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Sommario del 21/07/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Verso la Gmg. Mons. Oder: Francesco e Wojtyla nel cuore dei giovani

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Manca ormai meno di una settimana agli eventi della Giornata mondiale della gioventù a Cracovia. Una Gmg nel segno della Misericordia e nella memoria viva di San Giovanni Paolo II, artefice di queste Giornate e “guida del popolo polacco nel suo recente cammino storico verso la libertà”. Così, Papa Francesco ha ricordato l’importanza di Karol Wojtyla per la gioventù di tutto il mondo e per la Polonia, nel videomessaggio trasmesso dai media polacchi nell’imminenza della Gmg. Proprio su questo speciale legame tra Francesco, Giovanni Paolo II e i giovani, Alessandro Gisotti ha intervistato mons. Slawomir Oder, postulatore della Causa di Canonizzazione di Papa Wojtyla: 

R. – Possiamo cogliere due aspetti: uno è senz’altro un omaggio che Papa Francesco rende a quel grande artefice delle Giornate mondiali della Gioventù che ancora oggi, dopo tanti anni, costituiscono una grande ricchezza per la Chiesa, un elemento e un momento aggregativo che, soprattutto nel mondo così lacerato dall’odio, dal terrorismo, dalle divisioni, dalle paure, fa incontrare persone di diverse nazioni, di diverse lingue, radunate nel nome dell’ideale dell’amore proposto da Cristo. Un secondo elemento che sicuramente non ci può sfuggire, e che è stato sottolineato anche da Papa Francesco nel suo messaggio, è il legame di Giovanni Paolo II con il messaggio della Misericordia: il grande Apostolo della Misericordia. Perciò, in questo anno del Giubileo della Misericordia non poteva mancare questo pellegrinaggio alla terra dove si trovano le radici di due grandi apostoli della Misericordia: suor Faustina e San Giovanni Paolo II.

D. – E’ bello pensare che ci saranno anche molti sacerdoti e forse qualche vescovo che hanno maturato la propria vocazione durante una Gmg di Giovanni Paolo II e che magari adesso accompagnano i giovani alla Gmg di Papa Francesco. Anche loro potranno vivere un’esperienza forte di fede…

R. – Sicuramente è una grande esperienza. Durante questi anni delle Gmg, tantissimi giovani hanno trovato il loro orientamento vocazionale e molti di loro oggi sono già sacerdoti o vescovi. Mi piace pensare alla Giornata mondiale della Gioventù proprio in una chiave familiare di un’iniziativa di un padre, come era Giovanni Paolo II, e come veniva percepito anche dai giovani: un padre esigente, ma nello stesso tempo un padre che poteva pretendere dai suoi figli, perché sapeva che sono capaci di vivere quello che sono. Mi piace pensare alle Giornate Mondiali della Gioventù in una chiave di sviluppo di quel pensiero che Giovanni Paolo II ha espresso nel suo libro “Amore e responsabilità”, una proposta di itinerario spirituale per le giovani coppie, una proposta di itinerario spirituale per tutte le persone che cercano una loro realizzazione nella vita, vivendo la vita come la risposta al grande dono dell’amore di Cristo, una risposta matura, consapevole.

D. – Karol Wojtyla fin da giovane sacerdote ha sempre vissuto esperienze forti con i giovani, con le giovani famiglie. Jorge Mario Bergoglio è stato giovane professore e ha avuto sempre a che fare con i giovani, con gli studenti, anche a Buenos Aires. In qualche modo l’esperienza forte che questi due uomini hanno avuto fin dall’inizio del loro percorso, al servizio di Cristo, poi la vediamo anche nella capacità di farsi ascoltare dai giovani…

R. – Sì, è una grande sfida quella di arrivare oggi, in mezzo a tanto chiasso, tanti suoni, tante voci profetiche false, al cuore dei giovani. Entrambi i Papi – San Giovanni Paolo II e Papa Francesco – hanno questa capacità di parlare al cuore dei giovani. Sicuramente elemento determinante è il fatto che la loro voce viene ascoltata, il fatto che sono persone che parlano col cuore, parlano pronunciando parole di verità e parlano con il messaggio della speranza, di cui i giovani oggi hanno tanto bisogno.

D. – “Chi sta con i giovani, resta sempre giovane”, questo proverbio polacco che Giovanni Paolo II ha ripetuto ed è stato quasi un po’ il motto alla fine della Gmg di Tor Vergata, vale anche oggi non solo per i Papi, ma sicuramente anche per i vescovi, i cardinali e i sacerdoti, che saranno a Cracovia…

R. – Io penso che una splendida icona di questo contributo, di questo arricchimento l’abbiamo avuta già a Rio, quando abbiamo visto i vescovi in un atteggiamento certamente non molto usuale per il loro incarico, ballando con i giovani. E’ sicuramente un evento che costituisce un momento di arricchimento, di arricchimento reciproco, per la sovrabbondanza della fede, dell’amore, ma anche della spontaneità; un aggiornamento del linguaggio, delle parole, dei simboli, dei gesti e del modo di vivere. La Giornata Mondiale della Gioventù è sicuramente uno splendido momento in cui viviamo quel costante aggiornamento della Chiesa e quello stare al ritmo dei tempi, quel sentire il cuore palpitante del mondo dei giovani, che indica sicuramente le linee per i pastori da accogliere e seguire nei programmi pastorali.

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Card. Cordes: Carmen è stata la mente teologica del Cammino

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Si terranno oggi alle 18.00 nella cattedrale dell'Almudena a Madrid le esequie di Carmen Hernandez, iniziatrice con Kiko Arguello del Cammino neocatecumenale. Si è spenta martedì nella capitale spagnola all’età di 85 anni. Il rito sarà presieduto dall'arcivescovo di Madrid mons. Carlos Osoro Sierra. Saranno presenti numerosi vescovi e cardinali e gli itineranti di tutto il mondo. Roberto Piermarini ha chiesto al cardinale Paul Joseph Cordes che è stato Incaricato di san Giovanni Paolo II per l’Apostolato del Cammino, cosa ha rappresentato Carmen per il Cammino neocatecumenale: 

R. - Carmen è stata una donna molta importante per l’iniziativa della nuova evangelizzazione. Kiko è il catechista, ma Carmen, con tante ispirazioni teologiche ed ecclesiali, lo ha molto aiutato; conosceva come pochi i documenti del Concilio Vaticano II; conosceva tutti i discorsi di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI, di Francesco. Per me era un po’ come la mente teologica del Cammino: posso affermare che è per merito suo che ho potuto studiare molto bene la teologia. Ho sempre ammirato la conoscenza e l’insistenza di Carmen sulla verità della fede.

D. - Che eredità lascia al Cammino Carmen Hernandez?

R. - Come donna ha avuto un ruolo molto importante nella Chiesa e ha dato un modello a tutte le donne del Cammino neocatecumenale: essere ispiratrici della fede e della pietà per il Cammino e per la Chiesa. Questo a livello pedagogico. A parte questo, la sua ispirazione, dei tanti discorsi che ha fatto – ho accompagnato per tanti anni il Cammino – ne ho sempre notato la profondità. A parte questo modello antropologico è anche una spinta, perché la Chiesa ha bisogno della verità della fede. La fede non nasce nel cuore dell’uomo: nasce dalla Parola di Dio e il Cammino, e in particolar modo Carmen, ha conosciuto la Scrittura. Questo è molto importante, perché mostra la grande forza di Carmen nel non nascondere la verità della fede. Quando ho conosciuto il Cammino, ho ammirato molto anche la conoscenza del Vecchio Testamento che anche noi della Chiesa, i pastori, abbiamo un po’ dimenticato. E così verso tutta la rivelazione, Carmen l'ha articolata contro una sensibilità che oggi abbiamo diffuso ai fedeli: nel mio cuore so ciò che Dio vuole. Questo non è vero! Dio ha parlato! Dio ha insistito che si diventa santi tramite la volontà di Dio. Questo è importantissimo! Così per me Carmen è una figura che ha sottolineato e che sottolinea anche nel futuro la dipendenza dell’uomo dalla rivelazione, dalla volontà di Dio se questo uomo, questa donna vogliono essere missionari e diffondere la verità della fede nella società di oggi.

D. - Il modo di relazionarsi di Carmen era spesso molto schietto e diretto. Che cosa nascondeva?

R. - Sono stati i tratti principali che l’hanno accompagnata per tutta la vita. Carmen ha cercato la sua strada partendo dalla base della rivelazione e ha dovuto lottare molto. È stata membro di una congregazione e poi in una baraccopoli  di Madrid. Veniva da una famiglia molto ricca, molto stimata in Spagna. Così ha praticato sempre una verità della chiarezza, della sincerità che ha applicato davanti a tutti le persone con le quali si rapportava. Qualche volta sembrava che questo offendesse le persone, ma io ho visto sempre un grande amore da parte di Carmen. Non ha utilizzato la diplomazia per nascondere qualcosa come si fa spesso: non diciamo più la verità perché non vogliamo offendere nessuno, ma così la verità si nasconde. Invece Carmen era sincera per il bene dell’altro. Qualche volta la verità ci scomoda: Carmen ha voluto il bene dell’altro utilizzando questa “verità che scomoda” e non nascondendo la verità coprendo tutto con una 'salsa dolce'. Lei non faceva questo. Era un grande bene, per la sincerità del contatto di un uomo con l’altro anche nella nostra chiesa. Quando vedo i nostri ambienti ecclesiali: quanto si nasconde! Quanto si parla in modo discreto, di nascosto, magari si parla male dell’altro, … Anche Papa Francesco lo ha detto. Carmen non aveva questa 'malattia'. Così ammiravo il suo coraggio e la sua sincerità.

D. - Che cosa perde la Chiesa con la sua morte?

R. - La morte di una grande donna è sempre una grande perdita per la Chiesa. Ho sempre detto: “Carmen adesso continua ad ispirare il Cammino”. Io non ho tanta paura della perdita di Carmen perché credo fortemente che anche dal cielo ci ispirerà con le sue tracce. Se posso fare un paragone un po’ rischioso: Giovanni Paolo II è morto, ma continua ad ispirare la Chiesa; così le grandi figure della Chiesa, che hanno fatto la loro opera nel senso di Dio, continuano anche ad ispirare da morti, perché dal cielo hanno un grande potere. Noi, non a caso, chiediamo alle persone grandi che sono morte, di continuare ad aiutarci. Così penso anche che la perdita di Carmen umanamene è una sofferenza ma non vuol dire che smetterà di ispirare il Cammino Neocatecumenale.

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Congedo di mons. Celli, la gratitudine di Parolin e Viganò

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In un clima familiare si è svolta stamani alla sede della Segreteria per la Comunicazione, la cerimonia di congedo dell’arcivescovo Claudio Maria Celli, al termine del suo servizio in Vaticano, dopo 10 anni alla guida del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. All’evento hanno preso parte il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e il prefetto del dicastero per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò, oltre ai vertici dei media vaticani e della Sala Stampa e numerosi giornalisti. Il porporato ha sottolineato le qualità umane e spirituali di mons. Celli e il suo importante servizio nella diplomazia vaticana prima di essere chiamato nel 2007 ad occuparsi di comunicazione. Proprio su questo ruolo particolarmente significativo, ascoltiamo, l’intervento di mons. Dario Edoardo Viganò

R. – Io ringrazio davvero di cuore don Claudio per avere seguito proprio dal giugno dello scorso anno la costituzione della Segreteria. L’ha seguita, anzitutto, con il patrimonio della sua conoscenza della Curia Romana e poi con il ricco percorso compiuto dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali che lui ha seguito con molta dedizione. Devo anche, onestamente, sottolineare che l’impegno di mons. Celli è stato anche quello di disporre, in un percorso preciso, l’esigenza della riforma dei media vaticani. Questo, perché lo dico? Perché fu proprio lui – erano i primi mesi in cui ero al Centro Televisivo Vaticano – a convocare dei tavoli di incontro e di collaborazione più strategica tra l’Osservatore Romano e il Centro Televisivo Vaticano e la Radio Vaticana. Quindi davvero lo ringrazio perché ha messo su un binario preciso il desiderio del Papa di un ripensamento del sistema comunicativo della Santa Sede: lo ringrazio di cuore perché la sua intelligenza, la sua capacità di disporre le cose con pazienza hanno permesso di muovere i primi passi della riforma.

A margine della cerimonia, Alessandro Gisotti ha chiesto a mons. Claudio Maria Celli, che ora potrà dedicarsi a tempo pieno ai suoi studenti di Villa Nazareth, un bilancio del suo servizio per la Santa Sede nel campo delle comunicazioni sociali: 

R. – Vado via serenamente e contento di aver potuto servire la Chiesa e il Papa, così come nel 2007 mi chiese di fare Papa Benedetto. Un servizio nel Pontificio Consiglio delle Comunicazioni che è il primo Consiglio voluto dal Concilio Vaticano II. Credo che in questi anni – pur con i limiti e le difficoltà – abbiamo cercato di aiutare la Chiesa nelle sue diverse espressioni, a essere non solamente più comunicativa: il problema della comunicazione, oggi, è l’inter-comunicazione, l’interattività … E poi c’è tutta questa multimedialità e per di più la sfida del digitale. E la domanda era sempre questa, della sfida che si poneva alla Chiesa: come affrontare questo dialogo con il mondo di oggi, con l’uomo di oggi, che è abituato a una dimensione comunicativa diversa. C’è una cultura digitale. E in questo aspetto credo che la Santa Sede veramente abbia cercato di essere di servizio alle varie comunità ecclesiali locali, per affrontare questa sfida e dare delle risposte a questa sfida.

D. – Qual è, secondo lei, l’eredità più feconda che il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali lascia alla Segreteria per la Comunicazione – News.va, Pope App, @Pontifex … il Pontificio Consiglio è stato molto presente nella sfera del continente digitale...

R. – Direi che questo sia stato, dal punto di vista nostro, come Pontificio Consiglio, uno dei grossi contributi, e direi che su questo abbiamo marcato dei momenti positivi. Lei pensi al twitter, lei pensi a cosa era news.va, e così anche il Pope App. Poi, è innegabile che noi sentissimo profondamente anche il bisogno di una maggiore sinergia o di una unificazione maggiore tra le varie possibilità mediatiche della Santa Sede. Io ricordo certi colloqui avuti con i superiori della Santa Sede su queste tematiche. Oggi lascio, ma lascio per modo di dire: credo che il nostro servizio alla Santa Sede e alla Chiesa non termini mai. Come sono d’accordo con padre Lombardi che non si va mai in pensione. Anche perché, se tu sei innamorato di quella persona, non puoi non continuare a parlare di lui: ecco perché non si può andare in pensione, perché siamo sempre coinvolti in questo. Io, poi, ho la grande fortuna di potere continuare a stare a Roma e servire la Chiesa proprio tra i giovani universitari e tra coloro che dopo aver fatto un percorso universitario non sono più così giovani. Per me, Villa Nazareth – è dove il Papa è venuto recentemente a farci visita – è una parte fondamentale della mia vita.

D. – Papa Francesco ha posto, fin dall’inizio del suo Pontificato, il tema della “cultura dell’incontro”. La Chiesa, i comunicatori come possono raccogliere questa sfida, per esempio nel linguaggio?

R. – Io trovo che la parola “comunicare” non esprima tutto. Il Papa parla di una cultura del dialogo, di una cultura dell’incontro. Il Papa – se lei ricorda – nel suo primo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni, ha citato la parabola del Buon Samaritano, che significa “andare all’incontro di …”, ma non soltanto per comunicare, ma per farsi carico, responsabilmente, della realtà dell’altro. Molte volte, la parola “comunicazione” può indurci in errore. Il problema non è soltanto “comunicare”, ma di intessere un dialogo con l’altro, il che vuol dire che la parola “comunicazione” – e lei lo ricorda, quel messaggio del Papa sul silenzio, di Papa Benedetto – perché per ascoltare l’altro, io devo fare silenzio nel mio cuore, perché devo mettermi in sintonia con l’altro, devo dare all’altro la possibilità di esprimere se stesso. E allora, il mio problema non è solo “comunicare”, ma “dialogare” con l’altro, lasciarmi coinvolgere con l’altro. C’è un dialogo, ma poi c’è un farsi carico, un responsabilizzarsi dell’altro, e questo per me è molto importante ed è una sfida continua.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La sfida di Erdogan.

Aldo Pigoli sulla Nigeria tra sviluppo e terrorismo.

Greg Erlandson direttore del Catholic News Service.

Nato per essere arte: Emilio Ranzato sul cinema in Polonia.

Testimone della Divina Misericordia: il cardinale Robert Sarah e l'arcivescovo Arthur Roche sulla prima festa liturgica di santa Maria Maddalena.

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Oggi in Primo Piano



Turchia: sospesa la Convenzione europea dei diritti umani

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“Restate in piazza” per “difendere la democrazia”, l’appello lanciato stamane - con un sms al popolo turco - dal presidente Erdogan, che ieri sera ha dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi, conferendo poteri straordinari al governo, a sei giorni del fallito golpe. Annunciata anche la sospensione della Convenzione europea dei diritti umani. Moniti giungono da numerosi governi ad Ankara perché non calpesti lo stato di diritto. Il servizio di Roberta Gisotti

I toni sono accorati, richiamano all’amor patrio e alla difesa della nazione e vendicativi contro i traditori. Erdogan chiede sostegno al popolo turco nella svolta autoritaria, oltre 60 mila le epurazioni di militari, poliziotti, magistrati, avvocati, dipendenti pubblici, giornalisti, insegnanti di scuole e università. Circa 10 mila gli arresti, altri 32 giudici questa mattina. Fortemente intimorita tutta la popolazione dissidente, impedita a lasciare il Paese. Preoccupazione per la repressione in atto hanno espresso ministri degli Esteri tedesco, olandese, canadese, mentre Vienna ha convocato l’ambasciatore turco per chiarimenti. Proteste arrivano da Amnesty international, da organizzazioni della stampa internazionale e della magistratura in Italia. Monito anche dal Consiglio d’Europa. Ma la risposta di Erdogan è: “Per 53 anni abbiamo bussato alle porte dell’Unione Europea e ci hanno lasciato fuori, mentre altri entravano”, come dire ‘ora facciamo a modo nostro’. E se l’Europa unita a Bruxelles tace, anche gli Stati Uniti prendono tempo e ne profitta Erdogan.

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Turchia: la testimonianza del padre domenicano Claudio Monge

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Padre Claudio Monge, piemontese, domenicano e teologo delle religioni, vive da 14 anni in Turchia. A Istanbul è parroco nella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo. A suo avviso, quanto sta accadendo nel Paese è una evoluzione di ciò che si era visto negli ultimi tempi. Ascoltiamolo al microfono di Fabio Colagrande

R. – A me sembra una semplice impennata, in termini di proporzioni, rispetto ad una politica che il potere turco sta applicando sistematicamente da oltre due anni. Basta avere un minimo di memoria storica. La svolta è stata il famoso scandalo per corruzione che falciò uno degli esecutivi del governo, nel dicembre del 2013, e che interessò palesemente i membri della famiglia del presidente stesso e di molti ministri. All’epoca - qualcuno deve averlo dimenticato – furono rimossi più di 500 funzionari di polizia - tra cui il capo delle forze dell’ordine di Istanbul - accusati di aver partecipato ad un’inchiesta della magistratura su presunte corruzioni e concessioni di permessi, anche per costruzioni su aree tutelate, che riguardava fra l’altro l’operato dello stesso ministro di allora. E’ iniziato allora un processo di distruzione sistematica dello stato di diritto in Turchia, quindi la fine dell’indipendenza della magistratura e poi anche dell’informazione e della stampa che sono due pilastri della democrazia. Chi si dice particolarmente preoccupato oggi è perché o ha dormito finora o ha fatto finta di non vedere.

D. – Come considera le reazioni che si sono avute dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti a questa nuova svolta autoritaria di Erdogan?

R. – Mi paiono ancora una volta l’esempio plastico della drammatica crisi di una politica internazionale che ha perso non solo credibilità, ma anche qualsiasi fondamento etico oltre che visione di futuro. Quello che, a mio modo di vedere, erroneamente si definisce ancora Unione Europea, ma che è un’accozzaglia di Stati imprigionati nei loro egoismi nazionali, ha – penso – da tempo perso la bussola dell’ideale di un’Europa delle nazioni dalle politiche inclusive, che quindi aveva lo spessore morale per fare un discorso credibile rispetto anche a certe derive che - ripeto - non ci sono da oggi in Paesi come la Turchia. Quando sento dire in questi giorni “se la Turchia dovesse votare la reintroduzione della pena di morte, saremmo costretti a riconsiderare la sua candidatura all’Unione Europea”, mi viene quasi da ridere. Bisogna considerare un lungo processo - gli ultimi due decenni, soprattutto gli ultimi 15 anni del potere dell’Akp e del governo dell’attuale presidente Erdogan - e tenere presente una parabola molto complessa, che nei primi anni è stata caratterizzata, a mio modo di vedere, da un processo sincero di avvicinamento all’Unione Europea. La Turchia ha fatto di tutto per rientrare in quelle condizioni che sono diventate sempre più incomprensibili e impalpabili anche per certi versi, con un rincarare la dose anche di richieste in nome dei diritti umani, della libertà e così via. Questa Unione Europea, dopo che per 15 anni ha tenuto in scacco la Turchia, se si vanno a vedere le risposte, e di fatto implicitamente ha orientato questa progressiva deriva del potere, qualche mese fa cosa fa? In nome della tutela dei diritti umani, letteralmente appalta la gestione del dramma dell’immigrazione alla Turchia stessa, con questa enorme promessa in termini finanziari, in un accordo che, a mio modo di vedere, non solo è contraddittorio rispetto a quello che si è detto per anni, ma è semplicemente “sconcio” e che, tra l’altro, per me avrà un effetto boomerang anche nei prossimi mesi e nei prossimi anni per la stessa Unione Europea. Io direi che in Turchia anche i moderati – chiamiamoli ancora europeisti - sempre meno numerosi, da tempo credo abbiano smesso di guardare al Nord del Mediterraneo con una qualche speranza. Oggi direi che la frustrazione e la delusione sono cresciute a dismisura, pronte purtroppo anche eventualmente ad essere trasformate in rancore esplosivo dall’attuale leadership populista del Paese.

D. - E’ uno scenario, quello turco, secondo lei, che potrebbe peggiorare la situazione delle minoranze nel Paese, come quella cristiana?

R. – Io non credo che questa sia una chiave di lettura pertinente in questo momento. Cosa voglio dire? Il problema non è tanto la posizione delle minoranze religiose in questo momento in Turchia, ma la possibilità di esprimere un’opinione che sia anche eventualmente dissenziente rispetto al potere forte. In altre parole, io credo che il problema maggiore della Turchia attuale non sia tanto l’appartenere eventualmente, ad esempio, ad una minoranza cristiana, in un Paese dove effettivamente attualmente si gioca in modo anche pericoloso con la manipolazione religiosa del politico, in senso islamico, ma credo che il problema più grosso sia quello di essere genericamente associati a quel mondo “straniero” fatto in questo momento di nemici della nazione turca tout court. Quindi - lo sappiamo bene - quando si gioca la polarizzazione delle posizioni, se tu non sei con me, sei necessariamente contro di me, ma non tanto per il fatto che sei cristiano ma per il fatto che la pensi diversamente.

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Nizza: bufera sulla sicurezza. Clima di paura in città

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Strage di Nizza: i cinque sospetti fermati nel quadro delle indagini sono stati trasferiti al Palazzo di Giustizia di Parigi per comparire davanti ai giudici. Intanto cresce la polemica sulla sicurezza: la stampa rilancia che il governo non ha fatto abbastanza per proteggere la Promenade des Anglais il 14 luglio e il ministro dell’Interno dispone una valutazione tecnica. Diffidenza e sfiducia crescono: “Non possiamo cedere”, spiega al microfono di Gabriella Ceraso, Claire Draillard che collabora con la Radio Cristiana Francese (RCF) di Nizza, ed è impegnata col Movimento dei Focolari in un progetto di dialogo interreligioso chiamato "Vivre ensemble à Cannes": 

R. – E’ una settimana che qui, in Costa Azzurra, si vive un clima veramente di paura, paura di tornare a vivere come prima. Il primo giorno – anche alla radio - tutti hanno parlato delle vittime, mentre adesso c’è soltanto questa questione: “Come mai non c’era la sicurezza?”. E vediamo che il governo e il sindaco, tutti, dicono: “E’ colpa tua!” – “E’ colpa tua!”.

D. – Oggi anche gli interrogatori delle persone fermate. Risulta che fossero tutte persone  abbastanza normali e che nessuna fosse segnalata. C’è una crescita della diffidenza reciproca?

R. – Sì, sì, esattamente. Io ho un albergo a Cannes, in cui c’è un impiegato musulmano, e quando venerdì mattina sono venuta a lavorare gli altri mi hanno detto: “Ma, forse, anche lui potrebbe essere qualcuno che potrebbe fare qualcosa di male…”. E io ho detto: “Questo non lo dobbiamo neanche pensare!”. Poi, due ore dopo, lui mi ha chiamato per dirmi che sua mamma era morta nell’attentato… con questo voglio soltanto dire che abbiamo paura dell’altro e questo è qualcosa che dobbiamo riuscire a cambiare. Anche un'altra persona che lavora con noi noi mi ha detto: “Adesso non voglio più parlare con gli stranieri, con i musulmani, perché potrebbero essere terroristi…”. Ma non possiamo vivere in questo clima!

D. – In unione anche con esponenti di altre religioni che cosa state pensando di fare?

R. – Venerdì scorso ci siamo incontrati tutti insieme alla Moschea per pregare insieme, sabato alla Sinagoga e domenica in Chiesa. Domenica sera ci siamo ritrovati tutti insieme sulla Croisette, a Cannes, per essere insieme, in silenzio, e per dire che non dobbiamo smettere di vivere come fratelli. Lunedì siamo andati tutti insieme a Nizza, sulla Promenade des Anglais per essere tutti insieme…  La sera – ed è stata una cosa bella – abbiamo potuto spostare tutti i fiori che erano sulla Promenade, perché le macchine dovevano di nuovo circolare. E questo è stato fatto in un clima veramente di grande solidarietà… Dunque dobbiamo essere tutti testimoni che la fraternità è più forte dell’odio.

D. – I musulmani che lavorano con voi, che voi conoscete, che lettura danno di quanto accaduto?

R.-  Per loro è molto difficile! Tante persone li guardano male… Per loro sapere che l’uomo che ha fatto tutto questo era tunisino e musulmano è molto, molto duro. Ma dobbiamo anche pensare che tanti che hanno aiutato sono musulmani: uno che ha cercato di fermare il terrorista era musulmano, tanti che hanno aiutato a soccorrere e a curare erano musulmani.

D. – Di quella persona che idea si è fatta la gente: era solo uno squilibrato o uno jihadista? Cosa si dice?

R. – Non si sa ancora… Ma certamente non era un religioso: tutti gli amici musulmani hanno detto che questo uomo era del diavolo, “perché non è possibile – per noi – dire che è un musulmano. Mai Dio vorrebbe qualcosa cosi!”.

D. – Lo Stato francese ribadisce tanto una parola: coesione. Per un credente, per lei come per le persone con cui si confronta, che cosa significa?

R. – Per me che sono credente, sono sicura che siamo tutti fratelli in Dio e credere che possiamo affidare tutto questo a Dio e che dobbiamo restare uniti con coloro che non sono credenti. Dobbiamo diffondere questa fraternità: è l’unica cosa che ci potrà far superare le difficoltà.

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Dacca. Una nuova chiesa cattolica per combattere l’odio

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In Bangladesh il dolore si trasforma in speranza. La famiglia di Simona Monti, morta nell'attentato di Dacca del primo luglio scorso insieme ad alttre 19 persone, aiuterà a costruire una chiesa nel Paese per sostenere la piccola comunità cristiana. Il nuovo tempio sorgerà nel villaggio di Haritana, dove ci sono un centinaio di cattolici. Si tratta di un progetto promosso da Aiuto alal Chiesa che Soffre. Gioia Tagliente ha intervistato don Luca Monti, fratello di Simona: 

R. – E’ stata una scelta familiare che abbiamo fatto per concretizzare questa esperienza di sofferenza che abbiamo vissuto, in uno stile di preghiera e di speranza cristiana. Vogliamo, come famiglia, che in memoria di Simona la comunità cristiana in Bangladesh, per quanto una piccola minoranza, non si senta smarrita e possa ricevere così un incentivo attraverso il nostro aiuto, perché possa crescere come comunità e soprattutto crescere anche nel dialogo e nell’incontro con le altre religioni.

D. – Qual è il messaggio che si vuole lanciare con questo progetto?

R. – C’è una frase del Vangelo che noi stiamo vivendo e che certamente ci accompagna anche in questi momenti di naturale smarrimento e di sofferenza, ed è questa Parola del Signore: “Non abbiate paura: io ho vinto il mondo”. L’augurio è quello che facciamo ai cristiani in Bangladesh: quello di potere accrescere la fiducia sulla Parola del Vangelo, e celebrando l’Eucaristia veramente possano sentire forte la presenza del Signore che già è il vittorioso Re della Pace.

D. – In Bangladesh come i cristiani vivono la propria fede, dopo l’attentato?

R. – Suppongo che stiano attraversando un momento di smarrimento e di paura. Questo è normale, perché ho visto che anche noi uomini occidentali siamo piuttosto smarriti. Tuttavia, in questi giorni ho avuto modo di incoraggiare tantissime persone trasformando l’ovvio dolore in una testimonianza cristiana. A chi mi chiedeva se è necessario conoscere il Corano per non morire, mi è sembrato opportuno rispondere: “E’ meglio conoscere il Vangelo per essere testimoni di un messaggio di amore, di riconciliazione e di speranza".

D. – Perché costruire una chiesa proprio nel villaggio di Aritana?

R. – Era uno dei progetti proposto dall’Associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”. Mi è sembrato opportuno scegliere questo progetto, forse per il nome di San Michele a cui sarà dedicata questa chiesa: è colui che davanti a Dio tiene in mano la spada della giustizia misericordiosa del Signore; è il protettore della Chiesa, è colui che negli ultimi tempi vincerà sul male, soprattutto sul male con la “m” maiuscola. Ed è anche un testimone di speranza, l’arcangelo Michele. Credo che questa sia una bella testimonianza. E poi, c’è forse un fatto anche più affettivo e familiare, considerando che il bambino di mia sorella si sarebbe chiamato Michelangelo, proprio in memoria del Santo arcangelo Michele.

D. – Diverse le donazioni arrivate: quanto ancora vi occorre per partire con la costruzione?

R. – Io questo non lo so. Noi abbiamo devoluto una somma di 5 mila euro, e altre piccole somme invece le abbiamo destinate ad altre associazioni caritative: penso a Medici Senza Frontiere, anche questo avrebbe reso molto contenta mia sorella.

D. – Cosa vuole dire in onore delle vittime?

R. – Credo che noi siamo allo stesso tempo vittime di un sistema che, purtroppo, ci lega all’emotività, e passata l’onda emotiva siamo veramente condannati e dimenticare sempre tutto. Il sangue di queste vittime non è semplicemente il sangue di una disgrazia, di una tragedia; io ho interpretato questo avvenimento tremendo come un versamento di sangue di testimonianza e quindi parlo di martirio. Perché non si dimentichi questo martirio, occorre che ci impegniamo tutti, proprio in memoria di queste vittime, per un mondo migliore. E vorrei che ogni cristiano possa imprimere nella propria coscienza le parole del Signore: “Venga il Tuo Regno, che è un Regno di giustizia e di pace”. Possiamo essere costruttori tutti di un mondo più giusto e fraterno.

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Migranti: altre 22 vittime al largo della Libia, salve 209 persone

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Sono morti per soffocamento, e annegamento i 22 migranti, tra cui 21 giovani donne, trovati senza vita in un gommone, dalla nave Acquarius di Medici senza frontiere, impegnata in operazioni di soccorso nel Mediterraneo, dopo avere tratto in salvo 209 migranti tra cui 50 minori di cui 45 non accompagnati, al largo delle coste libiche. La nave dovrebbe arrivare domani a Trapani. Intanto un’altra unità di Msf è invece arrivata a Pozzallo, in provincia di Ragusa, con a bordo 628 migranti, recuperati al largo della Libia davanti a Sabratah, in diverse operazioni di soccorso. Tra di loro anche un bambino di 7 mesi in viaggio con la famiglia. Pronta la macchina organizzativa dell'accoglienza e gli agenti del gruppo interforze per procedere all'identificazione e al trasferimento in altre strutture di almeno 300 migranti e individuare i presunti scafisti. Di fronte questa ennesima tragedia in mare, il centro Astalli in una nota  sottolineato l’urgenza  di “garantire canali umanitari sicuri a  quanti, in fuga da conflitti e persecuzioni, cercano protezione”, come  unica strada percorribile per evitare altre morti. Ascoltiamo il commento di Marco Bertotto di Medici senza frontiere al microfono di Marina Tomarro

R. - Il nostro team, che si trova a bordo della nave Aquarius, ha ricevuto alle 10 di ieri mattina una chiamata di soccorso da parte della guardia costiera che ha richiesto un intervento su due gommoni che si trovavano in difficoltà a largo della Libia. Quando sono arrivati, i nostri soccorritori hanno visto in un primo gommone che conteneva 104 persone, 22 corpi sul fondo. La ricostruzione è ancora tutta da fare, ma fondamentalmente queste informazioni ci consentono di dire con certezza che nel corso della notte precedente è entrata dell’acqua nel gommone; a seguito di questa avarie ci sono state scene di panico.

D. - Purtroppo sono sempre più frequenti questi salvataggi di fronte a situazioni così tremende. Cosa si dovrebbe fare per evitare tutto ciò?

R. - Da un lato si potrebbe rafforzare il sistema di ricerca e soccorso, fornendo delle imbarcazioni dedicate che abbiano come mandato esclusivo quello della ricerca e del soccorso. Questa ennesima tragedia è la dimostrazione che non esiste un sistema di ricerca e soccorso in grado di scongiurare del tutto le morti in mare e soprattutto è la dimostrazione del fallimento delle politiche europee di contenimento dei flussi. L’unico modo per smettere di raccogliere cadaveri in mare e alimentare i guadagni dei criminali che lucrano sulla sofferenza delle persone è consentire a chi fugge per arrivare in Europa di farlo in modo legale e sicuro, richiedendo protezione internazionali in Europa dopo un viaggio legale e sicuro che non metta a rischio la loro vita.

D. - Il governo italiano cosa dovrebbe fare di più?

R. - Sicuramente alzare la voce verso i leader europei, verso le istituzioni europee per interrompere questa mattanza. L’unico modo è, di nuovo, quello di cambiare passo, di modificare in maniera drastica e radicale le politiche che fino ad oggi sono state inefficaci e iniziare una nuova stagione, guardando al tema della migrazione non come un pericolo, ma come una situazione strutturale che va affrontata con modalità, strategie, punti di vista e prospettive totalmente diverse da quelle utilizzate fino ad oggi.

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Reato di tortura: al Senato esame del ddl sospeso

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E’ slittato a Palazzo Madama l’esame del ddl che mira a introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura. La conferenza dei capigruppo, convocata dal presidente del Senato Pietro Grasso, ha deciso la sospensione a data da destinarsi. Il nodo centrale è rappresentato da possibili equivoci sull’uso della forza – legittimo o meno – da parte delle Forze di Polizia, affinché si garantisca a queste ultime di operare efficacemente senza rischiare nessun tipo di abuso di potere. Salvatore Tropea ha intervistato Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale. 

R. – Nel disegno di legge che proveniva alla Camera, quindi siamo al ping pong parlamentare, viene messa in discussione la possibilità, da parte di chi ha ottenuto una sospensiva e quindi un rinvio della discussione, che per poter essere incriminato per il reato di tortura basti torturare una volta. Perché la parola “reiterate” che era presente nel testo e che – per fortuna – è stata tolta perché scandalosa, è stata cancellata; questo ha indignato una parte dell’opinione delle forze politiche e dello stesso ministro degli Interni per il quale quindi per esserci tortura deve esserci il “pluri torturatore”: il “mono torturatore” non sarebbe punito. Questo ovviamente è totalmente in conflitto con la definizione di tortura presente nel Trattato delle Nazioni Unite.

D. - Sono punti che possono esser limati per riuscire a trovare un accordo?

R. - Questo è difficile dirlo, perché l’obbligo internazionale risale al 1988. Quindi ci sono stati 28 anni per capire, limare, trovare compromessi, … In 28 anni abbiamo assistito ad una storia della mancata introduzione del delitto di tortura che è un po’ la storia tragica di un Paese che non mette i diritti umani e la dignità delle persone al centro. Forse ci può essere ancora una strada. Noi purtroppo siamo un po’ depressi perché ci ritroviamo ancora una volta al punto di partenza. Il punto qual è? Non ritenere che ci debba essere un fraintendimento, ossia che per tutelare le forze dell’ordine non bisogna aver il reato di tortura. Le forze dell’ordine si tutelano con il reato di tortura, secondo quanto affermano le Nazioni Unite, perché è l’unico per distinguere chi si muove nel solco del rispetto della legge da chi no, altrimenti non riusciremo più a definire un poliziotto, una persona che compie un fatto grave, una mela marcia. Se non c’è reato di tortura vuol dire che sono tutte mele marce; se c’è possiamo distinguere. Dobbiamo saltare la mediazione politica e andare a parlare direttamente con i  capi delle forze di polizia, sperando che da loro arrivi un nullaosta alla legge.

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Villani: inammissibile che si pensi di non vaccinare

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E’ stato approvato all’unanimità, nei giorni scorsi, dal Consiglio nazionale della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, Fnomceo, un documento in cui si prende una posizione netta a favore dei vaccini contro l’ondata “No-Vax”. Si propongono anche sanzioni fino alla radiazione per i medici che sconsigliano la vaccinazione, in assenza di situazioni particolari. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, afferma che “non ci può essere obiezione di coscienza sulla vaccinazione”. Tutto questo mentre in un Italia le vaccinazioni sono in costante calo dal 2012. Perché si è creata questa situazione? Debora Donnini lo ha chiesto al prof. Alberto Villani, responsabile di Pediatria Generale dell'Ospedale Bambino Gesù: 

R. – Quello che succede è che effettivamente c’è stata molta disinformazione. E’ stato lasciato forse troppo spazio – anche sui media, in televisione, sui giornali – a persone che non avevano nessuna qualificazione, che hanno detto delle falsità in pubblico e c’è stato forse un atteggiamento troppo morbido proprio da parte delle Istituzioni. Come medici abbiamo prodotto dei documenti come “il Calendario per la vita”, una proposta vaccinale per tutta la vita. Nonostante queste proposizioni, nonostante il favore delle Istituzioni, ci sono ancora delle sacche di disinformazione oppure per dei banali motivi di interesse economico, ci sono persone contrarie alle vaccinazioni. E’ inammissibile che semplicemente si pensi di non vaccinare!

D. – I bambini non vaccinati possono trasmettere la malattia agli altri?

R. – Ci sono stati clamorosi episodi di cronaca come bambini morti di pertosse, contagiati da chi non aveva fatto il richiamo della vaccinazione. C’è stato il famoso caso di Bologna che ha fatto sì che questa mamma si sia poi attivata anche sui social chiedendo l’obbligo vaccinale per chi deve andare a scuola. Ci dev’essere un diritto alla tutela della salute, non ai capricci di alcune persone.

D. – Ci sono dei casi in cui in realtà, però, è meglio non vaccinare i figli. Quali sono e come i medici possono valutarli?

R. – Sono dei casi rarissimi in cui ci sono delle immunodeficienze, oppure dei casi in cui il soggetto, per motivi di salute, è costretto a praticare delle terapie immunosoppressive o con farmaci biologici. Ma queste ultime sono delle controindicazioni temporanee. Chiaramente se un soggetto ha un grave immunodeficit – ma in Italia di questi bambini ce ne saranno circa 10 – allora non è il caso di vaccinarlo, ma bisognerà proteggerlo in altro modo.

D. – Chiaramente, il vaccino può comportare piccole conseguenze: che valore hanno rispetto alle conseguenze che possono derivare dal non far vaccinare i bambini?

R. – Chiaramente, nel bilancio il rischio di una reazione è talmente infinitesimale che praticamente non conta. Di vaccinazione non è mai morto nessuno. Non esiste persona morta di vaccino. Tantissimi anni fa, quando c’erano dei vaccini meno sofisticati, ci sono stati dei casi in cui ci sono state reazioni indesiderate ai vaccini. Ma ormai sono lustri che questo non avviene più. Quindi, il rischio connesso con la vaccinazione è pressoché zero, mentre il rischio di contrarre la malattia e di morire è testimoniato dai morti che ancora ci sono.

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Russia: Kirill avvia costruzione Chiesa con Icona Madonna di Kazan

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Posa della prima pietra, oggi in Russia, della chiesa che ospiterà l’Icona della Madre di Dio di Kazan, a cui era molto devoto San Giovanni Paolo II. A presiedere le celebrazioni, davanti ad almeno 10 mila persone, il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia. Il servizio di Giada Aquilino

Kazan, Fatima, Città del Vaticano. Sono soltanto alcune delle tappe compiute dalla “venerata Icona della Madre di Dio di Kazan”, come amava definirla San Giovanni Paolo II, ad essa molto devoto. Giunta in Vaticano negli anni ’90, dopo varie vicissitudini e soste in diversi Paesi, fu Papa Wojtyla a volerne il ritorno “sul suolo della Russia”: egli stesso il 25 agosto 2004, dopo averla preziosamente custodita, affidò l’immagine al cardinale Walter Kasper - all’epoca presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani - per il “viaggio di ritorno” in Russia, per il Patriarca Alessio II. In quella terra, spiegò, l’Icona “è stata per lunghissimi anni oggetto di profonda venerazione da parte di intere generazioni di fedeli” e intorno ad essa “si è sviluppata la storia di quel grande popolo”. Quindi, confidò la propria speciale devozione:

“Quante volte ho invocato la Madre di Dio di Kazan…”

San Giovanni Paolo II, a pochi mesi dalla sua scomparsa, il 2 aprile 2005, raccontò dunque della propria preghiera alla Madonna di Kazan per “proteggere e guidare il popolo russo” e per “affrettare il momento in cui tutti i discepoli del suo Figlio, riconoscendosi fratelli, sapranno - disse - ricomporre in pienezza l’unità compromessa”. Oggi a Kazan nell’area del monastero che ospita l’Icona, il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia ha benedetto e posato la prima pietra della chiesa dedicata alla Madonna che, distrutta nel periodo comunista, sarà ricostruita nei prossimi tre anni. Ce ne parla padre Germano Marani, gesuita autore di un docufilm sull’Icona, che a Kazan sta seguendo le celebrazioni:

R. – Oggi il Patriarca Kirill, dopo la liturgia svoltasi nella Cattedrale dell’Annunciazione, nel Cremlino di Kazan, è venuto, con una grandissima folla in processione, al monastero della Madonna di Kazan, dove a pochi metri ci sono le rovine della chiesa abbattuta dai sovietici, la chiesa della Madonna di Kazan. Ora, in questa chiesa, è stata inserita dal Patriarca, con un rito breve ma bello e con dei canti, una capsula dorata, che contiene un documento che dice che oggi comincia una nuova ricostruzione della chiesa della Madonna di Kazan.

D. – Si può immaginare che l’icona della Madre di Dio di Kazan sia proprio quella inviata da Giovanni Paolo II nel 2004?

R. – Non solo immaginare, per me è una certezza. L’icona della Madonna di Kazan, che Giovanni Paolo II aveva mandato, ha ripreso il suo posto in mezzo al popolo di Dio. E’ un’icona veneratissima nella chiesa del Monastero e lo prova la presenza di persone che continuamente vanno a venerarla.

D. – Perché la Madonna di Kazan è così venerata in Russia e non solo?

R. – E’ venerata in tutto il mondo. In particolare in Russia perché è legata a dei fatti storici, come la presa di Kazan da parte di Ivan il Terribile contro i Tartari: Kazan si trova nella Repubblica del Tatarstan e quindi la maggioranza della popolazione è tartara, dunque musulmana; quindi la vittoria legata a Napoleone, almeno secondo la tradizione spirituale e le leggende; poi l’assedio di San Pietroburgo, dell’allora Leningrado, durante la presa tedesca.

D. – Lei, con il Centro Televisivo Vaticano, ha realizzato un docufilm sul ritorno dell’Icona, proiettato a Kazan proprio in questi giorni. Cosa ha potuto ricostruire? Perché Giovanni Paolo II era molto devoto all’Icona della Madre di Dio di Kazan?

R. – Le celebrazioni di questi giorni sono un evento fondamentalmente spirituale ed anche culturale. E questo vuol dire che, in qualche modo, riuniscono non soltanto gli ortodossi, ma anche i musulmani: oggi infatti erano qui presenti i capi musulmani. E quando Giovanni Paolo II, nella preghiera rivolta all’Icona prima della partenza per la Russia, disse “Madre dell’Europa”, disse molto bene: io direi anche Madre dei popoli che vivono qui. Sono infatti molti i popoli che vivono nel Tatarstan e, in genere, nella Federazione Russa.

D. – Dove la conservava San Giovanni Paolo II?

R. – Nella sua cappella personale. E negli ultimi giorni, prima della partenza dell’Icona per la Russia, essendo all’epoca il Papa a Castelgandolfo, la conservava nella cappella della casa di Castelgandolfo.

D. – Giovanni Paolo II affidò anche una preghiera speciale alla Madre di Dio di Kazan, quella dell’unità dei cristiani. Perché?

R. – Dopo essere stata ritrovata nel 1579 da una bambina, per caso, si arriva fino al 1917, anno della Rivoluzione di Ottobre, quando i sovietici distrussero la chiesa di Kazan. Certamente questa icona ha fatto un giro, che è abbastanza documentato, per le vie di tutto il mondo, viaggiando dalla Polonia agli Stati Uniti, a Los Angeles, per poi arrivare a Fatima e da lì, dopo anni, fu donata a Giovanni Paolo II, che era legato a Fatima per i motivi che conosciamo e cioè l'attentato del 13 maggio… La preghiera, dunque, era certamente legata all’unità dei cristiani, ma anche all’unità della famiglia umana.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi Zambia. Elezioni dell’11 agosto: il voto sia pacifico

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In vista delle prossime elezioni presidenziali e legislative del prossimo 11 agosto in Zambia, in cui gli elettori saranno chiamati ad esprimersi anche su un referendum costituzionale, la Conferenza episcopale del Paese (Eccz) esorta tutti i leader politici a fare il possibile perché il voto sia pacifico e quindi ad abbassare i toni della campagna elettorale.

La violenza mina la credibilità del voto
“La democrazia esige in primo luogo che tutti i cittadini esercitino il diritto di voto in una clima pacifico”, sottolineano i presuli in una lettera pastorale diffusa nei giorni scorsi in occasione delle celebrazioni del 125° anniversario della Chiesa nel Paese. Una condizione non scontata, considerando le violenze e il clima di forte tensione della campagna elettorale che – affermano – rischiano di inficiare la credibilità  della consultazione.

La polizia, i media e la Commissione elettorale siano imparziali
Di qui il richiamo a prestare particolare attenzione ad alcuni aspetti fondamentali dai quali dipende tale credibiltà. I vescovi si rivolgono innanzitutto alle forze dell’ordine che hanno il dovere di “proteggere la vita e la proprietà” dei cittadini, mantenendo la massima imparzialità, senza farsi condizionare dalle pressioni politiche. Un’imparzialità alla quale, a maggior ragione, è tenuta la Commissione Elettorale (Ecz), se non vuole apparire come “un’istituzione manipolata dall’interesse di un gruppo o di un partito politico”. Anche i media – prosegue la lettera pastorale - hanno un ruolo cruciale per il corretto svolgimento del processo elettorale e hanno quindi il dovere di dare un’informazione “veritiera e giusta” e di garantire la voce a tutti i candidati. I vescovi esortano inoltre gli elettori ad un uso critico dei social media e a non prendere per vere  tutte le informazioni trovate su questi canali.

Gli elettori cristiani votino alla luce della dottrina sociale della Chiesa
Da parte sua, la Conferenza episcopale zambiana ribadisce che essa non sostiene alcun candidato o partito particolare, ma può solo dare indicazioni alla luce della dottrina sociale della Chiesa, per aiutare i fedeli a un voto informato. Tra le qualità che essi devono cercare in un candidato si segnalano in particolare: la competenza; il coraggio di dire la verità; la preoccupazione per la giustizia sociale; il desiderio di lavorare per il bene comune e non per l’arricchimento personale; la disponibilità ad usare il potere al servizio dei poveri;  la disponibilità al dialogo; la dirittura morale la trasparenza e la rispondenza all’elettorato. In questo senso, un elettore cristiano – sottolineano i presuli - non può sostenere un candidato con propensione alla violenza, corrotto, immorale o che pone gli interessi di parte ed etici sopra il bene comune della nazione.

Necessarie più informazioni ai cittadini sul referendum costituzionale
La lettera pastorale accenna, infine, al referendum costituzionale sulla nuova Carta dei diritti dei cittadini che si terrà in concomitanza con le elezioni politiche esortando il Governo, ma anche le ong, a informare l’opinione pubblica sul quesito referendario sul quale è stata fatta poca informazione. Il referendum riguarda la modifica dell’articolo 79 della Costituzione che vuole aggiungere ai diritti “civili e politici”, quelli “economici, sociali, culturali ed ecologici”. (A cura di Liza Zengarini)

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Nepal: otto cristiani a processo per proselitismo

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Inizierà nei prossimi giorni il primo processo relativo a una vicenda di libertà religiosa in Nepal, dall’introduzione della nuova Costituzione nel settembre dello scorso anno. Alla sbarra - riferisce l'agenzia AsiaNews - otto cristiani locali - sette fedeli e un pastore, appartenenti alla comunità protestante - accusati di aver distribuito copie della Bibbia in alcune scuole cristiane, nel contesto di un programma di aiuti per le vittime del terremoto dell’aprile 2015.  Secondo la nuova Carta fondamentale dello Stato himalayano, ogni gesto con una finalità di evangelizzazione viene considerato proselitismo e perseguito a norma di legge. 

Il gruppo è accusato di proselitismo
L’arresto risale al 9 giugno scorso, quando la polizia ha fermato i membri del gruppo intenti a distribuire materiale religioso ai bambini di una scuola cristiana di Dolakha, distretto settentrionale del Nepal, fra i più colpiti dal sisma. Essi avrebbero violato l’art. 26 comma 3 della Costituzione, il quale stabilisce che non sono ammessi atti “contro la salute pubblica, la decenza e la moralità, o minare la pace sociale o convertire qualcuno da una religione all’altra”.  

Gli imputati respingono le accuse. I poliziotti volevano estorcere una confessione
Gli imputati - sette uomini e una donna - hanno respinto le accuse; essi sottolineano che la distribuzione del testo sacro nella scuola “mista”, che ha aperto le porte a giovani di fede diversa, riguarda “solo gli studenti cristiani” che “ne avevano fatto richiesta” in precedenza. Barnabas Shrestha, presidente di Teach Nepal, riferisce che durante l’arresto i poliziotti volevano estorcere una confessione. Tuttavia, aggiunge il leader cristiano, “non è affatto vero” che i fermati abbiano predicato il Vangelo e fatto opera di proselitismo. 

In Nepal sotto attacco la libertà di culto
Intanto, fonti locali confermano che la libertà di culto per i cristiani nepalesi è sempre più sotto attacco. La scorsa settimana il governo ha annunciato nuove, pesanti tasse a carico delle scuole e degli orfanotrofi cristiani di Kathmandu. Le autorità hanno anche parlato di chiusure forzate e confische nel caso in cui vengano scoperti libri e materiale cristiano all’interno delle strutture. Vietata anche la preghiera comunitaria con i bambini e la loro partecipazione a gruppi di ascolto e di riflessione sulla Bibbia. Sono emersi anche pesanti limitazioni alla libertà di movimento di associazioni e Ong cristiane che operano nel sociale. 

Il ruolo dell'ala nazionalista indù
​Dietro la stretta governativa non si esclude la mano dell’ala nazionalista indù, ancora oggi contrariata per la scelta dell’Assemblea costituente di dichiarare il Paese uno Stato laico. Gli otto imputati risultano al momento a piede libero dietro pagamento di una cauzione e in attesa del processo, che dovrebbe iniziare il 23 luglio prossimo. (R.P.)

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Reazione vescovi Colombia a referendum su accordo Governo-Farc

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“Consultare il popolo è proprio di una democrazia”. Così il vescovo colombiano di Sincelejo, mons. José Clavijo Méndez,  commenta a caldo la sentenza della Corte costituzionale che lunedì ha dato il via libera al referendum sull’accordo tra Governo e guerriglia delle Farc. “Penso che sia una buona cosa che il popolo si esprima sugli accordi. Una volta conosciuti i contenuti dell’accordo, il popolo in coscienza saprà scegliere tra il Sì e il No”, ha detto il presule citato dall’agenzia Sir.

I criteri fissati dalla Corte
La sentenza stabilisce alcuni importanti criteri, a cominciare dal fatto la vittoria del Sì consentirebbe al Presidente di inserire l’accordo in Costituzione, impedendo ad un eventuale successivo Governo di diverso coloro politico di mettere in discussione il trattato di pace. Al tempo stesso, una vittoria del No impedirebbe al Governo di reintrodurre l’accordo per via legislativa. Sia il Governo che le Farc hanno peraltro già dichiarato che si sottometteranno alla volontà popolare. Altra decisione importante è che viene inserito un quorum, pari al 13% del corpo elettorale, che dovrà essere comunque raggiunto dal Sì perché il plebiscito sia valido.  Altra decisione importante è che viene inserito un quorum, pari al 13% del corpo elettorale, che dovrà essere comunque raggiunto dal Sì perché il plebiscito sia valido. 

I vescovi d’accordo nell’orientare il popolo nella consultazione
Nel corso della recente Assemblea plenaria i vescovi hanno insistito sulla necessità di una capillare informazione che preceda la consultazione e sull’importanza di un voto secondo coscienza. “Tutti noi vescovi siamo d’accordo nell’orientare comunque il popolo, ma questo deve votare secondo coscienza”, ha confermato mons. Clavijo Méndez. (L.Z.)

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Cuba: Gmg a L'Avana per i giovani che non andranno a Cracovia

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Una Gmg in miniatura, che avrà come sfondo il Mar dei Caraibi. E’ quella organizzata dai giovani cubani, che vogliono sentirsi in comunione con Papa Francesco e con i coetanei di tutto il mondo, anche se per varie ragioni (economiche ma anche politiche) non possono essere presenti a Cracovia.

La lettera al Papa dei giovani cubani
La Gmg parallela promossa dalla Chiesa cubana si terrà dal 28 al 31 luglio a L’Avana. E i giovani cubani – riferisce l’agenzia Sir - hanno voluto condividere questa scelta proprio con Francesco, scrivendo al Papa una lettera: “Alla Gmg di Rio ci invitò a tornare nelle nostre diocesi e a creare scompiglio, ci disse che sperava che questo scompiglio sarebbe stato il frutto di questa Giornata. A L’Avana ci esortò a sognare, e a sognare cose grandi. Noi abbiamo preso sul serio questi inviti: abbiamo sognato in grande e stiamo preparando un grande scompiglio”. Proseguono i giovani: “Nella stessa data della Gmg di Cracovia, abbiamo preparato una Giornata a L’Avana, con il medesimo schema e gli stessi temi. Anche noi useremo il nome Gmg, perché non vogliamo che sia un evento solo nostro, ma vogliamo anzi da qui unirci in comunione con lei e con tutti i giovani che si riuniscono laggiù”. I partecipanti della Gmg dell’Avana saranno 1.400.

Il programma ricalcato su quello delle Gmg
Il programma ricalca quello delle Giornate mondiali della gioventù: ci saranno catechesi e momenti comuni, una Via crucis e il passaggio della Porta Santa. Proseguono i giovani cubani: “Non ci rassegniamo al fatto che le difficoltà economiche, che ci impediscono di viaggiare in gran numero a Cracovia, ci impediscano di vivere questa esperienza”. (L.Z.)

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Pakistan: a Faisalabad un pellegrinaggio della Croce dei giovani

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La Giornata Mondiale della Gioventù sarà celebrata anche a Faisalabad, in Pakistan, con un pellegrinaggio, affidato ai giovani, della Croce in tutte le parrocchie della diocesi. L’annuncio – riferisce l'agenzia Asianews - è contenuto in un messaggio del vescovo Joseph Arshad, nel quale si rende noto che la diocesi avvierà il cammino della Croce con una Messa  che sarà celebrata nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo domani 22 luglio. Al termine della celebrazione la Croce sarà affidata ai giovani della parrocchia di Jaranwala.

Un pellegrinaggio di una anno in tutte le parrocchie di Faisalabad
La Croce – si spiega nel messaggio – resterà esposta in ciascuna parrocchia alla venerazione dei fedeli per due settimane. Essa terminerà il suo pellegrinaggio nel seminario minore di San Tommaso Apostolo, dove nella celebrazione conclusiva si pregherà per la vocazione al sacerdozio in Pakistan e nel mondo.

Annuncio delle fede in un mondo materialista e pervaso da ideologie estremiste
​Nel messaggio, mons. Arshad ricorda che la Croce è l’icona delle Gmg  e che i giovani sono chiamati a portarla per annunciare la fede cristiana in un mondo pervaso oggi dal materialismo, da ideologie estremiste, e da valori negativi diffusi dai media. “Noi veneriamo la Croce – afferma - perché è l'emblema del sacrificio di Cristo, che ha riconciliato l'umanità peccatrice con Dio, il nostro Padre celeste”. (L.Z.)

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Il saluto all’ing. Pacifici, vicedirettore tecnico della Radio Vaticana

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Il Centro Trasmittente di Santa Maria di Galeria della Radio Vaticana ha vissuto, ieri, un momento di festa per salutare e ringraziare l’Ing. Costantino Pacifici, vicedirettore tecnico dell’emittente, che va in pensione dopo oltre 40 anni di servizio. Erano presenti mons. Dario Edoardo Viganó e mons. Lucio Adrian Ruiz, rispettivamente prefetto e segretario della Segreteria per la Comunicazione; padre Federico Lombardi, già direttore generale della Radio Vaticana; padre Andrzej Majewski, attuale direttore dei programmi della nostra emittente, e numerosi altri colleghi. c

Spirito di dedizione e competenza scientifica
“L’Ing. Pacifici – si legge nella lettera di encomio che gli è stata consegnata dalla Segreteria per la Comunicazione – si è sempre impegnato con spirito di dedizione e disinteresse e con competenza scientifica e tecnica, contribuendo alla realizzazione, allo sviluppo e alla piena efficienza degli impianti di radiodiffusione” della Radio Vaticana.

Senso di appartenenza
Ricordando poi il suo contributo per “la promozione internazionale di Radio Vaticana e delle Telecomunicazioni vaticane”, la missiva sottolinea il suo “senso di appartenenza alle finalità dell’emittente” e la sua “intelligenza scientifica” a servizio della diffusione del Vangelo e del magistero pontificio “fino ai confini della Terra”. Una “appartenenza sincera” dimostrata dal nostro collega “a non piccolo prezzo in occasione delle vicende giudiziarie legate al presunto inquinamento elettromagnetico”.

Esempio di dedizione e umanità
​Infine, la Segreteria per la Comunicazione ringrazia l’Ingegnere Pacifici per essere stato “un esempio di operosità, dedizione e umanità di rapporti con i colleghi, che va ben oltre il semplice dovere di ufficio”. Nato nel 1946, l’Ing. Pacifici è arrivato alla Radio Vaticana nel 1975; nel 1991 è stato nominato vicedirettore tecnico e nel 2005 ha ricevuto un’onorificenza pontificia per il suo operato. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 203

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.