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Sommario del 24/05/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Grand Imam di al-Azhar a Radio Vaticana: Francesco uomo di pace

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Dopo l'udienza di ieri in Vaticano, il Grand Imam di al-Azhar, il Prof. Ahmad Al-Tayyib, ha concesso ai media vaticani una intervista esclusiva. Si è svolta presso la residenza dell’ambasciatore di Egitto presso la Santa Sede e vi hanno partecipato due redattori della Radio Vaticana, Padre Jean-Pierre Yammine, responsabile della Sezione Araba, e Cyprien Viet, della Sezione Francese, insieme a Maurizio Fontana dell’ Osservatore Romano. L’intervista è stata ripresa in audio e video dalla Radio Vaticana e dal Centro Televisivo Vaticano e si è svolta interamente in lingua araba. La traduzione italiana che pubblichiamo è stata curata dalla Sezione araba della Radio Vaticana:

D. - Giovanni Paolo II è stato il primo Papa a visitare il Grand Imam di al-Azhar nel suo viaggio in Egitto nel quadro del Grande Giubileo del 2000 – Oggi il Grand Imam è il primo a visitare il Papa in Vaticano in occasione del Giubileo della Misericordia.  Qual è il significato di questo eventi così importanti?

R. - In nome di Dio Clemente e Misericordioso, all’inizio vorrei rivolgere un ringraziamento a Sua Santità il Papa del Vaticano, Papa Francesco, per avermi accolto con la mia delegazione di Al-Azhar, e per la buona accoglienza e l’affetto caloroso che mi ha riservato. Oggi facciamo questa nostra visita con una iniziativa di Al Azhar e l’organizazzione tra Al-Azhar e il Vaticano per proseguire la nostra missione sacra, che è la missione delle religioni “rendere felice l’essere umano ovunque”. Al-Azhar ha un dialogo o meglio una commissione di dialogo interreligioso con il Vaticano che si era sospeso per delle circostanze precise, ma adesso che queste circostanze non ci sono più, noi riprendiamo  il cammino di dialogo e auspichiamo che sia migliore di quanto lo era prima. E sono felice di essere il primo Sheikh di Al-Azhar che visita il Vaticano e si siede con il Papa in una seduta di discussione e di intesa.

D. - Poco fa il Grand Imam ha incontrato il Papa Francesco in Vaticano. Che cosa ci può dire su questo incontro e l’atmosfera in cui si è svolto?

R. - La prima impressione, che è stata molto forte, è che quest’uomo è un uomo di pace, un uomo che segue l’insegnamento del cristianesimo, che è una religione di amore e di pace; e seguendo Sua Santità abbiamo visto che è un uomo che rispetta le altre religioni e dimostra considerazione per i loro seguaci, è un uomo che consacra anche la sua vita per servire i poveri e i miseri e che si prende la responsabilità delle persone in generale; è un uomo ascetico, che ha rinunciato ai piaceri effimeri della vita mondana. Tutte queste sono qualità che condividiamo con lui e per questo ci siamo sentiti desiderosi di incontrare quest’uomo per lavorare insieme per l’umanità in questo vasto campo comune.

D. - Quali sono i doveri delle grandi autorità religiose e dei responsabili religiosi nel mondo di oggi?

R. - Sono responsabilità pesanti e gravi nello stesso tempo perché sappiamo - come ci siamo detti anche con Sua Santità .- che tutte le filosofie e le ideologie sociali moderne che hanno preso in mano la guida dell’umanità lontano dalla religione e lontano dal cielo hanno fallito nel fare felice l’uomo e nel portarlo lontano dalle guerre e dello spargimento di sangue. Credo che sia giunto il momento per i rappresentanti delle Religioni Divine di partecipare fortemente e concretamente per dare all’umanità un nuovo orientamento verso la misericordia e la pace, affinché l’umanità possa evitare la grande crisi della quale siamo soffrendo adesso. L’uomo senza religione costituisce un pericolo per il suo simile e credo che la gente adesso, in questo ventunesimo secolo, abbia cominciato a guardarsi intorno e a cercare le guide sagge che la possano guidare nella giusta direzione. E tutto ciò ci ha spinti a questo incontro e a questa discussione e all’accordo di cominciare il passo giusto nella direzione giusta.

D. - L’Università di Al-Ahzar è impegnata in un importante lavoro di rinnovamento dei testi scolastici. Ci può dire qualche cosa di questo impegno?

R. - Sì, noi li rinnoviamo nel senso che chiarifichiamo i concetti musulmani che sono stati deviati da coloro che usano violenza e terrorismo e dai movimenti armati che pretendono di lavorare per la pace. Abbiamo identificato questi concetti sbagliati, e li abbiamo proposti - all’interno di un curriculum - ai nostri studenti nelle scuole medie e superiori, abbiamo fatto vedere il lato deviato e la comprensione deviata e nel contempo abbiamo cercato di far comprendere agli studenti i concetti corretti, dai quali questi estremisti e terroristi hanno deviato.  Abbiamo fondato un osservatorio mondiale, che compie un monitoraggio in otto lingue del materiale diffuso da questi movimenti estremisti e delle idee avvelenate che deviano la gioventù. E questo materiale viene oggi corretto e poi tradotto in altre lingue. E tramite la “Casa della Famiglia Egiziana” - che riunisce i musulmani con tutte le confessioni cristiane in Egitto, ed è un progetto comune tra Al-Azhar e le Chiese - cerchiamo di dare una risposta a coloro che colgono le occasioni e aspettano in agguato per seminare disordini, divisioni e conflitti tra cristiani e musulmani. Abbiamo anche il Consiglio dei Saggi Musulmani, presieduto dallo Sceicco di Al-Azhar, e questo Consiglio manda delegazioni di pace nelle diverse capitali del mondo e svolge un’attività importante in favore della pace e nel far conoscere l’Islam genuino. Abbiamo tenuto in passato, circa un anno fa, una conferenza a Firenze, proprio qui in Italia, sul tema “Oriente e Occidente”, ossia “La collaborazione tra Oriente e Occidente”. Inoltre riceviamo ad Al-Azhar gli imam delle moschee che si trovano in Europa, nel quadro di un programma della durata di due mesi per offrire formazione al dialogo, svelare i concetti sbagliati e trattare l’integrazione dei musulmani nelle loro società e nazioni europee affinché possano essere una risorsa per la sicurezza, la ricchezza e la forza di quei paesi.

D. - Il Medio Oriente è soggetto a grandi difficoltà. Quali messaggi vuole darci a questo proposito in occasione di questa sua visita in Vaticano?

R. - Certamente. Io vengo dal Medio Oriente dove vivo e subisco, insieme agli altri, le conseguenze dei fiumi di sangue e cadaveri, e non c’è nessuna causa logica per questa catastrofe che viviamo giorno e notte. Certamente ci sono motivazioni interne ed esterne  la cui convergenza ha infiammato queste guerre. Oggi mi trovo nel cuore dell’Europa e vorrei approfittare della mia presenza in questa istituzione così grande per i cattolici - il Vaticano - per lanciare un appello al mondo intero affinché possa unirsi e serrare i ranghi per affrontare e porre fine al terrorismo, perché credo che se questo terrorismo viene trascurato, non solo gli orientali ne pagheranno il prezzo, ma orientali e occidentali potrebbero soffrire insieme, come abbiamo visto. Pertanto questo è il mio appello al mondo e agli uomini liberi del mondo: mettevi d’accordo subito e intervenite per porre fine ai fiumi di sangue. Permettetemi di dire una parola in questa dichiarazione: Sì, il terrorismo esiste, ma l’Islam non ha niente a che fare con questo terrorismo e questo vale per gli Ulema mussulmani e per i cristiani e musulmani in Oriente. E quelli che uccidono i musulmani, e uccidono anche i cristiani, hanno frainteso i testi dell’Islam sia intenzionalmente sia per negligenza. Al-Azhar ha convocato un anno fa una Conferenza Generale per gli Ulema musulmani, sunniti e sciiti, e sono stati invitati i leader delle Chiese orientali, di diverse religioni e confessioni, e persino gli Yazidi hanno mandato un loro rappresentante a questa conferenza tenutasi sotto l’egida di Al-Azhar. E tra i punti più salienti della dichiarazione comune si è detto che l’Islam e il Cristianesimo non hanno nulla a che vedere con quelli che uccidono, e abbiamo chiesto all’Occidente di non confondere questo gruppo deviato e fuorviato con i musulmani e abbiamo detto con una sola voce, musulmani e cristiani, che siamo padroni di questa terra e siamo partner e ognuno di noi ha diritto a questa terra. Abbiamo respinto l’emigrazione forzata, la schiavitù e la compravendita delle donne nel nome dell’Islam. Qui vorrei dire che la questione non deve essere presentata come una persecuzione nei confronti dei cristiani in Oriente, al contrario, ci sono più vittime musulmane che cristiane, e noi tutti subiamo insieme questa catastrofe. In breve vorrei concludere su questo punto dicendo che non possiamo colpevolizzare le religioni a causa della deviazione di alcuni dei loro seguaci, perché in ogni religione esiste una fazione deviata che ha alzato il vessillo della religione per uccidere nel suo nome.

D. - Prima di concludere vuole aggiungere qualcosa?

R. - Esprimo nuovamente i miei vivi ringraziamenti, l’apprezzamento e la speranza - che porterò con me - di lavorare insieme, musulmani e cristiani, Al-Azhar e Vaticano, per sollevare l’essere umano dovunque sia, a prescindere dalla sua religione e dal suo credo e salvarlo dalla crisi delle guerre distruttive, della povertà, dell’ignoranza e delle malattie.

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Francesco: santità è sperare con coraggio un passo avanti al giorno

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“Camminare alla presenza di Dio in modo irreprensibile”. Questo, ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa a Casa S. Marta, vuol dire muoversi verso la santità. Un impegno che però ha bisogno di un cuore che sappia sperare con coraggio, mettersi in discussione, aprirsi “con semplicità” alla grazia di Dio. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Non si compra, la santità. Né la guadagnano la migliori forze umane. No, “la santità semplice di tutti i cristiani”, “la nostra, quella che dobbiamo fare tutti i giorni”, afferma il Papa, è una strada che si può percorrere solo se a sostenerla sono quattro elementi imprescindibili: coraggio, speranza, grazia, conversione.

Il cammino del coraggio
Francesco commenta il brano liturgico tratto dalla prima Lettera di Pietro, che definisce un “piccolo trattato sulla santità”. Quest’ultima, dice, è anzitutto un “camminare alla presenza di Dio in modo irreprensibile”:

“Questo camminare: la santità è un cammino, la santità non si può comprare, non si vende. Neppure si regala. La santità è un cammino alla presenza di Dio, che devo fare io: non può farlo un altro nel mio nome. Io posso pregare perché quell’altro sia santo, ma il cammino deve farlo lui, non io. Camminare alla presenza di Dio, in modo irreprensibile. E io userò oggi alcune parole che ci insegnino come è la santità di ogni giorno, quella santità – diciamo – anche anonima. Primo: coraggio. Il cammino verso la santità vuole coraggio”.

Speranza e grazia
“Il Regno dei Cieli di Gesù”, ripete il Papa, è per “quelli che hanno il coraggio di andare avanti” e il coraggio, osserva subito dopo, è mosso dalla “speranza”, la seconda parola del viaggio che porta alla santità. Il coraggio che spera “in un incontro con Gesù”. Poi c’è il terzo elemento, quando Pietro scrive: “Ponete tutta la vostra speranza in quella grazia”:

“La santità non possiamo farla noi da soli. No, è una grazia. Essere buono, essere santo, andare tutti i giorni un po’ un passo avanti nella vita cristiana è una grazia di Dio e dobbiamo chiederla. Coraggio, un cammino. Un cammino, che si deve fare con coraggio, con la speranza e con la disponibilità di ricevere questa grazia. E la speranza: la speranza del cammino. E’ tanto bello quel capitolo XI della Lettera agli Ebrei, leggetelo. Racconta il cammino dei nostri padri, dei primi chiamati da Dio. E come loro sono andati avanti. E del nostro padre Abramo dice: ‘Ma, lui uscì senza sapere dove andasse’. Ma con speranza”.

Convertirsi tutti i giorni
Nella sua lettera, Pietro – prosegue Francesco – mette in rilievo l’importanza di un quarto elemento. Quando invita i suoi interlocutori a non conformarsi “ai desideri di un tempo”, li sprona essenzialmente a cambiare dal di dentro il proprio cuore, in un continuo, quotidiano lavorio interiore:

“La conversione, tutti i giorni: ‘Ah, Padre, per convertirmi io devo fare penitenze, darmi delle bastonate…’. ‘No, no, no: conversioni piccole. Ma se tu sei capace di riuscire a non sparlare di un altro, sei sul buon cammino per diventare santo’. E’ così semplice! Io so che voi mai sparlate degli altri, no? Piccole cose… Ho voglia di fare una critica al vicino, al compagno di lavoro: mordere la lingua un po’. Si gonfierà un po’ la lingua, ma il vostro spirito sarà più santo, in questo cammino. Niente di grande, mortificazioni: no, è semplice. Il cammino della santità è semplice. Non tornare indietro, ma sempre andare avanti, no? E con fortezza”.

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Papa: prego perché il Signore benedica la Cina

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“Offro questa Messa per tutti i cinesi, per questo grande Paese, perché il Signore benedica la Cina”. Sono le parole con cui Papa Francesco ha introdotto l’omelia della Messa di questa mattina in Casa S. Marta. Il 24 maggio è la Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina, in coincidenza con la memoria della Beata Vergine Maria “Aiuto dei Cristiani”, che vede numerosi pellegrini recarsi al Santuario di Sheshan, a Shanghai. Anche all’Angelus di domenica scorsa, Francesco aveva pregato perché nell’Anno Santo della Misericordia i cattolici cinesi possano “divenire segno concreto di carità e riconciliazione”. Parole che il missionario del Pime, padre Antonio Sergianni, per 24 anni in Cina, commenta nell’intervista di Alessandro De Carolis

R. – La prima impressione, il primo sentimento che mi hanno provocato le parole del Santo Padre sono dovuti al riferimento alla preghiera. Il Papa parla di discernere, in ogni situazione, i segni della presenza amorosa di Dio. Questo è molto bello, perché sappiamo quanto stia a cuore al Papa scoprire l’azione di Dio nella storia, anche nei momenti più bui. Questo mi ha fatto venire in mente le parole di Papa Benedetto, che diceva che guardando la Cina non ci si può limitare ad essere pessimisti o ottimisti. Il cristiano ha la speranza: quello che non è possibile oggi può essere facile e aperto domani. Nella lettera di Papa Benedetto, questo guardare alla storia della Cina con speranza è molto, molto importante.

D. – Papa Francesco, in questa sua preghiera, fa anche una sottolineatura su due aspetti: suggerisce ai cristiani di promuovere la “cultura dell’incontro” e di promuovere “l’armonia”…

R. – Questo è molto bello, perché mi sembra che Papa Francesco lo metta come conseguenza di qualcosa di più profondo, di una vita nella carità. Lui praticamente ha presente la lettera di Papa Benedetto in cui si dice che la Chiesa in Cina oggi è chiamata a dare i segni della carità, dell’amore, e questo passa attraverso la riconciliazione. Da lì nasce la cultura dell’incontro. Diceva Papa Benedetto, parlando proprio della preghiera per la Cina: “Con la preghiera si può aiutare in maniera concreta la Cina”.  

D. – La Chiesa universale sta vivendo l’Anno Santo incentrato sulla riscoperta del valore della misericordia. In particolare, come sta vivendo il Giubileo la Chiesa cinese?

R. – La Chiesa ha accolto l’annuncio del Giubileo con grande festa, con grande gioia, grande speranza. I fedeli cristiani, infatti, lo sentono come la necessità più grande, perché ci sono tanti altri nodi – a livello diplomatico, a livello politico – ma c’è una realtà di Chiesa molto più grande,  con una serie di iniziative bellissime. Si è parlato di miracoli per l’apertura dell’Anno della Misericordia, con 10 mila fedeli dalle regioni del nord e del sud, che hanno celebrato insieme anche ad altre denominazioni cristiane… Più Porte Sante aperte nelle diocesi e pellegrinaggi ai Santuari, che sono diventati il centro… C’è stato veramente un entusiasmo e una festa, che continua ancora. Per me questo è il segno che l’Anno della Misericordia aiuta questo processo di riconciliazione, che sarà lungo, sarà anche lento, ma senza il quale non si va da nessuna parte.  E’ lì che deve avvenire una maturazione più profonda e sarà quella ad indicare poi la soluzione per quei nodi che preoccupano a livello diplomatico, a livello politico e così via.

D. – Secondo lei, quale cammino ha compiuto in questi nove anni la Chiesa cinese dalla pubblicazione della lettera di Benedetto XVI? Cosa è rimasto nel cuore dei cattolici cinesi di quel documento?

R. – Penso che sia iniziata una chiara volontà di dialogo e che questa volontà si sia chiarita maggiormente. Come dicevo prima, però, è emersa anche la necessità di una visione più larga della realtà della Chiesa cinese, che non si fermi solo alle difficoltà, ma guardi alla realtà di Chiesa più grande e quindi di un cammino più rispettoso per l’importanza del vissuto di fede nel quotidiano. Questa è una linea che sta molto a cuore anche a Papa Francesco. Io penso sia emerso questo. La realtà di questi ultimi anni ha confermato che le indicazioni della lettera erano validissime e che Papa Benedetto aveva toccato i punti chiave, aveva toccato i punti fondamentali. E poi è emersa anche, secondo me, una maggiore attenzione alla realtà della Chiesa in Cina. Tanti vescovi stanno scrivendo e incoraggiando il Papa al dialogo, ad andare avanti, ad avere pazienza, a non scoraggiarsi e, però, anche a rispettare i tempi. Non si possono risolvere situazioni esistenziali così diverse da noi, così lontane, a tavolino, in quattro e quattr’otto.

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Parolin: da Istanbul appello a mettere l’umanità al primo posto

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Si è parlato di milioni a Istanbul: milioni di persone in fuga da guerre, violenze, calamità naturali, persecuzioni, cambiamenti climatici. Sullo sfondo del Summit umanitario mondiale, però, vi è stato soprattutto il conflitto siriano, con le sue centinaia di migliaia di morti e i suoi milioni di rifugiati. L’appuntamento di questi due giorni nella città turca rischia però di passare sotto silenzio, e questo è il timore più forte delle centinaia di organizzazioni governative che vi hanno preso parte: che non si traducano in azioni concrete le dichiarazioni di intenti pronunciate dai leader politici presenti. Fiducioso che si possa arrivare a qualcosa di più delle semplici parole è il card. Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, che al vertice di Istanbul ha guidato la delegazione della Santa Sede. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato: 

R. – L’idea di convocare questo Summit è certamente stata un’idea positiva, proprio per le finalità che sono state assegnate all’iniziativa. E’ un’idea, quindi, da sostenere. Mi pare che i lavori, che si sono sviluppati in questi due giorni, stiano rispondendo in parte alle aspettative, soprattutto nel senso di rendere molto concreta la risposta e di non limitarsi soltanto alle parole o alle dichiarazioni, ma di tradurre tutto questo in iniziative ben precise, proprio in aiuto di coloro che soffrono. Mi ha molto impressionato, durante i lavori, come molti interventi, molte persone abbiano proprio insistito su questa concretezza, dicendo: “Non dobbiamo fare voli pindarici, ma dobbiamo dare delle risposte concrete”. Evidentemente questa sarà la sfida. Non possiamo dire adesso se ci saranno queste risposte. C’è la volontà di farlo, speriamo che si traduca… Ed è questa la sfida cui il Vertice è chiamato e che sarà anche la prova della sua efficacia, della sua validità.

D. – Punta anche a coordinare le azioni degli Stati e delle varie organizzazioni governative o non, che si occupano degli aiuti a queste persone. Questa forse è la parte anche più difficile…

R. – Certamente è la parte più difficile. Mi è parso, però, che da parte di molti ci sia questa volontà e questa intenzione: che ci sia un coordinamento, sempre in vista di questa efficacia della risposta. Naturalmente se la risposta è molto isolata e frammentata rischia di non raggiungere le persone che si trovano in situazione di difficoltà. Il fatto, quindi, di mettersi insieme, di riflettere insieme e di prendere degli orientamenti condivisi, certamente servirà a rendere molto più efficace questa risposta.

D. – Questo è stato un Vertice umanitario dove possiamo dire, forse, che la politica non è mancata, anche per i discorsi di alcuni dei relatori. Secondo lei, questo può aver danneggiato in qualche modo il senso dell’incontro?

R. – L’importante è “non buttarla in politica” - come si dice - anche se evidentemente la politica, nel senso più ampio del termine, è presente; superare anche le tensioni o le differenze che ci sono e trovarci uniti in alcune cose fondamentali. Credo che questo sia anche il senso e il richiamo del Vertice, cioè l’umanità al primo posto, al di là di quelle che sono le posizioni politiche. Il Vertice ha fatto questo sforzo, a mio parere, di andare al di là, anche se naturalmente qualcuno ha approfittato del microfono per ribadire le sue posizioni. Da parte di tanti, però, si è sentito proprio questo richiamo: andare al di là delle posizioni, delle differenze, delle contrapposizioni politiche per dare una risposta umana e solidale alle necessità di tanti uomini e donne che soffrono.

D. – Il messaggio del Papa, che lei ha letto durante la prima giornata di Summit, ha avuto un ritorno molto importante. Il Santo Padre ha usato parole molto forti e ha dato delle indicazioni precise…

R. – Sì, prima di tutto di imparare da coloro che soffrono. Io credo che questa sia la parte che più mi ha colpito del messaggio del Papa. Ha detto: “Se volete che il Vertice riesca, mettetevi dalla loro parte, imparate da loro e giudicate le cose dal loro punto di vista e con la loro sensibilità”. Mi pare che questo sia fondamentale. Poi, la centralità della persona umana. Questo è un messaggio che la Santa Sede e molte altre delegazioni hanno ribadito: la centralità della persona umana, ma della persona umana nella sua concretezza, nella sua singolarità. Quindi la persona che soffre, la persona che si trova nella necessità: il bambino, l’anziano, la mamma e così via. Ecco queste sono, quindi, indicazioni molto pratiche, che possono trovare un’applicazione concreta e un’applicazione anche politica.

D. – Qual è stato quindi l’apporto qui, al Vertice, della Santa Sede e quale sarà l’impegno futuro che la Santa Sede intende promuovere?

R. – Intanto, l’apporto è stato quello di dare un sostegno evidentemente, attraverso la presenza della nostra delegazione anche così riccamente composita, a questo Vertice. Volevamo appunto appoggiare tutti quegli aspetti positivi che questo Vertice, che questa Conferenza ha voluto esprimere. Per quanto riguarda l’impegno, lo abbiamo espresso al livello delle tre tavole rotonde, alle quali abbiamo partecipato. La prima era quella dedicata a porre fine ai conflitti attraverso la prevenzione. La seconda era quella dedicata ad osservare, rispettare le norme internazionali. Questo è   fondamentale. Credo che se davvero il Vertice riuscisse a far passare questa idea, che il diritto umanitario internazionale deve essere rispettato, sarebbe già un grande passo da parte di tutti: da parte degli attori statali e degli attori non statali. La terza era quella dell’educazione alla cultura della pace. Il mondo cattolico sta già dando risposte concrete alla situazione, alle emergenze umanitarie internazionali. Molte volte le istituzioni cattoliche, soprattutto quelle locali, sono le prime e poi, tante volte, ho sentito, restano anche le uniche a lavorare sul campo. Un pensiero, quindi, anche a tutti coloro che si impegnano e che si impegnano con molta determinazione, con molto entusiasmo. Io spero che questo Vertice e anche la presenza della Santa Sede, possa rafforzare la loro volontà di continuare a lavorare in favore di questi fratelli e sorelle.

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Tagle: nell’assistenza umanitaria, guardare i volti non le statistiche

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Al Summit Umanitario in corso a Istanbul partecipa in questi giorni anche il cardinale Luis Antonio Tagle, presidente di Caritas Internationalis. Al microfono di Linda Bordoni, l’arcivescovo di Manila si sofferma su tre punti per “ripensare” l’assistenza umanitaria ai più bisognosi: 

R. – A nome di Caritas Internationalis, propongo alcuni punti. Il primo è che dobbiamo riscoprire il volto umano delle vittime delle varie calamità del mondo, perché – purtroppo – non rimangano solo statistiche. Ogni profugo, ogni rifugiato è una persona umana, con sogni, dolori e anche aspirazioni per una vita dignitosa. Il secondo punto è il principio di sussidiarietà: adesso – purtroppo – le agenzie internazionali esercitano uno stretto controllo e decidono per le comunità locali. Noi dobbiamo, invece, rispettare la sapienza e la saggezza locali, l’esperienza, la conoscenza della cultura e i veri bisogni della comunità: questo è il rispetto del principio di sussidiarietà! L’ultimo punto è che non basta l’assistenza umanitaria: la comunità internazionale deve affrontare le radici dei conflitti e delle calamità, deve proporre soluzioni ai conflitti.

D. – Ha speranza per questo Summit? Crede che ci sarà un risultato positivo?

R. – Sì, speriamo, però con realismo, con realismo! Noi partecipiamo con gli occhi aperti, ma dobbiamo vedere gli altri passi che saranno fatti in futuro.

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Nomina episcopale di Papa Francesco nelle Filippine

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Nelle Filippine, Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Bacolod, presentata da mons. Vicente M. Navarra, per sopraggiunti limiti d’età. Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Bacolod mons. Patricio A. Buzon SDB, trasferendolo dalla sede di Kabankalan.

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Tweet Papa: Dio può riempire col suo amore i nostri cuori

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"Dio può riempire col suo amore i nostri cuori e permetterci di camminare insieme verso la Terra della libertà e della vita". E' il tweet pubblicato da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex in 9 lingue.

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Dublino 2018: Incontro delle famiglie occasione di rinnovamento

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“Il Vangelo della famiglia, gioia per il mondo”: è il titolo del  IX Incontro Mondiale delle Famiglie, che si terrà a Dublino, in Irlanda, dal 22 al 26 agosto del 2018. Titolo, data, e forme di preparazione sono state descritte nella conferenza stampa di stamani, in Sala Stampa vaticana. Ad intervenire, l’arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin e il presidente del pontificio Consiglio per la Famiglia, mons. Vincenzo Paglia. Un incontro importante, che cadrà a distanza di circa tre anni dal precedente, e dopo i due Sinodi dedicati alla famiglia e confluiti nell’Esortazione apostolica “Amoris laetitia”. Il servizio di Debora Donnini: 

Mons. Paglia: necessario un modo nuovo di accompagnare la famiglia
“Rinnovamento”, un modo nuovo di accompagnare la famiglia alla luce dell’ “Amoris laetitia”: è il concetto-chiave  attorno a cui ruota la conferenza stampa di presentazione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie, che si terrà a Dublino. Mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia:

“Certamente “Amoris laetitia” richiede un approfondimento, ma non è semplicemente l’invito ad aggiornare o a ripitturare la pastorale familiare delle diocesi. E’ molto di più: “Amoris laetitia”  richiede un nuovo modo di vivere la Chiesa, un nuovo modo di realizzare quell’amore che rende lieta la vita del popolo di Dio, delle famiglie stesse, ma anche della società”.

Mons. Martin: l'attenzione di Papa Francesco alla famiglia
In Europa la famiglia sta, infatti, soffrendo in maniera acuta e “celebrare la famiglia” è, quindi, un’occasione perché tutte le realtà, religiose e politiche, riscoprano la forza della famiglia, che è quella di essere “la prima palestra di una convivenza pacifica fra diversi”, dice mons. Paglia richiamando l’esortazione di Papa Francesco ad un’”Europa delle famiglie”. Magna Carta dell’incontro è, dunque, l’esortazione apostolica “Amoris laetitia”. Anche mons. Diarmuid Martin sottolinea come l’incontro rientri nel processo ecclesiale iniziato da Papa Francesco quasi immediatamente dopo la sua elezione. Basti pensare alla scelta di dedicare alla famiglia il primo Sinodo del suo pontificato. Ed è stato lo stesso Francesco a ricordare a mons. Martin, già al Sinodo del 2015, che “Dublino inizia oggi”:

“Nel pensiero di Papa Francesco, l’Incontro Mondiale delle Famiglie non è un evento isolato. Fa parte di un processo di discernimento e incoraggiamento, di accompagnamento e di animazione delle famiglie. Rientra in un programma di rinnovamento dell’attenzione pastorale per la famiglia e della cura pastorale delle famiglie”.

Mons. Martin auspica, quindi, che l’incontro sia una tappa fondamentale per l’applicazione dei frutti dei due Sinodi e dell’ “Amoris laetitia”. Sarà sicuramente anche un evento significativo per l’Irlanda, dice, che ha una popolazione giovane e con una forte cultura della famiglia, ma che vive il peso di una situazione economica precaria. L’auspicio è che, quindi,  i programmi di catechesi della Chiesa irlandese sul matrimonio e la famiglia, abbiano una trasformazione completa “in linea con quanto delineato in “Amoris laetitia”:

“Davanti alle numerose sfide di una mutevole cultura del matrimonio e della famiglia, la Chiesa è chiamata ad accompagnare le famiglie in modo nuovo per permettere alle famiglie di fare una più profonda esperienza della gioia del Vangelo vissuto nella famiglia”.

Preparazione e attesa dell'evento
In conferenza stampa, in seguito alle domande dei giornalisti, è anche emerso che il Papa desidera andare all’incontro ma il programma avviene vicino all’evento  e quindi bisogna aspettare. Sono attese poi circa 10-15mila persone . Sabato sera vi sarà il Festival delle famiglie e domenica la Messa. Centrale anche la preparazione all’evento con catechesi che, elaborate sulla scia di “Amoris laetitia”, saranno inviate a tutte le diocesi del mondo perché serve una preparazione mondiale e non solo locale. Vi saranno anche raduni dei movimenti familiari in preparazione all’evento che prevede anche incontri di famiglie di diverse tradizioni e religioni.

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A padre Rupnik il premio "Comunicazione e cultura 2016"

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L’incontro fecondo tra comunicazione e misericordia è stato al centro dell’incontro che si è svolto ieri nella chiesa romana di S. Maria in Montesanto. Un evento che fa parte delle celebrazioni del Giubileo della Misericordia per le comunicazioni sociali e in cui è stato assegnato il premio “Paoline Comunicazione e cultura 2016” a padre Marko Ivan Rupnik, autore del logo del Giubileo. Il servizio di Michele Raviart

“Siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti”, perché “la comunicazione ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’incusione, arricchendo così la società”. Così Papa Francesco nel suo messaggio per la 50.ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali introduceva il rapporto tra queste e la misericordia. Un incontro fecondo, in cui comunicare vuol dire condividere e quindi ascoltare. Mons. Dario Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione:

“Il Papa parla dell’’ascolto’ – ascolto che è un atto di umanità, un atto di incontro con l’altro. L’ascolto è anche un limite all’esondazione del sé, è un martirio di sé per dare voce e spazio all’altro. E l’ascolto sappiamo anche che raffina i sensi, perché quando si predispone attraverso il silenzio – parte integrante della comunicazione – allora la parola nasce da un radicamento profondo”.

Comunicare una visione della società radicata nella misericordia non è un’utopia, spiega ancora mons. Viganò:

“Significa raccontare i fatti aprendo sempre la possibilità di uno spazio di speranza, di orizzonte di futuro. Cioè, la comunicazione che è intrisa di misericordia è quella comunicazione che, pur denunciando il male, pur raccontando le ferite di una società e le distrazioni di un popolo, sa anche indicare l’orizzonte luminoso di un futuro, che è un futuro di accoglienza, solidarietà e dialogo. Anche la Rete è luogo di misericordia: questo ce lo ricordava addirittura anche Papa Benedetto, quando in qualche modo spiegava che c’è sempre il cuore di un operatore o il cuore di un cibernauta che deve prevalere sull’aspetto tecnologico. Comunque, sono persone che si parlano, si incontrano, e quindi anche in questo deve prevalere non la logica dell’emozione semplicemente, ma proprio il desiderio dell’incontro con l’altro, per aprire un desiderio, che è il desiderio di Dio”.

Compito dei media è, quindi, colmare le distanze tra centro e periferia, mentre per i giornalisti l’unica rivoluzione possibile è quella che parte dai cuori, in cui il “come” si comunica è importante quanto il “cosa”. Andrea Tornielli, vaticanista della Stampa:

“Io credo che, nell’ottica del giornalista, significhi scendere dal piedistallo del proprio io, del proprio pregiudizio, e tenere conto che si può ferire molto con la parola. E, possibilmente, credo significhi comunicare di avere sempre di fronte le persone in carne e ossa, non soltanto quelle a cui si comunica una notizia, ma anche quelle di cui si parla. Pensando, infatti, di averle sempre di fronte agli occhi, come se si fosse in quel momento insieme, credo si favorisca un tipo di comunicazione, un linguaggio, un atteggiamento che è sempre rispettoso della dignità delle persone”.

L’arte, come ogni comunicazione, è anche una forma di inclusione. Lo spiega padre Marko Ivan Rupnik, che per il logo del Giubileo della Misericordia ha scelto proprio un abbraccio, quello del padre che si carica sulle spalle l’uomo smarrito:

“L’arte vera è sempre espressione di una vita. E allora, se la vita ha esperienza di essere inclusi, di essere abbracciati in una comunione, abbraccia. Se un’arte è espressione dell’individuo, fa ammirare l’individuo, ma non abbraccia. Il grande poeta russo Ivanov, infatti, dice: “Ciò che si è, si fa vedere nelle relazioni”. E l’arte è una rete di relazioni. Romano Guardini diceva: “L’opera d’arte è uno spazio d’incontro, se io vado lì con un’apertura, abbraccerò qualcuno”.

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Idomeni: 600 migranti trasferiti, sfiducia e paura dei rimpatri

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La polizia greca ha iniziato all’alba a sgomberare il campo profughi di Idomeni, già annunciato giorni prima, e reso inaccessibile a media e volontari. Il trasferimento dei migranti in altri centri di accoglienza governativi costruiti con i finanziamenti europei, potrebbe richiedere al massimo dieci giorni e sta avvenendo lentamente, come ha dichiarato il portavoce del servizio greco di coordinamento della crisi migratoria, Giorgos Kyritsis. Si stima che nel campo al confine con la Macedonia si trovino più di 8 mila persone, la maggioranza delle quali sono famiglie bloccati in Grecia a causa della chiusura della "rotta balcanica". Un testimonianza diretta dal campo di Idomeni del giornalista Giacomo Zandonini intervistato da Valentina Onori: 

R. – Lo sgombero è iniziato questa mattina presto. Il campo è stato accerchiato, più o meno, da forze dell’ordine. Si dice che siano circa 200 gli agenti. In realtà, ad occhio, potrebbero essere anche di più. Le ultime notizie sono – quelle che anch’io ho visto nel campo – la partenza di numerosi autobus: sette almeno, quelli registrati fino adesso, ma probabilmente ne partiranno altri, perché le persone continuano ad uscire con i loro bagagli. Qualcuno, nonostante le difficoltà che ci sono in questo campo, vuole rimanerci, perché spera ancora di poter proseguire la strada e non si fida delle comunicazioni date dal governo rispetto agli altri centri in cui dovrebbero essere mandate le persone.

D. – Lo sgombero si sta effettuando in modo abbastanza calmo, senza tensioni?

R. – Le persone sono stanche di stare in un contesto di questo tipo e di rimanere bloccate qui. Ancora, però, c’è chi dice invece: “Io non mi muoverò mai”. Quindi potrebbero esserci delle tensioni nei prossimi giorni, quando si arriverà ad una situazione in cui rimarranno poche persone e non vorranno lasciare la zona.

D. – Dove verranno trasferiti?

R. – In campi governativi. In Grecia, nell’ultime mese, ne sono stati allestiti diversi con i finanziamenti europei. Sono tendopoli, come quella di Idomeni, solo che sono organizzate come una sorta di maxi campeggi; per il momento, chiaramente, non hanno ancora molti servizi. Sono situazioni ancora piuttosto difficili, in zone isolate. Ci sarà molto da fare per garantire un’accoglienza degna e poi un trasferimento verso altri Paesi europei.

D. – E’ anche questo un segnale verso i profughi che vogliono raggiungere l’Europa?

R. – Chiaramente è il segnale che la via qui è definitivamente chiusa. Poi ci sono probabilmente anche ragioni più pratiche di riaprire un collegamento via treno, che però è stato bloccato, perché il campo profughi sorge in gran parte sui binari del treno che arrivava in Macedonia. Di base, però, in ossequio alle disposizioni europee, la Grecia ha preso questa decisione, perché ha ottenuto dei finanziamenti per allestire questi campi, che dovrebbero essere temporanei, per poi distribuire le persone in altri Paesi europei. Qui ad Idomeni ci sono soprattutto persone che erano già qui e sono rimaste bloccate dopo che è stato definitivamente chiuso il confine ed è entrato in vigore l’accordo con la Turchia. C’è il rischio che alcune persone siano rimandate in Turchia, in base agli accordi con l’Unione Europea, e poi che la Turchia, eventualmente, come è già successo, li riporti nei Paesi di origine. Anche per questo motivo, qualcuno potrà non volere restare qui e cercherà di allontanarsi indipendentemente, probabilmente durante la notte. Come è già successo ieri notte, quando ancora non c’era questo cordone di polizia.

D. – Oggi com’è la situazione?

R. – Le persone sono piuttosto sfiduciate e non si fidano delle comunicazioni che gli sono state date dalle forze dell’ordine. Temono di essere rimpatriate. Non gli è stato detto cosa troveranno in questi campi, non gli è stato detto per quanto tempo potranno rimanere. C’è un grosso spaesamento. Le famiglie si sono insediate da mesi e hanno creato anche un loro habitat di vita, nonostante le difficoltà estreme, soprattutto climatiche e anche di sicurezza, in un posto che comunque non è una casa.

D. – Voi, quindi, eravate stati allertati già da ieri sera che ci sarebbe stato lo sgombero?

R. – Questo piano era nell’aria, perché da alcuni giorni giravano gli elicotteri ed ogni mattina c’erano dei richiami con gli altoparlanti in arabo per sgomberare, abbandonare il campo. Poi dall’alba di oggi è partita effettivamente l’operazione.

D. – Sono stati smantellati dei punti di riferimento del campo, come la scuola, che davano il senso di una apparente normalità. Qual è il sentimento che si prova lì?

R. – Di incomprensione, di rassegnazione in parte per non poter decidere della propria vita, essere sempre nelle mani di altri. Tutte le persone che vivono qui dicono che è stato fondamentale per loro il contributo dei volontari, che hanno poi effettuato dei servizi molto importanti, aiutando a ricercare quella dimensione di paese: che sia la scuola, che sia lo spazio per giocare dei bambini, che siano altre attività. Nei campi governativi non hanno questa presenza dei volontari, che sarebbe invece una risorsa molto importante, perché qui ha portato effettivamente ad un miglioramento della qualità di vita delle persone.

Nelle stesse ore 50 agenti austriaci sono stati inviati al Brennero per intensificare i controlli della frontiera e "contenere il numero di persone che entrano in modo irregolare nel territorio austriaco", cosi' si è espressa la Direzione della polizia tirolese. Una situazione sempre più ingestibile, sulla quale sembra prevalere la sovranità dei singoli Stati piuttosto che un programma europeo efficiente. Su questo aspetto, un commento del presidente di "Medici Senza Frontiere Italia", Loris de Filippi: 

R. – La Grecia in questo momento ha all’interno circa 50 mila persone che non è in grado di accogliere nella maniera più dignitosa. Anche le persone che verranno ricollocate da Idomeni non andranno in centri di accoglienza "a cinque stelle", con tutti i comfort. Molte di queste persone saranno mandate in Turchia, per poi, alcune di loro, essere ricollocate in uno dei 28 Stati membri. Siamo assolutamente contrari all’accordo europeo-turco e siamo preoccupatissimi per quello che succederà in Turchia, dove ci sono già 3 milioni di rifugiati all’interno. Mi sembra che l’Europa non cambi passo su questo argomento.

D. – Il problema è dei singoli Stati o dell’Europa, dell’Unione Europea?

R. – Io credo che un livello autarchico, come quello che hanno raggiunto i 28 Stati membri in questo momento, senza nessun tipo di cessione di sovranità, non ci sia mai stato negli ultimi anni. Il problema, quindi, dell’Europa sono sicuramente questi muri che vengono eretti all’interno di ogni Paese. Anche Schengen è messo in grave dubbio: molti Paesi ne chiedono perlomeno la sospensione di sei mesi. Ci rendiamo conto, quindi, di quanto le sovranità nazionali e gli egoismi nazionali pesino nei confronti della gestione di queste persone. Ricordo che è una situazione epocale. Forse noi non lo ricordiamo abbastanza, ma non è mai successo che 60 milioni di persone si mettessero in fuga dai loro Paesi.  

D. – Il programma di ricollocamento dei migranti in Europa è molto lento…

R. – L’anno scorso si era deciso, a giugno, di ricollocare dalle 28 alle 40 mila persone, dalla Grecia e dall’Italia verso l’Europa. Meno di mille persone, fino a questo momento, sono state ricollocate. Queste, quindi, sono un po’ le cifre che danno l’idea di quanto il tutto sia lento. Secondo me, un aspetto grave è che alle persone che oggi vengono spostate da Idomeni non si dica neppure dove andranno, quale sarà il loro campo di destinazione. Cosa che non è successa nemmeno con le organizzazioni che hanno lavorato nel campo di Idomeni e che hanno "messo un cerotto" ad una grave crisi umanitaria, creata dall’Europa stessa. Nemmeno noi siamo stati avvicinati per dire dove andranno queste persone.

D. – Non ci saranno vostri operatori nei nuovi campi profughi governativi?

R. – No, noi lo chiediamo con forza: noi vogliamo seguire le persone che abbiamo seguito ad Idomeni, per mantenere il nostro mandato umanitario, soprattutto il nostro collegamento a queste persone, che sono diventate una parte importante di noi. Se ci sarà impedito, faremo tutte le rimostranze del caso. In questo momento, però, la cosa grave è che nessuno sa dove andranno a finire queste persone.

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Siria. Fuggire o restare: il dramma di chi vive ad Aleppo

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Più di 330 civili, tra cui 74 minori, sono morti nella città di Aleppo, in Siria, negli ultimi 30 giorni. A denunciarlo è l'Osservatorio siriano per i diritti umani. Si tratta di persone rimaste uccise sia in raid delle forze governative sia negli attacchi sferrati dai ribelli alle zone occidentali della città sotto il controllo del regime, sia ancora nel quartiere a maggioranza curda. Sabato scorso un missile lanciato dai jihadisti ha colpito anche il Collegio di Terra Santa dei francescani, uccidendo una donna e ferendone altre due. La casa ospitava una ventina di anziani. Ascoltiamo al microfono di Adriana Masotti la testimonianza del superiore del Collegio e vicario della parrocchia di Aleppo, padre Lutfi Fìras

R. – Aleppo è la città più colpita della Siria, la più martoriata. Il nostro Collegio di Terra Santa, che accoglie tutti i cristiani di Aleppo, i bambini e i giovani, fino a pochi giorni fa, era l’unico posto in cui potevano almeno respirare aria pulita, stare tranquilli e giocare in santa pace. E invece sabato scorso siamo stati colpiti da un missile, che ha seminato il panico in tutte le persone che si trovavano qui. Questa casa ha offerto ospitalità per più di un anno a una ventina di persone anziane malate e queste persone erano già scappate da un bombardamento e da una morte imminente. Hanno bussato alla casa dei francescani e sono state accolte e ricevute con tanta tenerezza e tanto amore. Il missile è esploso e ha tolto la vita a una signora, René Saleh, ne ha ferite altre due…

D. – Voi notate anche una crescita del potenziale bellico dei jihadisti, in questo caso?

R. – Sì, prima lanciavano le cosiddette “bombole di gas”, fabbricate localmente: le lanciavano da una breve distanza, non più di 100-150 metri. E invece, con questo missile, si vede che c’è stato un salto di qualità; il messaggio che vogliono trasmetterci è che non c’è un posto dove non possono arrivare: quindi non c’è più un posto che sia sicuro al 100 per cento.

D. – In questa situazione, la gente va al lavoro?

R. – Un papà di famiglia deve andare al lavoro, perché, se non lavora, come mangia? E come può gestire la famiglia? È molto difficile andare avanti con il costo della vita altissimo: questo è stato elevato al massimo e ora mette in difficoltà anche la gestione quotidiana del mangiare, del bere e del vestirsi. Per non parlare poi del lato psicologico, dello stress e della paura. Cioè le persone sanno che, uscendo da casa, non si sa se torneranno tutti interi…

D. – I 2/3 dei cristiani che abitavano ad Aleppo hanno lasciato le loro case, e c’è il rischio veramente che la città si svuoti del tutto della presenza dei cristiani…

R. – I cristiani in Medio Oriente, in Siria, sono stati sempre all’avanguardia in tutto: nel campo intellettuale e anche in quello lavorativo. I cristiani hanno sempre dato un bellissimo contributo laddove il Signore li ha chiamati a vivere. Se le cose continuano così, purtroppo, sicuramente diventeranno una specie in estinzione. In Siria, prima del conflitto, ce n’erano quasi due milioni; adesso credo che il 60 per cento non ci sia più. E quel restante 40 per cento, se la violenza peggiorerà, sicuramente continuerà a lasciare le loro case e a scappare.

D. – Quando lei incontra una famiglia – le sarà capitato – che le annuncia l’intenzione o la decisione di lasciare il Paese, che cosa prova?

R. – Provo un’amarezza e una tristezza indescrivibili, non solo perché si svuota il Medio Oriente, ma anche perché la domanda è: dove andare? E come andare? Le ambasciate europee non rilasciano il visto ufficiale ad un siriano, che quindi deve prendere la via del mare e rischiare anche la morte. Queste persone, come è avvenuto con tante famiglie, sono state sfruttate, derubate di tutto, hanno venduto case, averi.. E questo per poter prendere una barca e, tramite la Turchia, arrivare in Grecia e quindi in Europa. Allora la domanda terrificante che ci viene rivolta con insistenza ogni giorno accanto ai razzi o ai missili è: “Padre, restare o partire?”. Ecco perché rilancio un invito alla comunità internazionale per un impegno veramente serio, a non lasciare questa gente, a non considerarla solo come numeri, ma a prendere atto, in maniera cosciente davanti a Dio, che questi sono fratelli e sorelle che soffrono. Ci auguravamo che questi incontri di pace, i negoziati, avessero almeno una visione, una proposta concreta, per mettere in pace l’animo dei siriani… Come si fa, sennò, a vivere e a rimanere, senza una ferma decisione di mettere fine a questa guerra?

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Austria: primo test elettorale per i populisti in Ue

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All’indomani dell'affermazione del presidente austriaco Alexander Van der Bellen sulla destra nazionalpopulista, è tempo di riflessioni sul futuro della leadership europea e non solo. Dal voto sulla Brexit in Gran Bretagna a giugno, alle parlamentari e presidenziali in Germania e Francia nel 2017, passando per la Casa Bianca con l’ipotesi Donald Trump, il fronte populista e anti-sistema potrebbe essere pronto a governare. Gabriella Ceraso ne ha parlato con Eleonora Poli ricercatrice di questioni europee e asiatiche dell’Istituto Affari internazionali: 

R. – Il rischio è una radicalizzazione della politica tramite la nascita e lo sviluppo di questi partiti di estrema destra, populisti che sono sempre esistiti ma che di solito si situavano nelle frange della politica, non certamente al centro degli scenari. E’ un fallimento dei partiti tradizionali che non riescono a dare risposte concrete ed è un fallimento dell’Unione Europea, ancora una volta, perché non è in grado di agire, di affrontare in maniera concreta la crisi sia economica sia sociale che stiamo affrontando.

D. – Il malcontento degli elettori,un malcontento trasversale, da qui a un anno e mezzo può arrivare a orientare, secondo lei, le politiche europee e non solo?

R. – Io credo che i partiti radicali rimarranno radicali e per tale motivo io stento a credere che riusciranno a fare un governo nella maggior parte dei Paesi europei, soprattutto per le nostre esperienze storiche. Tuttavia, lanciano sicuramente un segnale allarmante che i governi, al momento, devono prendere in considerazione in maniera più seria, e non solamente affrontando i problemi a livello nazionale, ma cercando di coordinarsi a livello europeo, di mettersi d’accordo. Manca la volontà di essere solidali tra un Paese e l’altro e manca soprattutto una serie di politiche economiche in grado di rilanciare veramente l’economia, partendo dal basso. E questo, appunto, dà la vittoria ai partiti populisti: la mancanza di risposte che i cittadini possano sentire come proprie.

D. – E infatti, molti di quelli che hanno votato la destra populista in Austria hanno detto oggi che volevano punire la politica dei grandi partiti: questo può essere valido anche per un Donald Trump alla Casa Bianca?

R. – Certo! Diciamo che il vantaggio di Trump sta proprio nel fatto che rompe con il mondo conservatore, rompe con il mondo tradizionale politico americano. Ma la stessa cosa, in positivo, il sindaco di Londra: rompe gli schemi, ed è questo che ha portato alla vittoria dei laburisti. E forse è proprio il momento per i partiti tradizionali di pensare a nuove strategie: semplicemente, adattarsi ai tempi che cambiano, perché se non saranno in grado di adattarsi, sicuramente spariranno dalla scena politica.

D. – E questo in termini di leadership sia in Europa sia nel continente americano, cosa può significare?

R. – Sicuramente in una situazione di forte crisi economica, di forte instabilità e di mancata sicurezza è un grande rischio. Un grande rischio, appunto, per il benessere europeo e dei cittadini americani. Si ricordi che quando gli Stati Uniti starnutiscono, tutto il resto del mondo si ammala! Per cui un trend negativo in America sicuramente avrebbe ripercussioni in Europa e nel resto del mondo.

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Nella Chiesa e nel mondo



20mila cattolici pregano a Sheshan per la Chiesa in Cina

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Migliaia di cattolici sono giunti in pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora di Sheshan, nel giorno della festa di Maria aiuto dei cristiani. Ma secondo una lista della diocesi di Shanghai, almeno 20mila pellegrini sono giunti a Sheshan in tutto il mese di maggio. Altri cattolici in Cina - riporta l'agenzia Asianews - pregano per la Chiesa nelle loro comunità locali. Forse per timore di un troppo vasto assembramento unitario, negli anni, molta polizia ha controllato il santuario e il governo ha permesso alla sola diocesi di Shanghai il pellegrinaggio il 24 maggio. Lo scorso anno i cattolici della metropoli hanno domandato che lo spiegamento di forze della polizia venisse ridotto.

Molti cattolici hanno organizzato anche dei gruppi via web
Dalla lista della diocesi, appare che dal 30 aprile al 29 maggio sono registrati pellegrinaggi da Ningbo e Taiyuan, con gruppi guidati da sacerdoti composti da poche decine fino a 2mila partecipanti. Quest’anno molti cattolici hanno organizzato anche dei gruppi via web per pregare per la Cina. E proprio nel web circolano alcune foto aeree della basilica di Sheshan, commentate da molte chat. I gruppi offrono preghiere per la protezione della Chiesa in Cina e per la guarigione degli ammalati. 

Pellegrinaggio solenne di Shangai l'11 maggio scorso
​La diocesi di Shanghai ha organizzato un pellegrinaggio solenne lo scorso 11 maggio, a cui hanno partecipato i fedeli, le suore, i sacerdoti, i seminaristi. Ma non era presente alcun vescovo. Il pellegrinaggio al santuario, posto in cima a una collina, si snoda con soste alle tre cappelle dedicate al Sacro Cuore, alla Vergine e a san Giuseppe. (V.A.)

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Card. Filoni a Guapi: sviluppate una forte coscienza missionaria

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“Dopo tanti anni di sofferenze dovute ai mali della violenza e della corruzione, è giunto il momento giusto per estirpare ogni male e perdonarsi reciprocamente, instaurando una cultura di pace e dando origine tra voi a dinamiche personali, familiari e comunitarie di riconciliazione”. E’ l’invito che il card. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha rivolto ai fedeli colombiani del vicariato apostolico di Guapi, sulla costa del Pacifico, che ha visitato ieri.

Con sacerdoti, religiosi e laici ha affrontato la realtà pastorale del vicariato
Prima della Messa celebrata nella cattedrale dell’Immacolata Concezione - riferisce l'agenzia Fides - il cardinale ha incontrato sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi e gruppi di apostolato nell’auditorium del Collegio San Josè, e si è soffermato con loro sulla realtà pastorale del vicariato e sui maggiori problemi da affrontare, come la pace, il rifiuto del conflitto armato, l’impegno per la giustizia sociale, lo sviluppo e la lotta alla povertà. Successivamente ha incontrato le autorità civili e militari, insieme ai responsabili degli organismi statali.

Esortazione a sviluppare la pastorale familiare
Nell’omelia della Messa, celebrata a mezzogiorno, il prefetto del Dicastero Missionario ha sottolineato che “Guapi è una Chiesa in crescita”, che deve dotarsi delle strutture necessarie e, soprattutto, di clero locale, per questo ha fatto appello “alla collaborazione di tutti, in tutti gli ambiti, anche quello economico e materiale”. “E’ necessario che si sviluppi tra voi una forte coscienza missionaria della Chiesa locale. Anche nella povertà si può far fronte alle esigenze del Vangelo e della Chiesa” ha affermato il cardinale. Guapi è una comunità giovane, per questo il card. Filoni ha esortato a sviluppare la pastorale familiare, “esortando i giovani ad una vita cristiana coerente con i principi del Vangelo”, perchè diano vita a famiglie autenticamente cristiane, fondate sul sacramento del matrimonio, come è stato voluto da Gesù Cristo, fedele e indissolubile.

Impegno pastorale verso i poveri e gli infermi
“La Parola di Dio, perchè possa realizzarsi nella nostra vita, dopo essere stata ascoltata e meditata, deve essere vissuta ogni giorno e ovunque ci troviamo – ha proseguito - . Trovando spazio in noi, ci evita di cadere in una vita in contrasto con la vita cristiana, incline all’alcol, alla droga, al gioco d'azzardo, al materialismo, e così via”. Infine il card. Filoni si è rivolto a tutti gli operatori pastorali, sacerdoti, religiosi e catechisti, raccomandando nel loro impegno pastorale una particolare attenzione ai poveri e agli infermi. (S.L.)

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Austria: auguri del card. Schönborn al nuovo presidente

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“Il nuovo presidente deve cercare di unire il Paese”: lo ha detto il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale austriaca (Öbk), alla luce dell’esito della votazione per l’elezione del Presidente federale che ha sancito la vittoria dell’indipendente Alexander Van der Bellen. “La campagna elettorale si è fortemente polarizzata, ha ribadito il porporato in una dichiarazione all’agenzia cattolica “Kath Press” ripresa dal Sir. Sono convinto che gli austriaci democratici siano maturi per agire cooperando. Questo sarà il primo impegno di promozione del nuovo Presidente”.

Cooperazione, responsabilità e rispetto tra politici e cittadini
L’arcivescovo di Vienna ha sottolineato come il nuovo Presidente, i cittadini e tutte le forze politiche interessate “siano sfidati nella ricerca del rispetto e della responsabilità”. “L’alta affluenza alle urne dimostra il forte rispetto degli austriaci per l’ufficio del Presidente – ha evidenziato il porporato – e ci si aspetta che egli rappresenti il Paese come parte della famiglia delle nazioni e sia un esempio di buona cooperazione”. Considerando la minima differenza nei risultati del ballottaggio elettorale, “sarà importante che il nuovo Presidente rappresenti più ciò che unisce, che ciò che divide”, ha aggiunto. “Auguro la benedizione di Dio al nuovo Presidente – ha concluso il porporato - auspicando buoni risultati per rendere sempre l’Austria un Paese stabile, libero e prospero” e per il suo ruolo “in Europa e nel mondo”. (I.P.)

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Israele: rabbini lanciano Campagna contro l'odio religioso

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L'associazione dei Rabbini per i diritti umani, con base in Israele, ha annunciato una nuova Campagna volta a sensibilizzare le forze politiche israeliane intorno all'emergenza rappresentata dagli attacchi contro obiettivi religiosi cristiani e musulmani compiuti dalle bande estremiste.

Campagna contro violenze e intimidazioni compiute da gruppi di coloni ultranazionalisti 
La Campagna di sensibilizzazione dei rappresentanti che siedono alla Knesset, il Parlamento dello Stato ebraico - riporta l'agenzia Fides - dovrebbe iniziare nei prossimi giorni, e sarà sostenuta da Tag Meir (“Distintivo Luminoso”), un cartello di organizzazioni impegnate nella lotta contro i crimini e le manifestazioni di odio religioso e razzista compiute in Israele. Fondata nel 2011, già nel nome l'organizzazione intende sottolineare il proprio porsi in totale contrasto con gli atti di violenza e intimidazione compiuti dai gruppi di coloni ultranazionalisti che negli ultimi anni hanno colpito in vari modi moschee o luoghi cristiani (Tabgha, Beit Jamal, Latrun, la Dormizione, ecc.), firmando i propri atti intimidatori con la formula “Price Tag” (il prezzo da pagare).

Molti dei crimini commessi dalla destra ebraica ultranazionalista rimangono impuniti
I crimini commessi da “Price tag” esprimono l'odio razziale della destra ebraica ultranazionalista, e rimangono sovente impuniti. In un documento diffuso da Tag Meir, vengono riportati i nomi di alcuni delle “dozzine di arabi che sono stati vittime di crimini d'odio, esclusivamente per il fatto di avere un aspetto arabo e /o di aver osato parlare arabo. “Queste vittime - riferisce il documento di Tag Meir - si aggiungono alle centinaia di vittime di attacchi cosiddetti Price Tag in Cisgiordania e in Israele, e comprendono cinque case abitate date alle fiamme negli ultimi due anni, 44 luoghi di culto bruciati e / o fatti oggetto di atti di vandalismo dal dicembre 2009, con alberi sradicati e centinaia di auto danneggiate. Inoltre ci sono stati gli efferati omicidi del neonato della famiglia Dawabsheh e di Mohammed Abu Khdeir (bruciati vivi, ndr)”. 

Questi gruppi oltranzisti ebraici incitano all'odio etnico e religioso
​Il documanto di Meir Tag ricorda anche l'ascesa dei gruppi oltranzisti ebraici che incitano all'odio etnico e religioso, come Lehava e La Familia, l'incendio doloso presso la scuola bilingue di Gerusalemme, e innumerevoli libri, articoli e iniziative pubbliche che alimentano il fanatismo attraverso i social network, comprese le esibizioni del rapper israeliano Yoav Eliasi, conosciuto con il nome d'arte “The Shadow”. (G.V.)

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Indonesia: Chiesa e società civile contro nuove esecuzioni capitali

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Un appello urgente e una campagna per fermare le nuove esecuzioni capitali pianificate dal governo indonesiano e annunciate come imminenti: è quanto stanno preparando, come riferisce l'agenzia Fides, organizzazioni cattoliche e gruppi della società civile indonesiana. Secondo le informazioni diffuse dalla polizia indonesiana, sono 15 i detenuti nel braccio della morte del carcere sull'isola di Nusakambangan, di fronte alla città di Cilacap (Giava Centrale), pronti a essere giustiziati. Si tratta di persone di diverse nazionalità: quattro cinesi, due dello Zimbabwe, due nigeriani, un senegalese, un pakistano e cinque indonesiani, tutti condannati a morte per reati di detenzione e spaccio di droga.

La Chiesa si mobilita contro le esecuzioni capitali
La Chiesa indonesiana, che più volte ha disapprovato pubblicamente il ricorso alla pena capitale, si è attivata: si terrà giovedì 26 maggio a Giacarta un summit di emergenza cui partecipano la Commissione "Giustizia e pace" della Conferenza episcopale indonesiana, la Comunità di Sant'Egidio-Indonesia e alcune tra le maggiori associazioni indonesiane impegnate in difesa dei diritti umani come Kontras, Imparsial, Elsam, Lbh Masyarakat.

La pena capitale è contraria alla dignità e al diritto alla vita di ogni persona
Mons. Ignazio Suharyo, arcivescovo di Jakarta e presidente dell'episcopato indonesiano, ha partecipato al seminario da titolo "La pena di morte ina una nazione democratica", organizzato il 18 maggio dall'università cattolica Atma Jaya a Giacarta. In vista delle nuove esecuzioni, l'arcivescovo ha ribadito a posizione della Chiesa, contraria alla pena di morte in nome della dignità e del diritto alla vita di ogni persona. "Le leggi non sono perfette e i giudici possono commettere errori. Quando si pensa che le leggi sono perfette, è l'inizio di ingiustizia", ha detto mons. Suharyo.

Campagna di coscientizzazione della cittadinanza per fermare le esecuzioni
Come riferisce una nota inviata a Fides, il leader della Comunità di Sant'Egidio-Indonesia, Teguh Budiono, che coordinerà l'incontro del 26 maggio, ha ringraziato l'arcivescovo, confermando in cui la Chiesa e la società civile chiederanno una campagna di coscientizzazione della cittadinanza, per fermare le esecuzioni. Giacarta è tra le 15 città indonesiane dove negli anni scorsi si è tenuta la manifestazione "Città per la vita, città contro la pena di morte", organizzata da Sant'Egidio in oltre duemila comuni nei cinque continenti. Nel 2015 il governo indonesiano, nonostante le pressioni internazionali contrarie, ha giustiziato 14 detenuti condannati a morte per reati droga. (P.A.)

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Costa d'Avorio: vescovi chiedono liberazione dei prigionieri politici

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“La riconciliazione esige la liberazione dei detenuti nell’ambito del conflitto svoltosi nel Paese; soprattutto, da questo punto di vista, nessuno può dirsi innocente. Per riconciliarsi occorre essere liberi; per essere liberi occorre avere libertà di movimento”: è quanto ha detto ieri mons. Ignace Bessi Dogbo, vescovo di Katiola, a nome dei vescovi ivoriani che hanno lanciato un appello, riuniti insieme a centinaia di fedeli, nella basilica di Nostra Signora della Pace, a Yamoussoukro. 

Il pellegrinaggio nazionale per il Giubileo della Misericordia
I presuli - nella capitale dal 17 maggio per la loro 104.ma plenaria - hanno preso parte ad un momento di preghiera nella cattedrale organizzato a conclusione del pellegrinaggio nazionale indetto per il Giubileo della Misericordia. Giunti sabato sera dalle 15 diocesi del Paese, circa 150 mila pellegrini di diverse etnie e di svariate culture hanno preso parte ad una veglia che è stata ritmata da canti, preghiere e riflessioni in un clima di comunione e condivisione.

La crisi post-elettorale del 2010-2011 e i prigionieri politici ancora in carcere
In tale contesto è stata invocata la scarcerazione dei prigionieri politici, reclusi in seguito alla crisi postelettorale del 2010-2011 che ha fatto esplodere violenze con oltre 3mila morti in 5 mesi. La Costa d’Avorio aveva vissuto un decennio di instabilità con la divisione tra nord - in mano ai ribelli - e sud - controllato dai sostenitori di Laurent Gbagbo (alla presidenza della Costa d’Avorio dal 2000 al 2011) - e il rifiuto del Presidente uscente Gbagbo di riconoscere la vittoria del rivale Alassane Ouattara alle elezioni del novembre 2010 ha provocato disordini e scontri. Il Fronte popolare ivoriano (FPI), creato da Gbagbo, parla di 300 persone detenute, mentre il governo ne dichiara tra le 140 e le 150. 

Favorire le iniziative per la riconciliazione nel Paese
Nel mese scorso Siméon Ahouana, presidente della Commissione nazionale per la riconciliazione e l’indennizzo delle vittime (Conariv), ha affermato che c’è un profondo malcontento e che occorre favorire le iniziative in favore della riconciliazione. L’appello dei vescovi è stato accolto positivamente dalla Fidhop (Fondazione Ivoriana per la tutela e la sorveglianza dei Diritti dell’Uomo e della vita Politica) che auspica un impegno congiunto fra cristiani di diverse confessioni e musulmani a favore della riconciliazione nazionale.

La 104.ma Assemblea plenaria dei vescovi
Mons. Alexis Touably, vescovo di Agboville e presidente della Conferenza episcopale ivoriana ha esortato i fedeli alla conversione e al sacramento della riconciliazione, invitandoli ad essere vigili e a privilegiare il bene. Della realtà socio-politico del Paese hanno parlato i vescovi nel corso della loro plenaria, svoltasi al centro diocesano di Yamoussoukro. All’ordine del giorno anche l’ordinario funzionamento della Chiesa ivoriana. La prossima plenaria dei vescovi è prevista dal 16 al 22 gennaio del 2017 a Katiola. (A cura di Tiziana Campisi)

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Messico: vescovo denuncia un rapimento durante la Messa

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Di fronte all'ondata di violenza che continua a colpire Veracruz, il vescovo della diocesi di Córdoba, mons. Eduardo Patiño Leal, non ha potuto fare a meno di dichiarare che "andiamo sempre peggio". Il vescovo, secondo quanto informa la nota ripresa dall'agenzia Fides, ha fatto riferimento al rapimento di un parrocchiano, padre di famiglia, in piena celebrazione eucaristica, avvenuto nella chiesa di Santa Rita da Cascia nel porto di Veracruz, sabato scorso, 21 maggio, quasi sicuramente a scopo di estorsione.

Profanazione di un luogo sacro; un atto contro la dignità di ogni cittadino
Il vescovo ha condannato il fatto, considerandolo un attacco alla comunità e anche una profanazione del luogo sacro, atto contro la dignità di ogni cittadino, bambino o adulto, perché questo fatto danneggia la loro salute fisica e psicologica. "Non è possibile che accadano questi fatti, allora le chiese non possono essere più luoghi di pace e comunione ?" ha detto mons. Patiño Leal, che ha aggiunto: "andiamo sempre peggio, i fatti parlano da sé, non c'è nessuno che può negarlo".

Il vescovo parla di possibili complicità
​Il vescovo di Córdoba ha fatto queste dichiarazioni in un breve colloquio con la stampa locale, domenica pomeriggio, durante il quale ha ribadito: "Come abbiamo detto mese dopo mese, da diversi anni, vogliamo la pace! Voi del governo, controllate perché non c'è sicurezza, perché troviamo liberi tanti delinquenti… quando accadono queste cose, evidentemente qualcuno non fa il proprio lavoro o addirittura ci viene da pensare che c'è una possibile complicità, soprattutto quando le cose accadono in pieno giorno, quando l'intera popolazione ha bisogno di pace per il lavoro, per le imprese, per la scuola". (C.E.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 145

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.