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Sommario del 14/05/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa all'udienza giubilare: pietà non è pietismo, vince l’indifferenza

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La pietà non è pietismo ma “una manifestazione della misericordia di Dio”. Per Gesù provare pietà equivale “a condividere la tristezza di chi incontra” e ad operare per trasformare questa tristezza in gioia. E’ quanto ha affermato stamani Papa Francesco, in una giornata sferzata dal vento e dalla pioggia, durante l’udienza giubilare tenutasi in piazza San Pietro e seguita dagli ammalati, attraverso maxischermi, nell’Aula Paolo VI. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

La pietà non è pietismo, che è “solo un’emozione superficiale e offende la dignità dell’altro”. La pietà – ha detto il Papa – “non va confusa neppure con la compassione che proviamo per gli animali che vivono con noi”:

“Accade, infatti, che a volte si provi questo sentimento verso gli animali, e si rimanga indifferenti davanti alle sofferenze dei fratelli. Ma, quante volte vediamo gente tanto attaccata ai gatti, ai cani, e poi lasciano senza aiutare la fame del vicino, della vicina”.

La pietà è manifestazione della misericordia di Dio
La pietà di cui vogliamo parlare – ha aggiunto il Santo Padre – è una manifestazione della misericordia di Dio”. Alle persone malate, indemoniate, povere o afflitte – ha ricordato il Pontefice - Gesù rispondeva “con lo sguardo della misericordia e il conforto della sua presenza”:

“Per Gesù provare pietà equivale a condividere la tristezza di chi incontra, ma nello stesso tempo a operare in prima persona per trasformarla in gioia. Anche noi siamo chiamati a coltivare in noi atteggiamenti di pietà davanti a tante situazioni della vita, scuotendoci di dosso l’indifferenza che impedisce di riconoscere le esigenze dei fratelli che ci circondano e liberandoci dalla schiavitù del benessere materiale”.

Maria, icona della pietà
Per i credenti – ha detto infine il Papa – c’è un esempio verso cui volgere lo sguardo:

“Guardiamo l’esempio della Vergine Maria, che si prende cura di ciascuno dei suoi figli ed è per noi credenti l’icona della pietà”.

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Francesco celebrerà la Messa di Pentecoste in San Pietro

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Papa Francesco celebrerà domani mattina a partire dalle 10, nella Basilica Vaticana, la Messa per la Solennità di Pentecoste. Nei riti d’introduzione, il Pontefice pregherà affinché il Signore “ci rinnovi interiormente, perché siamo sempre fedeli allo Spirito che ci è stato dato in dono”. Tra le intenzioni di preghiera dei fedeli, si rivolgerà un pensiero speciale ai legislatori e ai governanti, affinché “la sapienza che discende dall’alto li liberi dalla prigionia della mondanità e li guidi nella ricerca del vero bene di ogni persone”. Si pregherà quindi per le vocazioni al sacerdozio, per i cristiani in difficoltà, per i poveri e i sofferenti.

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A sorpresa Papa Francesco visita la Comunità il Chicco

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Ieri pomeriggio il Papa, nell'ambito dell'iniziativa dei “Venerdì della misericordia” dell’Anno giubilare, ha visitato a sorpresa la Comunità il “Chicco” di Ciampino, alle porte di Roma. La notizia è stata pubblicata sul sito ufficiale del Giubileo della Misericordia. Il Chicco è una realtà legata alla grande famiglia dell’Arche (L’Arca) fondata da Jean Vanier nel 1964. La federazione è presente in oltre 30 Paesi nei cinque continenti, insieme all’associazione “Fede e Luce” si dedica alle persone più deboli ed emarginate della società. La Comunità del Chicco è la prima realizzata in Italia, fondata nel 1981 ospita oggi 18 persone con grave disabilità mentale. Il servizio di Massimiliano Menichetti: 

Seduto a tavola, per fare merenda come in famiglia. L’immagine è quella della festa in cui i colori dei sorrisi predominano su tutto. Il Papa parla con gli ospiti del “Chicco”, i volontari, incontra i familiari. L’emozione è tanta per tutti, ma la gioia è superiore. Incontri ed emozioni perché non si può essere privati di amore, gioia e dignità solo perché portatori di una disabilità mentale. Ed è questo che il Papa sottolinea nel suo camminare: che nessuno può permettersi di discriminare in forza di preconcetti che emarginano e rinchiudono nella solitudine famiglie e associazioni. E allora le due case famiglia, che qui si chiamano “focolari”, ovvero  la “Vigna” e “Ulivo” oggi sono state ancora più raggianti perché hanno donato al mondo uno sguardo vivo ed hanno ricevuto l’abbraccio e la benedizione del Papa. Francesco ha visitato anche i disabili più gravi, il cuore si è dilatato ancora di più con Armando e Fabio che furono i primi ad essere accolti. Al Pontefice è stato mostrato anche il laboratorio artigianale, dove quotidianamente vengono creati piccoli oggetti. Infine, tenendosi tutti per mano, Papa Francesco ha pregato nella piccola cappella e dopo gli abbracci si è congedato portando con sé la gioia e il calore della comunità il “Chicco”.

Tanta l'emozione per la visita del Papa ribadisce Marco Veronesi responsabile della Comunità il "Chicco": 

R. – L’emozione per noi è stata grandissima. L’emozione più grande è stata per i nostri ragazzi; adorano Papa Francesco. Alcuni di loro hanno in camera la foto del Papa e si sono commossi, un paio si sono messi a piangere dalla gioia. Penso che il Papa ha la mantellina umida, perché mentre lo abbracciavano scendevano le lacrime. È stata veramente una grande emozione.

D. – Il Papa ha visto le due casa famiglia: avete fatto merenda insieme, cantato, pregato …

R. – Abbiamo pregato insieme, abbiamo fatto un canto, un canto tipico dell’Arca, abbiamo recitato un Padre, Ave e Gloria, un Eterno riposo per quelli che noi definiamo “l’Arca che sta in cielo”, ossia per tutti i fratelli e gli amici dell’Arca defunti. C’è stata la benedizione, un po’ di foto e poi è andato via. È una persona semplicissima, veramente alla mano e di una cordialità tale che sembrava uno di noi, un nostro amico da sempre.

D. – Cosa ha detto il Papa?

R. – Intanto ha voluto sapere la nostra storia e la storia dei nostri ragazzi; ha raccontato dell’incontro che sta facendo con tutte le persone che soffrono, ci ha chiesto di portare in giro nel mondo un po’ di quella tenerezza che viviamo nella nostra comunità, di spargerla, di regalarla, di mandarla in giro e poi ci ha detto di pregare per lui.

D. - Adesso cosa accadrà all’interno della comunità de “Il Chicco”?

R. – Siccome noi siamo un po’ la storia e la memoria dei nostri ragazzi perché sono ragazzi con disabilità mentali alcune anche molto gravi, attraverso il ricordo, i rosari che ci ha regalato, qualche foto, ripercorreremo per un po’ di tempo questo avvenimento in maniera tale che possa entrare nei loro cuori in maniera molto più stabile. Poi, come saranno pronte, appenderemo le foto dell’evento per mantenerlo proprio come un monumento all’interno della comunità insieme ad altri eventi che noi facciamo. Da nostra tradizione, più volte l’anno ritorniamo sulle cose che sono accadute, importanti, proprio per avere questa continuità di vita.

D. – Sembra che davvero “Il Chicco” sia diventato ancora di più quello che è da sempre, cioè un faro che fa vedere l’amore, la gioia, la dignità per tutti. Mi sembra che anche voi abbiate regalato al Papa qualcosa; non solo il Papa vi ha dato una forte emozione … È così?

R. – Io penso proprio di sì. Intanto l’affetto e l’amicizia dei nostri ragazzi oltre a quello dei volontari e degli operatori, poi forse abbiamo regalato al Papa il fatto che tutti con fiducia possiamo  sperare nel Signore perché è una speranza che si incarna. Sembra che i nostri ragazzi non siano utili a nessuno, invece attraverso i loro cuori , la conoscenza e il rapporto con loro, vogliamo cambiare l’umanità. Sono l’esempio che una società può nascere dalla pietra d’angolo scartata e su quella pietra costruire veramente un palazzo.

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Udienze e nomine di Papa Francesco

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Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza il card. Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi.

Il Santo Padre ha nominato il card. Norberto Rivera Carrera, arcivescovo di México, Suo Inviato Speciale alle celebrazioni conclusive del bicentenario della consacrazione della Cattedrale Metropolitana di Santiago de Guatemala, che si terranno in concomitanza con il Congresso Eucaristico Arcidiocesano dal 31 maggio al 5 giugno 2016.

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Papa in Armenia a giugno: la gioia della comunità armena

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Grande gioia nella comunità armena per la visita del Papa in Armenia dal 24 al 26 giugno prossimi. Ieri il programma è stato reso noto dalla Sala Stampa Vaticana: le tre dense giornate prevedono la visita al memoriale dell’eccidio del 1915-16,  momenti di ecumenismo come la preghiera per la pace e la dichiarazione congiunta con la Chiesa armeno apostolica e l’incontro con la comunità cattolica. Al microfono di Paolo Ondarza l’arcivescovo degli armeni cattolici di Aleppo in Siria, mons. Boutros Marayati: 

R. – Per noi armeni si tratta di una notizia che ci fa onore e che ci dà una grande, grande gioia. E questo anzitutto perché il Santo Padre, che conosce bene la storia degli armeni, viene come pellegrino per ricordare la memoria dei martiri armeni. L’anno scorso – il 12 aprile – ha celebrato la Messa in occasione del centenario dei martiri armeni, del genocidio perpetrato dagli ottomani nel 1915. E quest’anno, a coronazione di questa celebrazione, verrà personalmente a visitare questa terra cristiana, in cui c’è il sangue dei martiri, e a pregare. Avrà anche un incontro ecumenico con la Chiesa armeno-ortodossa: così questa visita avrà anche un valore ecumenico. Ma viene anche per incoraggiare la presenza della Chiesa armeno-cattolica: noi siamo presenti in Armenia, con il nostro arcivescovo, con i sacerdoti, le suore e tanti fedeli che stanno qui, che hanno vissuto qui durante il regime sovietico e che adesso sono liberi ed hanno incominciato a riaprire le loro chiese. La visita del Santo Padre e la sua Santa Messa nel centro di Gymuri è per noi un grande incoraggiamento. Cominciando dal Presidente fino ad arrivare all’ultimo cittadino saremo lì ad accogliere il Santo Padre. Speriamo che possa darci anche speranza per una vita di pace con tutti i Paesi che confinano con questo piccolo Paese, che è l’Armenia; ma anche per una collaborazione fra gli armeni della Repubblica Armena e tutti gli armeni che stanno nella diaspora.

D. – Guardando agli avvenimenti che scandiranno questa visita, lei ricordava la visita al memoriale del martirio degli armeni; ci sarà poi la firma di una dichiarazione congiunta con la Chiesa armena apostolica; il Papa pregherà poi presso il Monastero di Khor Virap, che è il luogo della prigionia di Gregorio Illuminatore… Quindi sarà un viaggio con contenuti molto forti per l’Armenia, ma anche – potremmo dire – per la situazione internazionale…

R. – Senz’altro, anche perché l’Armenia pensa e vorrebbe entrare nella Comunità Europea. L’Armenia ha anche problemi di guerra e di pace con gli altri Paesi vicini… Sarà occasione di pensare a una pace, a una intesa. Credo che la cosa più bella e più poetica sarà proprio quando andrà a visitare il Convento di Khor Virap: da lì si vede il Monte Ararat, il monte biblico, il monte armeno, che oggi si trova in territorio turco… Noi lo vediamo da questa parte e ci dice che l’Arca di Noè è arrivata lì e che un giorno tutto il popolo armeno sarà vicino a Dio grazie ai martiri che ha dato per Cristo.

D. – Una visita che si pone in continuità con quella di San Giovanni Paolo II: cosa è rimasto di quel viaggio apostolico?

R. – Quel viaggio apostolico - al quale ho partecipato - ha avuto un carattere molto privato; questo viaggio avrà, invece, un’apertura più forte, perché il Santo Padre andrà a Gymuri, nel nord dell’Armenia, dove c’è una presenza molto forte di armeni cattolici. E questo anche con la benedizione del Catholicos apostolico armeno di Etchmiadzin, che lo accompagnerà. Presiederà una Messa lì, nella piazza di questa città di Gymuri, dove c’è una presenza cattolica. Quindi c’è davvero questa grande apertura.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Scossa all’indifferenza: all’udienza giubilare il Papa parla della pietà.

Uomo di genio, vescovo apostolico: Ezio Bolis su Giacomo Maria Radini Tedeschi visto dal suo segretario Roncalli.

Due lingue, due culture: Angela Mattei su storie di bilinguismo.

La chiave di una fecondità sociale: il vescovo di Albano, Marcello Semeraro, sull’“Amoris laetitia”.

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Oggi in Primo Piano



Migranti: situazione drammatica al campo profughi di Idomeni

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Secondo i dati di Frontex gli arrivi di migranti in Italia nell’ultimo periodo hanno superato quelli in Grecia, dove, però, resta critica la situazione nei campi profughi. È stata annunciata per fine maggio la chiusura di quello di Idomeni, al confine con la Macedonia, dove sono bloccate migliaia di persone dopo che questa ha chiuso le frontiere il 21 febbraio scorso. Per una testimonianza sulla vita in quella che il ministro dell’Interno greco ha definito “la Dachau dei nostri giorni”, Roberta Barbi ha raggiunto telefonicamente a Idomeni il giornalista della Rai, Massimo Veneziani: 

R. – L’impressione è quella di una zona in costante emergenza igienico-sanitaria.  È  un campo molto vasto dove ci sono quattromila bambini che più che altro hanno bisogno di svago, perché la vera difficoltà di questa zona è affrontare la vita quotidiana. C’è gente che si trova qui ormai da mesi che non si trova in una reale emergenza legata ai vestiti o alle scarpe, come si potrebbe immaginare in un campo profughi, ma che ha bisogno del quotidiano, quindi cose per lavarsi, pannolini, docce, creme, tutto ciò che permette di affrontare la vita quotidiana nel modo più dignitoso!

D. – Da quando la Macedonia ha chiuso le frontiere, il 21 febbraio scorso, a Idomeni sono arrivate tra le dieci e le 12 mila persone. Come vivono nel campo?

R. – Ci sono le storie più varie. La cosa particolare di questo campo è che, come ogni piccola città, è composto socialmente anche in modo differente: c’è il sottoproletariato urbano di Aleppo e Damasco, così come c’è la piccola borghesia a dimostrazione del fatto che le situazioni di emergenza, le situazioni di guerra e il bombardamento coinvolgono tutta la popolazione, per cui si può incontrare il muratore curdo siriano e l’arabo che è proprietario di un negozio di make up femminile che ha deciso di portare la propria famiglia in Europa perché due dei loro quattro figli sono già in Germania e quindi cercano di ricongiungersi e di fuggire dalla guerra. Ci sono persone che non hanno più una casa, che hanno rischiato la vita; è frequente vedere persone che ti mostrano attraverso i loro cellulari le foto che vengono mandate dai loro parenti che sono ancora ad Aleppo.

D. - Il 40 per cento dei profughi a Idomeni è composto da minori non accompagnati. Qualche giorno fa è scoppiato lo scandalo di abusi su alcuni minori siriani in un campo profughi in Turchia. Quali sono i pericoli cui i bambini vanno incontro in un posto come questo?

R. - La percezione è che questo sia un campo ormai talmente istituzionalizzato, che fa parte di un Paese membro di realtà internazionali molto consolidate. La presenza dei cooperanti internazionali è molto solida, numerosa e ramificata e questo fa si' che i livelli di controllo siano piuttosto alti; i bambini non corrono dei rischi particolarmente grandi, se non - appunto - quelle che possono essere le "malattie normali" che si possono sviluppare in una situazione di questo tipo. I bambini hanno anche altre tutele: si tenta di organizzare una scuola, ci sono famiglie curde con le quali noi abbiamo parlato che raccontano che se si mette una penna in mano ai propri figli questi non sono in grado di scrivere, non sono in grado di leggere …

D. - Ci sono rischi concreti per la salute?

R. - È una situazione abbastanza critica perché molti di loro preferiscono non ricevere l’aiuto in cibo da parte delle organizzazioni internazionali, preferiscono evitare di fare le file, preferiscono cucinarsi i cibi che loro stessi comprano o che vengono donate da alcune organizzazioni internazionali e questo comporta bruciare la legna, che comunque viene distribuita, ma bruciare un po’ tutto quello che si trova intorno. Capita molto spesso che queste persone, che sono di un’accoglienza straordinaria, ti invitino a prendere un thè o un caffè e la teiera venga posata sul fuoco dove sta bruciando una scarpa da ginnastica. Questo significa ovviamente che la qualità dell’aria non è delle migliori; il livello di diossina è comprensibilmente superiore ai livelli accettabili.

D. - Più volte è stata annunciata la chiusura del campo di Idomeni. Ora sembra che questa possibilità si stia concretizzando per fine maggio. Che fine faranno tutte queste persone?

R. - L’obiettivo del governo è ovviamente quello di spostarli all’interno dei campi militari. Il problema che deve affrontare il governo greco è duplice perché non solo si trova davanti un’emergenza umanitaria da affrontare in una condizione economica che - come tutti sanno - è una delle peggiori della storia della Grecia, ma il grande problema che il governo deve affrontare è il fatto che questa stazione è una delle principali stazioni di passaggio di tutti i treni che trasportano merci e persone verso i Balcani. Questo ha costretto il governo greco a deviare tutte le linee che passano da Idomeni verso altre linee ferroviarie, quindi l’obiettivo è innanzi tutto quello di liberare i binari e provare a spostare le persone per far ripartire la vita nella stazione.

D. - Come immaginano il proprio futuro queste persone?

R. - Dicono che vogliono andare in Europa perché lì – cito testualmente le parole di Bava, un muratore siriano che in questo momento sta dando una mano ai cooperanti internazionali a costruire le tende e le baracche – “amano le persone, in Europa ci accolgono, in Europa c’è la civiltà. Non c’è la guerra, non ci sono case bombardate, bombardate, bombardate”.

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Sahara Occidentale e Marocco: riprendono le tensioni

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Il Fronte di liberazione del Sahara Occidentale potrebbe riaprire il conflitto con il Marocco, che dal 1975 controlla la gran parte del suo territorio. Ex colonia spagnola, il Sahara Occidentale attende da anni l’organizzazione di un referendum per sancire la propria autodeterminazione, mentre la maggior parte della popolazione saharawi vive nei Campi profughi al confine con l’Algeria. Elvira Ragosta ha intervistato sull’argomento Luciano Ardesi, esperto di questioni nordafricane: 

R. – Il Fronte Polisario, a partire dall’ultimo congresso nel dicembre scorso, ha moltiplicato gli annunci di una probabile ripresa della guerra. Ma questo annuncio è rivolto soprattutto ai giovani, che all’interno del Fronte Polisario e della diaspora Saharawi, sono sempre più scontenti di come la situazione si sta evolvendo. Ma non credo che ci sia il rischio di una ripresa immediata.

D. – L’occupazione marocchina a partire dal 1975; la guerra; poi la missione di pace dell’Onu in attesa di un referendum sull’autodeterminazione, che si aspetta ormai da decenni. Ma qual è la posizione oggi dell’Onu? Ban Ki-moon ha visitato di recente i Campi profughi Saharawi in Algeria…

R. – L’Onu ha prorogato per un altro anno la missione dei Caschi Blu; però questa missione è fortemente limitata dall’espulsione del personale civile che il Marocco ha compiuto nel mese di marzo. Tant’è vero che la funzionalità dei Caschi Blu è fortemente ridotta e il Consiglio di Sicurezza ha chiesto invece che questa venga ripresa al più presto. Per il momento, però, la situazione rimane critica proprio per l’impossibilità di sorvegliare efficacemente il cessate-il-fuoco. Il Marocco ha accusato Ban Ki-moon di fare delle dichiarazioni non in linea con la posizione dell’Onu: Ban Ki-moon ha detto che il Sahara Occidentale è “occupato”. Ora, questa parola “occupazione” pare sia un tabù per la monarchia marocchina, ma in effetti i Caschi Blu sono impegnati da decenni sulla questione del Sahara Occidentale, proprio perché questo è occupato. Se non lo fosse, non ci sarebbe ragione neppure per l’intervento delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.

D. – La strada verso il referendum è lunga e tortuosa: che tipo di previsioni si possono fare al riguardo?

R. – Il Marocco non vuole assolutamente che ci sia un referendum. Al massimo sarebbe disposto a un voto, ma solo di conferma del piano di autonomia che ha avanzato nel 2007. Ma non intende assolutamente porre la questione dell’indipendenza al voto dei Saharawi.

D. – Quanto è delicata la questione Saharawi oggi nel quadro geopolitico maghrebino, soprattutto con il pericolo del terrorismo?

R. – Il Sahara Occidentale continua a essere l’elemento di divisione all’interno del Maghreb, che impedisce di dare realizzazione all’Unione del Maghreb arabo, congelata di fatto da oltre 20 anni. Il rischio del terrorismo si è fatto particolarmente acuto in una situazione in cui la collaborazione tra gli Stati della Regione non è così intensa proprio a causa di queste difficoltà.

D. – Esistono ostacoli di natura economica all’indipendenza del Sahara Occidentale o è solo una questione politica, territoriale?

R. – I fosfati del Sahara Occidentale, unitamente alle miniere dei fosfati in Marocco, fanno sì che quest’ultimo sia il più grande esportatore di fosfati. Tuttavia la ragione principale da parte del Marocco è di natura politica.

D. – Dal punto di vista militare il Polisario, secondo lei, sarebbe capace di portare avanti un’offensiva nei confronti del Marocco?

R. – Tutto dipenderebbe dall’atteggiamento dell’Algeria, perché le armi vengono da lì. E io dubito che l’Algeria possa consentire che il Fronte Polisario riprenda la guerra. Sarebbe una destabilizzazione del Maghreb ancora più acuta e pericolosa di quella che è in atto in questo momento. 

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Colosso farmaceutico Pfizer blocca prodotti per le esecuzioni capitali

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Un altro colosso farmaceutico, la Pfizer, mette i bastoni fra le ruote all’inumano meccanismo della pena di morte negli Stati Uniti: l’azienda multinazionale ha infatti imposto controlli rigidi sui suoi prodotti per garantire che non vengano usati per la formulazione dei mix letali utilizzati nelle esecuzioni capitali. Una decisione considerata una pietra miliare e cha fa seguito ad altre decine di aziende che hanno già adottato restrizioni a riguardo. A spiegarci l’importanza di questo ultimo provvedimento, Sergio D’Elia, presidente dell’associazione  contro la pena di morte, “Nessuno tocchi Caino” al microfono di Paola Simonetti: 

R. – Mette in discussione una questione assolutamente fondamentale per chi vuole non collaborare alla pratica della pena di morte. E cioè si proietta quella che può essere un’etica professionale, aziendale, in un campo che finora non era considerato strettamente legato alla ragione d’impresa. La decisione della Pfizer è l’ultima di una lunga serie, in cui molte cause farmaceutiche hanno deciso di non collaborare alla pratica della pena di morte. Questa era l’ultima azienda che continuava a fornire farmaci per iniezioni letali, e con questa fonte di approvvigionamento è venuta meno quest’ultima possibilità. Questo non vuol dire che verrà fermata la pratica della pena di morte negli Stati Uniti, ma semplicemente che di sicuro verranno ridotte le esecuzioni capitali. È già successo dopo la prima decisione di un’azienda farmaceutica nel 2011, la Hospira, di interrompere la fornitura di Pentothal ai penitenziari americani; e d’allora in poi molte altre aziende farmaceutiche multinazionali si sono susseguite. Per la penuria dei farmaci per l’iniezione letale su tutto il territorio nazionale degli Stati Uniti ci sono state sospensioni o rinvii di esecuzioni, tant’è che dal picco di 98 esecuzioni nel 1999 si è passati a 28 nel 2015. Però, bisogna dire che non si tratta di un problema di metodo dell’esecuzione penale; nelle esecuzioni capitali quello che va messo totalmente in discussione è proprio il principio che uno Stato possa disporre della vita dei suoi cittadini fino al punto di praticare la pena di morte per amministrare la giustizia.

D. – Ci sono però, sul fronte dei mix di farmaci e droghe per le esecuzioni, anche molte polemiche, poiché in molti casi non hanno agito efficacemente generando indicibili sofferenze al condannato. Ci sono dunque anche mancati controlli; uso scorretto di questi prodotti per una pratica che, come ha detto lei, già è di per sé disumana, come la pena di morte…

R. – Nel tentativo di ovviare alla penuria dei farmaci che storicamente sono stati usati - e penso innanzitutto al Pentothal - c’è stata una corsa alla ricerca di farmaci sostitutivi. Proprio questi ultimi farmaci sono stati quelli che hanno provocato le esecuzioni cosiddette “pasticciate”: quella più clamorosa è dell’aprile di due anni fa, quando un detenuto, condannato a morte in Oklahoma, Clayton Lockett, è morto dopo aver trascorso 43 minuti di agonia sul lettino dell’iniezione letale. Gli avevano somministrato una dose di Midazolam, che era il primo elemento di un protocollo che prevedeva poi altri due farmaci. E questo è stato il caso che ha suscitato molte perplessità, non solo sulla pratica dell’iniezione letale, ma proprio su quella della pena di morte negli Stati Uniti. Io sono abbastanza ottimista, perché, soprattutto dopo la morte di Antonin Scalia, il giudice della Corte costituzionale più oltranzista nel favore alla pena di morte, cambiano gli equilibri all’interno della Corte Suprema americana. Quest’ultima sulle questioni cruciali, come per esempio quella del protocollo dell’iniezione letale, si era sempre divisa 5 a 4; ecco che invece il nuovo giudice nominato da Obama può far cambiare gli equilibri e far decidere la Corte Suprema, come già successo negli anni ’70, che sia crudele e inusuale la pratica della pena di morte negli Usa. In quegli anni ci fu una sorta di abolizione per via giurisdizionale, che fermò la pena di morte per oltre dieci anni. Però potrebbe giungere a una decisione di questo tipo, a partire soprattutto dalle prossime pronunce della Corte Suprema sulla legittimità costituzionale dell’iniezione letale, ma a questo punto della pena di morte in quanto tale.

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Commercio equo e solidale: cresce il fatturato in Italia

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E' stato pubblicato il rapporto per il 2016 da “Equo Garantito”, l’associazione di categoria delle organizzazioni italiane di commercio equo e solidale, in occasione della Giornata mondiale dedicata a questo tipo di attività. Nel 2015 il fatturato complessivo delle aziende italiane è stato di oltre 150 milioni di Euro. Sul senso del commercio equo e solidale, soprattutto in un periodo di crisi economica, Daniele Gargagliano ha intervistato Giovanni Paganuzzi, presidente di “Equo Garantito”: 

R. – Il commercio equo e solidale è una forma di cooperazione allo sviluppo. E’ una attività attraverso la quale si vuole accompagnare, nell’accesso al mercato, i piccoli produttori marginali attraverso delle prassi contrattuali che sono connotate in maniera molto precisa, che devono – in particolare – prevedere accordi di lunga durata, il pagamento di un prezzo equo, misure a carico dell’acquirente e quindi delle organizzazioni di commercio equo, che portino ad una implementazione e ad uno sviluppo dell’impresa del piccolo produttore; e misure che consentano una ricaduta positiva sulla comunità locale in cui opera il piccolo produttore.

D. – Quale valore ha, in questo periodo di crisi economica, il commercio equo e solidale?

R. – Nei momenti di crisi, i soggetti più deboli sono quelli che pagano più di tutti e che vengono eliminati dai circuiti. Il soggetto debole è il segno dell’inefficienza del sistema e quindi viene tagliato… Il commercio equo fa esattamente l’opposto: si prende cura del soggetto debole e lo accompagna, finché non è in grado di camminare con le sue gambe. Mentre in origine il commercio equo è nato come forma di cooperazione allo sviluppo con produttori dei Paesi del Sud del mondo, in questo momento di crisi il modello del commercio equo comincia ad essere percepito anche dai produttori locali italiani come un modello e un’occasione per uscire dalla crisi. E questo perché crea delle sinergie molto forti, delle forme di cooperazione innovative che consentono di superare quella logica del dominio del più forte sul più debole.

D. – Papa Francesco ha fatto spesso riferimento alla cultura dello scarto per quanto riguarda la mancanza di attenzione verso il valore della vita e delle persone escluse dalla società, ma anche in relazione all’alimentazione e quindi alle ingenti quantità di cibo che nelle nostre città vengono gettate nella spazzatura, mentre nei Paesi in via di sviluppo si muore di fame e di malnutrizione…

R. – Il problema è del modo in cui noi consumiamo e c’entra anche con il commercio equo. L’educazione del consumatore a ciò che consuma e a come lo consuma e quali siano le conseguenze del suo gesto di consumo. Quando noi consumiamo un bene, in realtà noi facciamo una scelta anche sul quel bene: lo acquisiamo, lo "votiamo" sul mercato, dando un consenso e un voto positivo a chi ce lo ha portato sulla tavola. E’ certo che se quel prodotto è frutto di una catena di produzione iniqua, noi incentiviamo a continuare a produrre in quel modo.

D. - Quanto è importante oggi ricordare il dovere delle imprese nel garantire ai loro impiegati condizioni di lavoro dignitose, ma anche di vigilare contro qualsiasi forma di sfruttamento, come ad esempio il traffico di esseri umani?

R – Finché il lucro resta l’unico criterio e l’unico fine istituzionalmente riconosciuto al soggetto produttivo, questa cosa diventa difficile, perché la persona resta comunque uno strumento e non il fine ultimo. Con altrettanta chiarezza vanno, però, individuati strumenti che equilibrino questa assoluta prevalenza e peso nel nostro ordinamento.

D. – Il disegno di legge approvato solo alla Camera dei Deputati mira a far riconoscere la funzione rilevante nel sostegno alla crescita economica e sociale dei Paesi in via di sviluppo. Il testo porterà risultati tangibili in questo senso?

R. – Penso proprio di sì, perché riconosce degli strumenti concreti con cui è possibile contaminare il mercato tradizionale con dei modi di fare attività di impresa diversi.

D. – Il fatturato italiano, per quanto riguarda le aziende che hanno aderito alla vostra organizzazione, ammonta ad oltre 75 milioni di Euro. Ma ci sono ancora dei margini di crescita?

R. – Ci sono margini di crescita e, in questo momento, i dati ci dicono che stiamo crescendo ulteriormente. Il valore della produzione del movimento del commercio equo in Italia è molto più rilevante ed è circa il doppio, perché alle organizzazioni di commercio equo iscritte vanno affiancate altrettante organizzazioni che invece non sono iscritte. Il giro d’affari è attorno ai 150 milioni di Euro ed è ancora un mercato in crescita, nonostante la crisi. 

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Il commento di don Gianvito Sanfilippo al Vangelo della Domenica

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Nella solennità di Pentecoste, la liturgia ci propone  il Vangelo in cui Gesù dice che pregherà il Padre che invierà un altro Paràclito perché rimanga per sempre con i discepoli:

“Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. 

Sulla solennità di Pentecoste, ascoltiamo il commento di don Gianvito Sanfilippo, presbitero della Diocesi di Roma: 

Il tempo pasquale giunge al suo compimento, la Resurrezione di Cristo ottiene il frutto più prezioso: la divinizzazione dell'uomo mediante il Dono dei doni, lo Spirito Santo effuso sulla Chiesa nascente. Per cinquanta giorni i credenti hanno preparato questa solennità, vegliando con Maria, confortati dalla presenza del Risorto. Il dolce ospite dell'anima ci corrobora con i suoi sette carismi: sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza, pietà e timore di Dio. Egli sana ciò che sanguina, raddrizza ciò che è contorto, modera ogni rigidità. È il Maestro interiore che guida alla Verità tutta intera, testimonia la figliolanza divina e, fugando ogni rispetto umano, infiamma di zelo gli evangelizzatori. Impariamo ad accogliere lo Spirito mite e vivificante, impariamo a difenderlo dagli assalti del tentatore che fa guerra solo a coloro che lo possiedono, per spingerli ad allontanarlo contristandolo. Impariamo, pure, ad invocare il suo ritorno mediante la confessione sacramentale quando nel combattimento quotidiano siamo vinti dal peccato. Il giusto, infatti, pecca molte volte al giorno, ma continuamente confida nel perdono che fa rinascere. Il soldato di Cristo ferito al fronte, è degno di essere accolto con onore e senza vergogna nell'ospedale da campo, per tornare a dare la vita, rigenerato dalla Misericordia.

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Nella Chiesa e nel mondo



Amman: inaugurata azienda voluta dal Papa per i rifugiati iracheni

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Un'azienda dedita all'agricoltura “sostenibile”, con 600 olivi piantati su un terreno di 10mila metri quadri, che impiega 15 lavoratori, scelti tra i profughi iracheni, ma anche tra i giordani disoccupati: è questo il “giardino della misericordia”, progetto solidale inaugurato giovedì scorso, ad Amman, presso il Centro “Nostra Signora della Pace”, alla presenza del Patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, e di mons. Alberto Ortega Martin, nunzio apostolico in Giordania e Iraq.

Segno della sollecitudine della Chiesa per le popolazioni del Medio Oriente
L'iniziativa, finanziata per volere di Papa Francesco con le offerte dei fedeli raccolte presso il padiglione della Città della Santa Sede a Expo Milano 2015, rappresenta un segno concreto della sollecitudine pastorale della Sede Apostolica e delle Chiese locali verso le popolazoni del Medio Oriente, travolte dai conflitti e dalle emigrazioni forzate. Per questo era presente all'inaugurazione anche mons. Segundo Tejado Munoz, sottosegretario del Pontificio Consiglio Cor Unum (il dicastero vaticano per la carità) che coordina l'iniziativa voluta da Papa Francesco.

L'azienda è un luogo di dialogo e incontro tra le religioni
“Il Giardino della Misericordia” ha sottolineato durante l'inaugurazione l'arcivescovo Ortega Martin, “non è solo il luogo in cui i rifugiati e le persone bisognose possono trovare un lavoro e un salario, ma può anche diventare un luogo di dialogo e di incontro tra persone di religioni diverse, secondo quanto è stato scritto da Papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia". Durante l'inaugurazione – riferisce il sito abouna.org ripreso dall'agenzia Fides – il dottor Wael Suleiman, Presidente di Caritas Giordania, ha annunciato la prossima realizzazione di analoghi micro-progetti Madaba, Zaqrqa e Fuheis, finalizzati a creare posti di lavoro a favore di rifugiati e famiglie giordane prive di reddito. (G.V.)

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Al mondo 275 milioni di bambini vittime di violenza in famiglia

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La Giornata Internazionale della Famiglia che ricorre domani 15 maggio, è un'occasione per sensibilizzare l'opinione pubblica sui fattori che determinano la perdita delle cure parentali.  La violenza in famiglia è uno dei più grandi e gravi motivi, oltre che una delle principali cause, di disgregazione del nucleo familiare. Sono 275 milioni i bambini nel mondo a essere esposti a violenza in casa, 1 adulto su 4 dichiara di aver subito abusi fisici da bambino e 1 adolescente su 3 (84 milioni) sono stati vittime di violenza emotiva, fisica o sessuale. In Italia, sono oltre 91mila i bambini che hanno subito maltrattamenti (9,5% della popolazione minorile) e quasi 30.000 (28.449) i bambini che in Italia vivono separati dalla loro famiglia. Il 37% per grave incapacità dei genitori nel rispondere ai bisogni dei propri figli o perché hanno subito maltrattamenti e abusi.

Sos Villaggi dei Bambini condanna ogni forma di violenza, abuso o sfruttamento del bambino
Da più di 60 anni l'Organizzazione a sostegno dei bambini, crea e garantisce un ambiente di cura e protezione per ogni bambino, lavora per aumentare la consapevolezza su violenza e abusi, sostiene le famiglie vulnerabili. Siamo impegnati in Italia nel prevenire la violenza in famiglia con nostri programmi ma occorrono investimenti pubblici sui servizi di prevenzione e trattamento delle crisi familiari” – afferma Maria Grazia Rodriguez Y Baena, Presidente di Sos Villaggi dei Bambini Italia - “Sono gli Stati che devono proteggere i bambini da ogni forma di violenza fisica o mentale. Lo dice anche la Convenzione Onu.

Iniziative per riaffermare che 'nessun bambino nasce per crescere da solo'
A partire dal 27 maggio, in concomitanza con il 25esimo anniversario della ratifica della Convenzione Onu per i Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, Sos Villaggi dei Bambini aprirà le porte di tutti i suoi Villaggi al pubblico per una serie di iniziative che si protrarranno per tutto il fine settimana. Un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica e per affermare che: Nessun bambino nasce per crescere da solo”.

Il fenomeno in Italia aggravato dai minorenni stranieri non accompagnati
In Italia, tra le tipologie più frequenti di maltrattamento si trovano la trascuratezza materiale e/o affettiva (47,1% dei casi seguiti), la violenza assistita (19%) e il maltrattamento psicologico (14%). E il numero di bambini e ragazzi che vivono una costante condizione di disagio è ancora più ampio considerando anche i minorenni stranieri non accompagnati, il cui arrivo in Italia è in costante aumento.

Condannare le punizioni corporali, violenza domestica e sessuale e lavoro minorile
“Uno studio delle Nazioni Unite del 2006 ha evidenziato quanto sia diffusa la violenza nelle famiglie: punizioni corporali, violenza domestica e sessuale, lavoro minorile e molto altro ancora” - racconta Barbara Ammirati, Advocacy Advisor di Sos Villaggi dei Bambini Internazionale – “La ricerca ha dimostrato l’impatto della violenza sullo sviluppo dei bambini: dalla depressione alla reiterazione di comportamenti violenti fino alla diminuzione della capacità di divenire autonomi e indipendenti. Pertanto, porre fine alla violenza in famiglia è di cruciale importanza per i diritti dei bambini: è un obiettivo di sviluppo sostenibile importante, che prevede delle misure concrete per porre fine alla violenza contro i bambini.”.

Difficile eliminare la violenza contro i bambini nel contesto familiare
Dallo studio del 2006 delle Nazioni Unite emerge che spesso c’è una vera e propria accettazione sociale della violenza: i bambini e gli autori possono considerare la violenza fisica, sessuale e psicologica come inevitabile e addirittura normale. Eliminare e rispondere alla violenza contro i bambini è peraltro più difficile nel contesto familiare, considerato da molti come il “privato nel privato”. Tuttavia, i diritti dei bambini alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla dignità e all'integrità fisica “non si devono fermare davanti alla porta di casa”. (E. C.)

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Iraq: profughi cristiani spinti a firmare documento pro-Kurdistan

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Un discreto numero di sfollati cristiani assiri, caldei e siri, rifugiatisi nella città di Dohuk dopo che i loro villaggi sono stati conquistati dai jihadisti dell'autoproclamato Stato Islamico (Daesh), negli ultimi giorni sono stati costretti a sottoscrivere una petizione a sostegno della proclamazione di uno Stato curdo indipendente nel Kurdistan iracheno. Lo riferiscono fonti locali, riprese dall'agenzia Fides. Il sito ankawa.com. pubblica anche un fac-simile del modulo di raccolta delle firme, con tanto di spazi per registrare il documento di identità e il numero del cellulare.

I curdi vogliono che la Provincia di Ninive entri nella regione autonoma del Kurdistan
La petizione, rivolta al governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno, è articolata in quattro punti: oltre ad affermare il sostegno dovuto alle milizie curde Peshmerga e a Masud Barzani, Presidente della regione autonoma del Kurdistan, chiede ai curdi di accelerare la liberazione di Mosul dalle forze jihadiste e prefigura la trasformazione della Provincia di Ninive (con capitale Mosul) in regione autonoma all'interno del Kurdistan iracheno, trasformato di fatto in Stato curdo indipendente.

Le richieste della petizione aumentano le divisioni e minano la coesistenza pacifica
La notizia della petizione fatta firmare ai cristiani sfollati di Dohuk ha provocato reazioni allarmate anche tra rappresentanti di sigle politiche sostenute da militanti caldei, siri e assiri. Il politico cristiano Imad Youkhana, esponente dell'Assyrian Democratic Movement (Zowaa) e membro del Parlamento iracheno, ha sollecitato le autorità della regione autonoma del Kurdistan iracheno a aprire una “indagine urgente” per chiarire chi ha ispirato e organizzato la raccolta delle firme, sottolineando che le richieste della petizione, nel grave momento vissuto in tutta la regione, contribuiscono ad aumentare la divisione e a minare ulteriormente la coesistenza pacifica tra le diverse componenti della nazione irachena.

La petizione lascia intravedere interessi e progetti politici
​Mentre Mosul e buona parte della Piana di Ninive rimangono sotto il controllo dei jihadisti del Daesh, la vicenda della petizione fatta firmare anche ai cristiani sfollati a Dohuk lascia intravedere interessi e progetti politici che potrebbero puntare a una frammentazione del territorio nazionale iracheno, se e quando la regione di Mosul verrà sottratta ai miliziani dell'autoproclamato Califfato Islamico. (G.V.)

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Pakistan: minacciati i cristiani dopo un caso di blasfemia

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"E' un caso di abuso della legge sulla blasfemia, dove si rischia una punizione collettiva della comunità cristiana. Siamo preoccupati, chiediamo alle autorità di garantire la pace e speriamo non vi siano atti violenti o conseguenze negative per i cristiani": così l'arcivescovo di Lahore, Sebastian Shaw, parla all'agenzia Fides di un caso che è giunto alla sua attenzione e che interessa il distretto di Mandi Bahauddinin, nel Punjab pakistano. Alcuni leader islamici hanno emesso una "fatwa" (decreto religioso) che chiede la morte di un ragazzo cristiano accusato di blasfemia. L'incidente è avvenuto in un villaggio vicino dell'area di Bosaan ed è registrato presso la stazione di polizia di Gojra. Nell'area vi sono 4.000 famiglie musulmane e solo 45 cristiane, per circa 300 fedeli.

Alcuni fanatici accusano il giovane Imran Masih di blasfemia
Il giovane aveva sul cellulare alcune clip di un Pastore cristiano critico verso l'islam. Alcuni suoi colleghi, che hanno visto i video, lo hanno accusato di vedere e diffondere materiale blasfemo e lo hanno denunciato al clero islamico locale, che ha emesso la fatwa e registrato la denuncia di blasfemia. Imran è fuggito per salvarsi. I fanatici chiedono di consegnarlo per poterlo bruciare davanti alla chiesa. In caso contrario, minacciano di vendicarsi con tutti gli abitanti cristiani della zona, incendiando e radendo al suolo le case di tutti i cristiani del villaggio. 

Tra i fedeli vi è grande paura e insicurezza
​Alcuni leader locali si sono rivolti alle autorità chiedendo protezione, al fine di scongiurare la violenza o le rappresaglie della folla. Attualmente, in un clima di forte tensione, il governo ha stanziato un contingente di polizia nel villaggio per prevenire la violenza. (P.A.)

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Chiesa Kenya: preoccupazione per chiusura dei campi profughi

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Sta suscitando forte preoccupazione l’annuncio del governo del Kenya di chiudere il Campo per rifugiati di Dadaab (considerato il più grande campo per rifugiati del mondo con oltre 320.000 persone, in maggioranza somali), quello di Kakuma (che accoglie più di 190.000 persone) e di sciogliere il Dipartimento per gli Affari dei Rifugiati (Dra). Ieri la Commissione per i Rifugiati, i migranti e i marittimi della Conferenza episcopale del Kenya ha partecipato ad un incontro con l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr, il governo keniano e altre parti interessate per accertare la situazione.

Le autorità di Nairobi intendono chiudere il Campo di Dadaab
Secondo un comunicato ripreso dall’agenzia Fides, la ragione principale per la quale il governo keniano ha chiuso i Campi è il non rispetto dell’accordo tripartito. L’accordo prevedeva un piano di rimpatrio firmato dall’Unhcr, dal governo del Kenya e da quello della Somalia nel 2013. Il comunicato afferma inoltre che le autorità di Nairobi intendono chiudere il Campo di Dadaab e non quello di Kakuma, ma precisa che “questa affermazione non è stata finora supportata da nessuno annuncio ufficiale”.

Responsabilità della situazione condivisa tra governo di Nairobi e comunità internazionale
Particolare preoccupazione è stata espressa sia dalla Conferenza episcopale, sia dal Jesuit Refugee Services (Jrs), per lo scioglimento del Dipartimento per gli Affari dei Rifugiati, perché questo comporta la mancata registrazione dei richiedenti asilo e il rilascio dei permessi per gli operatori umanitari. Secondo i vescovi, la responsabilità della situazione va condivisa tra il governo di Nairobi e la comunità internazionale, che “non ha riconosciuto i problemi di sicurezza ai quali deve far fronte il Kenya, come risultato il governo si sente sopraffatto e frustrato, si è quindi dimostrato indisposto ad accogliere i rifugiati e ha adottato un atteggiamento negativo verso quelle agenzie che operano con i rifugiati come dimostrato dallo scioglimento del Dra”. Il 25 maggio l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati si recherà in Kenya per cercare di trovare un accordo con le autorità locali. (L.M.)

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Chiesa Filippine: presidente Duterte lavori per la pace a Mindanao

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Affrontare il nodo della stabilità e della riconciliazione a Mindanao e impegnarsi subito per definire il processo di pace con la comunità islamica e con i ribelli comunisti: lo chiede il card. Orlando Quevedo, arcivescovo di Davao, al neo eletto Presidente Rodrigo Duterte, che è stato per 22 anni sindaco della stessa città, Davao, sull'isola di Mindanao. Come riferisce l'agenzia Fides, il cardinale ha rimarcato l’urgenza di colloqui di pace, invitando a “considerare la Chiesa come una forza positiva, partner per lo sviluppo nazionale” anche in questo campo. 

Per il cardinale, il federalismo è un progetto a lungo termine
Realizzare la pace "è possibile senza bisogno di revisioni costituzionali" ha detto il card. Quevedo, mentre il Presidente aveva espresso in passato l'idea di riformare la Costituzione del Paese, per implementare una forma di governo federale. Secondo il cardinale, il federalismo è un progetto a lungo termine, che non deve distogliere lo sguardo dalle urgenze del presente. Una di queste è l’approvazione della "Legge fondamentale Bangsamoro", elaborata dopo decenni di conflitto e che si è arenata prima dell'approvazione del Congresso, nella scorsa legislatura.

Card. Quevedo chiede la revisione dei libri di testi scolastici
L’arcivescovo di Davao ha anche suggerito all'amministrazione Duterte di prendere in considerazione la revisione dei libri di testo scolastici, che "perpetuano disinformazione sui musulmani e sugli altri popoli tribali di Mindanao", ricordando gli sforzi compiuti negli ultimi anni sul piano del dialogo interreligioso. (P.A.)

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Vescovi cileni: dalla sfiducia all’incontro politico e sociale

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“Il Cile possiede i valori e i talenti per costruire una terra di fratelli dove possiamo vivere tranquilli e prosperare, facendo tesoro delle differenze e riconoscendo che siamo figli di una stessa storia che ha bisogno di essere guarita con giustizia per dare frutti di pace”. Questa la premessa che ispira la dichiarazione, pubblicata ieri, a conclusione della riunione del Comitato Permanente della Conferenza episcopale cilena. Il segretario generale dell’episcopato, mons Cristiàn Villaroel, vescovo di Melipilla ha presentato in conferenza stampa, il documento nel quale i pastori invitano ad un dialogo sociale ampio e generoso, mirato ad individuare quello che unisce e non quello che separa. “Un dialogo ponte - ha detto mons. Villaroel - per superare gli ostacoli dell'attuale convivenza”.

Superare la sfiducia dovuta alla mancanza di trasparenza
Nel documento, i vescovi avvertono che il Paese vive una profonda sfiducia e mancanza di credibilità verso le autorità e le istituzioni. “Ferite - si legge nel documento - dovute alle contraddizioni, alla mancanza di trasparenza e, addirittura, ai delitti commessi dai suoi membri”. I presuli affermano che esiste una sfiducia nella parola data e nella capacità di onorare gli impegni presi. “Viviamo nella sfiducia - continua il testo -  perché abbiamo fatto del denaro un Dio e questo idolo è presente nella maggioranza dei conflitti ancora in atto”.

Solo attraverso il dialogo arriverà una soluzione per il conflitto a Chiloè
Il documento del Comitato permanete dell’episcopato cileno affronta la grave situazione a Chiloè, zona costiera dove, da 15 giorni, è in atto una protesta di pescatori contro una disposizione del governo che vieta la pesca e la raccolta di qualsiasi tipo di pesce o mollusco a causa della "marea rossa", una macchia inquinante che ha causato una catastrofe ambientale e la paralisi di tutte le attività economiche e commerciali della zona. I manifestanti puntano il dito contro il modello di sviluppo che propone un sfruttamento esagerato delle risorse naturali, la distruzione dell'ambiente e della popolazione. La dichiarazione dei vescovi avverte che “solo la strada di un dialogo costante, realistico e ragionevole, attraverso tavoli di lavoro permanenti tra le autorità, i dirigenti dei lavoratori del mare, gli imprenditori e gli scienziati, si potranno trovare soluzioni, evitare le manovre coercitive e proteggere l’ambiente”.

Legittime richieste del popolo mapuche dell’Araucania
Anche il conflitto nella regione della Araucania è stata una preoccupazione del Comitato permanente dell’episcopato che riafferma nel documento la legittimità delle richieste di giustizia da parte del popolo Mapuche. Tuttavia i vescovi avvertono che molte delle loro aspirazioni restano “disattese” per le azioni delle diverse fazioni interne alla comunità Mapuche che invece di contribuire alla pace, aumentano le tensioni. “In mezzo a questo dramma e a questa ferita sociale - si legge nel documento - come Chiesa siamo sempre disponibili - nel rispetto dell’identità e della cultura dei popoli autoctoni - a diventare mediatori del dialogo, servitori della giustizia e costruttori di pace”.

Urge la decentralizzazione dal governo di Santiago
Proprio per arrivare ad un dialogo e ad una soluzione per ogni conflitto che riguarda le diverse province del Paese, i vescovi considerano urgente che le decisione siano decentrate dal governo di Santiago per lasciare un margine di manovra ai governi regionali. “Nei casi dei conflitti esposti precedentemente, ancora una volta ricade il peso della centralizzazione del potere di Santiago a discapito delle regioni”, e questo secondo i vescovi “è un scoglio grave che potrebbe essere risolto soltanto con una nuova Costituzione”. Nel documento, l’episcopato afferma che il governo e il Congresso devono occuparsi delle decisioni politiche ed economiche prioritarie invece di “perdersi in innumerevoli progetti secondari”, tra queste la Legge sull'educazione e la Legge sul lavoro. I vescovi avvertono poi che un continuo ricorso al Tribunale Costituzionale per invocare sentenze favorevoli ai propri interessi,creano sfiducia nelle istituzioni e limitano la gestione dei problemi politici ed economici e la lotta alla corruzione. 

La sfiducia si supera guardandosi in faccia
I vescovi concludono il loro messaggio affermando che la sfiducia si supera “guardandosi in faccia e con l’incontro personale che è alla base di ogni comunicazione. “Si tratta – aggiungono - di dare un volto alle nostre discussione e di umanizzare le cifre e le statistiche”. Aprire spazi di dialogo tra le diverse generazione è un altro modo di superare la sfiducia “a cominciare dalla famiglia e dalla scuola - si legge nel documento - con una dose di ascolto da parte degli adulti che devono essere disponibili a cambiare le forme di esercitare la propria autorità e per risolvere i problemi”. Infine, l’appello dei vescovi a superare la tentazione dell’individualismo, dell'indifferenza, della sfiducia e di cercare il bene comune di tutti i cittadini. “Alla vigilia della Pentecoste – conclude il messaggio - invochiamo lo Spirito Santo che è principio di unità nella diversità dei doni e dei talenti concessi da Dio, ed è fonte di slancio missionario e solidare per portare l’amore di Cristo nelle periferie della nostra società. (A cura di Alina Tufani)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 135

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.