quindi, prospettive concrete da questo punto di vista. In questo momento, però, quello che davvero a lei serve è di ritrovare la pace interiore. Uno dei migranti ha detto: “Questa morte è volontà di Dio. Noi dobbiamo solo capire perché Dio lo ha voluto”.

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Portogallo campione d’Europa, la gioia del card. Saraiva Martins

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Il Portogallo è campione d’Europa: la nazionale lusitana ha sconfitto ieri, in finale a Parigi, la Francia con un gol segnato al minuto 109, nel secondo tempo supplementare. Per il Portogallo è un grande avvenimento, non solo sportivo, ma anche umano e sociale. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il cardinale portoghese José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi: 

R. – Per me è stato un momento molto importante come cittadino portoghese. E' stato un grandissimo piacere vedere che proprio i miei conterranei hanno vinto il Campionato europeo. Nel 2004 il Portogallo è arrivato al secondo posto perdendo la finale contro la Grecia. Adesso ha vinto, quindi è una cosa molto importante anche da un punto di vista puramente umano per i cittadini portoghesi. E' un grande avvenimento non soltanto calcistico, ma anche sociale e umano. Infatti abbiamo visto in televisione quante migliaia di portoghesi, sia in Francia sia in Portogallo, hanno gioito in una maniera molto intensa, molto speciale per questa vittoria sulla Francia.

D. - Lo sport offre varie possibilità di riscatto. Come lei ha ricordato eminenza, il Portogallo aveva perso in casa  proprio la finale contro la Grecia e adesso, invece, ha vinto a Parigi contro la Francia. Il calcio alcune volte è un racconto con degli epiloghi sorprendenti, un rincorrersi della storia che alla fine trova il giusto coronamento …

R. - Certamente. Il calcio ha dei momenti che non hanno a che vedere per niente con la logica. Magari una squadra può giocare molto bene ma alla fine perde la partita per qualsiasi motivo. Quindi non c’è una logica ferrea nel calcio, ci sono molti elementi imprevisti che possono cambiare completamente  il risultato della partita.

D. - Tra gli elementi imprevisti di questa finale dell’Europeo in Francia, c’è stato anche l’infortunio di Ronaldo, il giocatore più rappresentativo, più forte della squadra portoghese. Eppure il Portogallo, nonostante questa assenza, ha dimostrato di essere squadra. Il gioco di squadra ha prevalso …

R. - E' un fatto molto grave che il miglior giocatore, subito all’inizio della partita, debba uscire perché si è infortunato, o perchè - meglio - lo hanno fatto cadere. Questo vuol dire che la squadra, in quanto tale, prescindendo da Ronaldo è una squadra che ha molto valore e che ha un concetto di calcio molto importante. Non sono i giocatori a vincere ma la squadra, l’insieme dei giocatori. Anche se il migliore giocatore eventualmente, come è capitato ieri, deve uscire dal campo, la squadra rimane.

D. - Un valore, quello del gioco di squadra, del gioco collettivo richiamato più volte anche da Papa Francesco quando per esempio, ha incontrato delegazioni, squadre sportive, anche di calcio; il Santo Padre ha sempre detto che è il gioco di squadra quello che bisogna preferire …

R. - È fondamentale. Lo sport è una realtà collettiva, non individuale. Non sono tizio, caio e sempronio che vincono ma è la squadra composta da questi giocatori che vince. È anche un esempio di collettività molto importante. Come nella vita umana, tutto è sociale, non c'è nessuna realtà completamente individualista. Allora questo capita anche nel calcio.

D. - Pensa che questa gioia, questo momento di festa, possa in qualche modo coincidere con un cambiamento in Portogallo in un momento non proprio facile anche da un punto di vista economico?

R. - Gli effetti dello sport hanno certamente degli influssi, delle conseguenze molto notevoli, molto importanti nella vita stessa dei cittadini. Davanti ad una vittoria così, è chiaro  che, in questo caso i portoghesi, rivivono il loro entusiasmo. E quindi questo favorisce in loro una concezione della vita anche umana sociale con un certo ottimismo.

D. - Lei personalmente come ha vissuto la partita di ieri, con entusiasmo, con grande passione? Quando ha visto il goal di Eder ha esultato …

R. - Certamente! Sono rimasto molto contento. Ho sempre seguito il calcio. La vittoria della squadra del mio Paese è una realtà stupenda. Non possono non gioire coloro che amano il calcio.

D. - C’è un pensiero che vuole rivolgere alla squadra ai giocatori della nazionale portoghese, parole anche di ringraziamento di gioia …

R. - Un grazie sincero e profondo. Li invito a continuare così, a voler vincere sempre, non soltanto nella vita in genere, ma anche nel calcio. È un momento molto importante. Perciò dobbiamo ringraziare i giocatori anche per il frutto che questa vittoria certamente produrrà nei cittadini portoghesi.

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Giornata Mondiale della Popolazione, le sfide per il benessere e lo sviluppo

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Si celebra oggi. 11 luglio, come ogni anno in questa data, la Giornata Mondiale della Popolazione, arrivata alla 27.ma edizione. Istituita nel 1989 dal Consiglio direttivo del programma di Sviluppo delle Nazioni Unite e celebrata per la prima volta nel 1990, la Giornata si pone l’obiettivo di migliorare la consapevolezza dei problemi della popolazione mondiale. Salvatore Tropea ha intervistato il prof. Alessandro Rosina, docente ordinario di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, sulle sfide da affrontare per contrastare la fame nel mondo, le molte malattie non ancora debellate e il rapporto della popolazione con l’ambiente: 

R. – Queste sono sfide che noi riusciamo a  vincere solo se abbiamo da un lato una politica lungimirante, dall’altro però bisogna anche che questa diventi una sfida culturale, che venga compresa anche dal basso, dai cittadini. Fa parte delle sfide che abbiamo nei prossimi decenni e che dobbiamo assolutamente vincere se vogliamo costruire un mondo migliore, che non può essere un mondo in cui ci chiudiamo ma un mondo aperto al confronto fra culture e verso il futuro.

D. -  Stiamo vivendo uno dei più grandi esodi della Storia, dovuto soprattutto agli interminabili conflitti in Medio Oriente e in Africa, l’Europa come può venire incontro in modo responsabile al grande flusso migratorio?

R. – L’emigrazione è quella che attualmente si sente di più, che incide maggiormente e che può produrre forte instabilità. Abbiamo visto anche gli esiti del referendum inglese; abbiamo bisogno di vedere che vengano messe in campo delle politiche che funzionino, che non siano quindi politiche che danno spazio ai timori, alle paure che parlano alla pancia delle persone, ma vadano incontro alla speranza, alla fiducia e alla possibilità quindi che ci sia una vera integrazione positiva e un’accoglienza che poi si inserisca in maniera convincente e funzionale all’interno di un processo e un modello di crescita inclusivo.

D. - Assistiamo oggi ad un Occidente con sempre meno giovani e molti anziani, ma ad una controtendenza soprattutto nei Paesi asiatici. Quali sono le politiche da mettere in campo per favorire una buona qualità della vita per gli uni e per gli altri?

R. – Noi non possiamo far sì che queste divisioni crescano, ma anzi si riducano. Dobbiamo fare in modo soprattutto che quel modello inclusivo che dicevamo prima, sia un modello che porti alla collaborazione. Quindi i giovani possono portare la loro esuberanza, la loro voglia di innovazione, la loro creatività e proprio perché sono di meno, soprattutto in Europa, devono trovare investimenti adeguati per trarre il meglio di loro, realizzarlo e metterlo in gioco. Le generazioni più mature hanno dalla loro parte l’esperienza, la capacità di essere guida e supporto alle nuove generazioni e a guidarle nelle scelte che comunque dovranno fare. Quanto più un Paese investe su un solido apporto quantitativo e qualitativo delle nuove generazioni, tanto più va verso una prosperità. Quanto più questo viene fatto in collaborazione tra vecchie e nuove generazioni, tanto più si crea un modello inclusivo che poi produce benessere condiviso.

D. -  La Giornata Mondiale della Popolazione è anche un’occasione per celebrare la nostra comune umanità; come lo si può fare senza mettere da parte le diversità?

R. – Se alla base c’è questo atteggiamento che riguarda non solo la sfida culturale ma anche i valori forti, fondanti che mettano al centro quindi il valore della persona, la crescita della persone e l’azione positiva tra le persone, questo diventa un punto di partenza solido, riconosciuto all’interno della società. In questo modo, è chiaro, si può vincere qualsiasi sfida.

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Chiese di periferia, sono sempre meno gli spazi educativi per i giovani

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Non è certo un segreto quello legato alle periferie romane, ancora oggi vivono un certo disagio racchiuso non solo dalle difficoltà riscontrate per la cattiva viabilità e quasi assenza di mezzi pubblici, ma anche per la loro collocazione geografica. Costrette ad assumere uno stato di emarginazione, che le porta ad allontanarsi fisicamente e mentalmente dal cuore pulsante della comunità ecclesiale. Anche le parrocchie di questi luoghi, ai margini della società, sembrano risentire un cattivo stato di salute. Papa Francesco in passato ha manifestato la sua tristezza nel vedere chiuse alcune chiese per la mancanza di mezzi adeguati di sussistenza. I problemi non mancano e sono all’ordine del giorno. Don Nicola Colangelo, parroco della chiesa di Sant’Ilario di Poitiers, ha approfondito l’argomento nell’intervista di Michele Ungolo: 

R. – La chiesa delle periferie ha un’espressione più naturale, non ci sono condizionamenti, la gente vive anche una certa semplicità, vivono un certo calore umano che deriva dal fatto che sono persone emigrate da altre parti dell’Italia o del mondo e non trovando collocazione al centro vivono nella periferia e riescono ad amalgamarsi con altre persone che già in passato sono emigrate in questi ambienti.

D. - Da quanti anni si trova in periferia? Quali difficoltà ha riscontrato?

R. - Per  molti anni mi sono ritrovato in tante periferie, quindi c’è un rapporto del tutto umano con le persone ed ho capito che la pastorale deve essere interpersonale con ogni persona in base al passo del Vangelo che dice: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Le difficoltà sono sollecitate dai condizionamenti pubblicitari e televisivi; si vuole una rivoluzione culturale che faccia capire che ad esempio, l’attacco all’extracomunitario non è accaduto perché è avvenuto nelle periferie, ma che i condizionamenti istigano più la divisione che la comunione. L’altra difficoltà della nostra parrocchia è che non abbiamo spazi educativi dove i ragazzi si possano esprimere a livello creativo.

D. - Qual è invece la situazione che si vive oggi nella sua parrocchia?

R. - Coloro che la frequentano fanno parte di un contesto culturale dove si viveva bene la tradizione nei propri Paesi, quindi sono persone che già hanno una fede incarnata e tramandata dalla propria famiglia in base a contesti culturali in cui si viveva la religiosità a livello famigliare e anche di appartenenza ad un certo tessuto sociale e culturale. Invece le nuove generazioni trovano subito difficoltà perché non abbiamo gli strumenti idonei a tramandare la nostra fede alle nuove generazioni in quanto sono disturbate da altre agenzie educative che non sono educatori, ma spesso sono dei cattivi maestri per questi giovani.

D. - Com’è il rapporto con i suoi parrocchiani?

R. – In un primo momento è stato molto bello, entusiasmante. Poi per un certo periodo c’è stata una certa stasi data dal fatto che sono state avanzate delle proposte più impegnative. Di fronte a queste, spesso le persone vanno in crisi d’identità perché un figlio impostato tutto sulla Parola di Dio e un progetto pastorale che ancora non si riesce a consolidare deve diventare mediatore tra la Parola di Dio e il vissuto. Io desidero una chiesa vivente, vivificante che sia luce per il mondo e sale per la terra e deve essere testimone per le nuove generazioni anche nel silenzio orante.

D. - Qual è la caratteristica della sua parrocchia? Dove si trova?

R. – Non abbiamo una parrocchia in superfice. Questo è un handicap sotto certi aspetti, però per la sua bellezza figurativa è una parrocchia calda. La bellezza figurativa che c’è è già stimolante per una conoscenza di Dio, del Figlio e dello Spirito Santo. La parrocchia è collocata in una borgata, Palmarola, che si trova tra Ottavia e Boccea ed è proprio alla periferia che fa da confine con Porto-Santa Rufina.

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San Benedetto. Abate di Montecassino: sostiene cammino Chiesa

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La Chiesa celebra oggi, 11 luglio, San Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine dei frati benedettini, morto nel 547 d. C. nel monastero di Montecassino. Papa Paolo VI lo ha proclamato patrono d’Europa il 24 ottobre del 1964. Sull’attualità del suo messaggio, Federico Piana ha intervistato don Donato Ogliari, abate di Montecassino: 

R. – Il messaggio di San Benedetto è essenzialmente evangelico. Egli parte dalla Sacra Scrittura, dall’Antico Testamento, ma soprattutto dal Vangelo. Intende, insieme ai suoi monaci, riprodurre la possibilità di vivere insieme, guidati dalla Parola del Signore e sostenuti soprattutto da quel duplice comandamento dell’amore a Dio e ai fratelli, che fa da base, da fondamento alla vita comune. E poi ci sono quei tre elementi - la preghiera, il lavoro e la lettura, ossia un aspetto più propriamente culturale - in qualche modo intrecciati in maniera indissolubile, che costituiscono il terreno fecondo sul quale poi si innestano la vita quotidiana e i rapporti interpersonali. E’ ovvio che da questo scaturiscono altri elementi che compongono il messaggio globale di San Benedetto, ma sempre tenendolo sullo sfondo del Vangelo, della Sacra Scrittura.

D. – Può questa Europa, devastata dalle chiusure e dai conflitti, in qualche modo riscoprire e trarre beneficio da questo messaggio di San Benedetto?

R. – San Benedetto divenne patrono principale dell’Europa il 24 ottobre 1964: fu il Beato Paolo VI a proclamarlo tale proprio in virtù di quello che Benedetto, ma ancor più i suoi monaci lungo i secoli - e soprattutto nel periodo medievale - fecero per l’Europa intera, evangelizzandola e apportandovi anche quell’elemento civilizzatore. Questa proclamazione di San Benedetto patrono d’Europa elencava i tre aspetti: la Croce, l’aratro, il libro. La Croce, che appunto rappresenta il Vangelo, l’annuncio di Gesù e della salvezza che proviene da Lui; l’aratro, ossia il lavoro e in questo caso il lavoro manuale; e il libro, la cultura. Questi tre elementi hanno fatto sì che il monachesimo benedettino abbia reso l’Europa quella che essa oggi è. Anzi, qualcuno ha detto che in fondo l’umanesimo benedettino costituisce una parte importante dell’umanesimo cristiano e, di conseguenza, anche un tratto essenziale dell’ethos europeo. Io credo che l’impronta lasciata dal monachesimo benedettino continui a sostenere anche il cammino della Chiesa nella nostra Europa e, in senso lato, anche nel mondo intero. Io mi auguro davvero che i monasteri che costellano un po’ la terra, il mondo odierno, un po’ ovunque e non più solamente in Europa, ma anche negli altri quattro Continenti, possano essere davvero questo punto di riferimento: oserei dire questo dito innalzato verso il cielo, che richiami la necessità - per vivere le nostre vicende umane - di alzare anche lo sguardo verso Dio.

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Al Globe di Roma, successo di Proietti con "omaggio a Shakespeare"

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In occasione delle celebrazioni per i 400 anni dalla morte di Shakespeare, Gigi Proietti sale per la prima volta come attore sul palco del Globe Theater di Villa Borghese, a Roma - di cui è direttore artistico - presentando un omaggio al drammaturgo elisabettiano attraverso la figura di Edmund Kean, celebre attore inglese dell’Ottocento. Il servizio di Fabio Colagrande: 

I recital comici, sulla scia del celebre ‘A me gli occhi please’, le serie televisive di successo e qualche comparsata nel cinema nazional-popolare, avrebbero potuto far dimenticare a qualcuno che Gigi Proietti resta uno dei pochissimi grandi maestri del teatro italiano. Attore atipico, amante delle contaminazioni stilistiche, abituato a calcare il palcoscenico in solitaria, Proietti rimette le cose a posto con questo ‘Omaggio a Shakespeare’ in scena per una settimana al Silvano Toti Globe di Villa Borghese.

Ormai vicino agli ottant’anni, l’attore romano esibisce una chioma candida e una sapienza recitativa giunta forse al culmine. Meno virtuosismi funambolici fisici e verbali e più profondità nella voce e nei gesti, Proietti alterna toni umoristici e tragici con leggerezza unica.

Ma, il testo di Raymomd FitzSimmons dedicato all’attore inglese Kean, tutto genio e sregolatezza, già interpretato da Proietti 27 anni fa, permette soprattutto di riscoprire il grande istrione capitolino nei panni tragici di Amleto, Otello, Riccardo III, Macbeth, Shylock. Proietti interpreta Kean che interpreta Shakespeare, ma il pubblico che affolla, devotamente il Globe, dedicandogli una standing ovation di dieci minuti alla prima, applaude soprattutto lui, consacrandolo teatrante di razza, ineguagliabile e coraggioso divulgatore di poesia in una città frenetica, sporca e caotica. Grazie Giggi.

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Nella Chiesa e nel mondo



Infanticidio femminile ancora diffuso in Cina e India

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Cina e India sono tra le nazioni in vetta alla classifica mondiale per l'infanticidio femminile: lo afferma l'ultimo Rapporto pubblicato dal Centro asiatico per i diritti umani (Achr), primo studio globale sul tema. Come afferma il Rapporto, ripreso dall'agenzia Fides, la preferenza per il figlio maschio è un fenomeno presente in tutto il mondo e genera 1,5 milioni di feti femminili abortiti ogni anno.

Il rapporto tra i sessi alla nascita del bambino
Il Rapporto nota che, ad eccezione della Corea del Sud, nessun altro Paese è stato in grado di invertire il rapporto tra i sessi alla nascita del bambino, nonostante l'adozione di disposizioni legislative in proposito. In Cina nascono 115 maschi ogni 110 femmine, mentre in India 112 maschi ogni 100 femmine, causando uno squilibrio demografico tuttora in corso.

Le misure dei governi contro il femminicidio non hanno avuto successo
Diverse disposizioni in Cina - come la legge sulla popolazione e la pianificazione familiare del 2002 - vietano di identificare il sesso del feto e l'aborto selettivo, mentre in India esiste una norma che vieta la diagnostica prenatale del sesso del nascituro. "Queste misure dei governi non hanno avuto successo a causa del facile accesso all’ecografia e di una debole applicazione della legge", nota il Rapporto. "In India un esame ecografico e la pratica dell'eventuale aborto si possono facilmente ottenere per circa 150 dollari" ha ricordato Suhas Chakma, direttore del Centro asiatico per i Diritti umani.

Il "turismo riproduttivo" ai fini della selezione del sesso
Il Rapporto evidenzia poi il fenomeno del "turismo riproduttivo" ai fini della selezione del sesso attraverso la fecondazione in vitro (Ivf) ed altre tecnologie come la diagnosi genetica pre-impianto. In un Paese come la Thailandia, dove la selezione del sesso non è illegale, i cinesi, gli indiani, e i cittadini dell'Europa rappresentano oltre il 70-80% dei turisti che visitano il Paese solo per le pratiche legate alla nascita di un figlio.

Infanticidio causa della tratta di donne in Asia
"L'infanticidio femminile e il surplus crescente di uomini hanno conseguenze disastrose per l'umanità e sono tra le cause della tratta di donne in Asia" rileva Chakma, descrivendo l'infanticidio femminile come "la peggior forma di discriminazione di genere" ed esortando il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a programmare azioni per eliminare il fenomeno. (P.A.)

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Chiesa Pakistan: il ricordo di Abdul Sattar Edhi uomo di carità

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"Abdul Sattar Edhi ha mostrato il volto umano del Pakistan. Era un musulmano che ha dedicato tutta la sua vita alla carità e al prossimo, senza alcuna discriminazione. Ha beneficiato anche molti cattolici. Ci ha insegnato che la carità non ha confini e non ha barriere, in nome dell’umanità di ognuno di noi”: lo dice all’agenzia Fides padre Emmanuel Parvez, parroco a Pansara, cittadina a 25 km da Faisalabad, ricordando il filantropo che in Pakistan è stato paragonato a Madre Teresa di Calcutta. Abdul Sattar Edhi è deceduto l'8 luglio 2016: si tratta di un "eroe nazionale" del Pakistan, impegnato nell'assistenza umanitaria sena alcuna discriminazione, creatore di di una delle più grandi Fondazioni private di assistenza sociale in Pakistan.

L'opera di Abdul Sattar Edhi una manifestazione dell'amore di Dio
“Abdul Sattar Edhi è stato un esempio e un bene per la nazione, e suoi servizi per l'umanità sono stati una pura manifestazione dell'amore di Dio. Il vuoto lasciato da lui non potrà mai essere riempito", recita una nota della Commissione “Giustizia e Pace” dei vescovi pakistani, firmata dal direttore nazionale padre Emmanuel Yousaf Mani e dal direttore esecutivo Cecil Chaudhry. 

Ha lavorato per i poveri e le comunità emarginate
​La nota, inviata a Fides, esprime le condoglianze per la morte di Abdul Sattar Edhi che, si ricorda “ha lavorato instancabilmente per i poveri e le comunità emarginate”. I servizi di ambulanza garantiti in tutta la nazione dalla Edhi Foundation sono i più efficienti del Paese “e continuano a contribuire al bene comune nei momenti di bisogno, in particolare durante gli attacchi terroristici e calamità naturali”. La Commissione “Giustizia e Pace” offre alla Fondazione Edhi “tutta l'assistenza necessaria per svolgere il suo nobile lavoro per l'umanità”. (P.A.)

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Vescovi del Paraguay ai giovani: combattete la corruzione

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 La Chiesa cattolica paraguaiana chiede ai giovani di essere protagonisti nei prossimi tre anni, nel "Triennio della gioventù", per combattere la corruzione. Questa sfida, secondo quanto ha spiegato il vescovo di Villarrica del Espíritu Santo, mons. Ricardo Jorge Valenzuela Rios, implica lo sradicamento di questo male, che genera la povertà, la miseria che si allarga intorno alle grandi città e moltiplica gli "scarti" della società, i poveri.

Triennio dei giovani nel santuario di Caacupé
Mons. Valenzuela, che è il presidente della Commissione della Pastorale giovanile nazionale, lo ha detto ieri a migliaia di giovani provenienti da tutto il Paese, che hanno partecipato al lancio del Triennio nel santuario di Caacupé, nel giorno del primo anniversario della visita del Papa in Paraguay.

La Chiesa invita i giovani ad essere protagonisti della storia
Secondo le notizie racolte dall'agenzia Fides da fonti locali, il Triennio consiste in una serie di attività di formazione, di denuncia e di impegno nelle attività sociali da parte dei giovani cattolici delle parrocchie e dei movimenti ecclesiali. Citando Papa Francesco, mons. Valenzuela ha detto: "Non vogliamo ‘balconear’ (espressione del Papa che significa guardare da lontano) la vita, non vogliamo guardare i problemi umani e sociali dal di fuori, non vogliamo essere stare in coda alla storia, perché possiamo anche esserne protagonisti".

Tra i mali del Paraguay: la corruzione, la povertà ed i diritti degli indigeni
​"Questa opzione preferenziale per i giovani, ci porta necessariamente ad andare controvento - ha concluso il Presidente della Commissione della Pastorale giovanile nazionale -, perché sono molti i mali che storicamente ha sofferto questa bella terra del Paraguay,... la corruzione come una cancrena della società, la povertà e la miseria che si estendono nelle periferie delle grandi città, gli indigeni e i contadini che ancora subiscono abusi e la mancanza di rispetto dei loro diritti. E' arrivato il momento di dire ‘basta’ a tutto questo!". (C.E.)

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Vescovi di Panama: il nuovo Canale sia per tutti

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L'apertura del Canale dopo le opere di allargamento, “è stata un evento che ci ha riempito di gioia e di patriottismo, perché quest’opera ha un significato speciale nella storia del popolo del Panama. Ora abbiamo la grande sfida di reagire davanti alle differenze e alle rivalità, per puntare su sovranità, democrazia e giustizia sociale, che ci permetteranno di affrontare i nostri sforzi per costruire il Panama che tutti noi vogliamo, senza escludere nessuno, chiudendo il divario scandaloso tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno poco”.E’ un passaggio del testo conclusivo dell'Assemblea plenaria della Conferenza episcopale del Panama, svoltasi dal 4 all’8 luglio 2016, che ha voluto espressamente pronunciarsi su questo grande evento internazionale che tocca la vita del popolo panamense. 

La portata del Canale di Panama è stata triplicata
Il nuovo Canale di Panama - riferisce l'agenzia Fides - inaugurato il 26 giugno, realizzato da un consorzio internazionale, ha richiesto il lavoro di 30 mila persone per quasi nove anni. La portata del Canale è stata triplicata: una vera innovazione nel campo dei trasporti, che farà sì che le rotte commerciali navali tra l’Europa e l’America subiscano una spinta importante.

Un Canale che sia per tutti
“Abbiamo una occasione storica davanti – prosegue il testo dei vescovi, ripreso dall'agenzia Fides -: avere un canale per tutti, per contadini, indigeni, afro-discendenti, donne, bambini, giovani, anziani e persone con esigenze particolari, insomma, per tutti. Dobbiamo rendere reale ed efficace la nostra sovranità coltivando un sincero amore per il Paese; con il consolidamento della nostra cultura, con l'integrazione di tutti, dando un maggiore uso sociale (al canale) e alla gestione trasparente degli utili generati, consentendo gli investimenti in settori vitali come l'istruzione, la salute, il lavoro, e fornendo una maggiore opportunità per coloro che rimangono esclusi dallo sviluppo nazionale".

Tra i temi dell'Assemblea: normativa sugli abusi sessuali e Gmg
​Il testo dell’Assemblea riporta anche alcune informazioni sui temi ecclesiali presi in considerazione dai vescovi, come la nuova normativa sugli abusi sessuali e l'impegno per la Giornata Mondiale della Gioventù. Infine una parola di incoraggiamento viene rivolta alla popolazione considerando la realtà sociale che vive in questo momento il paese.(C.E.)

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Kenya. Appello dei vescovi ai giovani: no alla droga

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“La droga ostacola la realizzazione del vostro futuro”: così mons. Peter Kairo, arcivescovo di Nyeri, in Kenya, ha messo in guardia i giovani del Paese dall’uso di stupefacenti. Nei giorni scorsi, il presule è intervenuto alla cerimonia inaugurale della scuola cattolica di Karemeno, intitolata a Jean-Baptise La Salle, ed ha esortato i ragazzi a “stare lontani da droghe e sostanze che, nella vita, possono ostacolare il pieno raggiungimento del vostro potenziale”.

I giovani siano strumento di trasformazione della società
La tossicodipendenza, ha ribadito mons. Kairo, ha il potere di rendere i giovani incapaci di “realizzare i desideri del cuore e le aspirazioni future”. Al contrario, il presule ha ricordato ai ragazzi la possibilità di “trasformare le loro vite, quelle delle rispettive comunità e di tutta la società, facendo attenzione a tutto ciò che può condurli fuori strada”.

Un giovane su tre usa sostanze stupefacenti
Da ricordare che in Kenya l’uso di droghe tra i giovani è piuttosto elevato: un sondaggio del 2012 ha rivelato che uno studente su tre usa uno o più sostanze stupefacenti. Anche l’abuso di alcool è piuttosto alto, ovvero pari al 36,3% dei giovani. Non manca, inoltre, l’uso di eroina (3,1%), di anfetamine (2,6%) e di cocaina (2,2%).

Il ruolo degli insegnanti
Sempre nel suo intervento, mons. Kairo ha invitato clero, religiosi, religiose e laici a guidare ed a coinvolgere i giovani “con un carisma speciale nell’insegnamento”, affinché mantengano un comportamento corretto. “Toccare il cuore e la mente degli alunni – ha concluso il presule – è uno dei più grandi miracoli che ogni educatore potrà mai compiere e che Dio non dimenticherà mai”. (I.P.)

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Malaysia: cresce la separazione delle comunità religiose

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E’ stato un Eid-al Fitr segnato da un clima di tensione e diffidenza quello celebrato quest’anno in Malaysia. Nonostante l’attentato compiuto il 28 giugno dal Daesh a Puchong nell’ovest della Malaysia - il primo dell’organizzazione terrorista in questo Paese asiatico -  musulmani malesi non hanno rinunciato, il 6 luglio, ai tradizionali festeggiamenti per la fine del Ramadan (che qui si chiamano Hari Raya), ma, come negli ultimi anni - riferisce Eglises d’Asie (EdA)  - con un più marcato tono identitario, quasi a volere marcare la distanza dalle altre comunità in questo Paese multietnico che conta, tra gli altri un’importante minoranza cinese.

Un passato di convivenza pacifica con i musulmani
Lontani i tempi in cui le diverse comunità religiose si scambiavano reciprocamente gli auguri per le rispettive feste . “Mi ricordo che da giovane insegnante ero invitato a visitare i miei amici musulmani. Era la tradizione. Era un grande onore per loro ricevere un non musulmano. A quell’epoca i nostri rapporti erano molto buoni”, racconta all’agenzia Ucan James, un anziano insegnante cristiano in pensione. Un’altra donna cristiana, Jennifer, ricorda che quando la sua famiglia veniva ricevuta dai vicini musulmani per l’Hari Raya al padre veniva offerta la birra. “In quei tempi non era un problema. Oggi sarebbero stati arrestati per questo”. Si tratta di uno dei tanti segnali della progressiva re-islamizzazione portata avanti in questi anni nel Paese con il sostegno del Primo Ministro Najib Razak, e accompagnata da una crescente intolleranza verso le minoranze religiose che hanno sempre convissuto in pace con i musulmani

Cresce l’intolleranza verso i non musulmani nel Paese
L’ultimo episodio di intolleranza aperta risale ai primi di luglio. quando il  muftì dello Stato di Pahang Abdul Rahman Osman, ha definito "kafir harbi" (infedele che può essere ucciso) tutti gli oppositori all’applicazione delle disposizioni  della Sharia (la legge islamica), suscitando le vive proteste dei leader cristiani che hanno parlato di “dichiarazioni incendiarie” invitando il Premier Najib Razak a prendere seri provvedimenti contro il leader religioso. Motivi di opportunità politica, spingono però l’attuale Governo di Kuala Lumpur, indebolito anche da accuse di corruzione, ad assecondare questo processo di islamizzazione, come testimonia, tra l’altro, l’annoso contenzioso sull’uso del termine Allah da parte dei cristiani e le limitazioni imposte alla distribuzione di testi religiosi cristiani nel Paese. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 193

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.