Logo 50 Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 18/05/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: ignorare il povero è disprezzare Dio

◊  

“Nei poveri ci viene incontro Gesù”. L’udienza generale di Papa Francesco parte dal Vangelo sull’uomo ricco e il povero Lazzaro. Al centro, la misericordia – alla quale è dedicato il nuovo ciclo di catechesi che Papa Francesco sta tenendo – e il suo legame con la povertà. Sotto un sole delicato, il Papa prima dell’udienza ha compiuto un consueto giro in papamobile in Piazza San Pietro, fermandosi di tanto in tanto per salutare e abbracciare la gente, in particolare alcuni piccoli bambini. Il servizio di Debora Donnini: 

Due persone la cui vita sembra scorrere su binari paralleli: l’uomo ricco indossa vesti preziose, Lazzaro giace fuori dalla sua porta, coperto di piaghe. L’uomo ricco banchetta lautamente, Lazzaro muore di fame, cercando di mangiare qualche avanzo della mensa del ricco. La catechesi di Francesco ruota tutta attorno a queste due figure, per spiegare il legame profondo fra la misericordia e la povertà nel mistero della salvezza. “Lazzaro – dice il Papa – rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo” in cui immense ricchezze sono “nelle mani di pochi”:

“Escludendo Lazzaro, non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! E questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio”.

A condannare non è la ricchezza ma la mancanza di compassione
Non a caso Lazzaro significa “Dio aiuta”: egli – nota il Papa – è “un richiamo vivente” rivolto al ricco a ricordarsi di Dio. Ma il ricco è sordo a tale richiamo. E quindi, Papa Francesco dice chiaramente che sarà condannato non “per le sue ricchezze”, ma per “essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro” e soccorrerlo. La sorte dei due, infatti, a un certo punto si inverte: arriva la morte e il povero Lazzaro viene portato in cielo, mentre il ricco precipita tra i tormenti. Allora, chiede ad Abramo di mandare Lazzaro a bagnargli la lingua:

“Adesso il ricco riconosce Lazzaro e gli chiede aiuto, mentre in vita faceva finta di non vederlo. Quante volte – quante volte! – tanta gente fa finta di non vedere i poveri! Per loro i poveri non esistono…”.

Il legame fra la misericordia verso gli altri e la misericordia di Dio
Abramo offre la chiave di tutta la parabola, spiegando che beni e mali sono stati distribuiti in modo da compensare l’ingiustizia terrena: finché Lazzaro stava alla porta del ricco, per questi vi era possibilità di salvezza. Poi, la situazione diventa irreparabile. Papa Francesco sottolinea, quindi, che “Dio non è chiamato direttamente in causa” ma c’è un legame fra la misericordia verso gli altri e la misericordia di Dio:

“La misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso il prossimo; quando manca questa, anche quella non trova spazio nel nostro cuore chiuso, non può entrare. Se io non spalanco la porta del mio cuore al povero, quella porta rimane chiusa. Anche per Dio. E questo è terribile”.

Povertà e misericordia: la via per la salvezza
Il discorso del Papa, quindi, punta dritto al legame fra la compassione per i poveri e la conversione. Il ricco, una volta finito fra i tormenti, vorrebbe avvertire i suoi fratelli che rischiano di fare la sua stessa fine, ma Abramo sottolinea che per convertirsi c’è la Parola di Dio. Non servono eventi prodigiosi. Il ricco, però, non l’ha lasciata entrare nel suo cuore, per questo non ha avuto compassione. La Parola di Dio,  infatti, spinge ad amare il prossimo:

“Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso”.

Dunque, per Papa Francesco nel rovesciamento delle sorti di Lazzaro e del ricco, è nascosto “il mistero della nostra salvezza, in cui Cristo unisce la povertà alla misericordia”.

Saluti finali nel giorno del compleanno di San Giovanni Paolo II
Nei saluti finali il Papa ha ricordato che oggi, 18 maggio, è il giorno della nascita di San Giovanni Paolo II. Ha quindi rivolto un pensiero a tutti i polacchi presenti, ai partecipanti alla Messa nel cimitero polacco di Montecassino a ricordo dei caduti e a coloro che sono radunati a Toruń per la consacrazione del Santuario della “Beata Vergine Maria Stella della Nuova Evangelizzazione e di San Giovanni Paolo II”. Tra i presenti a cui Francesco rivolge i suoi saluti, anche un gruppo proveniente dall’Egitto, i sacerdoti della Chiesa ortodossa russa ospiti del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani, i ragazzi del reparto oncologico dell’ospedale Bambino Gesù e gli studenti dell’iniziativa “Raccontiamo il Giubileo”.

inizio pagina

Papa prega per la pace in Ucraina. Un bambino su 4 è rifugiato

◊  

Una preghiera speciale per la pace in Ucraina è salita al cielo dalla voce di Papa Francesco, durante i saluti ai fedeli raccolti in Piazza San Pietro per l’udienza generale. Tra questi, un centinaio di bambini ucraini “orfani e profughi a causa del conflitto armato che ancora – ha ricordato il Papa – si protrae nell’est del Paese”. I bambini sono giunti in Italia grazie al Progetto internazionale a scopo umanitario “Children for peace al over the world”. Il servizio di Roberta Gisotti

Torna Francesco, con toni accorati, a pregare per la pace e il futuro della popolazione ucraina:

“Per intercessione di Maria Santissima rinnovo la mia preghiera affinché si giunga ad una pace duratura, che possa sollevare la popolazione tanto provata e offra un futuro sereno alle nuove generazioni”.

Già lo scorso 3 aprile il Papa aveva lanciato al Regina Caeli un appello per quanti ucraini sono ancora “nelle terre sconvolte dalle ostilità che hanno causato già varie migliaia di morti” e per oltre il milione di sfollati e profughi che “sono stati spinti a lasciarle dalla grave situazione che perdura”. Ed aveva lanciato, Francesco, una colletta in tutte le Chiese d’Europa.

“Qui c’è una guerra dimenticata”, aveva fatto eco alle parole del Papa, il nunzio in Ucraina, mons. Claudio Gugerotti. Da tempo - aveva denunciato - non si parla sui media di questo conflitto, di proporzioni ampie e drammatiche nel cuore dell’Europa, che mette a repentaglio la stabilità di tutta la zona. Eppure, tre milioni e mezzo di ucraini lungo la linea o fuori dall’area sotto il controllo governativo hanno bisogno di aiuti e mezzo milione sono a rischio fame. Molti mancano di medicine e altri sussidi sanitari, di acqua potabile, luce e gas erogati a singhiozzo. 200 mila – 1 su 4 – i bambini sfollati fuori dalle aree in guerra.

inizio pagina

L'ultimo saluto del Papa al card. Coppa. Sodano: esempio "per tutti noi"

◊  

Si sono svolte nel pomeriggio nella Basilica di San Pietro le esequie del cardinale Giovanni Coppa, spentosi lunedì a Roma all'età di 90 anni. A presiedere la Messa, il cardinale decano Angelo Sodano che nella sua omelia ha ricordato con affetto il lungo servizio, “nascosto e generoso”, del porporato piemontese, ringraziando il Signore per aver dato alla Chiesa questa “bell’anima”, uomo illuminato e saggio, “esempio per tutti noi”.

Il cardinale Sodano ha rievocato in particolare l’opera svolta come nunzio apostolico nell’allora Cecoslovacchia - una delegazione della Repubblica Ceca era presente ai funerali - ma anche il suo impegno tra i giovani.

Al termine della Messa, Papa Francesco è sceso in Basilica per presiedere il rito dell’ultima commendatio e della valedictio. Nel suo telegramma, aveva definito il cardinale Coppa “stimato uomo di Chiesa”, che “ha testimoniato saggezza pastorale e premurosa attenzione alle necessità degli altri, andando incontro a tutti con bontà e mansuetudine”. 

inizio pagina

Nomine episcopali in Brasile e Francia

◊  

In Brasile, Papa Francesco ha nominato vescovo coadiutore della diocesi di Crato mons. Gilberto Pastana De Oliveira, trasferendolo dalla diocesi di Imperatriz. Il presule è nato il 29 luglio 1956, a Boim, nella diocesi di Santarém, nello Stato di Pará (Brasile). Ha compiuto gli studi di Filosofia e di Teologia presso l'Istituto di Pastorale Regionale (IPAR), a Belém-PA (1978-1983). Ha ottenuto poi la Licenza in Teologia Spirituale presso la Pontificia Facoltà Teologica Teresianum di Roma (1990-1992). È stato ordinato sacerdote il 27 luglio 1985 per la diocesi di Santarém. Nel corso del ministero sacerdotale ha ricoperto i seguenti incarichi: Vicario parrocchiale della  parrocchia di “Santo Antônio de Pádua”, a Mojuí dos Capos, e della parrocchia “Nossa Senhora da Conceição”, a Belém; Rettore del Seminario Minore São Pio X; Coordinatore diocesano di Pastorale; Parroco delle parrocchie di “Nossa Senhora Aparecida” e di “Nossa Senhora de Fátima”, a Santarém”; Vice-Rettore del Seminario Maggiore interdiocesano São Gaspar, a Belém (PA); Assessore del Regionale Norte 2 della CNBB per i Consigli e le Assemblee pastorali e per la formazione dei laici; Direttore locale dell’emittente televisiva cattolica “Rede Vida”; Vicario Generale. Il 3 agosto 2005 è stato nominato Vescovo di Imperatriz ed ha ricevuto  l’ordinazione episcopale il 13 novembre successivo.

In Francia, il Papa ha nominato il sacerdote Sylvain Bataille vescovo della Diocesi di Saint-Etienne, finora vicario generale di Beauvais. Mons. Bataille è nato il 22 luglio 1964 a Soissons nell’omonima diocesi. Terminati gli studi secondari nel collegio dei Gesuiti di Reims, è entrato nel Seminario di Paray-le-Monial per il ciclo filosofico (1982-1985) e poi ha continuato la sua formazione a Roma, nel Pontifico Seminario Francese, ottenendo il Baccalaureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana (1985-1988). Successivamente si è iscritto all’Institut Catholique de Paris, specialità Liturgia, concluendo gli studi con una licenza in Teologia sacramentela (1990). È stato ordinato l’11 marzo 1989 per la diocesi di Beauvais. Dal 1990 è membro della Société Saint-Jean-Marie-Vianney, società sacerdotale di diritto pontificio. Ha svolto i seguenti incharichi. Dal 1990 al 1995, Vicario Parrocchiale della parrocchia della Cattedrale di Beauvais; Cappellano per l’insegnamento pubblico; Membro del Servizio diocesano per le Vocazioni. Dal 1995 al 2000, Parroco di Notre-Dame de Picardie Verte a Grandvilliers. Dal 1999 al 2000, Membro del Consiglio episcopale e del Consiglio presbiterale. Dal 2000 al 2003, Formatore del Seminario di Ars, poi dal 2003 al 2009, Rettore del medesimo Seminario. Dal 2009 al 2014, Rettore del Pontificio Seminario Francese di Roma. Dal 2014 al 2015, Parroco di Chaumont-en-Vexin, di Vexin-Nord e di Vexin-Sud. In fine dal 2015, Vicario Generale di Beauvais. Il 27 gennaio 2016 è stato eletto Moderatore Generale della Société Saint-Jean-Marie-Vianney, incarico che avrebbe dovuto assumere il 4 agosto 2016.

inizio pagina

Papa, tweet: il Giubileo è la festa a cui Gesù invita tutti

◊  

Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Il Giubileo è la festa a cui Gesù invita tutti, senza distinzioni e senza escludere nessuno”.

inizio pagina

Oggi su "L'Osservatore Romano"

◊  

Il grido silenzioso dei poveri di ogni tempo: all’udienza generale il Papa parla della parabola di Lazzaro e denuncia la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi

Una prospettiva ecumenica: stralci dal libro di Walter Kasper su Lutero

Attraverso la musica: Marcello Filotei sulla visita della Cappella Sistina in Germania

Attraverso lo sguardo di Gesù: Anne-Marie Pelletier sull’Esortazione «Amoris laetitia»

inizio pagina

Oggi in Primo Piano



Unicef: guerra mondiale in Siria. A Yarmuk i bambini mangiano carta

◊  

E’ ancora molto lontana la possibile transizione politica in Siria. Dopo il vertice di ieri a Vienna, la data del primo agosto fissata per l’inizio dei colloqui non sembra più un appuntamento ma piuttosto un obiettivo. Malgrado l’ottimismo, dunque, l’incontro tra le potenze regionali e internazionali coinvolte nella crisi non è andato oltre un accordo di massima sulla realizzazione di un vero cessate-il-fuoco. Il servizio di Francesca Sabatinelli

La sfida sarà tradurre in atti concreti l’intesa. Sono le parole del segretario di Stato americano Kerry a riassumere il tono dello stato d’animo dei partecipanti al summit di Vienna che tra i punti salienti dell’agenda vede la cessazione immediata delle ostilità, accessi umanitari alle 18 città assediate e private di tutto, dall’acqua al cibo alle medicine, impegno per la transizione politica e riforma costituzionale. A monitore il cessate-il-fuoco sarà l’Onu: chi lo violerà verrà espulso dal processo negoziale, mentre se non verrà consentito l’accesso degli aiuti, il Programma alimentare mondiale (Pam) interromperà le forniture via terra e metterà in campo ponti aerei e aiuti paracadutati. Frizioni tra stati Uniti e Russia sulla figura e sulla futura sorte politica del presidente siriano al Assad, con Washington che ne vuole l’uscita dal potere, e Mosca che ribadisce che il suo sostegno non è ad Assad, ma all’esercito siriano contro il terrorismo. La russia continua inoltre ad accusare la Turchia di sostenere il terrorismo in Siria, mentre sul terreno continuano gli scontri tra ribelli dell’opposizione, oltre 50 i morti a est di Damasco.

L'inviato Onu per il Paese, Staffan De Mistura, ha ribadito che se non si raggiunge una tregua stabile ci sarà una fuga inarrestabile dalla Siria, mentre la situazione umanitaria precipita sempre più. Massimiliano Menichetti ha intervistato Andrea Iacomini portavoce Unicef Italia: 

R. – Innanzitutto, mi sembra che le speranze di pace siano sempre minori; la comunità internazionale si reincontra, ma sembra che non si trovi mai una soluzione. La tregua sembra non reggere. In Siria si combatte una guerra che dura da cinque anni e che vede protagonisti di tutti i tipi: al Qaeda, al Nusra, poi è arrivato Is, c’è Assad, c’è l’opposizione, e poi c’è l’Iran e poi ci sono gli Hezbollah e poi sono arrivati i russi… 

D. – Esiste ancora la Siria?

R. – Ci sono 13 milioni di persone intrappolate in Siria e la metà di queste sono bambini. Probabilmente, non esiste un’entità statale, ma esistono persone che vivono in condizioni veramente drammatiche, che hanno perso tutto e che cercano di fuggire ma vivono purtroppo anche in condizioni veramente misere. Purtroppo, la Siria probabilmente non c’è più ma – lo voglio ribadire – esistono i suoi figli e i suoi bambini ancora intrappolati. Le città sotto assedio sono 18 e in queste 18 città manca tutto: cibo, acqua e medicine. Non si consente il passaggio degli aiuti umanitari: tutto questo non è tollerabile!

D. – Le ultime notizie che circolano, che hanno colpito, è che i bambini nel campo profughi di Yarmouk, a sud di Damasco, mangiano scatole di carta…

R. – Viene molta rabbia nell’ascoltare tutto questo, perché un anno fa abbiamo denunciato che mangiavano carcasse di animali, due anni fa abbiamo denunciato che mangiavano minestre con le foglie… Stiamo continuando a sommare sempre di più cose terribili che colpiscono i bambini senza porre soluzione. Questa non è una cosa orribile: è indegna.

D. – Si sottolinea anche che bisognerebbe togliere l’embargo perché questo colpisce di più la popolazione…

R. – Penso sia giusto: penso che si debbano aprire corridoi umanitari d’urgenza. Non è possibile immaginare – io penso ad Aleppo che è assediata a ovest e a est e i nostri operatori sono chiusi negli uffici perché continuano i bombardamenti a tappeto – di distribuire aiuti dal cielo, anche se questa, oggi, è l’unica soluzione. Credo che debba esserci un impegno forte di chi tiene le fila di questa situazione nell’imporre, ad Assad quanto agli oppositori, una soluzione che tenga conto delle vicende umanitarie. E’ inutile girarci intorno: noi stiamo consentendo – il mondo sta consentendo – alle sue porte un dramma che non ha precedenti. E lo voglio ribadire ancora: tutta questa umanità, poi, quando arriva, noi alziamo i muri! Quando arrivano in Europa, noi ci siamo permessi il lusso di respingerla! Loro fuggono da tutto questo. Ci sono bambini che mangiano il cartone e che vengono qui perché a casa loro ci sono le bombe: non è tollerabile! Mi auguro che l’Europa assuma in maniera sempre più forte la leadership di un processo di pace perché – lo voglio ricordare – l’Europa è Premio Nobel per la pace 2012: quindi è un impegno fondamentale, sacrosanto, fare in modo che questa guerra finisca, perché non è una guerra civile, non è una guerra regionale come ci si vuole far credere, ma una guerra di tipo mondiale, lo ha detto anche il Papa.

inizio pagina

Libia: drammatico rapporto sui massacri dell'Is a Sirte

◊  

Drammatico rapporto della Ong Human Rights Watch sulla Libia. I miliziani dell’Is hanno ucciso nell’ultimo anno almeno 49 persone nella città di Sirte attraverso torture, esecuzioni e, addirittura, crocifissioni. “La natura e la dimensione delle esecuzioni – si legge nel documento – inducono a parlare di crimini contro la comunità”. Il servizio di Daniele Gargagliano

I testimoni parlano di vere e proprie "scene dell’orrore". Il teatro dei crimini di guerra è Sirte, roccaforte del sedicente Stato islamico, dove nell’ultimo anno i miliziani hanno fucilato, decapitato e crocifisso almeno 49 persone, tra le quali oppositori politici e cittadini accusati di spionaggio. Ma quello che colpisce di più nel report internazionale, pubblicato dalla Ong Human Rights Watch, sono i metodi usati per giustiziare gli abitanti, di quella che è la città natale di Gheddafi, accusati dai giustizieri in nero di blasfemia, stregoneria e spionaggio. Numeri e storie impressionanti che vanno ad aggiungersi al mistero che ancora aleggia sulle persone rapite e mai più ritrovate. Dalla testimonianze emerge che le vittime di tortura venivano prima prelevate nel sonno e poi trasferite nelle carceri, una delle quali era una scuola.

Alla luce della denuncia dell’organizzazione umanitaria e del tavolo sulla Libia che si è aperto anche al vertice di Vienna delle scorse ore, Daniele Gargaliano ha raccolto il commento di Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale: 

R. – Mi pare che ci sia stata indecisione su che cosa fare, cioè su quale tipo di intervento compiere in Libia. Naturalmente, c’è attenzione su quanto succede a Sirte. Il problema è che la Libia è un Paese nel quale non ci sono soltanto due fronti, cioè non c’è soltanto il fronte Isis e anti-Isis, ma ci sono diversi fronti aperti. Intervenire nel Paese, cioè intervenire dall’esterno come si è fatto ad esempio in Siria e in Iraq, non ci salvaguarda dalla presenza e dall’espansione dello Stato islamico; abbiamo visto che i bombardamenti non sono la soluzione e che difficilmente si può arginare Isis dal punto di vista militare se non con truppe terrestri; ma mettere truppe terrestri occidentali in Libia non è naturalmente un’ipotesi percorribile in questo momento.

D. – Durante il vertice di Vienna, il ministro degli Esteri Gentiloni ha assicurato al suo omologo libico che l’Italia continuerà a fornire assistenza umanitaria alla popolazione, allontanando ancora l’idea di un intervento di terra …

R. – Sì, io penso che questa sia la posizione finale dell’Italia. Mi pare che si sia perso troppo tempo in ipotesi di intervento; l’ipotesi unica percorribile è quella di cercare di rafforzare il governo di  Sarraj, ridare un quadro unitario al Paese, prosciugare le aree di anarchia, anarchia nella quale prolifera lo Stato islamico. Conseguentemente, cercare di far sì che siano i libici stessi a fare fronte comune.

D. – Sul fronte interno, il governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu continua a stentare nella legittimazione sul territorio. Il generale Haftar ha detto di non riconoscere il Consiglio di presidenza di Tripoli …

R. – Trovare un modus vivendi con il generale Haftar. Il generale Haftar è un po’ il “deus ex machina” in Cirenaica, continua a essere sponsorizzato dall’Egitto ma anche – è inutile negarlo – da alcuni partner europei come la Francia. E quindi, sostanzialmente bisogna cercare di incentivare un accordo tra queste parti. Certamente, la coperta è corta, ma io penso che proprio la presenza dello Stato islamico debba costringere queste due entità a una qualche forma di collaborazione, seppure indiretta. La soluzione certamente non è alla portata, non è dietro l’angolo; però mi pare che il governo di Sarraj però possa vantare un’arma molto potente, che è quella di rientrare in possesso della Banca Centrale e quindi dei proventi del petrolio. Tornando in possesso dei proventi del petrolio è sostanzialmente in grado, in qualche maniera, di comprarsi una sorta di nuova legittimità. Quindi io immagino che parte delle milizie di tutta la Libia voglia prendervi parte. Poi, insieme a questo c’è da pensare a ricostruire la sicurezza nel Paese: il governo di Sarraj dev’essere messo nelle condizioni di prendere decisioni difficili e questo talvolta vuol dire anche non elargire più questa rendita indiscriminatamente, ma anche dire dei “no”, chiudere i rubinetti.

D. – Secondo l’ultimo rapporto dell’Interpol, in Libia ci sono 800 mila persone intenzionate a raggiungere le coste europee. La crisi libica non aspetta anche sul versante immigrazione …

R. – La questione umanitaria è importante: bisogna anche ricordare che c’è almeno mezzo milione di cittadini che vive in condizioni disagiate, sono sfollati libici. Quindi, a questi 800 mila che sono sostanzialmente stranieri, nel prossimo periodo potremmo trovarci anche dei libici che vogliono espatriare, e non penso tanto in Italia quanto verso l’Egitto e soprattutto verso la Tunisia, come è successo durante la guerra del 2011. Quindi, più si va avanti più la crisi aumenta, e aumenta sotto tutti i punti di vista: politico e della sicurezza, dal punto di vista economico e da quello umanitario. Io non penso che questi 800 mila possano partire domani mattina, tutti insieme; ma è anche vero che molta parte di questa popolazione trova dei saltuari impieghi in Libia per racimolare dei soldi e poi partire successivamente. Quindi dobbiamo utilizzare tutte le cautele, con questi numeri.

inizio pagina

Yemen, conflitto dimenticato: milioni di persone alla fame

◊  

Sono oltre 7 milioni e mezzo le persone che nello Yemen sono a “un passo dalla fame”. Lo denuncia l’Onu, che parla di urgente bisogno di cibo, acqua potabile e medicine in un Paese che da un anno è sotto assedio dai raid di Arabia saudita e di altri paesi arabi che bombardano le postazioni dei miliziani sciiti Houthi, colpendo però anche la popolazione civile. Dei quasi due miliardi chiesti dall’Onu per gli aiuti destinati a 13 milioni di yemeniti, ne è stato finanziato solo il 16%  e nel frattempo il ministro degli esteri yemenita ha annunciato lo stop ai colloqui di pace in corso in Kenya tra il governo e i ribelli. Francesca Sabatinelli ha intervistato Alda Cappelletti, direttore regionale per lo Yemen di Intersos: 

R. – La situazione rispecchia i continui allarmi che le Nazioni Unite e tutta la comunità delle ong, presenti sul territorio, sta mandando ormai da più di un anno. Il conflitto è cominciato nel marzo del 2015 e, da allora, non si è arrestato, con picchi di violenza e di scontri, strada per strada, molto alti in tutto il Paese. La situazione umanitaria, quindi, dopo più di un anno di conflitto, è estremamente grave e ha portato a milioni e milioni di sfollati interni. Ci sono diverse città come Taiz, Ib e soprattutto Aden, nel sud, che sono difficilmente raggiungibili da parte delle organizzazioni internazionali. Una buona parte di quella popolazione, quindi, non è ancora stata raggiunta dagli aiuti e in molti sono costretti ad abbandonare naturalmente le loro case, per cercare riparo dai bombardamenti, che sono tuttora in atto, nonostante da qualche settimana ci siano i colloqui di pace fra le varie parti in conflitto, che stanno procedendo a rilento. Ovviamente, c’è una tregua in atto, che non viene rispettata da tutti. Nonostante, dunque, le speranze per questi colloqui di pace, la situazione sul territorio non è decisamente cambiata per la popolazione.

D. – Le Nazioni Unite hanno denunciato anche il drammatico calo degli aiuti internazionali. Perché?

R. - Innanzitutto, la risposta  umanitaria in questo momento nel Paese viene data da un numero abbastanza ridotto di organizzazioni internazionali e anche di organizzazioni nazionali. Questo perché con lo scoppio del conflitto, nel marzo del 2015, molti hanno deciso di evacuare e di interrompere le operazioni, a causa appunto della troppa violenza. Quindi le organizzazioni internazionali, che alla fine sono quelle che hanno più facilità di movimento sul terreno, possono fare quello che riescono, anche perché il conflitto è rimasto ed è difficile raggiungere molte zone, soprattutto quelle periferiche. Di conseguenza, la comunità internazionale presente nel territorio sta cercando di fare tutto il possibile. E’ chiaro che tutte le strutture, le infrastrutture governative, non forniscono più alcun servizio, a partire dai servizi base come quelli della salute, che vanno ad aggiungersi ad una problematica nutrizionale, che è sempre stato uno dei problemi principali nello Yemen. Tutte questi elementi si sommano alla percezione che si stia facendo poco. C’è anche da dire che la crisi umanitaria dello Yemen è considerata dalle comunità dei donatori non una priorità, purtroppo. Quindi, rispetto agli appelli che le organizzazioni internazionali, le Nazioni Unite e ovviamente tutte le ong hanno fatto negli ultimi mesi, quello che si è riuscito a raccogliere è una percentuale decisamente infinitesimale rispetto a quella di cui in realtà si ha bisogno.

D. – Che questa tragica situazione non sia una priorità per la comunità internazionale fa il paio con il fatto che questa crisi sembra non essere una priorità neanche per i media e per l’informazione in generale. Perché questo cono d’ombra su questo Paese?

R. – Lo Yemen soffre da anni di una crisi umanitaria fortissima. Del resto è uno dei Paesi che ospita migliaia e migliaia di rifugiati, che arrivano ogni anno dal Corno d’Africa, soprattutto dalla Somalia, dall’Etiopia, dall’Eritrea che, nonostante il conflitto, continuano ad arrivare. Questo, quindi, è un altro livello di complicazione della crisi. Lo Yemen è rimasto sempre lontano dall’attenzione dei media internazionali, probabilmente perché nell’immaginario comune è un Paese decisamente periferico rispetto a crisi che ci toccano più da vicino, come le recenti crisi delle migrazioni in Grecia, nei Balcani e anche in Italia. Senza considerare poi che crisi come quella della Siria attirano decisamente molto più l’attenzione rispetto ad una crisi come quella dello Yemen.

D. – Intersos è l’unica ong italiana presente da tempo nello Yemen, a sostegno delle popolazioni. In che modo intervenite?

R. – Intersos è rimasta nel Paese, nonostante appunto il conflitto. In questo momento ci stiamo soprattutto concentrando sul supporto sanitario. Siamo praticamente presenti in tutte le città del Paese con una serie di cliniche mobili, che forniscono immediata assistenza, in termini appunto di cure mediche, ma anche dal punto di vista nutrizionale, soprattutto a donne e bambini che, come sempre, rimangono le fasce decisamente più vulnerabili.

inizio pagina

Kenya: chiusura campo di Dadaab, a rischio 320mila rifugiati

◊  

E’ il più grande campo profughi del mondo, l’unico posto sicuro per 300-400mila rifugiati dell'Africa orientale: si chiama Dadaab e si trova nel nord est del Kenya. Dopo 25 anni il governo ha ribadito l’intenzione di chiuderlo e questa volta sembra intenzionato a farlo. Le ragioni sono discutibili, le alternative non ci sono e il dramma che si profila è incalcolabile, denunciano molte organizzazioni umanitarie. Il servizio di Gabriella Ceraso

Chi lo ha visitato ne parla come un “limbo permanente per un popolo invisibile”, un “gigantesco parcheggio della disperazione”, per profughi di varie crisi. Oggi gli abitanti sono circa 325mila a Dadaab - quanto una città come Novara o Benevento - stipati in tende, in un “luogo roccioso e duro”, questo significa la parola "Dadaab". Qui le condizioni di vita sono pessime già oggi, dicono Medici senza Frontiere, unica possibilità di assistenza sanitaria presente. François Dumont di Msf:

"Queste persone sono in condizioni igieniche scarse, poco accesso ai servizi di base, pochissima organizzazione. Perché le condizioni di sicurezza in questa regione sono difficili: rimane un posto sperduto, una città in mezzo al nulla".

Ora la minaccia di chiusura, altre volte paventata e poi risolta con una lauta iniezione di liquidità internazionale, sembra seria. La sicurezza e le infiltrazioni terroristiche, tra i motivi, ma le Ong non sono d’accordo. Ancora Dumont di Msf:

"Sappiamo che ci sono questi problemi di sicurezza e comprendiamo anche la necessità del governo kenyota di proteggere la sua popolazione. Allo stesso momento, ci sono anche obblighi internazionali, gli obblighi umanitari di proteggere chi scappa dalla guerra, chi è rifugiato. Ci sono le Convenzioni di Ginevra che il Kenya ha firmato".

Mancanza di fondi e una campagna per le presidenziali del 2017 già avviata, in cui il tema dei rifugiati sarà un tema forte, sono le altre cause della decisione. Di certo, non c’è volontà politica di trovare alternative:

"Il governo kenyota potrebbe cercare altre soluzioni, come per esempio campi più piccoli, più al sicuro per le persone, più accettabili, o la ricollocazione, anche in altri Paesi, e questa è una soluzione che non è stata esplorata o ricercata abbastanza. Anche altre misure potrebbero essere incrementate per integrare le persone nella società keniana. A pochissime settimane dall’Accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che, in un certo senso, nega anche l’asilo alle persone che fuggono dalla guerra verso l’Europa, e ora dopo questo annuncio molto preoccupante del Kenya, vorremmo dire al governo kenyota che potrebbe essere un esempio per il resto della comunità internazionale, e far vedere che si può trattare umanamente chi scappa dalla guerra e dai conflitti".

Ma è anche vero che, proprio le scelte politiche deboli dell’Europa in merito a rifugiati e profughi, possono avere ispirato il governo kenyota. Ancora Dumont:

"Infatti, c’è un doppio discorso degli Stati della comunità internazionale che dicono al Kenya e ad altri Stati di accogliere le persone che fuggono e scappano dalla guerra, ma che, allo stesso momento, l’Europa dimostra che sul suo proprio territorio non lo sta facendo. Quindi, noi non possiamo collegare l’annuncio del Kenya alla situazione in Europa, sicuramente però manda un segnale al resto del mondo che è molto preoccupante, perché vuol dire che si può decidere di non accogliere, di non trattare con umanità, le persone che hanno diritto di protezione. Per questo chiediamo al governo kenyota di riconsiderare la sua decisione, perché le persone oggi, se chiude il campo, saranno spinte o a ritornare in Somalia o forse a intraprendere il viaggio verso l’Europa passando per la Libia, eccetera. Le persone sono vulnerabili, sono esposte a violenze, sfollamenti ulteriori eccetera, perché sappiamo che la situazione in Somalia non è stabile. C’è un accesso limitatissimo alle cure mediche, in Somalia, e quindi questo vuol dire che se un alto numero di persone che sta nel campo di Dadaab sono costrette a non avere altra opzione che tornare in Somalia, sarebbe catastrofico, disastroso e devastante per loro".

inizio pagina

Italia-Africa: patto strategico per sfida "epocale" dei migranti

◊  

Sostenibilità economica, socio ambientale, del fenomeno migratorio e impegno per pace e sicurezza. Sono i temi affrontati alla prima Conferenza ministeriale Italia–Africa che oggi alla Farnesina riunisce i rappresentanti di oltre 50 Paesi, con delegati di Unione Africana e Nazioni Unite. Promossi in collaborazione con l’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi), i lavori – che d’ora in poi si terranno ogni due anni - sono stati inaugurati dal presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. C’era per noi Giada Aquilino

Una grande alleanza Italia–Africa perché “cause comuni” ci interpellano e sono la pace, la lotta al terrorismo e piaghe come la fame, le carestie, le malattie endemiche e la mortalità infantile. Ma prim’ancora l’emergenza migranti. Così il capo di Stato italiano Sergio Mattarella, aprendo i lavori della prima Conferenza Italia–Africa. Le crisi internazionali – ha detto – hanno reso “permeabili” le frontiere. Il fenomeno “epocale” dei migranti non richiede approcci d’urgenza ma “soluzioni durevoli”. Mattarella ha esortato a lavorare insieme per far sì che vengano meno le cause di quella “disperazione” che spinge tante persone a partire ma anche per fermare quella minaccia “incombente, insidiosa e trasversale” che è il fondamentalismo terrorista. Puntare allo “sviluppo sostenibile” dell’Africa è stato l’obiettivo ribadito dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, ricordando che i migranti africani giunti in Europa tra il 2010 e il 2015 sono stati 2 milioni. Al momento, ha aggiunto, “abbiamo spazio per mettere in campo una strategia prima che si verifichino situazioni di emergenza che nessuno può escludere”, chiedendo all’Europa “un impegno strategico” per un “patto con l'Africa” affinché si eviti “che la rotta del Mediterraneo centrale abbia impennate nei prossimi mesi”:

“L’Europa si è impegnata sulla rotta balcanica con un investimento economico, politico, organizzativo e logistico molto, molto rilevante. L’Italia ha condiviso questo impegno. Adesso si tratta di avere un impegno in condizioni completamente diverse: nessuno può fare un paragone tra Turchia e Libia, naturalmente stiamo parlando di mondi completamente diversi. Quindi è più complessa l’operazione da fare in Africa, ma non si tratta solo dell’utilizzo dei fondi strategici di cooperazione – quelli del vertice della Valletta – ma si tratta anche di destinare risorse a progetti mirati ai 7-8 Paesi che oggi maggiormente sono colpiti da flussi migratori e con i quali si possono ingaggiare dei progetti di cooperazione mirati al contenimento e al governo del flussi migratori”.

Da parte sua l’Africa ha portato un appello all’Italia, nelle parole di Moussa Faki Mahamat, ministro degli Esteri del Ciad:

“Le message est celui du Continent africain: c’est que nous accordons une grande importance…
Il messaggio è quello del Continente africano ed è che noi riconosciamo una grande importanza alla partnership tra Italia e Africa. L’Italia è il Paese geograficamente più vicino al Continente africano, quando noi constatiamo l’emigrazione, il numero importante di giovani che muoiono in mare o che arrivano sulle coste di Lampedusa, che per gli africani è praticamente una località ‘africana’, perché tante persone vi sbarcano ogni giorno. Si tratta di un fenomeno estremamente grave che però è motivato dalla povertà, dalla mancanza di lavoro, dalle guerre e dai traffici in corso. I giovani sono così tentati o di entrare tra i ranghi dei terroristi o di emigrare nella speranza di trovare una vita migliore. Noi auspichiamo uno sforzo comune per far fronte a tali problemi”.

Il terrorismo, è emerso ai lavori, in Africa ha ancora grandi finanziamenti. Ne parla Smail Chergui, commissario per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana:

“Definitely, you know the relation between terrorism and criminal economy…
In definitiva, tutti conosciamo il rapporto tra terrorismo ed economia criminale: traffico di droga, traffico di armi leggere e traffico di esseri umani. Se si osserva oggi la situazione nel nord del Mali, è tutto collegato e tutti si sostengono. Quindi, se vogliamo affrontare il terrorismo, dobbiamo affrontare anche la sua economia criminale e per questo è necessario un approccio globale. Secondo me, nel Continente dobbiamo concentrarci su due situazioni: il Sahel e la Regione dei Grandi Laghi. Penso che, se affrontiamo queste due situazioni in termini più ampi, in modo “olistico”, riusciremo a mandare avanti l’agenda di sviluppo”.

L’Africa rimane comunque un Continente in crescita, nonostante le complessità interne. Ce ne parla Giovanni Carbone, responsabile del programma Africa dell’Ispi:

R. – I temi ricorrenti sono stati forse più di quanto ci si potesse aspettare: la modernizzazione dell’agricoltura e il ruolo dell’energia, temi che sono connessi a quello delle infrastrutture. Ma c’è stata – direi – una convergenza chiara su quanto cruciale sia, da un lato, l’energia in quanto pre-condizione dei processi di sviluppo dei Paesi africani; e, dall’altro, lo sviluppo dell’agricoltura: uno sviluppo interessante, perché significa che si guarda alla diversificazione dell’economia africana. Non tanto una che allontana dall’agricoltura per sviluppare manifattura e servizi, ma che deve partire dall’interno dell’agricoltura.

D. – Il presidente Mattarella ha detto che la minaccia del fondamentalismo terrorista è “incombente, insidiosa e trasversale”: perché?

R. – La nuova instabilità portata dal fondamentalismo terrorista è indubbiamente una questione cruciale nell’Africa di oggi. Il Continente, infatti, negli ultimi 15-20 anni aveva fatto progressi molto importanti in termini di stabilizzazione, con molti conflitti risolti, e molte situazioni pacificate o stabilizzate, che hanno poi contribuito a rendere possibile l’attività economica e la crescita, che in precedenza non si era vista. Purtroppo invece, negli ultimi anni, c’è stato un ritorno parziale di instabilità, di rischi politici e quindi di violenze ed insurrezioni legate in parte al fondamentalismo terrorista. Questa è evidentemente una preoccupazione, non solo perché è una tematica sia globale ma con sviluppi che ci riguardano direttamente, ma anche perché destabilizzano un’area nella quale poi è più difficile continuare a progredire in termini di sviluppo economico. 

inizio pagina

Ilva. Vescovo di Taranto: la difesa della salute è prioritaria

◊  

“Aspettiamo una risposta dello Stato italiano”. E’ la richiesta di mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, sulla vicenda dell’Ilva, dopo l’accusa all’Italia della Corte europea dei diritti umani per non aver tutelato la vita e la salute dei cittadini. Ascoltiamo mons. Santoro al microfono di Luca Collodi

R. – Innanzitutto voglio dire che mi sembra pienamente legittima l’azione di questi 182 cittadini presso la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. E questo, perché la difesa della salute è prioritaria. Ricordo anche che tra questi c’è anche il ricorso di Vincenzo Fornaro che ha visto distrutte centinaia di capi di bestiame. La tutela della salute e della vita è proprio il primo diritto. E’ evidente, però, che rimane aperta la questione ambientale. Un’azione del genere, diretta contro lo Stato Italiano, mette in evidenza il fatto che, malgrado il passare degli anni – io sono a Taranto dal 2012 – ci sia ancora l’accusa che i diritti legati al tema fondamentale della salute non siano stati rispettati. Siamo in attesa di risposte vere al problema della salute, perché più volte ci è stato detto: “La stiamo garantendo” – “Si stanno trovando forme adeguate per venire incontro”… Dopo questa azione, serve proprio una risposta vera, radicale e forte!

D. – Per coniugare la tutela della salute con il mantenimento dei posti di lavoro, servirebbe un piano industriale che possa garantire alle acciaierie di lavorare…

R. – Questo è il grande problema a cui lo Stato deve provvedere! Perché se anche si sta discutendo sulla questione della vendita della fabbrica e di tante altre cose, ciò che a noi interessa – ed anche a me, nella mia funzione di vescovo che ascolta le sofferenze delle persone toccate dalla malattie e poi anche il disagio forte di chi rischia di perdere il lavoro – è che sia data una risposta precisa e chiara alla questione della salute. Serve che il modello di sviluppo che noi abbiamo, sia profondamente rivisto e che quindi l’inquinamento non esista. L’altra condizione che chiediamo è che i posti di lavoro siano salvaguardati. Questo è proprio il compito dello Stato: riguardo questi due principi, ascoltando la gente, mi sembra che ci sia una domanda fortissima: particolarmente ora, dopo questa azione presso la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, la domanda è forte per una garanzia della salute.

D. – Mons. Santoro, questa condanna potrebbe compromettere la vendita dell’impianto?

R. – Adesso tutti quanti aspettiamo la risposta dello Stato a questa situazione. Non sono in grado di entrare in cose tecniche, però questo atto di accusa e questo intervento della Corte di Strasburgo pone un grave interrogativo. E’ un grave, grave punto interrogativo su tutta l’operazione.

inizio pagina

La Partita del Cuore per Telethon e l'ospedale Bambino Gesù

◊  

Sport e solidarietà. Stasera allo Stadio Olimpico di Roma si gioca la 25.ma edizione della “Partita del Cuore”, i cui ricavati saranno devoluti alla Fondazione "Telethon" e alla Fondazione Bambino Gesù Onlus. Su come verranno utilizzati i fondi, Giancarlo La Vella ha intervistato il prof. Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico: 

R. – A proposito di questa manifestazione, che ha nello slogan il cuore, noi vogliamo ricordare che il Bambino Gesù è nel cuore dei romani e non solo dei romani, ma di tutti i cittadini italiani. E questo perché noi abbiamo il 40% dei pazienti che vengono da altre regioni italiane… Che cosa facciamo nella nostra attività? Cerchiamo di assecondare, al cento per cento, quella che è la missione stessa del nostro ospedale: quindi non solo eccellenza nell’assistenza, ma anche eccellenza nella ricerca. E’ una ricerca che è fortemente orientata alla genetica e questo per una ragione semplice: due terzi dei bambini, che affluiscono in un grande Policlinico pediatrico, hanno una malattia che, direttamente o indirettamente, ha a che fare con qualcosa che capita nel genoma. Ma per far fronte alla domanda che abbiamo di ricerca, abbiamo bisogno di potenziare ulteriormente i laboratori: quindi, l’obiettivo prioritario di questo finanziamento è quello di creare un nuovo laboratorio, che avrà un collegamento con quelli esistenti, che già fanno ricerche genomiche e cioè studi sul genoma, con l’obiettivo prioritario di scoprire le basi biologiche di malattie che non hanno ancora un nome.

D. – Si tratta sicuramente anche di malattie rare, su cui si investe poco e quindi si fanno pochi passi avanti nella ricerca?

R. – Certamente. Il problema delle malattie rare è un problema di bisogni a 360° che vanno, in primo luogo, dalla necessità di migliorare le capacità diagnostiche. La prima azione, che muove poi tutta una sequela di interventi, è quella di cercare di fare subito la diagnosi. E, siccome molto spesso, queste sono malattie geneticamente determinate, con queste tecniche di analisi del genoma di ultima generazione, nel 30-35% dei casi riusciamo a raggiungere questo primo obiettivo. La scoperta delle basi biologiche delle malattie permette di offrire alla famiglia un’informazione molto più mirata: capire, ad esempio, nel caso in cui la famiglia dovesse avere altri figli, che cosa potrebbe capitare, se ci sono rischi negli altri familiari, ecc… Significa avere dei test genetici che permettono quindi di migliorare la diagnosi. Ma è anche la prima conoscenza che permette di capire se possiamo fare una terapia più mirata, una terapia di precisione, che possa migliorare la qualità della vita del paziente.

inizio pagina

Giornata internazionale dei Musei: un bene da valorizzare

◊  

“Musei e paesaggi culturali” è questo il tema di riflessione della Giornata Internazionale dei Musei 2016 che si celebra oggi. L’iniziativa è dell’Icom, International Council of Museums, che riunisce migliaia di aderenti in tutto il mondo. Allo stesso tema sarà dedicata anche la 24.esima Conferenza generale dell’organizzazione che si svolgerà a Milano dal 3 al 9 luglio con la partecipazione di professionisti museali di più di 130 Paesi. Obiettivo della Giornata di oggi è la valorizzazione del ruolo del museo all’interno della società con un richiamo alla sua responsabilità nei confronti dell’ambiente e del territorio. Ascoltiamo al microfono di Adriana Masotti il presidente dell’Icom Italia, Daniele Jalla

R. – E’ un'iniziativa che dura dal 1977 ed è il giorno in cui i musei si aprono al pubblico per spiegare quello che fanno, come operano e, al tempo stesso, per riflettere su un tema in particolare. Il tema di quest’anno è: “Musei e paesaggi culturali”.

D. – Una Giornata dedicata ai musei, probabilmente si vuol valorizzare questa realtà. E in Italia, oggi, c’è bisogno di questo?

R. – Ce ne è sempre bisogno! I musei sono delle strutture che operano quotidianamente e che, proprio perché fanno parte del paesaggio quotidiano, hanno bisogno di essere ricordate al pubblico. E in questo momento, che è un momento di grande trasformazione dei musei statali innanzitutto, è estremamente importante che si capisca che ruolo possano avere i musei rispetto al patrimonio culturale nel suo complesso. Di qui il tema dei paesaggi culturali.

D. – Che cosa si intende concretamente per “paesaggi culturali”?

R. – In Italia si è parlato molto, dagli anni Settanta in poi, di rapporto tra museo e territorio. Il richiamo che questa prospettiva di lavoro fa è un museo molto attento al presente, perché il paesaggio è il presente; e noi sappiamo anche che l’Italia, in qualunque suo punto, conserva un patrimonio che costituisce un paesaggio da capire, conservare, valorizzare e modificare continuamente.

D. – Un museo in città – pensiamo a Firenze, Milano, Roma – in che modo può essere più attivo sul territorio?

R. – Guardi, io mi trovo in questo momento nel Ghetto di Roma: esiste un museo ebraico, ma a fianco c’è il Portico d’Ottavia e c’è un mondo che vive intorno al museo, che fa parte della storia stessa. E’ possibile pensare un museo ebraico senza il Ghetto? Il nostro museo è un museo a cielo aperto, l’Italia è un museo a cielo aperto. E’ impensabile che non ci sia una relazione stretta tra il museo e il suo contesto.

D. – Quali vantaggi potrebbero derivare da questa relazione stretta?

R. – Il vantaggio principale è una tutela attiva del patrimonio. Si dice che il museo conserva e comunica i beni che ha; tutelare significa giuridicamente proteggere: ma se non c’è una comunicazione costante del valore del patrimonio è difficile che questo valore sia condiviso. Per questo un museo che svolge una funzione anche al suo esterno è uno strumento di tutela attiva che coinvolge la popolazione, le comunità e il suo pubblico. E’ un modo per avere un approccio integrale al patrimonio. Pensi al ruolo che possono avere - da questo punto di vista - i musei ecclesiastici, ad esempio… Fra l’altro nella Lettera Circolare, che è stata fatta molti anni fa, si invita proprio alla formula del “museo diffuso”, che comprenda sia i beni che non è possibile conservare in sito e che sono conservati nel museo e sia i luoghi da cui provengono, in un approccio – appunto – in cui si esce dal museo e si entra nella realtà viva. Il museo è uno strumento per valorizzare questo insieme.

D. – Nel luglio prossimo Milano ospiterà una grande conferenza dell’Icom proprio sullo stesso tema, e ci sarà il confronto con i musei di tutto il mondo…

R. – Noi ci aspettiamo dai 3 ai 4 mila colleghi, provenienti da tutto il mondo, che negli ultimi anni hanno sviluppato la stessa tematica, con prospettive ovviamente diverse da Paese a Paese. L’interesse è proprio quello di confrontarsi con la visione che ne hanno: che cos’è il paesaggio per ciascuno? Quale tipo di realtà affrontano? In che modo? Ci auguriamo che una prospettiva, che è stata una prospettiva della museologia italiana, diventi una prospettiva della museologia del mondo.

inizio pagina

Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi Venezuela: preoccupati per gravissima situazione nel Paese

◊  

Per la Chiesa venezuelana, sempre più preoccupata per “la gravissima situazione nel Paese”, siamo di fronte ad un bivio: o “la sottomissione assoluta” al potere autoritario o “l’esplosione sociale della violenza”. Lo afferma all'agenzia Sir mons. Diego Rafael Padrón Sánchez, arcivescovo di Cumaná e presidente della Conferenza episcopale del Venezuela. “Soffriamo molto e ci sentiamo impotenti”, dice. Anche Papa Francesco è informato nei dettagli della situazione: “Ha scritto e mandato messaggi ma non può far nulla perché il governo é sordo, non ascolta nessuno”. 

I vescovi chiedono al governo di convocare le imprese private
Rispetto all’ultima minaccia del Presidente Nicolas Maduro di sequestrare le fabbriche che hanno interrotto la produzione, mons. Padrón Sánchez evidenzia “un assoluto rifiuto da parte della popolazione nei confronti di questa misura, anche perché le imprese permettono di produrre l’80% degli alimenti che si consumano nel Paese”: “Il governo non può nazionalizzare le imprese perchè automaticamente si paralizzerebbero – afferma -. Già in passato ci sono state esperienze simili. Le imprese non producono più nulla e si perde tutto”. I vescovi venezuelani chiedono perciò al governo “di convocare le imprese private per cercare una soluzione ai problemi del Paese”. 

Le accuse alla Chiesa di essere golpista
“L’economia non funziona – prosegue -. Il sistema economico in quanto tale è la causa del disastro del Paese”. La situazione è “peggiorata: continua la carestia, l’assenza di cibo, c’è uno scontro continuo tra il potere esecutivo e legislativo”, la violenza e la delinquenza dominano nel Paese mentre “il governo non è in grado di controllarle”. In tutto ciò “la stampa scritta continua a subire restrizioni, le radio e le televisioni hanno molta difficoltà”. La Chiesa può esprimersi liberamente “ma ci dicono che apparteniamo all’opposizione, che siamo golpisti”. (R.P.)

inizio pagina

Chiese Colombia-Venezuela chiedono riapertura delle frontiere

◊  

E' stata una brutta sorpresa per il governatore di Norte de Santander (Colombia), William Villamizar, e per il vescovo di Cúcuta (Colombia), mons. Victor Manuel Ochoa, essere fermati alla frontiera con il Venezuela quando hanno cercato di attraversare il confine lunedì scorso.

Cancellata la riunione per la riapertura dei ponti internazionali
Dopo aver atteso in prossimità del ponte internazionale Simon Bolivar, che collega il comune colombiano di Villa del Rosario a quello venezuelano di San Antonio, il governatore della regione - precisa l'agenzia Fides - ha ricevuto una telefonata dal suo omologo dello Stato di Tachira (Venezuela), José Gregorio Vielma Mora, che si è scusato per il blocco e gli ha annunciato la cancellazione della riunione, prevista per il pomeriggio di lunedì scorso nella città di San Cristobal. Lo scopo dell’incontro era mettere a punto una bozza del documento concertato tra i dipartimenti di confine per la riapertura dei ponti internazionali, che proprio questa settimana completano nove mesi di chiusura.

La riunione si terrà domani
​"Il governatore Vielma, mi informa che la Cancelleria ha autorizzato la riunione solo per il prossimo giovedì" ha detto il governatore di Norte de Santander, rispettando la decisione del governo venezuelano, come informa la nota inviata a Fides da Radio Caracol.

Riaprire le frontiere tra Colombia e Venezuela per vivere come fratelli
Nel frattempo il vescovo di Cúcuta, mons. Victor Manuel Ochoa, insieme con il suo omologo a San Cristobal, mons. Mario del Valle Moronta, hanno detto di continuare nel loro lavoro per la coesistenza e il ripristino delle relazioni tra i due Paesi: "la vicinanza tra noi è quello che la Chiesa chiede per lavorare come fratelli sulla stessa frontiera ... la riconciliazione, ecco il nostro invito per parlare, per cercare il dialogo e il rispetto dei diritti di tutti" ha affermato il vescovo colombiano. I due vescovi si sono incontrati, come era previsto, per continuare a lavorare insieme con lo stesso obiettivo. (C.E.)

inizio pagina

S. Pietro: Messa del card. Bagnasco per il 50.mo di sacerdozio

◊  

Papa Francesco lo aveva detto nel suo discorso ai vescovi italiani: un sacerdote “non ha un’agenda da difendere” perché affida “ogni giorno” la sua vita a Dio. Il card. Angelo Bagnasco ha riecheggiato questo pensiero all’omelia della Messa celebrata questa mattina nella basilica di San Pietro per il suo 50.mo di sacerdozio.

Stare nella volontà di Dio e nella pace
“Sappiamo ormai per esperienza – ha detto il presidente della Cei – che è impossibile vivere di programmi e attività, e che il lavoro generoso è per noi, il frutto è nelle mani di Dio”. “Abbiamo tutti bisogno di un cuore caldo – ha detto ancora – e sappiamo che il calore interiore, capace di riempire la vita e di rivestire ogni azione di eternità, non è dato dal successo, dal consenso, dal seguito che si può conseguire, ma dallo stare umile nella volontà di Dio: nella pace! Solo questo è il segreto della nostra vita di sacerdoti e di celibi”.

La vicinanza a Papa Francesco
Il card. Bagnasco ha espresso “affettuosa vicinanza e piena e operosa collaborazione” a Papa Francesco. “Preghiamo – ha detto – stretti al Santo Padre che, vicini alla tomba dell’Apostolo Pietro, prega con noi e per noi. Noi preghiamo per lui, per la sua missione di Pastore universale”.

Solo l'amore di Dio ci spinge ad amare i fratelli
In precedenza il cardinale aveva ricordato come guardando agli anni trascorsi di sacerdozio, “abbiamo meglio compreso che è il Signore la sorgente della carità pastorale, non noi, la nostra buona volontà, le nostre doti: solo il suo amore per noi ci rende capaci e ci spinge ad amare i fratelli senza trattenerli a noi stessi; a diventare un frammento di pane per la fame degli uomini; ad essere mano misericordiosa di Cristo che accoglie, ascolta, accompagna i poveri e i deboli nel corpo e nello spirito”. Per questo, ha concluso, “non finiremo mai di ringraziare il Signore!”. E poi l’invito: “Preghiamo, cari amici, gli uni per gli altri, per i nostri presbiteri, le comunità affidate alla nostra cura di Padri e Pastori”. (A.D.C.)

inizio pagina

Filippine: no dei vescovi a ripristino della pena di morte

◊  

Alcuni vescovi filippini hanno preso posizione contro l’annuncio del neoeletto Presidente Rodrigo Duterte di voler ripristinare la pena di morte nel Paese dal 30 giugno prossimo, giorno in cui entrerà ufficialmente in carica. “Solo Dio può avere potere sulla vita. Dio dà la vita e Dio la toglie, nessuno dovrebbe mettersi al posto suo”, ha affermato mons. Ruperto Santos, vescovo di Balanga e presidente della Commissione episcopale per la cura pastorale dei migranti e degli itineranti.

Dal 2011 in vigore una moratoria della pena di morte nelle Filippine
Duterte è chiamato nelle Filippine “il giustiziere” per aver combattuto la criminalità quando era sindaco di Davao attraverso l’uso di forze speciali. Secondo mons. Santos, il presidente Duterte “anziché ripristinare la pensa capitale dovrebbe riformare le prigioni e il sistema della giustizia”. Mons. Ramon Arguelles, arcivescovo di Lipa, ha addirittura affermato “che è disposto a farsi uccidere al posto di coloro che il Governo vuole condannare alla pena di morte”, riferisce l’agenzia cattolica Ucanews ripresa dall’agenzia Sir. Le Filippine hanno introdotto una moratoria della pena di morte nel 2011 e commutato in ergastolo le sentenze di morte di 1.230 condannati alla pena capitale. (L.Z.)

inizio pagina

Argentina. Diocesi di frontiera: la crisi è socio-ambientale

◊  

"Dato il degrado e la minaccia progressiva al nostro pianeta e all'essere umano come parte integrante dell'ecosistema planetario, assumiamo la complessità della situazione che ci coinvolge tutti. Sfidati ed incoraggiati dall’enciclica Laudato si', circa la cura della casa comune, riaffermiamo che tutto è collegato e che non ci sono due crisi separate, ambientale e sociale, ma un'unica e complessa crisi socio-ambientale": lo afferma il documento finale del 31.mo Incontro delle “Diocesi di Frontiera”, svoltosi a Paso de la Patria. Vescovi, sacerdoti, religiosi e laici di Argentina, Paraguay, Brasile e Uruguay hanno analizzato i problemi pastorali comuni, soffermandosi in particolare su quelli legati all'ambiente, sotto la guida dell'enciclica Laudato si'.

Più informazione per l'azione pastorale sui problemi ambientali della zona
La constatazione dell'assenza di una presa di coscienza collettiva e della preoccupazione per il progressivo degrado del nostro pianeta è stato un elemento scaturito dai lavori. L'altro punto importante di riflessione ha riguardato la necessità di avere maggiore informazione per l'azione pastorale sui problemi ambientali della zona, come l’eccessivo sfruttamento del "Acuifero Guarani", i piani nucleari, i progetti fracking, le miniere metallifere a cielo aperto, le dighe e altri mega-progetti.

Prossima riunione in Brasile
​La Messa di chiusura si è tenuta nella Basilica di Itati, presieduta da mons. Julio Bonino, vescovo di Tacuarembo in Uruguay, durante la quale è stato annunciato che la prossima riunione sarà nel maggio 2017 nella diocesi di Bagé in Brasile. (C.E.)

inizio pagina

Perù: iniziativa della Chiesa contro la tratta di persone

◊  

“Prevenzione della tratta di persone e traffico di migranti in Perú: rafforzamento delle reti sociali per la prevenzione e l’assistenza alle vittime, a livello nazionale e nelle aree di confine”. E’ il nuovo progetto lanciato dalla Commissione per la pastorale della mobilità umana della Conferenza episcopale peruviana in collaborazione con la Ong Progetto mondo Mlal (Movimento laici America latina) per contribuire a ridurre la vulnerabilità sociale delle potenziali vittime del fenomeno nel Paese sudamericano luogo di origine e di transito della tratta internazionale. 

Tra le aree d’intervento del progetto è il vicariato apostolico di Jaén en Perú
Una delle aree d’intervento del progetto - riferisce l'agenzia Fides - è il vicariato apostolico di Jaén en Perú, dove si svolgerà, grazie al sostegno del vescovo Gilberto Alfredo Vizcarra Mori, un workshop di formazione per sacerdoti, religiosi, catechisti rurali e autorità locali, per definire le reti e i piani d’azione in materia di migrazione e tratta di persone. Diritti umani e migrazione, dottrina sociale della Chiesa in materia di migrazione e realtà della tratta in Perú saranno i temi dell’incontro, che nelle intenzioni dei promotori vuole essere «l’inizio di un lavoro pastorale costante e in coordinamento permanente con le istituzioni del Governo e della società civile nella zona, per proteggere i migranti e le loro famiglie».

Perù nazione sudamericana con il maggior numero di bambini lavoratori
Secondo l’ultimo rapporto della commissione delegata dal congresso per seguire questo problema dal 2004 al 2011, la Polizia nazionale ha registrato 974 vittime per la stragrande maggioranza di sesso femminile. Nel 2011 le vittime sono state per il 58% minorenni. Il Perú è la nazione sudamericana con il maggior numero di bambini lavoratori e lo Stato non riesce a far fronte ai programmi di tutela che dovrebbe attuare a favore dei più piccoli. Attualmente il Governo sta lavorando con i bambini di strada di diciotto regioni del Paese.

Sguardo sui genitori irresponsabili e sulle mafie che sfruttano i minori
La situazione di estrema povertà è terreno fertile che alimenta il fenomeno. Abbondano i casi nei quali i familiari stessi espongono i bambini al rischio lasciandoli lavorare da soli in strade pericolose. A settembre è stata lanciata la campagna “Corazón Azul Perú” contro il traffico di esseri umani con l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione su portata, caratteristiche e modalità di questo crimine. (L.Z.)

inizio pagina

Terra Santa: sminamento intorno al sito del Battesimo di Gesù

◊  

L'area di Qasr al-Yahud, che si estende intorno alla riva occidentale dei fiume Giordano, all'altezza del luogo che la tradizione identifica come il sito del battesimo di Gesù, verrà bonificata dalle mine e da altri ordigni che ancora vi si trovano disseminati, a cinquant’anni dalla Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967). 

L'area che sarà sminata è inaccessibile dal 1967
​Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana ripresa dall'agenzia Fides, l'area in procinto di essere sminata si estende per circa 100 ettari ed è inaccessibile dal 1967. Il progetto di sminamento sarà realizzato sotto la supervisione del ministero israeliano per la difesa e si servità della collaborazione della società britannica Halo Trust, specializzata nella rimozione delle mine e ordigni bellici inesplosi. L’opera di sminamento dovrebbe concretizzarsi entro la fine del 2016.

Accesso consentito ai pellegrini sotto la supervisione dell'esercito israeliano
Qasr el-Yahud, a pochi chilometri dalla città di Gerico, si trova nei Territori Palestinesi occupati da Israele nel 1967, proprio sul confine con la Giordania. L’area comprende antiche chiese e monasteri finora ritenuti non sicuri per via delle mine. Dal 2011 Israele ha reso accessibile un’unica strada diretta a un sito attrezzato per cerimonie cristiane, sulla riva del Giordano. L’accesso finora è consentito ai pellegrini sotto la supervisione dell'esercito israeliano che controlla l’area. (G.V.)

inizio pagina

India: p.Tom presto libero. Mons. Hinder chiede prudenza

◊  

Padre Tom Uzhunnalil, il salesiano indiano sequestrato da un commando estremista ai primi di marzo in Yemen, è vivo e “sta bene”; al momento sono in corso “gli ultimi sforzi” per “garantirne la liberazione”. È quanto ha affermato un alto funzionario del governo indiano, alimentando le speranze di un rilascio a breve del sacerdote da due mesi e mezzo nelle mani dei suoi rapitori. Tuttavia la Chiesa locale - riporta l'agenzia AsiaNews - invita alla prudenza e, pur mantenendo immutato l’ottimismo per un esito positivo della vicenda, rinnova l’appello alla cautela perché ad oggi non vi sono “elementi nuovi”. 

La mediazione per la sua liberazione sarebbe all'ultimo atto
Fonti cattoliche indiane, che rilanciano le parole del ministro degli Esteri Sushma Swaraj, riferiscono che padre Tom “è salvo” e la mediazione in atto per ottenere la liberazione ha raggiunto “la sua ultima fase”. Inoltre, il salesiano non si troverebbe nelle mani del sedicente Stato islamico, ma di “forze anti-governative” presenti in territorio yemenita. Il pensiero va ai ribelli sciiti Houthi, che da oltre un anno combattono contro l’esercito governativo, anche se non vi sono conferme esplicite su un coinvolgimento del gruppo. “Le trattative continuano serrate - prosegue la fonte cattolica indiana - e il suo rilascio è imminente”.

Per il vicario apostolico non vi sono elementi nuovi
Interpellato da AsiaNews mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen), precisa che “non vi sono elementi nuovi” sulla vicenda e la sorte del sacerdote è ancora incerta. Da qui il nuovo invito alla “prudenza” per non compromettere l’esito delle trattative in corso per la liberazione.

Rapito in Yemen i primi di marzo nel corso di una strage
Dal 4 marzo scorso non si hanno notizie di padre Tom Uzhunnalil, prelevato da un gruppo di assalitori - con tutta probabilità legati allo Stato Islamico (Is) - che hanno attaccato una casa di riposo per malati e anziani delle missionarie della Carità ad Aden. Nel raid sono state massacrate quattro suore di Madre Teresa e altre 12 persone, presenti all’interno della struttura. (R.P.)

inizio pagina

Ghana: Chiesa scommette sui giovani per sradicare la corruzione

◊  

“La corruzione è un cancro endemico che ha raggiunto i vertici del Paese” ha ammonito mons. Joseph Osei-Bonsu, arcivescovo di Konongo–Mampong e presidente della Conferenza episcopale del Ghana, parlando agli studenti che si sono diplomati presso la scuola Our Lady of Grace (Olag) di Mamponteng, nella Regione di Ashanti. “I giovani devono stare lontani dalla corruzione” ha esortato il presidente dei vescovi del Ghana, che è tornato ancora una volta a denunciare le malversazioni di denaro pubblico e le pratiche corruttive diffuse nel Paese.

Le speranze contro la corruzione sono riposte nei giovani
Secondo l’ultimo rapporto dell’Afro Barometro, che rileva la percezione che gli africani hanno del proprio Paese di appartenenza, l’82% dei ghaniani ritiene che il proprio Paese stia procedendo nella direzione sbagliata a causa della corruzione, mentre il 58% pensa che si trovi già in una situazione molto difficile. Le speranze del Ghana sono riposte nei giovani afferma mons. Osei- Bonsu che ha esortato i giovani studenti ad essere esempio di vita per gli altri. La scuola di Mamponteng è solo uno degli esempi dello sforzo educativo della Chiesa cattolica in Ghana. 

Programma di ricerca di giovani talenti cattolici del Paese
L’arcidiocesi di Kumasi ha avviato presso la chiesa della Sacra Famiglia di Ash Town, il primo programma di ricerca di giovani talenti cattolici del Paese (Catholic Talented Youth). “I giovani devono essere pronti ad unirsi al programma per far crescere i talenti donati loro da Dio al fine di permettergli di aiutare la crescita sociale ed economica del Paese e delle loro famiglie” ha affermato mons. Gabriel Yaw Justice Anokye, arcivescovo di Kumasi. Il programma intitolato “Fai crescere i talenti divini” offre diverse attività, comprese recitazione, musica, coreografia, canto e predicazione. (L.M.)

inizio pagina

Chiesa svizzera: procedura più rapida per diritto d'asilo

◊  

Sì ad una procedura più rapida, ma occorre una maggiore tutela legale per i richiedenti asilo: è quanto sottolinea la Commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale svizzera, in una nota diffusa in vista del referendum nazionale del 5 giugno sulla modifica della legge relativa al diritto d’asilo, che mira ad accelerare le procedure d’esame delle singole richieste.

Garantire le possibilità di presentare ricorso
Riconoscendo la necessità di ristrutturare l’ambito del diritto d’asilo, Giustizia e pace evidenzia che “dal punto di vista etico, il desiderio di accelerare le procedure di trattamento delle domande d’asilo deve essere accompagnato dalla garanzia di una consulenza legale gratuita”, insieme alla tutela, a livello costituzionale, della “possibilità di presentare ricorso”, perché “fare domanda d’asilo è un diritto fondamentale”.

Migliorare l’integrazione di coloro che ricevono risposta positiva
Certamente – scrivono i  presuli – ridurre i tempi burocratici significa eliminare quel “tempo perso” in cui i richiedenti asilo “vivono nell’attesa e nell’incertezza, costretti all’ozio”, senza potere “pianificare il loro futuro”. Al contempo, i vescovi elvetici auspicano che si migliori sia “la possibilità di integrazione per coloro che ricevono una risposta positiva”, sia le condizioni di chi viene respinto e potrà, così, “lasciare la Svizzera senza essere condannato ad anni di attese”. Ma c’è un “ma”, aggiunge Giustizia e pace: “L’accelerazione della procedura d’asilo presuppone che lo Stato di diritto e l’equità di tale procedura siano garantiti”, soprattutto per le possibilità di presentare ricorso. Pertanto, “l’introduzione di un supporto e di una consulenza legale gratuita è ancora più importante”.

Necessarie tutele legali qualificate
“Una decisione sbagliata – spiega infatti la Commissione episcopale – può portare a conseguenze fatali”, dato che la richiesta d’asilo riguarda “i diritti esistenziali della persona, la sua stessa vita”. In questo contesto, per un richiedente asilo “che non ha familiarità con il sistema giuridico svizzero” e che non conosce la lingua “è praticamente impossibile comprendere adeguatamente le procedure”. Di qui, il richiamo della Chiesa di Friburgo alla necessità di “tutele legali qualificate”. Nel complesso, quindi, Giustizia e pace dice sì alla proposta di modifica dell’attuale legge sul diritto d’asilo, perché “l’accelerazione delle procedure è più vantaggiosa”, ribadendo, però, l’importanza di garantire gli eventuali ricorsi.

Cosa prevede la riforma
Se la riforma verrà approvata dal referendum, in futuro le procedure più semplici, quelle che non richiedono particolari accertamenti, non dovrebbero durare più di 140 giorni, contro 277 attuali, mentre i casi di ricorso non dovrebbero superare un anno, contro i due attuali. Per realizzare questa riforma è prevista una maggiore centralizzazione delle competenze. Le procedure più semplici (circa il 60% dei casi) verranno svolte in futuro in nuovi centri di accoglienza gestiti direttamente dalla Confederazione, in cui opereranno funzionari federali, traduttori, rappresentanti legali e consulenti per il ritorno. Per le procedure più complesse, i richiedenti l’asilo saranno alloggiati nei centri dei Cantoni. (A cura di Isabella Piro)

inizio pagina

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 139

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.