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Sommario del 12/07/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Lombardi: continuo a servire la Chiesa, i religiosi non vanno in pensione

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Grande eco sulla stampa internazionale per la nomina di Greg Burke come direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Il giornalista statunitense succede a padre Federico Lombardi che, dal momento dell'annuncio della fine del suo incarico, sta ricevendo la gratitudine di tantissime persone, giornalisti e non solo per il suo straordinario servizio di portavoce vaticano. Al microfono di Fabio Colagrande, padre Federico Lombardi confida i sentimenti con i quali sta vivendo questo momento e torna ai momenti più significativi dei suoi 10 anni alla guida della Sala Stampa: 

R. – Non c’era alcuna sorpresa onestamente per me! Intanto prima o dopo mi sembrava assolutamente chiaro che il mio compito dovesse terminare. Non siamo eterni… Io avevo manifestato più volte al Papa, anche nel corso di questi tre anni, la piena disponibilità a fare il servizio che potevo fare, ma anche ad ogni decisione che venisse presa in vista di un avvicendamento in questo compito.

D. – Abbiamo sentito, in un’intervista proprio alla nostra emittente, Greg Burke parlare di paura rispetto al compito che ora lo attende. Come commenta queste parole?

R. – Un po’ di timore – diciamo così – reverenziale di fronte ad un servizio impegnativo, che riguarda la persona del Papa e la vita della Chiesa, è sempre comprensibile. Ma tutti noi sappiamo di avere dei limiti e se siamo chiamati a svolgere un compito abbiamo fiducia che il Signore ci aiuti a svolgerlo e che chi ci ha dato questo compito abbia pensato bene a chi lo stesse dando. Quindi, dobbiamo sentirci in un clima di fiducia e di speranza. Naturalmente molte cose si imparano… Anche io, 10 anni fa, tante cose di questo servizio non le conoscevo assolutamente e quindi potevo avere delle incertezze o delle difficoltà a trovare i riferimenti giusti o le informazioni necessarie. Poi si cammina, si fa strada, si impara, si assume anche una maggiore sicurezza e tranquillità nel compiere il proprio lavoro. Quindi questo è un cammino normale di ogni tipo di compito: non è che uno si aspetti che si cominci già al top di tutte le esperienze, le conoscenze e le capacità. Si fa strada! Penso che sia per Greg Burke, sia in particolare anche per Paloma Garcia Ovejero, che comincia così giovane, sia una bella esperienza in cui si troveranno certamente aiutati. Io ho trovato sempre una grandissima disponibilità da parte di tutti, nel mondo vaticano, nella Curia per le necessità di informazioni o di consigli che venivano richiesti. Non ci si muove  in un mondo in cui la gente ha il fucile puntato contro di noi: direi proprio di no! Anche nel mondo giornalistico, che i nostri due colleghi dovranno servire, trovano molta simpatia – mi sembra – in partenza e molta stima e fiducia. Quindi possono essere del tutto sereni.

D. – In dieci anni, lei ha avuto il privilegio di seguire da vicino il Pontificato di Benedetto XVI, poi i primi anni del Pontificato di Papa Francesco. Quali sono i momenti più difficili, più duri, che ha vissuto come portavoce vaticano?

R. – Tutti possono ricordare – anche un po’ dalla cronaca – quali possono essere stati i momenti vissuti con un po’ più di tensione e di criticità… Quello che io dico, in generale, è che l’esperienza anche un po’ più dolorosa che ho potuto vivere è stata quella del seguire e del partecipare a tutte le vicende del dibattito, anche pubblico, sulle questioni degli abusi sessuali: una cosa naturalmente molto dolorosa. Vi ho partecipato con profonda intensità, vorrei dire, sapendo che era il cammino di purificazione della Chiesa, di cui Papa Benedetto ci ha tanto parlato e che dovevamo compiere; ho cercato anche di dare un po’ il mio contributo, in collaborazione con altri, perché si facessero passi avanti nel senso anche della chiarezza, della trasparenza, della verità nell’affrontare questi temi, in modo tale che effettivamente queste cose possano non avvenire più o per lo meno che possano essere affrontare nel modo più corretto, tempestivo e profondo fin dall’inizio. Anche altri momenti, come quelli delle fughe di documenti riservati o di tensioni interne al Vaticano, sono stati momenti naturalmente anche di una certa sofferenza: e non perché siano difficili dal punto di vista professionale – uno dice la verità e dice le cose che ha da dire e quello non è difficile! – ma la questione è che lì si vive anche con una certa partecipazione di sofferenza, ma con la consapevolezza che, anche nella dimensione della comunicazione, si compie il cammino per migliorare, per rispondere, per fare strada verso la verità e verso una visione più adeguata, più completa dei problemi e più serena. Aiutando anche i colleghi e il mondo circostante ad avere questa comprensione dell’umanità, anche dei limiti; ma anche sempre della missione positiva che la Chiesa ha, nonostante le debolezze umane di tanti che ne fanno parte.

D. – Come ci si sente a pensare che dal primo agosto il suo telefonino non sarà più bombardato da messaggi, richieste, telefonate ad ogni ora del giorno?

R. – Io credo che cambi il tipo di servizio che uno compie, ma non penso proprio di andare in pensione! Questa è una parola che non esiste per un religioso, che cerca di essere a disposizione del servizio di Dio e della Chiesa in tutta la sua vita, ogni giorno. Quindi se non saranno le chiamate di giornalisti che chiedono una risposta su una questione urgente, probabilmente ci saranno altre chiamate o altri rapporti, a cui uno cercherà di rispondere con tutto il cuore.

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Sala Stampa: non sono previste nuove direttive liturgiche

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Nessuna nuova direttiva liturgica a partire dal prossimo Avvento. E’ quanto affermato dal direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, offrendo ai giornalisti “una precisazione a seguito di notizie di stampa circolate dopo una conferenza tenuta a Londra dal cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione del Culto Divino, alcuni giorni fa”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Il cardinale Sarah, afferma padre Lombardi, “si è sempre preoccupato giustamente della dignità della celebrazione della Messa, in modo da esprimere adeguatamente l’atteggiamento di rispetto e adorazione per il mistero eucaristico”.

Male interpretate le parole del cardinale Sarah
Alcune sue espressioni, prosegue, “sono state tuttavia male interpretate, come se annunciassero nuove indicazioni difformi da quelle finora date nelle norme liturgiche e nelle parole del Papa sulla celebrazione verso il popolo e sul rito ordinario della Messa”. Il direttore della Sala Stampa Vaticana rammenta che nell’Ordinamento Generale del Messale Romano si stabilisce che "l’altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo, la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile. L’altare sia poi collocato in modo da costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli”.

Non previste direttive liturgiche a partire dall’Avvento
Per parte sua, riprende padre Lombardi, “Papa Francesco, in occasione della sua visita al Dicastero del Culto Divino, ha ricordato espressamente che la forma ordinaria della celebrazione della Messa è quella prevista dal Messale promulgato da Paolo VI, mentre quella straordinaria, che è stata permessa dal Papa Benedetto XVI per le finalità e con le modalità da lui spiegate nel Motu Proprio Summorum Pontificum, non deve prendere il posto di quella ordinaria”. Quindi, dichiara il portavoce vaticano, “non sono previste nuove direttive liturgiche a partire dal prossimo Avvento, come qualcuno ha impropriamente dedotto da alcune parole del cardinale Sarah, ed è meglio evitare di usare la espressione riforma della riforma”, “riferendosi alla liturgia, dato che talvolta è stata fonte di equivoci”. Tutto ciò, conclude il direttore della Sala Stampa, “è stato concordemente espresso nel corso di una recente udienza concessa dal Papa allo stesso cardinale Prefetto della Congregazione del Culto Divino”.

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Dialogo interreligioso: mons. Ayuso in visita ad Al-Azhar

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Il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso comunica che mons. Miguel Ángel Ayuso Guixot, segretario del dicastero, si recherà al Cairo per una visita all’Università di Al-Azhar, dopo lo storico incontro tra Papa Francesco e il Grand Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib avvenuto lo scorso 23 maggio. Mons. Ayuso, assieme a mons. Bruno Musarò, nunzio apostolico in Egitto, incontrerà domani mattina, per una riunione preliminare, Mahmoud Hamdi Zakzouk, membro del Council of Senior Scholars dell’Università di Al-Azhar e Direttore del Centro per il Dialogo di Al-Azhar. Durante l’incontro, richiesto dal dicastero per espresso desiderio del Santo Padre, si valuterà come avviare la ripresa del dialogo fra il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e l’Università Al-Azhar.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Amore senza fine: Enzo Bianchi sull'atto del seppellire i morti.

Un'ecologia dove tutto è connesso: Tebaldo Vinciguerra su sviluppo sociale e dignità umana nella "Laudato sì".

Tambla e djembè per Francesco: Silvia Guidi su una cantata ispirata al santo di Assisi.

Il riscatto del volgare: Francesca D'Alessandro sui domenicani e la letteratura.

Un articolo di Francesco Marchitti dal titolo "L'attesa di Piccolo Abi": dalla raccolta "Morte di Adamo" di Elena Bono.

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Oggi in Primo Piano



Scontro tra due treni in Puglia, almeno 20 morti

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Grave incidente ferroviario in Puglia: almeno 20 persone sono morte a causa di uno scontro tra due treni sul tratto, a binario unico, tra Ruvo di Puglia e Corato. Si teme che tra le lamiere, oltre ai corpi già estratti, ci possano essere ulteriori vittime. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Vagoni letteralmente sbriciolati e pezzi di lamiere volati per decine di metri nella campagna ai lati dei binario. E’ questa la drammatica immagine, scattata dall’alto dai vigili del fuoco, che testimonia la violenza dell’impatto tra i due convogli. Lo scontro sarebbe avvenuto, poco dopo le 11, a velocità sostenuta. Alcune persone sarebbero ancora incastrate tra le lamiere. Tra i feriti ci sono soprattutto pendolari e studenti universitari. Sul posto sono subito intervenute diverse squadre dei vigili del fuoco. I soccorritori hanno estratto dalle lamiere un bambino di pochi anni ancora in vita, trasportato in elicottero in ospedale. Il premier Matteo Renzi chiede di accertare le responsabilità. Le cause dell’incidente sono ancora incerte, ma si ipotizza l’errore umano. La linea è gestita dalla “Ferrotramviaria”, una società privata incaricata di gestire le infrastrutture denominate “Ferrovie del Nord Barese”. La Procura di Trani ha aperto un’inchiesta.

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Regno Unito: Theresa May da domani nuovo primo ministro

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Da domani Theresa May sarà il prossimo premier del Regno Unito. L’attuale ministro degli Interni, rimasta l’unico candidato del partito conservatore, succederà a David Cameron, dimissionario dopo il referendum sulla Brexit. Prima donna a Downing Street dopo Margaret Thatcher, Theresa May, condurrà i negoziati che porteranno il Paese fuori dall’Ue.  Per un profilo del nuovo primo ministro, Michele Raviart ha intervistato Federiga Bindi, docente di Politica europea al centro “Jean Monnet” dell’Università di Tor Vergata: 

R. – Theresa May, oserei dire che è la Angela Merkel inglese:entrambe sulla sessantina, entrambe figlie di pastori protestanti, entrambe parte di un partito conservatore, entrambe sposate da molto tempo e senza figli. Due donne abbastanza pragmatiche e probabilmente ci sarà una buona sintonia tra le due….

D. – Arriva anche 30 anni dopo l’ultima donna premier inglese, che è la Thatcher. Delle affinità si possono trovare fra queste due figure, secondo lei?

R. – La Thatcher è diventata primo ministro in un‘epoca in cui le donne difficilmente erano primo ministro. L’affinità fra le due è sicuramente – ma questa è una affinità con tutte le donne leader in politica – un forte sostegno da parte del marito. Detto questo, la Thatcher ha dovuto lottare con i denti e con le unghie per arrivare ad essere leader del partito conservatore britannico; per Theresa May – direi – che è stato di fatto più facile: lei è molto più quello che in inglese si chiamerebbe l’“accidental leader”, una che diventa leader perché ad un certo punto c’è un cambio delle circostanze. Direi che la Thatcher era anche una figura più controversa e sicuramente peggio disposta nei confronti dell’Unione Europea: non ci dimentichiamo che Theresa May è stata una di quelli che erano a favore di rimanere nell’Unione Europea e sicuramente non è da annoverare fra gli euroscettici, mentre la Thatcher lo è sempre stata fin dal primo giorno: “I want my money back”, fu la famosa frase con la quale si presentò ai partner europei una volta eletta.

D. – Come gestirà la Brexit, appunto, partendo dal presupposto che lei durante la campagna referendaria era moderatamente a favore del “Remain”…

R. – Credo che questo sia probabilmente uno dei maggiori punti a suo favore: non è una sostenitrice sfegatata della Brexit e avrebbe avuto una pessima recezione a Brxuelles; è una che voleva rimanere, ma ha anche detto – e questo è molto importante – che “Brexit è stata e Brexit sarà!”. La sua posizione a favore di restare nell’Unione Europea sicuramente la metterà in migliore posizione per negoziare.

D. – In che stato si trova, a questo punto, il partito conservatore dopo questa scelta?

R. – Direi che ha tutti i numeri per riunirlo. Certo, è diviso come poi è sempre stato e questa non è una novità: il partito conservatore è sempre stato diviso fra fautori dell’integrazione europea e persone che, invece, la oppongono veementemente. Quindi direi che è in buona posizione per riunire il partito.

D. – Dall’altra parte, i laburisti che tipo di opposizione potranno fare, a questo punto, a questo nuovo governo?

R. – Corbyn non si vuole dimettere, ma c’è il challenger ed è stato sfiduciato: quindi Corby se ne andrà. Direi che è stato un leader abbastanza incolore… Molto dipenderà da chi verrà eletto segretario.

D. – Quali sono le reazioni dell’Europa, intesa proprio come l’Unione Europea, a questa nomina?

R. – Le reazioni mi sembrano abbastanza positive. Un’Europa che aveva temuto di trovarsi di fronte Johnson, chiaramente non può esser altro che contenta di trovarsi di fronte Theresa May. Ma come ha detto la Merkel: le relazioni cordiali a livello personale, non vogliono dire che verranno fatti sconti alla Gran Bretagna dal punto di vista negoziale. Perché chiaramente l’Europa deve poter preservare i propri interessi. L’Unione Europea ha detto chiaro che l’accesso al mercato unico – che vuol dire la libera circolazione di beni, servizi, finanze e capitali – deve essere reciproco: quindi da una parte il Regno Unito avrà la necessità di preservare delle libertà, perché altrimenti sono completamente tagliati fuori; dall’altra non vogliono, però, la libera circolazione delle persone. L’altro punto è la difesa: anche qui sarà necessaria un po’ di flessibilità costituzionale per trovare un modo di mantenere il Regno Unito attaccato alla difesa europea, ma fuori dall'Unione Europea.

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Regge il cessate il fuoco in Sud Sudan, Kiir pronto a negoziare

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Sembra reggere il cessate il fuoco in Sud Sudan, dopo i violenti scontri dei giorni scorsi nella capitale le forze del presidente Kiir e quelle del vicepresidente Machar. Il presidente Kiir ha annunciato l’intenzione di voler negoziare con il suo vice per riportare la pace nel Paese. Intanto, resta grave l’emergenza umanitaria. L’arcivescovo di Juba, mons. Paolino Lukudu Loro, lancia un forte appello alla Comunità internazionale affinché intervenga in soccorso alla popolazione stremata. Oltre la metà dei residenti della capitale si è rifugiata nelle chiese, nelle moschee e nelle sedi Onu. Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari le violenze scoppiate dei giorni scorsi hanno causato 36 mila sfollati interni, in gran parte donne e bambini. Per una testimonianza da Juba, Elvira Ragosta ha raggiunto telefonicamente Elena Valentini, direttrice del Catholic radio network della capitale sud sudanese: 

R. – È difficile da dire. Molti si aspettano di no, perché è difficile capire esattamente chi controlla chi, e quanto le forze armate rispettino gli ordini, visto che in passato, più volte ci sono stati cessate-il-fuoco o richieste di sospendere le ostilità, che poi non sono stati rispettati. Per ora, e rispetto a ieri, la situazione è calma, anche se resta sempre molto tesa.

D. – Che aria si respira nelle strade della capitale dopo l’annuncio del cessate-il-fuoco?

R. – Nella capitale, a Juba, non c’è ancora movimento che c’è di solito. Si sentono macchine passare; gente che cammina, va al mercato soprattutto, alla ricerca di ricariche telefoniche o anche di qualcosa da mangiare. Ma in generale non c’è tantissimo movimento: molti negozi sono chiusi, e – sostanzialmente – la gente è stata invitata a stare al sicuro e a rimanere a casa.

D. – Nell’agosto del 2015, le due parti avevano raggiunto un accordo di pace: perché sono scoppiate di nuovo le violenze? Perché il presidente Salva Kiir e il vice presidente Riek Machar non riescono a trovare un accordo?

R. – Ci sono tante piccole clausole sulle quali non si riesce a trovare un accordo. E ci sono varie parti, che hanno un’influenza sui due leader, che non sono d’accordo con alcune delle clausole che il testo prevede.

D. – Sia la guerra iniziata nel 2013 sia gli scontri nella capitale, scoppiati a partire da sabato scorso, hanno coinvolto anche la popolazione civile: molti i civili che hanno trovato riparo nelle sedi della Missione Onu del Paese ma queste stesse strutture sono state colpite. Com’è la situazione adesso?

R. – Adesso è tranquilla. A causa dei precedenti scontri, c’era già molta gente che si trovava in questi campi e altre persone si sono aggiunte negli ultimi giorni. Le condizioni sono difficili, perché le risorse sono limitate. Per l’Onu è quindi difficile garantire protezione a tutti, anche se sono state messe in atto alcune misure di emergenza, come ad esempio il rafforzamento dei muri di cinta, ecc. Tuttavia, è difficile operare.

D. – In questi giorni, voi del Catholic Radio Network di Juba come avete raccontato gli scontri che ci sono stati, e che tipo di testimonianze avete avuto da parte della popolazione?

R. – È stato abbastanza difficile. Anche per il nostro staff è stato difficile raggiungere il posto di lavoro. Quindi abbiamo avuto contatti per lo più indiretti, con la popolazione che si trovava intorno a noi. Abbiamo raccolto varie voci da parte della gente: racconti di paura, incertezza; perché il problema principale è quello di capire cosa succede esattamente, in un momento in cui nessuna notizia proviene dal governo. Molta gente ha provato a scappare, cercando luoghi più sicuri dove andare, molte volte anche lasciando all’improvviso la propria casa.

D. – Gli scontri degli ultimi giorni in concomitanza anche con il quinto anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan si sono verificati nella capitale, Juba, ma nel resto del Paese com’è la situazione?

R. – E abbastanza tesa. Negli ultimi mesi, infatti, ci sono stati vari episodi di violenza in posti diversi. A ciò si aggiunge il fatto che la comunicazione non è molto efficace: molti sono i rumors che si diffondono, ed è difficile capire esattamente cosa succeda. Quando, nei posti fuori da Juba, si sente che qualcosa nella capitale va male, comincia a diffondersi il panico: si diffondono notizie vaghe sulla possibilità di attacchi in varie parti del Paese. Già negli ultimi giorni ci sono stati episodi di tensione o scontri anche in altre parti: per il momento, anche le piccole tensioni scoppiate ieri a Torit sono ora sotto controllo. Però è davvero difficile capire come i vari gruppi armati reagiscano e come anche la popolazione reagisca.

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Giappone: Abe rafforza maggioranza e rilancia su economia

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Il governo giapponese proseguirà con il programma di riforme economiche denominato 'Abenomics'. Le nuove misure di stimolo all’economia vedranno ancora una politica monetaria molto accomodante e da forti investimenti pubblici. E' quanto annunciato dallo stesso premier conservatore Shinzo Abe dopo le elezioni di domenica scorsa che hanno consentito alla coalizione di governo di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi della Camera Alta. Ora due terzi del parlamento del Giappone sono controllati dall’esecutivo che vuole procedere alla riforma della costituzione. Marco Guerra ne ha parlato con Silvana De Maio, docente di lingua e cultura giapponese all’Orietale di Napoli: 

R. – La novità assoluta di queste elezioni, che hanno segnato – quindi – la conquista della maggioranza da parte del partito del premier, è il fatto che per la prima volta hanno potuto votare anche i 18enni. E questo è un aspetto importante, perché dimostra la volontà concreta di ascoltare la voce dei giovani anche nelle politiche che verranno adottate nell’immediato futuro. E infatti, durante la conferenza stampa che Abe ha tenuto dopo la dichiarazione della vittoria delle elezioni, il motto è stato “mirai no toshi”, che significa “investimenti nel futuro”: quindi investimenti sia per sviluppare e per incentivare l’economia, ma anche – in senso lato – per dare spazio ai giovani in un Paese che è purtroppo a crescita zero.

D. – Adesso c’è una maggioranza per approvare le riforme, soprattutto per cambiare la Costituzione. Quali sono gli intenti di Abe?

R. – Sicuramente il risultato che ha raggiunto è quello di avere adesso la maggioranza dei due terzi per poter fare la richiesta di un cambiamento della Costituzione. Nella realtà, però, il percorso che si dovrà fare è ancora lungo e, tra l’altro, è previsto anche un referendum al quale i giapponesi saranno chiamati.

D. – Uno degli obiettivi è cambiare l’Art. 9, che prevede un riarmo sostanziale dell’esercito…

R. – Certamente, nel momento in cui dovesse andare in porto la possibilità di apportare una modifica alla Costituzione, una delle modifiche investirebbe anche l’Art.9. Tuttavia, un elemento che va assolutamente tenuto presente nell’osservazione del Giappone di questi anni è che si sta creando una consapevolezza rispetto a questa problematica e tutti sono allertati al dover riflettere in maniera critica su quello che una modifica della Costituzione può comportare.

D. – Nel quadro regionale cosa significa la conferma di Abe?

R. – Sia per quanto riguarda questi continui lanci di missili da parte della Corea del Nord, sia per quanto riguarda la richiesta avanzata dalla Cina di riconoscimento di sovrannazionalità sulle isole del Mar della Cina, è chiaro che la posizione giapponese è quella di mantenere quanto più possibile una posizione di forza nell’area regionale. Questo non significa necessariamente un intervento militare, ma significa essere molto attenti a quello che i Paesi confinanti stanno cercando di ottenere o di raggiungere.

D. – Subito dopo il risultato, Shinzo Abe ha annunciato un nuovo piano di stimolo per l’economia. Ci sarà una maggiore spesa pubblica e sarà abbassato il costo del denaro…

R. – Si è ampiamente parlato della Abenomics, che è quella che poi lui ha sempre usato come trampolino di lancio dei suoi progetti per il futuro del Paese. Allo stesso tempo ha fatto un passo indietro sull’aumento della tassa sui consumi, che era stato previsto per il 2017: questo indica che c’è un’attenzione alle difficoltà che i giapponesi hanno nel quotidiano e quindi una visione certamente globale di quella che deve essere l’economia del Giappone, senza tralasciare quelle che sono le problematiche dei giapponesi nella quotidianità

D. – Si può dire che Abe è un premier che ha un alto indice di gradimento fra la popolazione?

R. – Certamente sta ottenendo dei risultati che gli vengono riconosciuti dalla popolazione e questo è, forse, anche dimostrato dal risultato delle elezioni.

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Scontri in Kashmir: almeno 32 morti e centinaia di feriti

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Violenti scontri nella valle del Kashmir dopo l’uccisione di un leader del gruppo separatista Hizbul Mujaheddin per mano dalle truppe indiane. L’ultimo bilancio, di 4 giorni di violenze, è di almeno 32 morti e centinaia di feriti. Il premier indiano Modi ha convocato un vertice a New Delhi per valutare lo stato di emergenza. Sullo sfondo l’annoso conflitto tra India e Pakistan per la contesa regione del Kashmir. Gioia Tagliente ha intervistato Francesco Brunello Zanitti, direttore dell’istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliare (Isag): 

R. – La situazione attuale è di estrema violenza perché il conflitto in Kashmir rappresenta una questione che risale a molti anni fa e l’uccisione del leader del gruppo Hizbul Mujahideen lo scorso venerdì, 8 luglio, ha riacceso gli animi dei manifestanti a favore dell’indipendenza del Kashmir. Quindi è una situazione abbastanza tesa anche se bisogna dire che si tratta di una questione che ciclicamente si ripete nel corso degli anni.

D. - Quali sarebbero i presupposti per una pace stabile?

R. - Il nocciolo della questione riguarda l’indipendenza del Kashmir e una situazione di stabilità di pace tra India e Pakistan. Questi due elementi al momento sono impossibili.

D. - Come mai?

R. - L’India considera il Kashmir un territorio che fa parte della propria unione di Stati e quindi l’idea di un Kashmir indipendente è assolutamente impossibile. Un punto che potrebbe avvicinare ad una stabilità dell’area è un dialogo tra India e Pakistan favorendo una situazione di fatto, ossia la divisione tra due aree tra il Kashmir occupato dal Pakistan e il Kashmir che fa parte dell’India, perché oramai dal 1947 la situazione è tale.

D. –  La situazione umanitaria del popolo è difficile in quanto vive il coprifuoco …

R. - È uno dei problemi che si verifica ciclicamente, perché nel momento in cui ci sono questi episodi di violenza, le prime persone che subiscono danni materiali, umani e quant’altro sono appunto le persone comuni. Proprio oggi il primo ministro Modi sta lavorando ad un meeting di emergenza. Può essere una soluzione solamente nel breve periodo che non porterà ad una soluzione della questione generale.

D. - Quanto influiscono gli attori interazionali in questo contesto?

R. - In questa situazione hanno un ruolo limitato perché India e Pakistan tendono a veder la questione del Kashmir a livello bilaterale. Gli stessi Stati Uniti già dopo poche ore dall’accaduto di venerdì scorso hanno dichiarato che la questione del Kashmir è un problema interno all’India; questo anche per non irritare il governo indiano. Comunque credo sia necessario un intervento anche generale da parte della Comunità internazionale, ma sembra che i due Paesi siano totalmente contrari ad una presenza, ad un’azione concreta da parte di altri attori e tra i due, soprattutto l’India.

D. - Come mai secondo lei?

R. - Perché l’India controlla un territorio a maggioranza musulmana e un’eventuale perdita di controllo dell’altro territorio - controllato dal Pakistan - causerebbe la perdita di valore di una questione nazionale che va avanti dal 1947, quindi metterebbe in dubbio tutto quel sistema, quegli ideali nazionali che hanno causato anche una serie di guerre. Quindi secondo me è anche un discorso legato all’orgoglio nazionale e ad un’idea di potenza che l’India ha mantenuto nel corso degli anni in Asia Meridionale. Quindi un intervento da parte di attori esterni nel subcontinente indiano viene visto come un ipotetico ostacolo al proprio potere generale in Asia Meridionale.

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Colombia: si rafforza l'impegno dei vescovi per la pace

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Dopo il cessate-il-fuoco definitivo siglato lo scorso 23 giugno a L’Avana, tra il governo colombiano e le Farc, manca ormai davvero poco per arrivare alla firma finale del trattato di pace. Due le date ipotizzate, il 20 luglio e il 7 agosto, mentre si lavora agli ultimi aspetti ancora da definire: in particolare la modalità di consegna e di distruzione delle armi dei guerriglieri e l’accettazione piena da parte delle Farc del plebiscito popolare per sancire la fine del conflitto. Ma la pace non è solo la conclusione di una guerra: lo sanno bene i vescovi del Paese che guardano con speranza al futuro impegnandosi nel difficile compito di sanare “le ferite” del loro popolo. Il servizio di Adriana Masotti

E’ corale l’assunzione di responsabilità dell’episcopato colombiano nei confronti del processo di riconciliazione che avrà inizio nel Paese dopo la firma finale del trattato di pace tra il governo e le Farc. La Chiesa colombiana si propone di essere un “ospedale da campo nel post conflitto”: lo si legge in un comunicato stampa della Conferenza episcopale diffuso al termine della propria Assemblea plenaria. Il commento di Gianni La Bella, docente di Storia Contemporanea all'Università di Modena e Reggio Emilia, che per conto della Comunità di Sant’Egidio sta seguendo la situazione:

"Mons. Castro nella sua relazione ha parlato di compassione, inclusione e perdono, come le tre autostrade su cui costruire questa nuova pedagogia della pace. E’ un lavoro molto importante. La Chiesa è la struttura presente in ogni angolo del Paese ed i vescovi ovviamente hanno una responsabilità enorme nell’aiutare la soluzione di tutti i problemi concreti che verranno dopo e che sono, ovviamente, tanti. Sostanzialmente, quindi, ricondurrei questo ad una grande opera di costruzione di una pace, che deve essere innanzitutto uno sforzo per far tramontare definitivamente questo senso di violenza e di revanche che c’è all’interno della società colombiana".

I vescovi parlano di “ferite”, ferite da tutti i punti di vista. Quindi ci vorranno progetti e anche risorse, educazione alla pace, al vivere insieme…

"Indubbiamente, il conflitto colombiano – non bisogna dimenticarlo – è un conflitto che è durato più di 50 anni e che ha coinvolto una parte considerevole della popolazione: ci sono persone che sono state coinvolte da questo conflitto a partire dagli anni ’60 fino a tre mesi fa. Parliamo, quindi, di più generazioni. C’è chi ha perso i propri cari, chi è stato ferito, chi ha perso le proprie proprietà, chi ha visto negati i propri diritti. Tutto questo va ricostruito innanzitutto in una grande opera di memoria collettiva. Questo ovviamente non vuol dire far cadere la memoria di quanto è accaduto, ma andare avanti, non lasciando che questa memoria pietrifichi il presente e pietrifichi il futuro. Per far questo c’è un bisogno considerevole di aiuti, anche economici, perché si tratta anche di risarcire tante situazioni che sono state devastate da questo conflitto. E su questo, il compito e il ruolo della comunità internazionale deve essere molto attento, perché ovviamente la Colombia non ha da sola le forze per far questo. Già alcuni Stati europei – e la stessa Unione Europea - si sono dichiarati disponibili ad organizzare una sorta di conferenza di Stati donatori, per sostenere il processo di pace. Il problema è che questo si concretizzi anche dal punto di vista pratico in un supporto reale ed immediato".

I vescovi colombiani chiedono alla loro gente di partecipare “con un voto informato e in coscienza” al plebiscito che sarà indetto per sancire la pace. Perché il bisogno di questo invito? Ancora Gianni La Bella:

"Bisogna fare una premessa: questo processo viene dopo tanti, tanti tentativi falliti. I colombiani, quindi, sono un po’ prevenuti nei confronti della pace, nel senso che c’è un po’ di scetticismo che questa sia veramente “la volta buona”. Il plebiscito è un grande strumento democratico, però questo accordo che è stato negoziato è frutto di un lavoro di tre anni, quindi di un lavoro complesso, di un lavoro anche tecnico, che è difficile da spiegare. Con questo plebiscito, l’approvazione definitiva delle sorti della pace è nelle mani di tutto il popolo colombiano. E’ molto importante, quindi, che i vescovi facciano capire e che aiutino le persone a superare ogni forma di prevenzione, ogni forma di scetticismo, ogni forma di rassegnazione e che abbraccino a piene mani questa grande opportunità. La voce della Chiesa in Colombia è una voce autorevole. La Conferenza episcopale è una grande istituzione, che ha grande consenso sociale, grande autorevolezza. Quindi un parere favorevole in questo senso può aiutare il popolo colombiano a fare una scelta, appunto, cosciente e nello stesso tempo convinta. E bisogna anche aiutare l’altra guerriglia a sedersi a questo tavolo, cosa che mons. Castro ha detto nella relazione introduttiva: aiutare, cioè, l’Eln, (Esercito di liberazione nazionale) che in questo momento è ancora incerto. Ed io personalmente, assieme a due vescovi colombiani, sto lavorando in questo senso: per aiutare anche l’Eln a sedersi a un tavolo negoziale con il governo per fare lo stesso percorso, anche se in forma autonoma, distinta, rispetto a quello che hanno fatto le Farc. Abbiamo fatto la pace, infatti, ma l’abbiamo fatta con uno dei contendenti; c’è anche l’altro, che è meno importante, meno significativo, ma che però è sempre una guerriglia attiva, efficace e presente nel Paese".

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Infanticidio femminile, una piaga ancora troppo diffusa

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Cina e India sono tra le nazioni in vetta alla classifica mondiale per l’infanticidio femminile, a riportarlo è l’ultimo rapporto del Centro Asiatico per i Diritti Umani (Achr). La preferenza per il figlio maschio è una caratteristica diffusa in tutto il mondo e causa più di un milione e mezzo di aborti, ma contribuisce anche a generare la piaga della tratta di donne in Asia. Sul tema Salvatore Tropea ha intervistato Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. 

R. – Non è un problema soltanto legato al tema dell’aborto, o alla selezione del sesso del bambino e del turismo riproduttivo. Sappiamo peraltro che la selezione del sesso è molto diffusa in alcuni Paesi: basti pensare alla Thailandia, dove i cinesi e gli indiani, ma anche gli europei, si recano per questa pratica. Il problema è di natura culturale, investe alcuni Paesi e sfere del mondo, e colpisce le donne, che purtroppo sono vittime. Sono donne che, anche laddove abbiano la possibilità di continuare a vivere - già questo è un dato tristissimo – sono costrette a matrimoni precoci e vittime di mutilazioni genitali. Queste donne sono vittime di ghettizzazione e di culture che purtroppo le mettono ai margini. Questo è un fenomeno che – secondo me – è stato poco denunciato e di cui si è scarsamente parlato. Forse quindi, oggi più che mai, è compito delle agenzie umanitarie cercare di fronteggiare quella che si presenta come la più grave forma di discriminazione di genere, e per la quale, così come già si sta facendo in altri settori, occorre immaginare delle soluzioni.

D. – Dal punto di vista della cooperazione internazionale e degli aiuti umanitari, cosa si è fatto e cosa si può ancora fare per contrastare questa piaga?

R. – Il dato fondamentale da cui partire è quello che si ritrova nelle policy messe in atto dalle organizzazioni umanitarie, e dall’Unicef in particolare, in molti di questi Paesi, come l’India o il Bangladesh. Queste si basano su una grande azione nel settore dell’istruzione: investimenti nell’educazione e nel dialogo con le culture, con l’obiettivo di far comprendere, soprattutto alle nuove generazioni, i danni derivanti da queste pratiche. E cercare di far capire loro, soprattutto, le opportunità che una vita sana tra uomo e donna possano far sorgere: tutto ciò è alla base dell’azione che si deve pensare di portare avanti. Oggi, ancora una volta, investire nell’istruzione è la cosa più importante. Il secondo punto fondamentale – secondo me – è cercare di non fermarsi nel dialogo: in tutte le realtà in cui ci troviamo – in un Paese come l’India ad esempio – cerchiamo di mettere in piedi dei sistemi dove le donne riescano a confrontarsi con gli uomini; a trovare però al tempo stesso delle forme di collaborazione tra loro; a scambiarsi delle buone pratiche e veramente ad unirsi per cercare di cambiare la situazione. E questo obiettivo può essere raggiunto soltanto se i nostri operatori, insieme ai governi, riusciranno ad entrare in tutte le realtà locali, nelle tribù, per riuscire a cambiare la mentalità. Ecco, il cambiamento di mentalità dipende molto dal dialogo che si riesce ad instaurare con il nostro aiuto. E poi, è vero: ci sono leggi che purtroppo non sono sufficienti e che non aiutano a fronteggiare questo tipo di situazioni. Il nostro compito – fondamentale – è quello di fare una grande pressione sui governi per cercare di far rispettare la legge. Troppo spesso, infatti, notiamo che questo tipo di culture hanno – ahimé – un’influenza anche su chi certi metodi e certe leggi deve farli rispettare; e quindi purtroppo queste norme non vengono applicate. In questi Paesi, laddove anche esistano delle norme che combattono l’infanticidio, queste vengono aggirate o addirittura del tutto violate. Di conseguenza, è fondamentale fare appello ai governi – e questo può avvenire in ambito Onu e grazie all’opinione pubblica internazionale – affinché questi si impegnino e spingano la popolazione al rispetto delle norme vigenti. Questi sono – secondo me – i tre punti fondamentali, anche perché parliamo di un delitto.

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Festival Francescano torna a Bologna con tante novità

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Torna a Bologna, dal 23 al 25 settembre, il Festival Francescano, che per la sua 8.a edizione ha scelto come tema “il perdono”. Parola poco alla moda, tornata alla ribalta grazie alla scelta di Papa Francesco d’indire il Giubileo straordinario della Misericordia, si colloca in un 2016 che è ancor più straordinario per i francescani, poiché ricorrono l’ottavo centenario del Perdono di Assisi e i trent’anni dello Spirito di Assisi. La manifestazione si riempie, già dal tema “Per forza o perdono”, di molteplici significati, attraverso un centinaio di appuntamenti tra spettacoli, workshop e attività per i più piccoli. Michele Ungolo ne ha parlato con il direttore del Festival, padre Giordano Ferri: 

R. – La formula del Festival rimane invariata, è quella classica. Avremo, quindi, conferenze, spettacoli, mostre, attività didattiche per i bambini e i gazebo dove presentiamo le attività francescane più importanti. La novità di quest’anno, tra le altre, è anche una sezione dedicata appunto ai bambini. Quest’anno il Festival si “sposerà”, per così dire, con la città dello Zecchino d'Oro, evento che da anni l’Antoniano di Bologna organizza a Bologna.

D. – In questa 8.a edizione del Festival Francescano il tema principale sarà legato al perdono…

R. – L’8.a edizione si svolge all’interno, chiaramente, del Giubileo della Misericordia. Questo è stato un primo spunto per scegliere questo tema. Partiremo sicuramente dalla dimensione psicologia: perdonare se stessi; perdonare gli altri: il perdono nelle relazioni, in famiglia, ma anche sul posto di lavoro. Altro filone importante che seguiremo, che cercheremo di capire, è come far conciliare due valori, che sono il “perdono” e la “giustizia”.

D. – Quest’anno ricorrono due eventi importanti, come l’ottavo centenario del Perdono di Assisi e i 30 anni dello Spirito di Assisi…

R. – Fra qualche giorno il Papa andrà ad Assisi, alla Porziuncola, anche per ricordare questo centenario. Ricorrono anche 30 anni dello Spirito d’Assisi, l’incontro che Giovanni Paolo II fece ad Assisi con tutti i responsabili di tutte le religioni del mondo. Altro filone importante che svilupperemo sarà appunto un tema di assoluta attualità, che è il dialogo interreligioso. Avremo diverse tavole rotonde, avremo un concerto ecumenico, avremo un momento di preghiera interreligiosa e anche una novità, che è la Biblioteca Vivente e che darà la possibilità di incontrarsi con dei libri veri, in carne ed ossa, quindi la possibilità di superare anche i pregiudizi, di incontrare faccia a faccia persone di altre religioni per parlare appunto con loro, per confrontarsi.

D. – Cosa si aspetta da questa edizione?

R. – Qualche passo in avanti, soprattutto nella collaborazione tra i francescani; siamo una grande famiglia e quindi il Festival è anche un’occasione per imparare ad unire le forze per l’evangelizzazione.

D. – Può essere anche un’occasione per avvicinare i giovani alla Chiesa…

R. – Veramente. Abbiamo sposato la formula “festival” perché ci fa tornare in piazza. Francesco non voleva neppure i conventi: lui viveva per strada. Quindi per noi è uno stimolo anche, con una formula nuova, secondo cui può essere il festival culturale a “costringerci” a tornare in strada, a tornare in piazza tra la gente. Grazie a Dio i francescani godono ancora di tanta simpatia, di amore e di affetto tra la gente.

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Nella Chiesa e nel mondo



Sud Sudan: emergenza umanitaria, migliaia di sfollati nelle chiese

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È tornata la calma a Juba, capitale del Sud Sudan, sconvolta da giorni di combattimenti, dopo che ieri sera il Presidente Salva Kiir e il primo vice Presidente Riek Machar, hanno dichiarato il cessate il fuoco. “In città ora prevale la calma, sia pure molto tesa, dicono all’agenzia Fides fonti ecclesiali locali. Il saccheggio che ha accompagnato e seguito i combattimenti è stato di vaste proporzioni. I responsabili sono i soldati governativi e le milizie loro alleate, che hanno prevalso sulle deboli forze di Machar. Non poteva essere diversamente, perché le forze di Machar contavano poco meno di 1.500 combattenti con armi leggere, mentre i soldati governativi sono molto più numerosi e dotati di armi pesanti, compresi mezzi corazzati ed elicotteri da combattimento”.

Migliaia di profughi si sono rifugiati nelle chiese
“È stato un massacro - continuano le fonti della Fides - anche se non si sa ancora il numero delle vittime. La questione più urgente è quella umanitaria, a partire della mancanza di acqua potabile. Migliaia di persone si sono rifugiate nelle chiese e ci si sta organizzando per offrire loro assistenza, pur tra mille difficoltà. La Croce Rossa Internazionale è riuscita a inviare le proprie squadre nei due ospedali principali, che accolgono i feriti dei combattimenti dei giorni scorsi”.

Iniziata l'evacuazione degli stranieri
Nonostante il cessate il fuoco, diverse ambasciate procedono con l’evacuazione dei loro connazionali e di parte del proprio personale. Tra i Paesi che hanno dato ordine di evacuare i propri cittadini c’è il Giappone che da un paio d’anni ha avviato importanti progetti umanitari e di sviluppo nel Sud Sudan. “La fuga degli stranieri è dovuta alla mancanza di sicurezza, in primo luogo, ma anche alla carenza di cibo e di altri beni dovuti ai saccheggi dei negozi dove si rifornivano. È una situazione già sperimentata in altre zone del Sud Sudan. I combattimenti hanno conseguenze di lunga durata che colpiscono profondamente la popolazione che si trova depredata e priva d’assistenza” concludono le fonti di Fides. (L.M.)

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Nuovo portale della Ccee per l'unità spirituale dell'Europa

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Un portale che sia “strumento e cemento di quell’unità spirituale di cui l’Europa ha oggi più che mai bisogno”: così mons. Duarte da Cunha, segretario generale del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa), ha presentato la nuova versione di www.eurocathinfo.eu portale dell’informazione istituzionale delle Conferenze episcopali del continente. Non a caso - riferisce l'agenzia Sir - il lancio si è tenuto ieri, nel giorno della festa di San Benedetto da Norcia, patrono dell’Europa.

Ruolo fondamentale del cristianesimo nella costruzione dell’Europa
“Come Benedetto – prosegue mons. Da Cunha – che con la sua attività evangelizzatrice seppe unificare popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale nei ‘tempi bui’ dell’agonia dell’impero romano, ormai esausto, il portale vuole oggi essere una testimonianza di questa missione della Chiesa che mai ha rinunciato a costruire e unire l’unico popolo di Dio attraverso l’annuncio di Cristo in Europa nella certezza che il cristianesimo ha ancora oggi un ruolo fondamentale da rivestire nella costruzione della casa comune europea”.

Portale suddiviso in sei sezioni
Il restyling del portale europeo ha richiesto un anno ed è stato progettato anche con il contributo di vari collaboratori in Europa, tra cui il segretario del portale, Marin Oberan, membro della Conferenza episcopale della Bosnia-Erzegovina. La nuova versione del portale, accessibile anche su smartphone e tablet, è suddivisa in sei sezioni: la prima sezione, denominata “News delle Conferenze episcopali”, permette un aggiornamento costante del flusso di notizie. Nella sezione “In evidenza”, invece, cui compaiono le informazioni evidenziate direttamente dalle Conferenze episcopali. 

Visione d’insieme sulla Chiesa nel continente
Passando alla sezione “News dal Ccee” si avranno poi le notizie dell’intero organismo. Inoltre, il sito contiene una parte intitolata “Calendario europeo” che presenta gli appuntamenti principali delle Conferenze episcopali in Europa, del Ccee, della Comece (Commissione degli episcopati della Comunità Europea) e della Santa Sede; la mappa dell’Europa attraverso la quale è possibile accedere a una pagina di presentazione delle singole conferenze episcopali in diverse lingue.

La Santa Sede e l’Ue
Infine, dal banner del portale gli utenti potranno accedere ai siti ufficiali del Ccee, della Comece e ad alcune informazioni sulla presenza della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa e presso l’Unione Europea. (I.P.)

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Brasile. Chiesa di Rio lancia tregua olimpica: 100 giorni di pace

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“100 giorni di pace”: si intitola così l’iniziativa lanciata recentemente dal Dipartimento per la Pastorale dello Sport dell’arcidiocesi di San Sebastiano di Rio de Janeiro in vista della 31.ma edizioni delle Olimpiadi, in programma nella città carioca dal 5 al 21 agosto. Il progetto comprende numerose attività basate sul rilancio dei valori sportivi e sulla promozione della nuova evangelizzazione.

Olimpiadi siano opportunità di pace tra popoli e religioni
“Le Olimpiadi – ha spiegato l’arcivescovo di Rio, card. Orani João Tempesta – sono un’opportunità per promuovere la convivenza pacifica tra i popoli e le religioni”. Di qui, la sottolineatura del porporato riguardo all’importanza di “salvaguardare lo spirito della tregua olimpica dell’antica Grecia”. Tra le iniziative in programma, il “Joshua Camp” ovvero la Giornata mondiale olimpica per la gioventù, “Amici dello sport” ossia la campagna di accoglienza riservata alle famiglie degli atleti; la “Giornata della pace” per sensibilizzare gli studenti di tutte le scuole dell’arcidiocesi, e il “Festival dei giovani”, con in programma esibizioni musicali sul tema della riconciliazione.

La Croce Olimpica e l’Icona della pace
Da segnalare che ai Giochi olimpici di Londra, nel 2012, sono stati istituiti due simboli che accompagneranno le Olimpiadi di Rio ed anche tutte le successive edizioni: si tratta della Croce Olimpica e dell'Icona della Pace. L'artista londinese Jon Cornwall ha ideato la Croce utilizzando dodici tipi di legno diversi provenienti dai cinque continenti, in rappresentanza dei dodici Apostoli. L’Icona della Pace, invece, è un’opera che l’associazione Pax Christi International ha realizzato per la pace e la riconciliazione in Medio Oriente. Nell'icona, la pace di Cristo è rappresentata  tramite varie storie bibliche e la vita di alcuni Santi.

La tregua olimpica dell’antica Grecia
Il principio di “tregua olimpica”, ovvero della sospensione dei conflitti armati nel periodo dei Giochi, risale all’antica Grecia, all’VIII secolo a.C. L’idea è stata poi ripresa anche in epoca contemporanea dal barone Pierre de Coubertin, ideatore delle Olimpiadi moderne. La tregua olimpica è stata poi sancita definitivamente dall’Onu nel 1993 e va attuata sia per le Olimpiadi estive che per quelle invernali.

La Chiesa e lo sport
Forte anche il legame tra la Chiesa cattolica ed il contesto olimpico, non solo perché agli inizi del XX secolo de Coubertin conobbe personalmente Papa San Pio X che lo incoraggiò ad organizzare le prime Olimpiadi dell’era moderna. Ma anche perché la Chiesa è sempre stata consapevole dell’importanza dei sani valori sportivi quali il rispetto dell’avversario, la cura della corpo e la promozione della pace tra i popoli. (A cura di Isabella Piro)

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Gmg Cracovia: giovani iracheni pregheranno il 'Padre Nostro' in aramaico

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Saranno più di duecento i giovani cristiani iracheni che da tutte le diocesi del Paese partiranno per partecipare alla ormai prossima Giornata Mondiale della Gioventù (Gmg), in programma a Cracovia a fine luglio. E in quel contesto, durante la Via Crucis, alcuni di loro avranno l'occasione di recitare davanti al Papa il Padre Nostro in aramaico, la lingua di Gesù. “Sarà un momento importante per tutti noi, per essere confermati nella fede e nella comunione con tutta la Chiesa di Cristo” dichiara all'agenzia Fides il vescovo caldeo Basel Salim Yaldo, che accompagnerà i giovani iracheni nel viaggio in Polonia insieme all'arcivescovo Bashar Warda (alla guida dell'arcidiocesi caldea di Erbil), e ad una decina di giovani sacerdoti e a sette suore.

I giovani provengono da tutte le maggiori città irachene
I ragazzi iracheni che si preparano a partecipare alla Gmg di Cracovia - riferisce l'agenzia Fides - provengono in buona parte dalle diocesi di Baghdad, di Kirkuk e di Erbil. Tra questi ultimi, ci sono anche alcuni giovani che vivono da rifugiati nella capitale della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, dopo essere stati costretti a abbandonare insieme alle proprie famiglie i villaggi della Piana di Ninive. I giovani iracheni si sono preparati alla Gmg di Cracovia con alcuni incontri comunitari, e il 19 luglio, prima di partire per la Polonia, vivranno insieme una giornata di preghiere, canti e celebrazioni sacramentali improntate al Giubileo della Misericordia.

La preghiera in aramaico alla Via Crucis in comunione con le sofferenze dell'Iraq
​A Cracovia, durante la celebrazione della Via Crucis, alcuni di loro reciteranno la preghiera del Padre Nostro in lingua aramaica. “Celebrando quella pratica, con cui la Chiesa rivive la Passione di Cristo – sottolinea il vescovo Basel Yaldo – guarderemo anche alle sofferenze del nostro Paese alla luce delle sofferenze di Gesù. In quelle giornate i ragazzi e le ragazze iracheni scambieranno il racconto delle proprie esperienze con i giovani provenienti da ogni parte del mondo. E al nostro ritorno, convocheremo un incontro nazionale in cui i giovani che sono stati a Cracovia racconteranno a tutti la loro esperienza. Così potremo tutti toccare con mano che si può vivere la speranza cristiana e la comunione gioiosa con tutta la Chiesa anche nelle condizioni difficili che ci troviamo a vivere. Così ci accorgeremo che non occorre fuggire, emigrare, e che è bello poter vivere il dono della gioia cristiana nei luoghi dove siamo nati, e dove abbiamo incontrato Gesù, ascoltando l'annuncio del Vangelo”. (G.V.)

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Filippine: anche in un clima ostile, i vescovi annunciano la verità

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“Anche se possono sembrare una voce nel deserto”, i vescovi filippini devono continuare “a svolgere la missione del Signore e ad insegnare cosa è giusto e cosa è sbagliato”, perché  lo scopo “non è quello di vincere, ma di rimanere saldi nella fede”. È l’esortazione con cui il presidente della Conferenza episcopale filippina (Cbcp), mons. Socrates B. Villegas, ha aperto il 9 luglio i lavori della sua 113.ma Assemblea plenaria a Manila.

Al centro della sessione l’attuale situazione socio-politica del Paese
Al centro della sessione – riporta l’agenzia Cbcp - l’attuale situazione socio-politica del Paese, dopo la vittoria di Rodrigo Duterte, insediatosi come nuovo Presidente delle Filippine il 30 giugno. Una vittoria segnata, sin dalle prime battute, da attacchi contro l’episcopato - definito “corrotto e ipocrita” - e da diverse provocazioni, come l’idea di introdurre un sistema di “taglie” contro i narcotrafficanti, l’intenzione di imporre il controllo delle nascite e di reintrodurre la pena di morte nel Paese. Alle provocazioni i presuli hanno reagito in queste settimane con compostezza, invocando preghiere per i nuovi governanti e ricordando le ragioni della Chiesa.

Restare saldi nel Signore per difendere la vita e la dignità di ogni persona
Ragioni che essi devono continuare a difendere con coerenza, anche se meno ascoltati che in passato - come dimostra, tra l’altro, l’approvazione della legge sulla salute riproduttiva nel 2012 - ha sottolineato nel suo intervento mons. Villegas, citato dall’agenzia Ucan.  “Noi difenderemo con fermezza la vita e la dignità di ogni persona. Proteggeremo i deboli dal male e i confusi dall’errore. Arriverà anche il momento in cui le persone smetteranno di ascoltare la verità e saranno attirate dai miti”, ma questa traversata del deserto – ha rimarcato - sarà anche un’occasione “di purificazione e preghiera e uno stimolo a rimanere saldi nel Signore e a tornare ai nostri fondamenti. Sarà una prova per capire se siamo pronti al martirio”. Di qui l’esortazione ai confratelli a “proclamare la Parola, ad essere tenaci senza considerazioni di opportunità, a convincere, richiamare e incoraggiare con la pazienza e l’insegnamento”.

In discussione anche il prossimo Congresso mondiale della Misericordia
L’assemblea dei vescovi filippini si conclude oggi, 11 luglio. Oltre alla situazione socio-politica, i presuli hanno discusso delle linee-guida del prossimo biennio e i preparativi del quarto Congresso apostolico mondiale della Misericordia (Wacom) che si terrà a Manila dal 16 al 20 gennaio 2017, dopo la chiusura del Giubileo della Misericordia. (L.Z.)

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Celam: impegno per conversione pastorale sulla famiglia

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La bellezza dell’amore familiare, ma anche le priorità di una nuova pastorale: questi gli obiettivi dell’incontro svoltosi dal 4 all’8 luglio a Quito, in Ecuador, e dedicato all’Esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco “Amoris laetitia”. Il convegno, dal titolo “Abbiamo conosciuto l’amore, abbiamo creduto in lui”, è stato promosso dal dipartimento Famiglia, vita e gioventù del Celam (il Consiglio delle Chiese latinoamericane). Più di ottanta i delegati in rappresentanza delle Conferenze episcopali, dei movimenti con carisma familiare e della Rete degli istituti universitari latinoamericani della famiglia.

Integrare le fragilità familiari
Il presidente del Dipartimento, mons. Rubén Gonzáles Medina, vescovo di Caguas, a Portorico, durante l’incontro ha invitato i partecipanti a cercare nuovi orizzonti per il servizio pastorale alla famiglia. Il dibattito – riferisce l’agenzia Sir - ha messo in evidenza la bellezza dell’amore familiare e le necessarie innovazioni nella pastorale per integrare la fragilità familiare, l’educazione dei figli, all’interno di uno specifico approfondimento della spiritualità matrimoniale.

Richiesta autentica conversione pastorale
“La profondità e chiarezza pastorale dell’Esortazione apostolica – si legge nel comunicato finale – ci hanno illuminato per cercare cammini pastorali innovativi che ci permettano di andare incontro a tutte le famiglie, indipendentemente dalla realtà che stanno vivendo, per integrarle nella vita della Chiesa”. “Siamo consapevoli – continua il comunicato - che per arrivare al cuore delle famiglie è richiesta un’autentica conversione pastorale di tutti noi, che ci permetta di accompagnare le famiglie con misericordia affinché esse, rileggendo la propria storia nella preghiera, possano discernere la volontà di Dio in un cammino di speranza. Tutto ciò implica che manteniamo lo sguardo dei discepoli missionari che si alimentano con la luce e la forza dello Spirito Santo”.

Il bene della famiglia, decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa
Nella convinzione che, come si legge nell’Amoris laetitia, “il bene della famiglia sia decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa, il comunicato conclude: “Ci impegniamo a promuovere con maggiore intensità il Vangelo della famiglia, che risponde alle aspettative più profonde della persona umana, compresi i Paesi più secolarizzati. Annunciamo con fermezza che il matrimonio e la famiglia sono una vocazione e un cammino di santità per vivere il progetto di Dio”. (I.P.)

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Usa: card. Dolan e Wcc condannano le violenze a sfondo razziale

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Una ferma condanna dei tragici fatti avvenuti nei giorni scorsi negli Stati Uniti è giunta dall’arcivescovo di New York, card. Timothy Michael Dolan, durante la Messa celebrata domenica nella cattedrale di Saint Patrick. Il porporato – riporta L’Osservatore Romano - ha esortato i fedeli presenti a pregare sia per la comunità afroamericana, sia per le forze dell’ordine.

Il Paese chiede a Dio guarigione, pace, giustizia e riconciliazione
Durante la celebrazione, sono stati ricordati i due afro-americani uccisi dalla polizia e i cinque agenti morti durante la conseguente manifestazione di protesta che si è tenuta per le strade di Dallas. “Dal Minnesota alla Louisiana fino al Texas questa unica nazione affidata a Dio esamina la propria anima e chiede a Dio guarigione, pace, giustizia e riconciliazione. Dio è il nostro creatore e noi siamo sue creature, e siamo lacerati. Quindi — ha ricordato il card. Dolan ai fedeli presenti, tra cui il sindaco di New York, Bill de Blasio — per ripararci abbiamo bisogno di ascoltare le sue istruzioni”.

Il presidente della Usccb: resistere all’odio che acceca
La condanna dell’arcivescovo di New York si aggiunge a quella del vescovo di Dallas, mons. Kevin Farrell, e a quella espressa a nome di tutti i vescovi dal presidente della Conferenza episcopale (Usccb), mons. Joseph E. Kurtz, che in una nota ha esortato tutti a “resistere all’odio che non fa vedere la nostra comune umanità”. Egli ha quindi ricordato che come la polizia “non è un nemico senza volto”, così “un cittadino sospetto non è una minaccia senza volto”, richiamando tutti a riflettere sul valore della vita e della dignità di ogni persona.

La condanna del Consiglio Mondiale delle Chiese
Anche il Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) ha condannato l’escalation di violenze. Agnes Aboum, moderatrice del comitato centrale dell’organismo ecumenico, ha espresso solidarietà alle vittime e a i loro familiari e ha auspicato che la crescente ondata di odio a sfondo razziale possa al più presto far posto al clima di pace e riconciliazione di cui il mondo, e in particolare gli Stati Uniti, hanno bisogno. “Mentre lavoriamo e siamo impegnati in prima linea contro il razzismo e la discriminazione, che sono le cause principali che scatenano rabbia e violenza indicibili — ha dichiarato Aboum — preghiamo affinché tutti noi possiamo diventare catalizzatori per il cambiamento. Dobbiamo camminare tutti insieme, a livello globale, nella stessa direzione, e continuare il nostro cammino come popolo di Dio, dando speranza alle persone vulnerabili, alle persone che hanno perso i propri cari, alle persone che vivono sempre più quotidianamente nella paura”. Preghiere e dichiarazioni di cordoglio e solidarietà sono state trasmesse, domenica in streaming in tutte le Chiese membro del Wcc negli Stati Uniti in risposta alle violenze e agli scontri tra la polizia e la comunità afroamericana. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 194

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.