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Sommario del 23/07/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Gmg di Cracovia. Lombardi: sarà una grande festa della fede

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A Cracovia fervono gli ultimi preparativi per la Giornata mondiale della gioventù. Il Papa arriverà nella città polacca nel pomeriggio di mercoledì prossimo 27 luglio per rientrare in Vaticano domenica sera. Sono attesi fino a 2 milioni di giovani. Sul clima che si sta respirando a Cracovia nell’attesa di questa grande festa, anche in questo momento di tensione che sta attraversando in particolare l’Europa, ascoltiamo il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, al microfono di padre Leszek Gesiak

R. – Mi sono fatto la preoccupazione, lo scrupolo di sentire – anche dagli organizzatori – qual è il clima, in modo tale da poter dare tutte le assicurazioni e le rassicurazioni che potessero essere desiderate. E devo dire che ho avuto veramente tutte le conferme rassicuranti che potevo desiderare, nel senso che in Polonia non risulta che ci siano preoccupazioni o allarmi particolari; allo stesso tempo c’è anche la serietà e la capacità di gestire le normali misure di sicurezza. Sappiamo che c’è stato questo grande incontro della Nato, recentemente, che si è svolto in modo assolutamente sereno, e quindi anche per quanto riguarda la Giornata mondiale della gioventù con la giusta responsabilità delle autorità e di tutte le persone preposte, noi andiamo avanti con grande tranquillità e serenità, con la sicurezza che sarà una grande e bella festa. E infatti, mi dicono che non ci sono gruppi che si ritirano ma, anzi, stanno incominciando ad arrivare tutti con grande entusiasmo e grande tranquillità. Quindi, credo che sia giusto andare avanti con molta fiducia, che sarà una bella festa, nella fede, dei giovani con il Papa.

D. – Questo viaggio è un pellegrinaggio sulle tracce di Giovanni Paolo II; è un segno molto forte non solo per il popolo polacco, ma per tutta la Chiesa …

R. – Certamente: andiamo a Cracovia, che è stata la sede di Giovanni Paolo II come arcivescovo; andiamo per una Giornata mondiale della gioventù che è una manifestazione che è stata “inventata”, pensata e voluta dal grande cuore di Giovanni Paolo II e del suo genio della pastorale giovanile. In particolare, vorrei ricordare la connessione intima, profonda tra il tema della Divina Misericordia che Giovanni Paolo II ha vissuto come fondamentale nel suo Pontificato, dalla sua Enciclica “Dives in Misericordia” alla canonizzazione di suor Faustina e all’istituzione della festa della Divina Misericordia per la Chiesa universale, al cuore del Giubileo del 2000; e oggi stiamo celebrando un Giubileo della Divina Misericordia, quindi siamo veramente in una continuità assoluta, in temi centrali, del modo in cui questi due Papi – Giovanni Paolo II e Francesco – annunciano il Vangelo nel mondo di oggi.

D. – Ultimamente sono avvenuti piccoli cambiamenti nel programma del viaggio; uno di questi cambiamenti è che il Papa ha rinunciato a fare un discorso preparato ai vescovi polacchi: vuole parlare spontaneamente…

R. – Io a dire il vero – per essere esatto – non parlerei tanto di un cambiamento, ma del fatto che il Papa ha detto chiaramente come desidera che si svolga questo incontro e ha scelto la formula che è quella che lui preferisce e che ha usato più frequentemente tra tutte le altre, per gli incontri con i vescovi nel corso dei suoi viaggi all’estero, e che è quella di un incontro familiare, di dialogo. Quindi, il Papa non desidera fare lui un gran discorso ai vescovi, ma desidera parlare con loro, ascoltando le loro domande; domande che lui vuole che siano fatte in totale libertà e serenità da parte degli episcopati. Il motivo, anche, dell’assenza della trasmissione in diretta è proprio quello di creare un clima di totale familiarità, distensione, tranquillità, libertà di espressione da parte dei vescovi stessi, anzitutto, più che da parte del Papa, perché possano essere assolutamente tranquilli di parlare come i figli al Padre, come i confratelli al Vescovo di Roma e alla guida della Chiesa universale. E questo – io ho seguito tutti i viaggi all’estero del Papa finora – posso assicurare che è la cosa che il Papa desidera fare di più e ha fatto più frequentemente. Le volte in cui ha fatto un discorso formale, pubblico, trasmesso, sono eccezionali. Per esempio, l’ha fatto – come sappiamo – negli Stati Uniti oppure in Messico; ma con le tre Conferenze episcopali incontrate in Africa, le tre Conferenze episcopali incontrate in America Latina, la Conferenza episcopale di Cuba, la Conferenza episcopale italiana che è numerosissima, negli ultimi due anni, il Papa ha sempre preferito, quando era possibile, fare un incontro di dialogo. E non è che lui abbia paura dei media: lo sappiamo. Vediamo quanto lui sia disponibile con le interviste che dà anche in aereo … però, lui è molto attento: quando vuole che ci sia un clima di totale familiarità e libertà e agio delle persone che lui incontra, preferisce che i media non siano presenti. Così, per esempio, anche nella Messa della mattina di Santa Marta e in tante altre occasioni, lui dice: “No, questa volta no”. Perché? “Perché voglio che ci sia questo clima di familiarità, di serenità, di totale apertura e quindi preferisco che siamo lasciati insieme, tra fratelli, nel nostro incontro”.

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Una suora di clausura: da Francesco un gesto di predilezione

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Grande risonanza ha avuto la Costituzione apostolica, “Vultum Dei Quaerere”, firmata da Papa Francesco e dedicata alla vita contemplativa femminile. Il documento, presentato ieri, giunge 66 anni dopo la pubblicazione della precedente Costituzione, “Sponsa Christi”, di Pio XII. Il testo è stato accolto con grande gioia da Madre Maria Gonzalez, priora del Monastero delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento, a Napoli. La religiosa intervistata da Debora Donnini: 

R. – Noi l’abbiamo accolta con tanto amore: veramente è stata un’emozione! Questo, veramente, lo aspettavamo da tanto tempo e sapere che la Chiesa pensa a noi, ci fa sentire che c’è una predilezione per noi contemplative.

D. – Si parla di voi contemplative come di “fiaccole” che guidano il cammino dell’umanità e di un dono irrinunciabile per la Chiesa. La pubblicazione di questa Costituzione apostolica la accogliete quindi come un segno importante dell’attenzione del Papa per la vita contemplativa?

R. – Sì, molto importante. Noi contemplative viviamo in clausura e tutti ci chiedono preghiere, preghiere, ma tante volte nessuno si preoccupa di noi. E’ importantissimo sapere, invece, che la Chiesa, il Santo Padre, pensa a noi, si preoccupa per noi, perché la nostra vita è totalmente donata a Dio e alla Chiesa.

D. – Nella Conclusione dispositiva del Documento, tra l’altro, si stabilisce che si debba assolutamente “evitare il reclutamento di candidate da altri Paesi con l’unico fine di salvaguardare la sopravvivenza del monastero”. In proposito, alla conferenza stampa di presentazione del Documento, mons. José Rodríguez Carballo, segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ha sottolineato che se chiamare sorelle da un altro continente è solo “per mantenere muri, questa non è giustificazione evangelica”. In base alla sua esperienza di Priora, quanto è importante questo punto?

R. – E’ importantissimo, perché noi siamo chiamate a pregare e dobbiamo insegnare a queste ragazze a vivere solo per la preghiera. E se si portano queste ragazze solo per “mantenere i muri”, non si deve fare.

D. – Guardando in generale al mondo della vita contemplativa, è importante questo richiamo che è stato fatto?

R. – Sì, è importantissimo. Noi abbiamo ragazze di altri Paesi: siamo di 11 Paesi diversi. Ma noi abbiamo queste ragazze in formazione con la prospettiva di farle tornare ai loro Paesi, non per rimanere in Italia. Ognuna torna nel proprio Paese di origine.

D. – Nel documento, poi, c’è una novità: tutti i monasteri – salvo casi particolari a giudizio della Santa Sede – dovranno essere federati, non più soltanto seguendo un criterio geografico, ma “di affinità di spirito e di tradizioni”. Voi come pensate di vivere concretamente questa decisione?

R. – E’ importantissima, perché veramente noi non siamo isole: bisogna condividere gioie e sofferenze, aiutarci anche economicamente, fisicamente, con il lavoro. Per me è importante.

D. – Le Adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento di Napoli sono già federate con altri monasteri?

R. – Sì, siamo in federazione. Abbiamo pochi monasteri che non sono federati, ma nei nostri monasteri si sta parlando di questo e si sta cercando di essere più uniti e di essere tutti federati.

D. – Grande attenzione nel Documento alla formazione. In merito, si sottolinea che bisogna prestare attenzione al discernimento vocazionale, “senza lasciarsi prendere dalla tentazione del numero e dell’efficienza”…

R. – Io penso che sia importantissimo, soprattutto in questo momento storico, perché le ragazze vengono con un’altra formazione e non è come prima: adesso, secondo me, il mondo è molto più pericoloso e bisogna aiutarle prima di tutto come persone e, dopo, aiutarle a capire veramente la propria vocazione.

D. – Nel Documento ci si sofferma anche sui mezzi di comunicazione, sottolineando che sono strumenti utili ma bisogna avere un “prudente discernimento” affinché tali mezzi non siano occasione di “evasione dalla vita fraterna”. Voi utilizzate questi mezzi di comunicazione sociale? In che modo?

R. – Li usiamo solo lo stretto necessario, soltanto per la comunicazione: ci chiedono preghiere e noi mandiamo e-mail. Secondo me è molto pericoloso, per noi claustrali: entrare in Internet significa entrare nel mondo. Noi dobbiamo essere isolate dal mondo e pregare per il mondo.

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Tauran: solo la cultura dell'incontro sconfigge odio e terrorismo

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Non c’è altra soluzione che educare alla cultura del dialogo e dell’incontro: è quanto afferma ai nostri microfoni il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, commentando gli attentati che stanno sconvolgendo la vita quotidiana di così tante persone. Ascoltiamo il porporato in questa intervista rilasciata a Marie Duhamel

R. – Au fur et à mesure que les nouvelles sont arrivées…
A mano a mano che arrivano queste notizie, uno si chiede: “Ma perché? L’uomo è forse fatto per la morte?”. Eventi di questo tipo non possono non suscitare queste domande fondamentali sul senso della nostra vita… Credo che in un mondo in cui tutto è precario, anche il nostro rapporto con la morte è cambiato. Una volta si diceva: “Prima o poi si dovrà morire”, ma in fondo non ci credeva nessuno. Adesso, la morte è in agguato ogni giorno: usciamo di casa ma non sappiamo se ci torneremo. E credo che questa sensazione sia estremamente inquietante per la gente …

D. – Di fronte a tale precarietà della vita, quale atteggiamento possiamo assumere?

R. – C’est d’abord l’éducation…
Sta tutto nell’educazione. E’ in famiglia che si deve iniziare a educare i figli a rispettare gli anziani, a studiare la storia. Noi non siamo i primi: siamo parte di una comunità che ha una sua storia che è necessario conoscere e assimilare. Penso anche che sia necessario elaborare una nuova filosofia dell’incontro. Non si potrà essere felici gli uni senza gli altri e ancor meno gli uni contro gli altri …

D. – E con la fiducia in Dio…

R. – En Dieu, oui, parce-que finalement …
Sì, in Dio, perché in definitiva è Lui che guida la storia …

D. – Qual è adesso il pericolo più grande?

R. – Le grand danger c’est que une fois passé la douleur et la révolte, ce soit la haine qui envahisse notre…
Il pericolo maggiore è che una volta passati il dolore e la ribellione, sia l’odio a invadere i cuori, le nostre conversazioni e i nostri atteggiamenti. Dobbiamo aiutarci vicendevolmente ad ascoltare la voce di Gesù che ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e io vi ristorerò”. Ma il dialogo continua: ci sono state testimonianze di solidarietà veramente commoventi da parte musulmana – penso al principe bin Talal di Giordania – e progredisce anche: abbiamo ripreso gli scambi con l’Università al-Azhar del Cairo. Poi, dobbiamo considerare i sentimenti della maggior parte dei musulmani che condannano queste azioni, questi crimini abominevoli. Credo che si imponga un’urgenza: ed è l’educazione. L’educazione delle giovani generazioni. La persona diversa da me, che pratica un’altra religione, non è un nemico. Siamo tutti creature di Dio, siamo l’umanità; tutti noi abbiamo ricevuto due doni straordinari da Dio: l’intelligenza per comprendere e il cuore per amare. E’ questo il messaggio che deve essere diffuso ed è questo il messaggio che i giovani devono ascoltare e devono vedere che ispira la nostra vita quotidiana.

D. – Adesso più che mai è l’ora del dialogo…

R. – Il n’y a pas d’autre solution: c’est le dialogue …
Non c’è altra soluzione: è il dialogo. Come dico sempre, “siamo condannati al dialogo”.

D. – Lei è ottimista nonostante questa situazione?

R. – Un libre vient de sortir, il rassemble quelques-unes des mes interventions dans le domaine…
E’ in uscita un libro nel quale sono raccolti alcuni miei interventi in ambito interreligioso; il titolo è evocativo: “Credo nell’uomo”.  Io so che per l’uomo è sempre possibile cambiare, è sempre possibile la conversione. E credo molto nel potere del cuore. So, grazie alla mia fede, che la morte non è l’ultima parola.

D. – Una parola su quanto sta succedendo in Turchia…

R. – Je ne veux pas m’engager sur le domaine politique…
Non voglio entrare nell’ambito politico, perché non rientra nelle mie competenze. Ma avere intrapreso la strada della repressione rende più difficile per la Turchia essere un ponte tra Oriente e Occidente e un partner nel dialogo interreligioso. Penso, però, che dovremo aspettare l’evolversi degli eventi …

D. – Cosa deve comprendere oggi l’umanità?

R. – Il n’y a pas d’autre philosophie…
Non esiste altra filosofia se non quella di comprendere che siamo tutti parte della stessa umanità, siamo tutti alla ricerca di Dio e dobbiamo rispettarci.

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Lombardi: nessuna richiesta formale a S. Sede per mediare in Venezuela

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Il governo venezuelano ha accettato, come richiesto dall’opposizione, la presenza di un rappresentante del Vaticano nelle trattative per iniziare un dialogo sulla crisi politica del Paese. Lo ha annunciato il segretario generale dell'Unione delle Nazioni Sudamericane, Ernesto Samper. Ieri sera la dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Ce ne parla Sergio Centofanti

“Già in passato la Santa Sede – ha detto padre Lombardi, interpellato dai giornalisti - aveva manifestato la sua disponibilità qualora vi fossero le premesse per un suo contributo al dialogo. Però al momento attuale - ha precisato - non è giunta nessuna comunicazione formale né alla Nunziatura né alla Segreteria di Stato che presenti e specifichi la sostanza e i dettagli di una tale richiesta”.

Il Venezuela è al collasso. Il crollo del prezzo del petrolio, una delle principali risorse nazionali, ha contribuito ad aggravare una crisi che ha iniziato a manifestare tutta la sua drammaticità con la morte del leader socialista Chavez nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, deve affrontare una continua emergenza: mancano spesso il cibo, l’acqua, la luce, negli ospedali non ci sono le medicine e i macchinari non funzionano. Il tasso di mortalità è alle stelle. L’inflazione ha superato il 700%. Manca il lavoro e la sicurezza: Caracas è una delle città più violente del mondo. L’opposizione, che ha conquistato il parlamento nelle ultime elezioni di dicembre, ha promosso un referendum per la destituzione di Maduro: questi accusa i servizi segreti stranieri di organizzare un golpe continuo. Adesso sembra che tutti guardino al dialogo come l’unica via percorribile per la soluzione della crisi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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No alla tratta delle persone e alle altre schiavitù: una pubblicazione raccoglie gli interventi al congresso svoltosi, in Vaticano, all’inizio dello scorso mese di giugno. 

Il contagio del mostriciattolo: Cristian Martini Grimaldi sull’invasione dei Pokemon Go nella vita quotidiana dei nativi digitali.

E il mare non c’era più: in un racconto di Enrico Nicolò un dialogo familiare sugli interrogativi dell’esistenza.

Quell’incantevole ospitalità: Giovanni Cerro su un’antologia dei principali romitori francescani.

Per vincere il sospetto e l’inimicizia: iniziative dei presuli statunitensi dopo le violenze razziali.

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Oggi in Primo Piano



Strage Monaco: nessun legame tra killer tedesco-iraniano e Is

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Dieci morti, tra cui l'attentatore, e una trentina di feriti: è il bilancio della strage di ieri pomeriggio a Monaco di Baviera in un ristorante McDonald's prima e in un affollato centro commerciale poi. A sparare, un giovane tedesco-iraniano con disturbi psichici. Tra le vittime, tre erano originari del Kosovo e tre erano turchi. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha parlato di una "notte di orrore" e di paura, ma ha aggiunto: garantiremo sicurezza e libertà per tutti. Il servizio di Giada Aquilino

Ali Sonboly, diciotto anni, doppia cittadinanza tedesca e iraniana, era in cura per depressione e seguiva una terapia psichiatrica, non aveva legami con il sedicente Stato islamico (Is). Prende corpo l’identikit del killer di Monaco, che ieri ha iniziato a sparare con una pistola poco prima delle 18 davanti a un fast food. Ha poi proseguito a fare fuoco al centro commerciale "Olympia". Tra le vittime, 5 sono giovanissimi. Inseguito da agenti in borghese, si è suicidato. Perquisita la sua abitazione, portato in commissariato il padre, un tassista locale. Per il capo della polizia di Monaco, Hubertus Andrae, appare “evidente il legame” dell'eccidio con la strage compiuta in Norvegia da Anders Breivik, a Utoya 5 anni fa, di cui ieri cadeva l’anniversario, con un bilancio di 69 morti. Sembrano dunque non esserci elementi che indichino una matrice islamica per un’azione terroristica o un “parallelismo” con il recente attacco di un 17enne afghano, armato di ascia e coltello, su un treno a Wuerzburg, sempre in Baviera. In un video amatoriale, il giovane è stato ripreso mentre in dialetto bavarese dice di essere tedesco e confessa di essere stato vittima di bullismo per anni. La cancelliera Angela Merkel ha riunito il Comitato interministeriale federale per la sicurezza, mentre le sono giunti messaggi di solidarietà da tutta Europa e dalla Casa Bianca. Sui fatti di Monaco, ascoltiamo Marco Paolino, docente di storia contemporanea all’Università della Tuscia, studioso di questioni tedesche e collaboratore della Fondazione Ratzinger e dell’Istituto romano della Görres Gesellschaft:

R. – Qui abbiamo a che fare con una persona che appartiene a un gruppo etnico molto diffuso in Germania, che è quello degli iraniani. Gli iraniani sono arrivati nel Paese già negli anni Settanta e si sono molto bene integrati all’interno della società tedesca: sono tedeschi a tutti gli effetti e hanno anche percorso dei livelli di istruzione e di ascesa sociale estremamente rilevanti. Parliamo dunque di uno dei contesti sociali più aperti, da questo punto di vista. Quello che mi ha suscitato un po’ di stupore sta nel fatto che una persona di origini iraniane abbia generato questa strage.

D. – Ci può essere una ragione socio-politica che può in qualche modo aver originato un atto così violento?

R. – Lo escluderei, almeno in generale. Forse in particolare potremmo dire che situazioni di una certa emarginazione o anche di mobbing su questo adolescente – perché abbiamo a che fare con un ragazzo di 18 anni – potrebbero aver innescato reazioni negative. In Germania ci sono situazioni di persone che forse non sono curate adeguatamente, sotto un controllo costante da parte delle autorità mediche, con problematiche di tipo psichiatrico. Però, obiettivamente, potrebbe esserci anche una motivazione di tipo sociale di questi giovani che appartengono a popolazioni o a gruppi etnici arrivati in Germania da diverso tempo e che forse non vengono più accolti come erano stati accolti i loro padri e i loro nonni. E quindi c’è probabilmente anche una componente che deve far riflettere le autorità tedesche e soprattutto chi – all’interno della Germania – si occupa dell’educazione di queste persone, nei contesti scolastici e formativi.

D. – Ultimamente c’è stato un attacco su un treno, sempre in Baviera; ora, la strage a Monaco. C’è il rischio che il panico si trasmetta all’intero Paese?

R. – C’è, il rischio. Mi ha portato a riflettere il fatto che immediatamente si sia invocato il pericolo del terrorismo: dal presidente degli Stati Uniti, Obama, la prima reazione a caldo è stata quella del terrorismo. C’è stato poi il collegamento con Nizza. Quindi, il panico si è diffuso. La città di Monaco praticamente è stata chiusa, la metropolitana ha ricominciato a viaggiare questa mattina sul presto, per una giornata intera anche i mezzi pubblici sono stati bloccati. Il panico si diffonde: infatti, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” questa mattina nel suo editoriale ha sottolineato il fatto che i nervi sono a fior di pelle. E’ un pericolo; il pericolo che dopo la strage di Nizza i nervi siano talmente sollecitati che il primo episodio può scatenare il panico, ma può scatenare anche delle reazioni inconsulte.

D. – E’ stato sottolineato come la cancelliera Merkel non abbia da subito commentato o rilasciato dichiarazioni sulla strage di Monaco. Ma, comunque, come rispondere adeguatamente a una situazione estremamente complessa e in un certo senso destabilizzante?

R. – Sì, è vero. Anche perché la cancelliera Merkel, a differenza di capi di Stato di tutto il mondo che immediatamente hanno fatto dichiarazioni, più saggiamente ha aspettato che la polizia e i servizi di “intelligence” tedeschi dessero notizie. Quindi il governo tedesco si è mosso in maniera ufficiale, riunendo gli organismi deputati al controllo dell’ordine pubblico. Credo poi che la cancelliera Merkel, in Germania, si trovi in una grande difficoltà, perché questo episodio rischia di dare fiato ai movimenti dell’estrema destra che hanno – anche di recente – chiesto ufficialmente al governo tedesco di bloccare tutti i flussi di immigrazione nel Paese. I movimenti dell’estrema destra stanno caldeggiando questa linea in forte polemica non solo con il partito di Angela Merkel, la Cdu, ma – per esempio – anche con tutto quello che in questo momento la Chiesa cattolica tedesca sta portando avanti: non dimentichiamo che la Chiesa cattolica tedesca è in prima linea nella politica di accoglienza nei confronti degli emigrati e tutte le diocesi tedesche hanno servizi estremamente efficienti. Ecco, questa linea dei movimenti dell’estrema destra tedesca può creare grossi problemi ad Angela Merkel e a tutte le forze di governo tedesche, ma anche alle forze della sinistra. Si rischia addirittura di chiudere le frontiere con tutte le conseguenze che ciò può avere nei confronti di questo clima di accoglienza e di grande capacità di integrazione degli stranieri che ha avuto la Germania e che è una delle caratteristiche – secondo me – di grandissimo rilievo della Storia tedesca del XX secolo.

Al microfono di Antonella Palermo, ascoltiamo la testimonianza di padre Gabriele Parolin, direttore della comunità cattolica italiana di Monaco:

R. – Da una parte siamo sbigottiti, perché nessuno si sarebbe aspettato un attentato qui a Monaco. Fino a ieri, sembrava una città davvero sicura, tranquilla e molto ospitale. Che qualcosa del genere potesse accadere qui, ciò sembra ancora oggi impossibile.

D. – Vi sentivate a rischio?

R. – No, per nulla. La Germania sembrava quasi esente da tutto ciò. E adesso purtroppo la realtà che dobbiamo affrontare è che nessun luogo è tranquillo, almeno nella nostra Europa occidentale.

D. – Come va il processo di integrazione dei migranti in Germania?

R. – La Germania ha messo in atto un processo di integrazione fatto di corsi scolastici per imparare la lingua e una nuova professione. E ci sembrava che la strada fosse buona per poter integrare almeno quel milione di persone che l’anno scorso sono entrate in Germania.

D. – È debole la Germania oggi, da un punto di vista politico e di sicurezza?

R. – Penso di no. E personalmente mi sento molto sicuro in questa città, attraverso la presenza di forze di polizia ovunque, non solo in queste ore, ma in generale.

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Mali. Scontri a Kidal, 13 morti. Governo Bamako: moderazione

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“Dare prova di moderazione”: questo l’invito del governo del Mali agli ex ribelli Tuareg dopo che nei giorni scorsi nel Paese è tornata a salire la tensione e si sono verificati scontri tra alcuni gruppi armati nel nord, a Kidal, che hanno causato almeno 13 morti. Le violenze rischiano di far saltare gli accordi di pace firmati nel giugno dello scorso anno? Roberta Barbi lo ha chiesto al prof. Luigi Serra, già titolare della cattedra di Lingua e letteratura berbera e preside della Facoltà di Studi arabo-islamici e del Mediterraneo presso l’Università Orientale di Napoli: 

R. – Più che essere a rischio sono già in profonda lacerazione e crisi, nel senso che la componente Tuareg, quella dell’Azawad e l’altra che ormai intrattiene relazioni evidenti o poco palesi con le schegge di Boko Haram o di Acmi (al Qaeda nel Mali, ndr), di Abu Faraj al-Libi - non stiamo qui a elencare tutte le formazioni jihadiste - è più che operativa e incisiva al tempo stesso sotto il profilo della frantumazione di una speranzosa riunificazione del Paese attraverso la pacificazione Nord-Sud.

D. – I combattimenti a Kidal sarebbero stati scatenati da una disputa tra due gruppi per la gestione della città. Ma proprio questi due gruppi la settimana scorsa avevano firmato un accordo per una “gestione collegiale”…

R. – L’accordo era di facciata. Gli interessi erano più profondi dal punto di vista della gestione del territorio in senso di autonomia, tant’è che uno dei gruppi ha voluto immediatamente “smilitarizzare” il territorio dalla presenza dell’altro gruppo, cosa vicendevolmente praticata. Sono gli incarichi di prospettiva, i ruoli politici e quanto altro che – filtrati da Boko Haram da un lato e dalle altre componenti sia indigene sia allogene presenti nel Paese – hanno finito per frantumare l’intesa tra i due gruppi che, tra l’altro, appartengono alla stessa etnia, ipoteticamente interessati a un processo di pacificazione che fosse d’identificazione unitaria nel bene del Paese.

D. – I testimoni riferiscono di scontri di “rara violenza”. Vogliamo ricordare i termini del conflitto che affligge il Mali da almeno tre anni nonostante la presenza dell’Onu e l’intervento francese nel 2013?

R. – I termini degli scontri sono palesi dal punto di vista del loro realizzarsi ed esaurirsi sul terreno di lotta grazie alla facilità con la quale i media oggi informano l’opinione pubblica. Meno palese è la crudeltà di questi scontri perché, evidentemente, tracimano gli interessi di pacificazione sotto un profilo solo unicamente di socializzazione della pacificazione, quindi un profilo di avvicinamento civile, sociale, in prospettiva addirittura di eguaglianza economica tout court. Non sono più solo questi i motivi dello scontro e dell’allontanamento di una parte e dall’altra sotto la dimensione dell’incontro pacificatorio. Ci sono ormai gli interessi di alleanze con le realtà geopolitiche contigue. Dal Niger, al Mali, al Ciad, alla Nigeria oramai spirano gli stessi venti di divisione dettati da non si sa quali operatori occulti. Indubbiamente, gli interessi occidentali hanno il loro peso su cui l’Occidente e la stessa Onu né pare ne tenga un’attenta valutazione, un’osservazione seria e profonda, critica, analitica, né evidentemente le forze in campo analizzano dal punto di vista di modifica degli impegni sul terreno, tenendo in pratica tutto occulto nonostante la lucentezza degli avvenimenti, grazie soprattutto ai media e ai vettori di informazione che fotografano la situazione.

D. – Il susseguirsi di attacchi terroristici in Occidente dell’ultimo periodo può avere qualche influenza sulla situazione interna del Mali, Paese che in passato è stato teatro di attacchi di matrice jihadista?

R. – Penso proprio di sì. Il quesito grande e il dubbio che vengono alimentati da questo incrociarsi di atti terroristici in Occidente, in Africa e altrove, è la formula secondo la quale queste reciproche influenze prenderanno corpo e si realizzeranno. In Occidente si è modificato lo schema dell’attentato terroristico: non è più un gruppo che rivendica forse a monte prima dell’attentato la paternità, è il singolo che grida in un verso o nell’altro, ingigantendo la ristrettezza della tessitura delle maglie attraverso cui i servizi si trovano intrappolati. Certo questa complicanza delle espressioni sul terreno, delle nefandezze sia interne alle componenti locali, sia su suggerimento esterno, finirà per combaciare con quella che è la difficoltà a venirne a capo in Occidente.

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Appello del vescovo di Aleppo: basta con il traffico di armi

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“Basta con la politica di interessi economici e strategici che incentivano il traffico di armi”. Così il vescovo di Aleppo e presidente della Caritas locale, mons. Antoine Audo, lancia un appello alla comunità internazionale sulla crisi umanitaria in Siria. Solo negli ultimi tre mesi sono più di 900 i civili uccisi ad Aleppo, dei quali 200 bambini. Centrale, per il presule, trovare soluzioni politiche per fermare il conflitto tra le forze del regime e i vari gruppi ribelli attraverso il dialogo, il rispetto dell’uomo e delle religioni. Gioia Tagliente lo ha intervistato: 

R. – Questi bombardamenti che stanno interessando quella che viene chiamata “la strada di castello”, a nord di Aleppo, avvengono perché il governo cerca di bloccare la strada che porta in Turchia. Ci sono bambini uccisi. D’altra parte, però, non si deve parlare solo di questi bombardamenti, perché ce ne sono altri ad opera di gruppi armati sulla città, in centro. Ma i media non ne parlano e parlano soltanto di bambini uccisi dai bombardamenti del governo. Non parlano dell’altra realtà in cui ci sono case distrutte, non solo nei quartieri cristiani ma dappertutto. Noi, come Caritas, siamo sempre presenti per aiutare la gente, le persone ferite, con il programma medico e per ricostruire le case. I programmi continuano. Questa è la nostra situazione drammatica, di pericolo, sui due fronti.

D. – I bambini sono le principali vittime di questo conflitto. E' recente il video di un bambino decapitato dai cosiddetti ribelli moderati. Dove stiamo andando?

R. – E’ una cosa terribile. Come si può immaginare di uccidere un bambino di 13 anni... Questa è una lotta tra differenti gruppi sul terreno. Come ha detto anche il Santo Padre, non c’è una soluzione militare: la soluzione è politica, a livello internazionale. Le Nazioni Unite devono aiutare la Siria, facendo sedere tutti i gruppi attorno ad un tavolo per discutere una soluzione politica.

D. – Quanto è importante l’aiuto della Chiesa per il popolo siriano?

R. – E’ molto importante. E’ una questione di solidarietà, di compassione. Senza tutti questi aiuti delle organizzazioni cristiane e, in maniera particolare, della Chiesa cattolica – dei tanti gruppi, tra cui sicuramente la Caritas, come organismo nazionale che applica diversi programmi in Siria – senza questi aiuti sarebbero veramente tutti malati, morti ed emigrati. Questo è il nostro dramma. Sì, la guerra continua ed è una emorragia per tutti i siriani, ma in maniera particolare per i cristiani che partono in migliaia, non potendo più sopportare questa situazione di violenza, di povertà e di assenza di futuro. E’ una cosa terribile.

D. – Vuole fare un appello alla comunità internazionale?

R. – Non devono continuare a vendere armi, non devono continuare a dire di voler sostenere una opposizione moderata: non sono cose vere. Non devono sostenere questi gruppi armati estremisti, dando loro legittimità. C’è un governo, c’è un’autorità, c’è la Siria, c’è una storia, c’è una geografia. Non devono usare tutti questi gruppi per distruggere la Siria e fare una politica di interessi economici e strategici a livello internazionale. Si deve imparare la lezione da quello che è accaduto in Turchia: è lo stesso caso. Hanno presentato la Turchia come un modello di democrazia, di libertà e si vede oggi qual è il risultato. Si deve prendere tutto il mondo arabo e musulmano e cercare una soluzione attraverso il dialogo, il rispetto dell’uomo e della fede.

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Conferenza di Durban: l’Aids resta una pandemia mondiale

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La battaglia contro l’Aids, la pandemia che ancora miete più vittime al mondo, non è vinta. E’ questo il grido d’allarme lanciato dalla 21.ma Conferenza internazionale sull’Aids, conclusasi ieri a Durban, in Sudafrica. Il mondo dell’informazione – è stato denunciato durante l’incontro – dedica sempre meno spazio a questa grave malattia. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Da quando l’Hiv ha cominciato a colpire, questo virus - scoperto nel 1983 - è stato contratto da circa 78 milioni di persone. I morti sono finora più di 39 milioni. In tutto il mondo, attualmente, i sieropositivi sono circa 36 milioni. Almeno 17 milioni, vale a dire quasi la metà, non hanno ancora accesso alle cure.

La regione più colpita è l’Africa Subsahariana
In diversi Paesi, soprattutto africani, è deficitaria la diffusione di farmaci antiretrovirali. Oltre 10 milioni di persone non sanno neanche di essere sieropositive. La zona più colpita è l’Africa subsahariana, dove le persone sieropositive sono oltre 25 milioni: più della metà sono donne, quasi 3 milioni sono bambini.

Ogni anno  due milioni e  mezzo nuove infezioni
Negli anni passati il numero di nuove infezioni era in calo. Recentemente, questo trend ha subito una frenata. Ogni anno si registrano circa due milioni e mezzo di nuove infezioni. Di questi casi, circa 240 mila sono bambini. Dati che secondo diversi esperti possono compromettere l’obiettivo di sconfiggere questa epidemia entro il 2030. Si riducono, inoltre, i fondi per contrastare questa piaga: nel 2014 sono stati raccolti 8,6 miliardi di dollari, nel 2015 solo 7,5 miliardi.

Mondo del media meno attento sull’Aids
La conferenza di Durban ha avuto il merito, tra l’altro, di riaccendere i riflettori su questa malattia. Ma il mondo dell’informazione sembra aver dimenticato l’Aids. Negli ultimi anni, si è registrata in particolare in questo ambito una grave battuta d’arresto con minori informazioni sulle modalità di contagio e sul fatto che non ci sono ancora cure definitive contro questo flagello.

La guerra contro l’Aids non è ancora stata vinta, serve un maggiore impegno internazionale per debellare questa piaga. E’ quanto sottolinea Gianni Guidotti, uno dei coordinatori del Programma "Dream" per la cura dell'Aids in Africa, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. L’intervista è di Amedeo Lomonaco

R.  – Molte volte si ha l’impressione, leggendo i giornali e ascoltando i media, che l’Aids non sia più un’emergenza mondiale, non sia più un’emergenza per quanto riguarda la sanità pubblica nel mondo. In realtà, la Conferenza ha messo in evidenza ancora una volta questa grandissima emergenza. Ricordiamo che 36 milioni di persone nel mondo sono affette da Hiv.

D. – Solo 17 milioni di questi 36 milioni di persone affette da Hiv hanno accesso alle cure. È un discorso economico o c’è anche dell’altro?

R. – Senz’altro c’è un discorso economico dietro. Chiaramente, la cura dell’Aids ha un costo. In molti Stati, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, sono costi insostenibili perché questi Paesi hanno sistemi sanitari molto fragili. Però, si è anche visto che, dopo l’allarme lanciato nel 2001 dalla comunità internazionale con la cooperazione dei grandi organismi internazionali, si è riusciti a dare anche una risposta a livello internazionale. Infatti, si è passati da poche decine di migliaia di pazienti in cura a 17 milioni. Quindi, quando la comunità internazionale vuole, si riesce a raggiungere numeri importanti. Purtroppo, la guerra non è ancora finita.

D. – E su questa guerra è sempre meno forte l’attenzione dei mezzi di informazione…

R. – Alcune forme di comunicazione non corrette hanno fatto in modo che questa epidemia sembrasse risolta o quantomeno sotto controllo. C’è stata da una parte una diminuzione nella mortalità. Però, dall’altra c’è il numero dei nuovi casi che purtroppo rimane sempre molto, molto alto: parliamo di circa due milioni e mezzo di nuovi casi ogni anno, che è un numero enorme. Curare le persone significa diminuire il numero dei nuovi casi. Quindi, mettere in cura il maggior numero possibile di persone è la forma di prevenzione più efficace; mettere più persone in terapia significa eradicare l’Aids. La battaglia si può vincere, però c’è bisogno di un grande impegno nei Paesi in via di sviluppo e nel mondo intero.

D. – In questo contributo così prezioso e globale c’è, in particolare, anche il sostegno della Chiesa che in questa battaglia è un attore importante…

R. – La Chiesa svolge un ruolo importantissimo, determinante; soprattutto – e noi lo osserviamo dal nostro periscopio sull’Africa – oltre il 60-70% dei sistemi sanitari dei Paesi sono gestiti da organizzazioni religiose. Grazie alla presenza della Chiesa e grazie al contributo finanziario della Chiesa si è riusciti a dare anche una risposta ai tanti a cui i sistemi pubblici non arrivano. Questo può dare veramente speranza a tanti Paesi che veramente, senza la presenza di tanti operatori e di strutture religiose, non potrebbero fare tanto.

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Hotspot, i risultati della campagna "LasciateCIEntrare"

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Presentati ieri mattina, presso la sala Tobagi della Federazione nazionale della stampa (Fnsi), i risultati della campagna di mobilitazione di “LasciateCIEntrare”, sul tentativo, lo scorso 20 giugno in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, di entrare in vari Hotspot, Cie, Cara e Cas che, su tutto il territorio italiano, si occupano dell’accoglienza per i rifugiati e i richiedenti asilo. Ne parla, al microfono di Salvatore Tropea, la portavoce nazionale della campagna, Gabriella Guido

R. – Per la prima volta, “LasciateCIEntrare” ha indetto questa campagna aperta, con cui abbiamo chiesto a tutti gli attivisti – dei giornalisti, avvocati, legali, mediatori – di unirsi a noi e quindi di mappare il territorio. Abbiamo fatto più di 65 richieste alle varie Prefetture d’Italia e al Ministero dell’interno, a partire dagli Hotspot, Cie, Cara e Cas. Per gli Hotspot c’è stato subito notificato un diniego: la stampa e la società civile, cioè, non possono avere accesso. In alcuni Cie siamo entrati in altri no, in alcune Cara sì in altre no. Quindi, è stata un po’ una mappatura a macchia di leopardo. Evidentemente, cioè, ci sono ancora posti che è bene che la società civile non riesca a monitorare. Chiaramente, un conto è un Cas con 30 persone e un altro una tendopoli con 800. Quello che noi vogliamo fare, appunto, è informare e far sapere di che tipo di gestione si tratta. Purtroppo, è una gestione che deve ancora superare una fase emergenziale per diventare una gestione strutturale, fatta con operatori competenti, fatta con un monitoraggio legale, ma anche economico, di come vengono gestiti i soldi e soprattutto garantendo standard qualitativi di assistenza ai migranti.

D. – Sono stati denunciati alcuni limiti di un’accoglienza quasi al collasso, questo perché? Quali sono i limiti e l’Italia come può avere un’accoglienza che non sia controproducente?

R. – Noi crediamo che l’Italia sia di fondo un Paese accogliente. Bisogna semplicemente avere la volontà politica di impostare un sistema veramente e completamente diverso. Ribadisco: non è una situazione di ordine pubblico. Le Prefetture a volte fanno del loro meglio, ma il sistema dell’accoglienza è talmente ramificato e periferico che chiaramente lo Stato, le istituzioni locali non riescono a monitorare e a gestire. Ecco perché noi chiediamo che il sistema di accoglienza passi invece ai Comuni e alle organizzazioni del Terzo Settore, che hanno competenze, che hanno esperienza da anni sul campo e che magari riescono a fornire dei servizi a volte migliori degli stessi enti gestori, che fino a due mesi prima gestivano un centro anziani.

D. – Qualche giorno fa è caduto l’embargo sugli hotspot per i giornalisti…

R. – “LasciateCIEntrare” è nata nel 2011 proprio per ripristinare l’accesso alla stampa, soprattutto nei Cie, e fu una battaglia vinta. Adesso, negli Hot spot se voi cronisti potrete entrare, potrete anche raccontare quello che è il nuovo sistema, non solo dell’Italia chiaramente, ma di tutta l’Unione Europea sull’identificazione e selezione dei migranti, cioè di quelli che arrivano e, potendo, saranno richiedenti asilo e rifugiati politici da quelli che invece dovranno a seconda dei trattati bilaterali tornare nei loro Paesi di origine o Paesi di provenienza. Per cui, tanto per cominciare, ristabilire la trasparenza di questi centri, dopo di che riverificare lo status dei diritti umani.

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Save the children: Italia all'8° posto per il benessere dei bambini

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L’Italia si posiziona all’ottavo posto della classifica dei Paesi del G20 per il livello di benessere dei bambini. È questo il dato che emerge dal nuovo indice contenuto nel rapporto "Economic Playgrounds 2016", lanciato da Save the Children alla vigilia del G20 dei ministri delle Finanze in Cina. A destare preoccupazione è soprattutto il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni di età). Per quanto riguarda l’educazione, dimensione fondamentale per garantire a tutti i bambini benessere e opportunità, l’Italia occupa solo l'11.mo posto, mentre ai primi tre posti della classifica si trovano Canada, Germania e Repubblica di Corea. In tema di salute, preoccupano invece i dati sui bambini italiani tra 0 e 19 anni obesi o in sovrappeso. Le buone notizie giungono, invece, dall'uguaglianza per genere, dove l'Italia si aggiudica il secondo posto in graduatoria. Raffaela Milano, direttore dei programmi Italia Europa di Save the Children, ne ha parlato nell'intervista di Michele Ungolo: 

R. – Questi anni di crisi hanno confermato moltissimi problemi e moltissime situazioni di emergenza che riguardano anche i bambini del nostro Paese – di un Paese quindi che appartiene comunque all’area sviluppata, come i Paesi del G20. Abbiamo in particolare alcuni dati molto preoccupanti relativi all’educazione, quella che noi come “Save the Children” definiamo la povertà educativa dei bambini. Per quanto riguarda la salute, c’è un tasso di bambini sovrappeso e obesi, quindi cattiva alimentazione dell’infanzia, e poi anche i problemi molto noti della disoccupazione giovanile. Non siamo riusciti in questi anni a garantire una crescita di questi indicatori che sono così importanti proprio per i più piccoli.

D. – Questi dati a cosa sono dovuti?

R. – Per quanto riguarda in particolare l’educazione, sicuramente c’è stato negli anni un disimpegno. Ora fortunatamente ci sono stati dei segnali importanti di inversione di questa tendenza. Però, di fatto, se guardiamo la spesa negli ultimi anni dedicata all’istruzione pubblica dell’infanzia, vediamo che il dato è molto, molto negativo. Basti pensare agli asili nido che alla fine sono la base di partenza di un percorso educativo dei bambini: in alcune regioni italiane, come la Calabria, solo due bambini su 100 hanno un posto in un asilo nido. Quindi, diciamo che c’è uno scarso investimento sui servizi educativi, sia scolastici sia extrascolastici, che troppo spesso sono diventati un lusso per famiglie impoverite dalla crisi. Ricordiamoci che in Italia dati Istat recentissimi ci confermano che oltre un milione e 300 mila bambini e adolescenti sono in condizione di povertà assoluta, cioè non hanno il necessario di beni e servizi per condurre una vita dignitosa.

D. – Anche il tasso di disoccupazione giovanile risulta assai elevato: dà preoccupazione questo dato?

R. – E’ una preoccupazione enorme perché questo dato diventa anche una demotivazione, per esempio per gli adolescenti, a proseguire gli studi. Abbiamo anche un dato di dispersione scolastica molto elevato, cioè di ragazzi e ragazze che non vanno oltre il diploma di terza media, per intenderci, perché non vedono nello studio una motivazione per raggiungere una professionalità, avere la possibilità di sperimentare i propri talenti, le proprie capacità e quindi molto presto si rassegnano ad attività, anche lavorative, talvolta anche in condizione di lavoro nero e di sfruttamento e questo certamente non aiuta: non solo loro, ma più in generale lo sviluppo del nostro Paese.

D. – Le buone notizie, invece, giungono dall’uguaglianza di genere …

R. – Qui ci aiuta molto un dato relativo al nostro Servizio sanitario nazionale, cioè il fatto di avere un tasso di mortalità infantile tra i più bassi del mondo, anche questo dovuto al fatto che siamo un Paese che, al contrario di altri, ha un accesso universale al Servizio sanitario. Quindi, per esempio, per avere un bambino, al Servizio sanitario nazionale possono accedere tutte le donne, a prescindere anche dalla loro condizione giuridica, se sono regolarmente presenti in Italia o meno… Quindi, da questo punto di vista la tutela della maternità ci aiuta molto. E poi, ci sono anche cambiamenti piuttosto positivi che vengono considerati in questo indice e che riguardano, ad esempio, la presenza delle donne nelle istituzioni: anche qui dobbiamo dire che ci sono stati passi avanti importanti.

D. – Dove dovrebbe intervenire l’Italia?

R. – Sul tema della povertà minorile, che poi condiziona per esempio la povertà alimentare. Devo dire che quest’anno, nella Legge di stabilità, per la prima volta è stato previsto un intervento specifico, dedicato  proprio a contrastare sia la povertà minorile dal punto di vista economico, con il sostegno all’inclusione attiva, sia un fondo dedicato proprio alla povertà educativa. E si tratta di un primo passo: chiaramente, non sufficiente. Purtroppo, non possiamo aspettarci che questo ci faccia risalire la china immediatamente.

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Il commento di don Sanfilippo al Vangelo della Domenica XVII T.O.

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Nella 17.ma domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù insegna ai discepoli la preghiera del Padre nostro, che nel testo di San Luca si conclude così: 

"Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione".

Su questo brano evangelico ascoltiamo una breve riflessione di don Gianvito Sanfilippo presbitero della diocesi di Roma: 

Quale preghiera è più gradita a Dio di quella fraterna che Cristo stesso pone sulle nostre labbra in questo vangelo, ma sono le disposizioni interiori di chi si accinge a chiamarlo Padre che ne determinano l’efficacia. Consideriamo veramente fratello chi con noi condivide la fede, l’esperienza ecclesiale, o è perfino parente? Le nostre mani giunte per la supplica possono, al contempo, “grondare sangue”, per la maldicenza e il giudizio, la derisione, non di rado per il saluto negato dovuto a rancori. Proprio noi, però, abbiamo forse gioito della buona notizia del perdono dei nostri peccati da parte del Signore e della possibilità di risorgere dalla vita di solitudine senza senso a cui la disobbedienza ci aveva relegato. Il perdono chiama perdono, e chi ha gustato la tenerezza celeste è pervaso dal desiderio d’intercedere per il nemico vinto dal male. Quando, poi, le prove e le tentazioni, necessarie per la nostra salvezza, appaiono insormontabili, il dialogo intimo col nostro Salvatore deve al contempo crescere ed intensificarsi, e vale la pena, in taluni casi, di “disturbarlo” anche di notte, insistentemente. Il cuore di Dio cede sempre alla supplica accorata di coloro, che nel silenzio, interrompono il sonno, corroborati dalla speranza in Lui.

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Nella Chiesa e nel mondo



Afghanistan, kamikaze contro corteo sciita a Kabul: oltre 60 morti

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In Afghanistan è drammatico il bilancio di un attentato avvenuto a Kabul e rivendicato dai jihadisti del sedicente Stato islamico. I talebani hanno subito negato qualsiasi responsabilità nell'attacco. Le vittime sono almeno 61. I feriti sono oltre 200. Molti di questi sono in gravi condizioni.

Attentato durante un corteo
L’attacco è avvenuto nel quartiere di Dehmazang dove era in corso una manifestazione di protesta promossa dagli hazara, un’etnia di lingua persiana e di religione sciita, presente soprattutto nell'Afghanistan centrale.

Le proteste degli hazara
I dimostranti protestavano contro un progetto del governo per la creazione di una linea dell’alta tensione che dovrebbe collegare la capitale afghana con il Turkmenistan. L'opera discriminerebbe però la loro provincia di Bamyan, abitata in prevalenza da hazara. La manifestazione è stata improvvisamente scossa da una violenta esplosione.

Kamikaze con burqa
La televisione nazionale afghana ha trasmesso in diretta le immagini dell’attacco: si è vista una colonna di denso fumo scuro levarsi verso il cielo. Un testimone ha riferito che a compiere l'attentato è stato un kamikaze coperto da un burqa.

Per l'Is è un attacco contro apostati
Il lavoro dei soccorritori è stato ostacolato dai container disposti dalle forze dell’ordine in varie strade per controllare l’accesso nel centro della città. Per gli estremisti sunniti del cosiddetto Stato islamico, gli sciiti sono apostati, musulmani che rinnegano la loro stessa religione. (A.L.)

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Gmg: oltre 40 mila giovani dagli Usa, 17 giovani dal Myanmar

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Sono più di 40 mila giovani degli Stati Uniti iscritti alla GMG di Cracovia. Un record secondo solo a quelli della Gmg di Denver, nel 1993, e di Toronto, nel 2002. Alto anche il numero di vescovi che li accompagneranno: 85, di cui 13 sono stati selezionati come catechisti. Tra questi il presidente della Conferenza episcopale (Usccb), mons. Joseph Kurtz, i cardinali Timothy Dolan di New York e Sean O’Malley di Boston, gli arcivescovi Thomas Wenski di Miami, Charles Chaput di Philadelphia e Blase Cupich di Chicago.

Una speciale App per i pellegrini
Il Segretariato per i laici, il matrimonio e la famiglia della Usccb ha preparato diverso materiale informativo e sussidi e predisposto piattaforme digitali per coinvolgere anche i giovani che non potranno andare in Polonia. I ragazzi avranno a disposizione la speciale applicazione "Pilgrimage", realizzata in collaborazione con la Società Biblica americana e scaricabile dalle app store Android e Apple, attraverso la quale potranno accedere a vari contenuti che li aiuteranno a capire il significato del loro pellegrinaggio e a mettere in atto le opere di misericordia sollecitate da Papa Francesco in questo anno giubilare. Essi comprendono un video con una panoramica degli eventi della Gmg, letture e preghiere.

Il sito www.wyd2016.us per partecipare spiritualmente alla GMG
Altro materiale – interviste con vescovi, il calendario degli eventi, video esclusivi e blog – è disponibile sul sito www.wyd2016.us, mentre gli aggiornamenti saranno forniti sul profilo Facebook della Usccb e sul suo account Twitter con l’hashtag #WYDUSA. “Vogliamo fare sapere al mondo nessuno è escluso da questo pellegrinaggio. Tutti sono chiamati a essere pellegrini, anche se non hanno i mezzi per andare in Polonia”, spiega il coordinatore della delegazione statunitense, mons. Franck Caggiano, vescovo di Bridgeport,. “Quest’estate vogliamo che ogni giovane sappia che può partecipare a questo viaggio, fisicamente a Cracovia, o spiritualmente  a casa”.

Due gli eventi centrali per la delegazione USA
Saranno due gli eventi centrali dedicati ai giovani pellegrini dagli Stati Uniti riunititi nell’arena Tauron di Cracovia: un incontro nazionale di preghiera, fissato alle 17.00 del 27 luglio e la Messa nazionale celebrata la mattina del 30 luglio. Nella stessa arena, presso il Centro della misericordia, i pellegrini di lingua inglese potranno inoltre partecipare a diverse attività organizzate dai Cavalieri di Colombo. Numerose diocesi e arcidiocesi degli Stati Uniti hanno previsto iniziative parallele in concomitanza con la Gmg di Cracovia. La lista di questi eventi si trova nella pagina www.usccb.org/about/world-youth-day/stateside-wyd-celebrations.cfm

Alla Gmg anche 17 giovani dal Myanmar
Ma la Gmg non è fatta solo di grandi numeri. All’evento parteciperanno anche giovani da Paesi più piccoli e più lontani, come il Myanmar, da dove il 18 luglio sono partiti 17 ragazzi accompagnati da quattro sacerdoti. La loro partecipazione all’evento – afferma all’agenzia Ucan mons. Francis Daw Tan, presidente Ufficio per la pastorale giovanile della Conferenza episcopale del Myanmar – sarà “un’occasione per scambiare esperienze spirituali e culturali” con altri giovani. Prima della partenza il presule ha chiesto ai giovani di pregare durante l’evento “per la pace e il rispetto dello Stato di diritto” in Myanmar, da poco tornato alla democrazia dopo più di 50 anni di dittatura militare. A guidare la delegazione birmana è padre Joseph Saw Eh Khaw Htoo, direttore dell’Ufficio per la pastorale giovanile che prima della partenza ha organizzato una sessione spirituale preparatoria di quattro giorni. (A cura di Lisa Zengarini)

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Card. Gracias: l'Asia alla Gmg è la primavera della Chiesa

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“La numerosa partecipazione dell'Asia a Cracovia è la primavera della Chiesa universale”, perché “i nostri pellegrini asiatici non portano solo la grandezza, la vitalità e la bellezza dell’Asia, ma anche la diversità multiculturale, il pluralismo e i valori asiatici dell'ospitalità, della famiglia e la Chiesa dei giovani”. Lo ha detto il cardinale Oswald Gracias, presidente della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia (Fabc) in un’intervista ad AsiaNews dedicata all’evento ormai imminente. 

Asia ricchezza della Chiesa
Per l’arcivescovo di Bombay, l'incontro con altri giovani di altre parti del mondo sarà un’occasione di arricchimento reciproco “per la vita e la missione, nella condivisione, lo scambio di idee e storie e, soprattutto, nell'unità dell'amore per Gesù. Questo sarà una gioia e un incontro per arricchire la Chiesa. A noi – dice – dà forza vedere il dinamismo e la generosità dei giovani di tutto il mondo che intraprendono questo pellegrinaggio per la Giornata mondiale della gioventù”.

Gratitudine dei giovani asiatici per San Giovanni Paolo II
Il pellegrinaggio di tanti asiatici a Cracovia – aggiunge il porporato – è anche un segno di gratitudine per San Giovanni Paolo II e di amore per Papa Francesco: “L’amore di Giovanni Paolo II per l’Asia ha generato un generoso e reciproco entusiasmo nei giovani asiatici. Egli amava l’Asia e i nostri giovani lo sanno nel profondo del loro cuore”, afferma il porporato, ricordando i diversi viaggi compiute dal Papa polacco in Asia: dal primo nel 1981 nelle Filippine, a Goa, in Giappone e Pakistan a quello del 1999 in India, per la pubblicazione della Esortazione apostolica post-sinodale “Ecclesia in Asia”.

L’amore dei giovani asiatici per Papa Francesco
“La missione e le benedizioni di Cristo sull’Asia – sottolinea  ancora il cardinale Gracias – sta continuando con la presenza sulla Cattedra Pietro del nostro amato Papa Francesco, che sta chiamando la Chiesa a mostrare il volto della Misericordia e attira tutti a Gesù e alla sua Divina Misericordia”. (L.Z.)

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Francia. On line il sito dei vescovi per la lotta alla pedofilia

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È on line il sito "www.luttercontrelapedophilie.catholique.fr", realizzato dalla Conferenza episcopale di Francia per coordinare, migliorare e rafforzare il contrasto al fenomeno della pedofilia in seno alla Chiesa di Francia. Questo sito, spiega il presidente dei vescovi francesi, mons. Georges Pontier, citato dall’agenzia Sir, è uno degli strumenti di cui la Chiesa di Francia si dota nella lotta contro la pedofilia. L’obiettivo del portale, a disposizione del più gran numero di persone, è che tutti possano “accedere alle informazioni e capire, in caso di bisogno, come prendere contatti. Speriamo che ciò aiuti a ridare fiducia e stima nella nostra Chiesa, tesa ad annunciare l’amore di Dio sempre e in ogni occasione”.

Disponibili numerosi documenti informativi
Grazie a una cartina geografica della Francia, il sito permette alle vittime o ai loro familiari di inviare direttamente una testimonianza al vescovo della diocesi coinvolta negli avvenimenti. Il sito mette anche a disposizione un accesso all’indirizzo mail: "paroledevictimes@cef.fr". Sul portale è poi possibile trovare molti documenti sulla pedofilia (pedofilia e società, comprendere la pedofilia, pedofilia e fede), nonché una rubrica dal titolo “Come agire?” che offre chiavi di prevenzione, aiuti su come rilevare il fenomeno e le procedure da seguire per denunciare e agire. Infine, nella rubrica “La Chiesa di fronte alla pedofilia” sono riportate dettagliatamente le misure prese all’interno della Chiesa di Francia.

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Zambia, vescovi: lanciato piano strategico per prossimi 10 anni

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La Conferenza episcopale dello Zambia ha un nuovo nome: Conferenza dei vescovi cattolici dello Zambia (Zccb). La novità è stata annunciata nei giorni scorsi in occasione della presentazione a Lusaka del nuovo piano strategico 2017-2026 dell’Episcopato.

Una Chiesa più al passo con i tempi
Il piano e la nuova denominazione – ha spiegato nell’occasione il presidente dei vescovi zambiani mons. George Telesphore Mpundu, l’arcivescovo di Lusaka – vogliono rendere la Chiesa zambiana più al passo con i tempi e con la situazione del Paese. In particolare, il documento “aiuterà la Chiesa a diffondere il Vangelo in modo intelligente. Sarà una road map con l’aiuto dello Spirito Santo”. “Il Signore dice che se si costruisce senza di Lui costruiamo invano, quindi dobbiamo essere cristiani che coinvolgono Cristo in tutto ciò che fanno”, ha aggiunto mons. Mpundu, precisando che il piano di azione del prossimo decennio vuole dare alla Chiesa maggiore rilevanza nel campo sociale, politico ed economico.

La Conferenza episcopale dello Zambia istituita nel 1965
La Conferenza episcopale dello Zambia è stata istituita nel 1965 e i suoi Statuti sono stati approvati dalla Santa Sede nel 1984. Essa è membro del Secam (Simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar)  e dell’Ameca, l’Associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa orientale che comprende, oltre allo Zambia, anche Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi, Tanzania, Sud Sudan e Uganda. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 205

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.