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Sommario del 27/05/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Orionini, Papa: cuore "nel cenacolo" e carità sempre in strada

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Portate in ogni ambiente “il profumo della carità di Cristo”, vigilando perché la fede non diventi ideologia e la carità sia ridotta a filantropia. Lo ha chiesto Papa Francesco ai membri del Capitolo generale della Congregazione di Don Orione, ricevuti in udienza nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Il servizio di Alessandro De Carolis

“I preti che corrono”, gli Orionini. Buoni samaritani sempre rapidi nella loro sollecitudine, perché chi aiuta gli emarginati è cuore e gambe sempre in movimento. Papa Francesco, a un certo punto del suo discorso, ripete il vecchio appellativo col quale venivano chiamati i preti dell’Opera fondata da don Luigi Orione agli inizi del Novecento.

La carità non diventi filantropia
Nelle ultime ore la Congregazione ha cambiato volto e governo. Con il nuovo superiore generale, Tarcisio Vieira, e i suoi consiglieri Francesco salda una lunga storia di missione e di servizio con l’oggi della Chiesa, riassumendo l’identità orionina nella qualifica coniata dal fondatore della famiglia religiosa: “Servi di Cristo e dei poveri”:

“Siete stati chiamati e consacrati da Dio per rimanere con Gesù e per servirLo nei poveri e negli esclusi dalla società. In essi, voi toccate e servite la carne di Cristo e crescete nell’unione con Lui, vigilando sempre perché la fede non diventi ideologia e la carità non si riduca a filantropia e la Chiesa non finisca, essendo una ong”.

L’amore è sempre sulla strada
Don Orione, ricorda il Papa, “vi raccomandava di ‘cercare e medicare le piaghe del popolo, curarne le infermità, andargli incontro nel morale e nel materiale”. Vi incoraggio a seguire queste indicazioni”, prosegue Francesco, che chiede di mantenere viva quella “particolare intraprendenza”, tipicamente orionina, nell’annuncio del Vangelo, qualità così importante, dice, “specialmente ai giorni nostri”:

“Ho saputo che, ancora vivente il Fondatore, in certi luoghi vi chiamavano 'i preti che corrono', perché vi vedevano sempre in movimento, in mezzo alla gente, con il passo rapido di chi ha premura. 'Amor est in via', ricordava san Bernardo, l’amore è sempre sulla strada, l’amore è sempre in cammino”.

Oltre i confini della carità
Pregate “per il mio servizio alla Chiesa, perché anch’io sia in cammino”, chiede Francesco alla Congregazione di don Orione, esortando i membri a curare la “formazione spirituale” e a testimoniare la “bellezza della consacrazione”, perché – afferma – “il religioso santo e contento suscita nuove vocazioni”:

“C’è tanto bisogno di sacerdoti e religiosi che non si fermino solo nelle istituzioni di carità – pur necessarie – ma che sappiano andare oltre i confini di esse, per portare in ogni ambiente, anche il più lontano, il profumo della carità di Cristo. Non perdete mai di vista né la Chiesa né la vostra comunità religiosa, anzi, il cuore deve essere là nel vostro ‘cenacolo’, ma poi bisogna uscire per portare la misericordia di Dio a tutti, indistintamente”.

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Tutela vita e migrazioni nel colloquio tra il Papa e il presidente costaricano

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Papa Francesco ha ricevuto in udienza il Presidente della Repubblica di Costa Rica, Luis Guillermo Solís Rivera, il quale ha successivamente incontrato il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, accompagnato da mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati.

“Durante i cordiali colloqui – riferisce la Sala Stampa vaticana - si è accennato alle buone relazioni fra la Santa Sede e il Costa Rica ed è stato espresso apprezzamento per il contributo che la Chiesa offre specialmente nell’ambito dell’educazione, della salute, della promozione dei valori umani e spirituali e nel campo delle attività caritative. Ci si è poi soffermati su alcuni temi di comune interesse quali la tutela della vita umana, nonché su alcune problematiche di particolare attualità, come la migrazione ed il narcotraffico. Infine, si è fatto cenno alla situazione regionale ed alcune questioni internazionali”.

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Corpus Domini. Il Papa invita a "spezzarsi" per gli altri

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Alla Messa per la Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, il Papa ha ricordato i santi, i genitori e i tanti cristiani che hanno "spezzato" la loro vita per gli altri, segno d'amore per il mondo intero. Numerosi i fedeli presenti al rito, celebrato sul sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano. Al termine, si è svolta la tradizionale Processione Eucaristica che, percorrendo via Merulana, ha raggiunto la Basilica di Santa Maria Maggiore. Qui il Papa ha impartito la Benedizione con il Santissimo Sacramento. Il servizio di Debora Donnini: 

Bisogna passare attraverso due piccoli gesti
“Fate questo in memoria di me”: sono le parole da cui Papa Francesco parte nella sua omelia per la festa del Corpus Domini. Nell'invitare i pellegrini a parteciparvi, all'udienza generale del mercoledì l'aveva definita come un “atto pubblico di fede e di amore a Gesù realmente presente nell’Eucaristia”. E, come di consueto, Papa Francesco parte dalla concretezza per dipingere il senso di questa Solennità. Ricorda Gesù che dice ai discepoli di “ripetere il gesto con cui ha istituito il memoriale della sua Pasqua”: fare l’Eucaristia ha sempre Gesù come soggetto, ma si attua “attraverso le nostre povere mani”, dice il Papa. Così anche davanti alle folle stanche e affamate del Vangelo proclamato, Gesù dice ai discepoli di dare loro stessi da mangiare i due pesci e i cinque pani, spezzati da lui. Proprio questo è “fare” con Gesù:

“E’ chiaro che questo miracolo non vuole soltanto saziare la fame di un giorno, ma è segno di ciò che Cristo intende compiere per la salvezza di tutta l’umanità donando la sua carne e il suo sangue. E tuttavia bisogna sempre passare attraverso quei due piccoli gesti: offrire i pochi pani e pesci che abbiamo; ricevere il pane spezzato dalle mani di Gesù e distribuirlo a tutti”.

Gesù chiede di "spezzarsi" per gli altri trovando forza nell'Eucaristia
L’altra parola che spiega l’esortazione di Gesù - “fate questo in memoria di me” - è “spezzare”. Una parola che si è declinata nella vita di “tutti i santi e le sante – famosi o anonimi – che hanno ‘spezzato’ se stessi  per ‘dare da mangiare’ ai fratelli”:

“Quante mamme, quanti papà, insieme con il pane quotidiano, tagliato sulla mensa di casa, hanno spezzato il loro cuore per far crescere i figli e farli crescere bene! Quanti cristiani, come cittadini responsabili, hanno spezzato la propria vita per difendere la dignità di tutti, specialmente dei più poveri, emarginati e discriminati!”.

La forza per spezzarsi per gli altri viene proprio dall’Eucaristia: “nella potenza d’amore del Signore risorto, che anche oggi spezza il pane per noi”, dice Francesco. Anche la Processione eucaristica, che segue la Messa, è un gesto “per dare da mangiare alla folla di oggi”, afferma il Papa, per spezzare “la nostra vita” come “segno dell’amore di Cristo per questa città e per il mondo intero”.

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Morte card. Capovilla, cordoglio del Papa. Il ricordo di Marco Roncalli

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Papa Francesco ha espresso il suo dolore per la morte del cardinale Loris Francesco Capovilla, spentosi ieri all’età di 100 anni. In un telegramma a mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, porge le sue condoglianze “all’intera comunità diocesana - di cui si sentiva ormai parte viva - alle Suore delle Poverelle di Ca’ Maitino in Sotto il Monte, che lo hanno amorevolmente assistito, ai parenti, agli amici e agli estimatori” del porporato. “Penso con affetto a questo caro fratello – scrive il Papa - che nella sua lunga e feconda esistenza ha testimoniato con gioia il Vangelo e servito docilmente la Chiesa, dapprima nella Diocesi di Venezia, poi con premuroso affetto accanto al Papa San Giovanni XXIII”, della cui memoria fu “custode e valido interprete”. Nel suo ministero episcopale, specialmente a Chieti-Vasto e a Loreto – conclude il Papa – “fu sempre pastore totalmente dedito al bene dei sacerdoti e dei fedeli tutti, nel segno di una solida fedeltà alla bussola del Concilio Vaticano II”.

Sulla figura del card. Capovilla, Fabio Colagrande ha intervistato Marco Roncalli, scrittore e giornalista, pronipote di Giovanni XXIII: 

R. – Noi ci siamo visti più volte in questi giorni e di fatto don Loris si è spento piano piano: era ricoverato dagli inizi di aprile, il crollo l’ha avuto a maggio però si può dire che fino all’altro giorno annuiva, cercava di bisbigliare … Io l’ho sentito molto attaccato alla vita, in questi giorni, ed era veramente circondato da tanta gente che gli ha voluto bene, che ha vegliato continuamente questa agonia che è durata tanto perché il suo cuore era molto forte. E comunque, sono contento perché l’abbiamo sentito – non solo io: tante persone si sono alternate in questi giorni, tanti amici – l’hanno sentito proprio mandare degli inviti molto belli, degli inviti all’amore reciproco, a stare uniti, a cercare il bene: quello che è la sostanza del Vangelo cristiano, lo stesso Vangelo su cui lui poi ha scommesso tutta la sua vita e che in qualche modo è riuscito a trasmetterci come qualcosa di gioioso.

D. – Tu hai parlato di una vera e propria simbiosi tra lui e Giovanni XXIII: in che senso?

R. – Simbiosi perché … dirò una cosa che raramente ho detto e che in qualche modo mi è stata in parte suggerita da lui: ogni tanto ci dimentichiamo che don Loris aveva perso suo padre a sette anni. Io credo che in Giovanni XXIII, oltre che trovare – certamente – il Pontefice che doveva e che ha voluto servire, in qualche modo lui abbia trovato anche un padre da amare. Ecco, in questo senso c’è stata questa grande simbiosi e credo che veramente presto saranno gli storici a dirci domani se ci sono state delle influenze reciproche; ma la simbiosi è nata proprio dal fatto che lui diceva: “Io, sì, sono stato segretario particolare”, tra l’altro, come sappiamo, è un ruolo che non c’era nemmeno prima di lui; “ma – diceva - io sono stato soprattutto il suo contubernale”. Chi è il contubernale? E’ proprio quello che fa la vita con te, che spezza il pane con te, che condivide con te le sofferenze, condivide con te le gioie … Ecco, in questo senso è stato molto, molto di più di un segretario: è stato una presenza continua accanto al Pontefice che aveva già imparato di fatto a conoscere prima del Pontificato nel suo quinquennio a Venezia.

D. – Capovilla è stato anche – come tu hai scritto – il custode dell’eredità giovannea, un ruolo che è stato importantissimo per la storia successiva della Chiesa …

R. – Certo: è stato importantissimo perché se Papa Giovanni buttava per caso un foglietto nel cestino, questo veniva recuperato in qualche modo da Capovilla. Sto esagerando, ma il concetto è questo. Capovilla ha scoperto gli scritti antichi di Giovanni XXIII durante il Pontificato; gli ha chiesto il permesso di pubblicarli, ha avuto questo permesso dal Papa che gli aveva detto: “Ma solo post mortem meam”, e da allora, di fatto, in parte da sé, pubblicandoli con continue e piccole ma molto preziose pubblicazioni, poi sempre inedite, un lavoro certosino che aveva iniziato subito dopo la morte del Pontefice e che è andato avanti per decenni, ma anche offrendo questo materiale agli studiosi, confrontandosi con gli studiosi, ha guidato generazioni sia di esperti ma anche di giornalisti, ossia di persone che hanno voluto lavorare proprio per far conoscere il vero Giovanni XXIII.

D. – Tu che gli eri accanto, qual era il suo pensiero, quali erano le sue idee circa il Pontificato di Papa Francesco?

R. – Non faceva altro che parlare di Papa Francesco, negli ultimi periodi, ed era la prima volta, perché sostanzialmente parlava sempre di Papa Giovanni. Aveva imparato a parlare di Papa Giovanni e di Papa Francesco; ha fatto in tempo a farsi leggere la “Laudato si’”, ha fatto in tempo a leggere l’ultima Esortazione apostolica sulla famiglia, lo seguiva sul piccolo schermo: pur non essendosi mai incontrati, credo che l’abbia veramente sentito vicino nella quotidianità. Di fatto, nel volto stesso, nei lineamenti, nelle indicazioni che arrivano da Papa Francesco, lui ha ritrovato Giovanni XXIII e ha capito anche di aver lavorato tanto non per custodire il passato, ma proprio per indicare questo orizzonte sempre più vicino di futuro.

D. – Un uomo che è scomparso a 100 anni, lasciandoci però un’eredità di slancio verso il futuro davvero incredibile …

R. – Sì, è così: aveva un secolo sulle spalle, però aveva il cuore di un bambino. Era capacissimo di tantissime attenzioni verso le persone più semplici, verso gli umili e credo che ci siano ancora tanti aspetti che impareremo a conoscere. Era veramente una persona che sapeva rapportarsi a tutti, che non ammetteva barriere, che non voleva sentir parlare mai di crociate, che capiva di appartenere alla stessa famiglia umana.

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Scholas. Del Corral: per Francesco l'educazione può cambiare il mondo

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Si è aperto oggi alla Casina Pio IV in Vaticano il congresso della Fondazione Pontificia Schola Occurrentes, nata a Buenos Aires oltre 15 anni fa per impulso dell’arcivescovo Bergoglio. L’evento che riunisce rappresentanti di 40 università di tutto il mondo si concluderà domenica pomeriggio con l’udienza di Papa Francesco. Nella sessione inaugurale sono intervenuti, tra gli altri, mons. Angelo Vincenzo Zani, segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica e mons. Macelo Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze. Alessandro Gisotti ha intervistato il direttore e fondatore di Scholas Ocurrentes, José María del Corral

R. – Cuando nace “Scholas”, nace haciendo una primera experiencia…
Quando nasce “Scholas”, nasce facendo una prima esperienza tra giovani delle scuole cattoliche insieme a giovani delle scuole ebraiche e giovani delle scuole musulmane. E questo è stato, di fatto, un po’ il primo compito, la prima sfida che mi è stata affidata quando tutto questo è nato, ormai 20 anni fa. Sono andato alla Comunità ebraica e ho chiesto se fosse stato possibile aiutarmi a formare un gruppo di giovani adolescenti ebrei; poi, con loro - con i giovani cattolici e i giovani ebrei insieme – siamo andati al Centro Islamico, in Argentina, e abbiamo formato un altro gruppo composto da musulmani: lì è nata la prima esperienza della “scuola vicina”, prima della crisi che ha vissuto poi l’Argentina. Questi giovani, insieme, cominciano a pensare progetti che avrebbero potuto affrontare questa crisi. La vita reale era quella che li educava! La vita quotidiana, la famiglia, la cultura … Per questo Bergoglio, quando - in quel momento - ha visto che i suoi ragazzi erano capaci di pensare insieme un progetto, malgrado vivessero in una società in cui gli adulti litigavano uno con altro; la gente scendeva in strada e si rischiava che se ne andassero tutti, disse: “Evidentemente il cambiamento profondo passa proprio per l’impegno dei giovani! E’ una bugia quella che sostiene che siano apatici e indifferenti!”. Una volta diventato Papa si è reso conto che la crisi non riguardava soltanto l’America Latina, ma che la crisi educativa e della gioventù era mondiale. Per questo ci ha convocato nuovamente il 13 agosto 2013: da questa “casa” viene lanciata giustamente la prima chiamata di “Scholas Occurentes”.

D. - Nel Seminario si presentano le “Cátedras Scholas”: può spiegarci questa nuova iniziativa?

R. – La “Cátedra Scholas” è uno spazio, è uno spazio in cui si incontra l’ambito accademico e della riflessione con l’ambito del lavoro e delle necessità che hanno le comunità educative, le scuole locali. Ci sono più di 500 progetti socio-educativi che sono già presenti nella rete; ci sono progetti che hanno a che vedere con la problematica dei rifugiati, che hanno a che vedere con le scuole che non hanno – per esempio – acqua potabile per i propri alunni o scuole che devono fare i conti con tutti i tipi di limitazione e che aspettano e hanno bisogno di accompagnamento e di aiuti. E’ per questo che abbiamo preso queste esperienze – queste 500 esperienze – affinché 42 università del mondo, di tutti i segni, di tutti le religioni, di tutti i continenti possano conoscerle e possano assumersi un impegno di 12 mesi, nel quale dire: “Voglio accompagnare questa esperienza con la mia università”. Crediamo che questo possa costruire un ponte effettivo e non basato solo su un dibattito, ma anche partendo dalla propria realtà. Quindi, partendo da questa esperienza, adesso, nel momento in cui nasce, e vedere quale sarà l’impatto, il risultato fra 12 mesi. Fra 12 mesi ci incontreremo di nuovi qui e ci diremo cosa è successo in questa esperienza.

D. – Quanto è importante il contributo di Papa Francesco oggi, dell’arcivescovo Bergoglio ieri, per la metodologia e per la pedagogia delle “Scholas”?

R. – Es esencial! Es como la vid con los sarmientos. Imposible de pensarlo ...
E’ essenziale! E’ come la vite con i suoi tralci… Sarebbe impossibile pensarle senza Francesco, la sua linfa permanente: settimanalmente dedica attenzione a tutto questo. E’ parte della sua vita quotidiana. E lo segue perché – come lui stesso ha detto – non è impegnato soltanto con la testa, “ma con tutto il mio cuore, con tutto quello che sono”. Il Papa crede infatti che se non cambiamo veramente l’educazione, non riusciremo a cambiare mai il mondo.

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Dal Papa il card. Muller e mons. Krebs

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e l’arcivescovo Martin Krebs, nunzio apostolico in Nuova Zelanda, Fiji, Isole Cook, Isole Marshall, Kiribati, Nauru, Palau, Samoa, Stati Federati di Micronesia, Vanuatu, Tonga; delegato Apostolico nell'Oceano Pacifico.

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Papa, tweet: Maria estende perdono di Dio a quanti lo invocano

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Maria è l’icona della Madre Chiesa che estende il perdono di Dio a quanti lo invocano”.

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Il card. Parolin conclude l'Anno Giubilare di San Filippo Neri

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Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha presieduto ieri, presso la Chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma, la Messa a conclusione dell’Anno Giubilare per il quinto Centenario della nascita di San Filippo Neri.  Insieme al porporato hanno concelebrato i vescovi oratoriani mons. Edoardo Aldo Cerrato, vescovo di Ivrea, e mons. Robert Byrne, ausiliare di Birmingham, e con loro padre Felix Selden, delegato apostolico della Santa Sede per l'Oratorio, padre Mario Alberto Avilés, procuratore generale della Confederazione degli Oratori, e numerosi sacerdoti oratoriani di tutto il mondo.

Una gioia contagiosa
Il cardinale Parolin ha iniziato la sua omelia con la celebre esortazione di San Filippo Neri: “Figliuoli, state allegri, state allegri. Voglio che non facciate peccati, ma che siate allegri”. “L'allegrezza e la gioia che caratterizzarono la vita di Filippo – ha detto - sono frutto dell'incontro con Cristo, con la sua Parola, con il suo messaggio di salvezza. Una gioia che è contagiosa, che si trasmette per contatto, per emulazione, per frequentazione”.  “In questo nostro mondo, dove sembra regnare l'egoismo, la tristezza e l'angoscia per il futuro – ha proseguito  - l'esempio di San Filippo Neri è quanto mai attuale, perché indica la via per giungere alla vera letizia del cuore: l'incontro con Cristo, l'unico che autenticamente può dare all'uomo la pace e la pienezza desiderate”.

Apostolo scomodo
“Apostolo, a volte anche scomodo ( … ) annunciava l'amore e la misericordia divina a quanti vivevano nell'indigenza, nel peccato, nella desolazione assoluta, a persone per le quali il termine speranza non aveva nessun significato. Si fece apostolo tra coloro che non solo erano lontani da Dio, ma neppure avevano il tempo di pensare che la redenzione fosse una possibilità alla loro portata. Questa massa di disperati trovò nel santo il motivo per ricominciare a sperare, per ritrovare la forza di iniziare un nuovo cammino”.

Una testimonianza credibile
Filippo – spiega il porporato – “non aveva formule magiche, non aveva il potere di cambiare le sorti di migliaia di miseri e di gente a cui mancava tutto, ma si fece uno di loro, si spogliò di tutto se stesso e condivise il loro cammino. Per questa solidarietà, la sua testimonianza lo rese credibile agli occhi dei suoi contemporanei e aprì una breccia nei loro cuori, molto più di migliaia di prediche e di rimproveri. Roma intera riconobbe nel santo un suo benefattore, uno che aveva dato una scossa morale, svegliando la città dal torpore spirituale in cui era caduta”.

Linguaggio comprensibile, senza elucubrazioni
“I giovani seguivano il santo perché parlava in modo comprensibile, sincero, senza remore, né elucubrazioni. Indicava loro che Gesù li ama, che vuole la loro salvezza, che li attende per renderli felici. Parlava della gioia e non reprimeva il loro entusiasmo giovanile, chiedeva solo che si divertissero, ma senza fare peccati. Distingueva il divertimento dal peccato, cosa non comune nella mentalità del tempo. E i ragazzi accorrevano a lui a frotte, perché si sentivano amati, protetti, incoraggiati, seguiti. Filippo non deluse mai le loro aspettative, anzi, si donò interamente a loro per farli crescere come cittadini e come cristiani. Voleva farne dei santi, perché considerava Cristo il tesoro più prezioso da trasmettere”.  

L'Oratorio, scuola di fraternità
“Filippo si può definire il prete per ogni epoca” e “grazie alla sua azione, la Chiesa ritornò a occuparsi della cura delle anime come sua priorità, con quella vicinanza ai fedeli che lo contraddistingueva. Il suo metodo di apostolato, improntato all'amicizia e alla relazione personale con Cristo, il richiamo alla misericordia e all'amore divino, fecero breccia nei cuori della gente”. “Da questa gioia e dall'esperienza di comunione con il Signore scaturì l'Oratorio. Questa realtà ecclesiale si caratterizza proprio per la gioia spirituale che per sua natura è contagiosa. L'Oratorio, infatti, si alimenta e trova la sua ragione d'essere  intorno alla mensa del Corpo e del Sangue di Cristo e alla mensa della Parola di Dio”. ”Nel reciproco affetto tra i suoi membri – ha concluso il cardinale Parolin - l'Oratorio testimonia che l'amore di Cristo supera ogni divisione e ogni differenza. E' una scuola per renderci tutti fratelli e figli dello stesso Padre”.

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Migranti, Vegliò: no ai muri, ma l'Europa comincia a capire

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I muri non servono per fermare i migranti. Lo ha detto il card. Antonio Maria Vegliò a margine dell’inaugurazione dei nuovi locali del Centro Astalli a Roma. Un’occasione anche per ribadire il ruolo importante di questa organizzazione nella Capitale, che ogni anno assiste più di mille richiedenti asilo. Alessandro Guarasci: 

Le tragedie dell’immigrazione si susseguono l’una dopo l’altra. E il rischio è che con l’estate le partenze aumentino. Il card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti:

“Non si risolve rimandando indietro, ributtandoli a mare o costruendo muri. L’Europa non sempre si è comportata in maniera egregia, però bisogna dire che ormai questo problema è entrato nella sua mentalità. Qual è la soluzione ideale? Che i Paesi poveri siano meno poveri; quindi l’Europa che è un continente ricco dovrebbe aiutare questi Paesi in loco. Per quelli che sono in guerra bisognerebbe che smettessero la vendita delle armi”.

E l’accordo tra Unione Europea e Turchia non fa altro che spostare i flussi. Ora è tornata ad alimentarsi la via che dall’Africa porta all’Europa tramite il Mediterraneo centrale, dice padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli:

“Bloccando una via d’accesso all’Europa se ne riapre un’altra. Quindi non è questa la soluzione. La soluzione al problema del fenomeno migratorio è complessa ovviamente ma una delle parti importanti è quella di creare dei corridoi umanitari”.

Ogni anno sono più di mille i richiedenti asilo che si rivolgono al Centro Astalli. Nigeria, Mali e Repubblica Democratica del Congo le nazionalità prevalenti. I locali nel centro di Roma sono stati restaurati col contributo della Bnl. Il presidente Luigi Abete:

“Noi come tutte le imprese di buon senso pensiamo che da un lato bisogna accogliere dando condizioni di civiltà a coloro che vengono accolti. Siamo lieti di poter essere parte di questo progetto e siamo impegnati a continuare a seguire le iniziative del centro, come nel passato anche nel futuro”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Come pane spezzato: alla messa del Corpus Domini il Papa chiede ai cristiani di ripetere con la propria vita il gesto di Gesù.

I preti che corrono: iI Pontefice invita gli orionini a uscire per portare a tutti la misericordia di Dio.

Senza lasciare traccia: in prima pagina un editoriale di Fausta Speranza sui minori migranti che si perdono all’arrivo in Europa.

Il demone del reportage: Gaetano Vallini sulla mostra del fotografo giapponese Domon Ken, autore della serie "Hiroshima".

La vita in gioco: Marco Dotti sul gioco d'azzardo.

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Oggi in Primo Piano



Visita storica Obama a Hiroshima. Presidente Usa: basta armi atomiche

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Vicinanza alle vittime e appello alla distruzione delle armi nucleari. Sono questi i passaggi fondamentali toccati da Barack Obama nello storico primo discorso, fatto da un presidente americano a Hiroshima. Obama ha anche incontrato una delegazione di sopravvissuti alla bomba atomica. Il servizio di Daniele Gargagliano: 

Obama è arrivato al Peace Memorial Park verso le cinque del pomeriggio ora locale. E' il primo capo della Casa Bianca, in carica, a visitare il luogo dove il 6 agosto del 1945 esplose la bomba atomica. “Anche le fratture più dolorose possono essere ricomposte”, ha detto il presidente americano, che lanciato un nuovo appello per la distruzione di tutti gli armamenti nucleari nel mondo e ricordato le vittime di Hiroshima e Nagasaki, senza però chiedere scusa. Obama, nel chiudere un cerchio sulla questione del disarmo nucleare - dopo il suo primo discorso nel 2009 a Praga che gli valse il Nobel per la pace - ha riconosciuto come questo non basterebbe a garantire la cessazione delle guerre, come del resto, le sole parole non bastano a risarcire il dolore dei parenti delle vittime della bomba atomica.

Sulle parole dello storico discorso di Barack Obama il commento di Giuseppe Mammarella, professore emerito della Stanford University in California. 

R. - Queste sono un po’ le ultime battute della presidenza Obama. Il presidente si è dedicato in modo particolare alla politica internazionale, soprattutto negli ultimi tempi e in particolare nelle aree più delicate per la politica estera americana: il Giappone e il del Sud Est asiatico. Quindi questo è importante, anche se quelle famose scuse di cui molti hanno parlato in passato non sono state fatte, perché l’opinione pubblica americana non è pronta a questo. Recentemente c’è stato un dibattito negli Stati Uniti – molto contenuto tutto sommato – dove sono state riconfermate, ribadite quelle che sono le ragioni americane riguardo l’uso della bomba atomica. La ragione è stanzialmente quella di avere risparmiato delle vite umane, perché una continuazione della guerra sarebbe costata molto di più in termini di vite umane. Questa visita di Obama si avvicina molto ad una scusa. Ha fatto un discorso molto aperto; ha detto: “Siamo qui per piangere centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini giapponesi”, ha abbracciato un sopravvissuto del bombardamento di Hiroshima e ha deposto una corona di fiori sul Memoriale, specificando “A suo nome”. Inoltre, ha visitato questo famoso centro “shinto”, simbolo della spiritualità giapponese, ma al tempo stesso, è anche uno dei simboli dei nazionalismi giapponesi. Ha cercato di dare una serie di compensazioni, di soddisfazioni al Paese che, invece, si aspettava una scusa per i fatti di Hiroshima e Nagasaki. Sostanzialmente, ha riconfermato quelle che sono le posizioni americane storiche e militari.

D. - Obama oggi chiude il cerchio. Il primo discorso a Praga, nel 2009, per il disarmo nucleare che gli valse il Nobel ed oggi l’appello finale della sua presidenza a Hiroshima. Cosa è cambiato sul fronte del nucleare?

R. - I risultati sono tutti da vedere. Quello che sta succedendo, per esempio, in Nord Corea, dove ogni tanto si verifica un’esplosione nucleare, dimostrerebbe che queste richieste di Obama non hanno avuto un grande successo. Anzi, proprio durante questa visita, ha fatto un riferimento a certi Paesi che assumono delle “posizioni da bulli”. Evidentemente, è un riferimento alle politiche nord-coreane e, al tempo stesso, è forse un invito a Pechino a cercare di premere sul suo alleato per evitare certe manifestazioni ed espressioni.

D. - L’incontro di oggi rafforza ancora di più i rapporti diplomatici tra Giappone e Stati Uniti. Quale lettura dare, nell’ottica degli equilibri geopolitici in Asia?

R. - Direi che questo fa un po’ parte di quella che si può ribattezzare “politica del contenimento” del dinamismo cinese della zona. Tra l’altro, alcuni mesi fa è stato anche preceduto da quel trattato di carattere commerciale – da cui la Cina è stata esclusa – che lega il Giappone agli Stati Uniti e ad una decina di Paesi dell’area. C’è un aspetto politico e militare, perché non ci dimentichiamo che la visita di Obama in Giappone è stata preceduta da una visita nel Vietnam e da un accordo per il riarmo del Paese, nel senso che alcune proibizioni che riguardavano la vendita di armi per il Vietnam sono state sospese. Il trattato prevede anche la creazione di alcune basi americane nel Vietnam. L’Australia si sta riarmando; recentemente ha comprato un certo numero di sottomarini. Il Giappone sta facendo lo stesso. Gli Stati Uniti hanno messo in cantiere  nuove portaerei e la Cina sta sviluppando missili anti-portaerei. C’è una situazione di tensione a cui l’America cerca di rispondere con la politica del contenimento, cioè creando intorno alla Cina una serie di alleanze economiche, politiche e militari in modo da mantenere una situazione di equilibrio nella zona ed indurre il colosso asiatico ad una politica meno aggressiva.

D. - Quale eredità aspetta a chi verrà dopo Obama sul tema degli armamenti nucleari?

R. - Questa politica della limitazione degli armamenti nucleari è condivisa da tutti i grandi Paesi, almeno sul piano formale, perché c’è un trattato da rispettare. Anche la prossima presidenza americana sarà legata necessariamente a questa politca. Questo dipende anche dalla volontà del presidente di attuare o di sottolineare certi impegni invece, magari, di attenuarli. Quindi è un grosso punto interrogativo.

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G7: crescita economica mondiale è priorità, migrazioni sfida globale

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La crescita economica mondiale è una priorità, la crisi dei rifugiati necessita di una risposta globale ma i conflitti geopolitici, il terrorismo e i flussi migratori complicano lo scenario. E’ su questo intreccio tra obiettivi e minacce che i leader del G7 focalizzano la loro attenzione nel comunicato finale al termine del vertice tenutosi in Giappone. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

La priorità è la crescita economica mondiale. Per questo “è necessario ogni strumento fiscale, monetario e strutturale” per sostenere la “domanda globale” ed evitare shock, come l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma sono molteplici i fattori destabilizzanti. Per i leader del G7 una delle piaghe che condizionano la scena internazionale è il fronte dei conflitti. E sono soprattutto il Nord Africa e il Medio Oriente le regioni a destare maggiore preoccupazione.

Siria, Iraq e Libia
I leader mondiali, riferendosi alla Siria, chiedono alle parti in causa di rispettare la tregua e condannano le violazioni, soprattutto nella zona di Aleppo, da parte del regime siriano. Per quanto riguarda l’Iraq, si richiede all’esecutivo iracheno di “accelerare sulla strada delle riforme politiche ed economiche” e di “favorire un clima di riconciliazione nazionale”. Viene poi ribadito il sostegno, in Libia, al governo di unità nazionale di Sarraj, definito “il solo e legittimato” esecutivo libico.

Terrorismo
Altre gravi crisi che destabilizzano lo scenario mondiale sono legate al terrorismo. La pace e la sicurezza – scrivono i leader del G7 – sono minate dagli attacchi e dalle atrocità commesse dai miliziani del sedicente Stato islamico, da Al Qaida e da altre organizzazioni. La priorità è di bloccare le fonti di finanziamento. Per questo – si legge tra l’altro nel documento – i riscatti “non devono essere pagati”. Tra le sfide più urgenti, viene anche indicata quella di garantire la sicurezza dell’aviazione civile.

Migrazioni
Un’altra sfida cruciale che richiede “una risposta globale” è quella dei flussi migratori. Per i leader del G7 bisogna aumentare l’assistenza e sostenere i rifugiati. Ma si devono individuare le cause che alimentano tale fenomeno. Tra queste, sono indicate la fragilità, l’insicurezza, i flussi demografici e fattori economici ed ambientali. Si incoraggiano, infine, “l’ammissione temporanea” e gli schemi di ricollocamento “per alleviare la pressione dei Paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati”.

Il terrorismo è  una delle piaghe ricordate dai leader mondiali. Si tratta di un fenomeno che non si sradica solo attraverso operazioni militari. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco il presidente del Centro Studi internazionali Andrea Margelletti

R. – Il terrorismo è la manifestazione di un disagio in numerose parti del mondo e non lo si può eliminare se non se ne eliminano le cause. Non è una questione tecnica che può essere sconfitta unicamente attraverso l’utilizzo delle forze di polizia o delle forze armate. L’eliminazione del terrorismo potrà avvenire soltanto – fermo restando che ho difficoltà ad immaginare che il terrorismo possa essere sempre e totalmente sconfitto – attraverso una serie di passi che dovranno riportare la politica al centro del dibattito internazionale. Non si deve prevedere soltanto l’utilizzo, a volte anche superficiale, delle forze armate.

D. – Secondo i leader mondiali, tra le priorità per sconfiggere il terrorismo c’è quella di bloccare le fonti di finanziamento. Per questo – si legge tra l’altro nel documento – i riscatti non devono essere pagati …

R. – Oggettivamente, il discorso sui riscatti che si fa da molti anni è straordinariamente ipocrita. Bisogna ricordare che pagano tutti! Ma il vero punto è: l’opinione pubblica che cosa desidera? O l’opinione pubblica dice: non si dialoga con nessuno, e se uno viene rapito lo lasciamo al suo destino e muore, oppure occorre negoziare. Altre vie non ce ne sono. Però bisogna avere il coraggio di dirle, le cose, altrimenti si chiede ai servizi di intelligence di risolvere un problema e, contestualmente, li si maledice per come l’hanno risolto. E questo – onestamente – non è serio.

D. – Un’altra sfida cruciale, secondo i leader mondiali, che richiede una risposta globale è quella dei flussi migratori. Migrazioni che in parte possono essere legate anche al terrorismo?  Il terrorismo può sfruttare le migrazioni? Anche qui occorre molta accortezza …

R. – Io credo che il vero problema sia quello della radicalizzazione nei Paesi in cui poi i migranti vanno a vivere, più che mettere il terrorista sul barcone, come alcuni vorrebbero. Ma è difficile pensare che un continente di circa 600 milioni di persone come l’Europa, un continente straordinariamente ricco di risorse umane, culturali, morali ed economiche, abbia difficoltà ad integrare qualche milione di persone. Il vero problema è che noi non abbiamo un’Europa politica, ma tanti Stati riottosi che non vogliono sentire i problemi degli altri.

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Al Brennero domani le croci di Lampedusa, contro i muri europei

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Continua l’opera di salvataggio di migranti nel canale di Sicilia. In 4.000 negli ultimi due giorni sono sbarcati sani e salvi mentre oltre un centinaio non ce l’ha fatta. Diciannove le nuove operazioni in corso, mentre stasera a Pozzallo sono attesi circa 700 nuovi arrivi. E dalla Sicilia un simbolo delle tragedie del mare arriverà domani in un luogo altrettanto importante: prima Bolzano e poi il valico del Brennero. Tre croci realizzate a Lampedusa col legno dei barconi, saranno consegnate oltre confine. Il servizio di Gabriella Ceraso

Franco Tuccio, il falegname lampedusano che nel 2009 ha raccolto le assi di legno rimaste sulla spiaggia dai tanti barconi abbandonati dopo i naufragi, e ne ha fatto delle piccoli croci, sarà da domani conosciuto anche su quella frontiera che pare di migranti non volerne proprio sapere. Il gesto, che vedrà protagonisti gli Scout, è una reazione pacifica della società civile cattolica alle tentazioni di chiusura austriache e europee. Un “gesto di unità importante” dice il direttore nazionale Agesci, Matteo Spanò, spiegandone le origini:

"Un anno fa, a giugno, Papa Francesco nell’udienza in cui ha ricevuto la nostra Associazione ci ha chiesto di non costruire muri ma di costruire ponti. I ragazzi con la loro volontà hanno fatto questo da Lampedusa al Brennero portando la loro bellezza e capendo oggi che c’è necessità di costruire novità anche in questo tema".

In 50 cm, tanto misurano le tre piccole croci che arrivano domani al Brennero, c'è dunque un significato profondo. "Sono simboli di speranza dai quali bisogna lasciarci coinvolgere", dice il vescoo di Bolzano, Ivo Muser, che domani benedirà le piccole croci in arrivo:

"È veramente un segno di condivisione, di solidarietà e anche di corresponsabilità nell’ottica di un’Europa solidale. Penso sia anche un appello contro l’indifferenza. Dobbiamo aprire gli occhi e soprattutto il nostro cuore".

Delle tre piccoole croci, una resterà agli Scout italiani, un'altra sarà consegnata alla parrocchia di confine del Brennero e l'altra a un gruppo di Scout austriaci, in un vero e proprio passaggio di consegne. Ancora Matteo Spanò:

"Questi ragazzi scriveranno proprio a Lampedusa una lettera alle istituzioni europee in cui ricorderanno la bellezza dello stare insieme e non quello che ci manca o che ci divide".

Intanto, tutta la chiesa del Nordest segue con apprensione la difficile questione della gestione dei flussi migratori, chiedendo all'Europa la garanzia del rispetto del valore e della dignità di ogni persona. Ancora mons Muser:

"Certamente, ci sono dei timori, delle ansie, all’interno della nostra popolazione, ma tutti questi timori non devono essere utilizzati come mezzo politico contro i profughi. Certamente, non esistono soluzioni semplici ma sono profondamente convinto che ci possa essere soltanto una soluzione comunitaria. Questi avvenimenti molto dolorosi devono coinvolgere tutti noi: la politica, la società civile e, certamente, anche la realtà ecclesiale".

Il Papa nel messaggio inviato a Istanbul al vertice umanitario dell'Onu ha detto una frase che ha colpito tutti:"occorre mettersi dalla parte di chi soffre". Mons Muser, la ritiene una cosa possibile oggi?

R. – Deve essere la logica e l’ottica del Vangelo. Il Vangelo si schiera – e in questo senso è altamente politico – dalla parte di coloro che non hanno una voce, che non contano, che per le nostre società – anche ricche – non sono importanti, ma il Vangelo si schiera: è questa l’ottica della fede, l’ottica di Gesù.

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Scienza e Vita: inverno demografico, dati allarmanti

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"Femminilità e bellezza, nati da donna". È il tema del 14.mo Convegno nazionale di Scienza e Vita, incentrato sull’educazione alla fertilità, la custodia del corpo femminile e la difesa della maternità. Questioni di grande attualità, anche alla luce dei recenti dati dell’Istat che confermano un inverno demografico senza precedenti. La due giorni che si apre oggi a Roma è introdotta dal segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, e dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che fa il punto sul Piano nazionale per la Fertilità. Sull’importanza di questa iniziativa, Marco Guerra ha intervistato la presidente di Scienza e Vita, Paola Ricci Sindoni: 

R. – Vogliamo aderire al progetto del ministero della salute che già dall’anno corso ha aperto questa grande e importante percezione sociale della maternità. Siamo in pieno deserto demografico: il ministro della Salute ha pensato bene di “spendere” un anno intero coinvolgendo tutte le associazioni – quelle maggiormente interessate ai problemi della vita – per individuare alcuni nuclei tematici, sia da un punto di vista culturale sia quelli più legati ad una progettualità di tipo politico.

D. – Cosa prevede nel concreto questa iniziativa e perché ce n’è bisogno?

R. – Ce n’è bisogno, come dicevo, perché i dati sono veramente allarmanti. E’ vero che il problema demografico è un problema europeo, occidentale, ma l’Italia – ahimé! – è al primo posto: non si riesce più a gestire il cosiddetto “ricambio generazionale”. Da qui la necessità, appunto, di trovare tutti i modi per riportare la questione della fertilità all’interno di un progetto di vita della donna. Donna che, arricchita in fondo anche da modelli culturali che l’hanno portata all’autorealizzazione, dimenticando però quel tempo della fertilità e procedendo in avanti alla programmazione di un figlio. Questo, naturalmente, provoca degli squilibri sociali che il Ministero ha messo in luce e che noi, come tante altre associazioni, abbiamo tentato di focalizzare così da dare non solo qualche suggerimento, ma anche per recuperare una nuova cultura del femminile.

D. – Si tratta di una sfida da affrontare anche in coppia, uomo-donna, che restano complementari nella creazione di un amore fecondo e di una vita nascente …

R. – Assolutamente sì. La donna di per sé non solo ha bisogno, da un punto di vista fisiologico, del maschio, dell’uomo per poter avere figli, ma tutta la dimensione sociale e anche personale ha bisogno di recuperare una dimensione di relazione e di reciprocità, in funzione proprio di questo tema: il tema della fertilità.

D. – L’inverno demografico che attanaglia l’Italia e tutto l’Occidente è dovuto anche a questioni economiche. Sappiamo quanto ha influito la crisi e la difficoltà di accesso al lavoro peri giovani… Servono quindi sia aiuti sul piano economico, sia una giusta visione antropologica dell’essere umano. Questi due piani possono essere percorsi di pari passo?

R. – Sia le politiche familiari, sia una diversa percezione del proprio corpo da parte della donna debbono camminare insieme: sono circuiti virtuosi. Faccio un esempio: se anche lo Stato proponesse altissime cifre per rimettere in funzione la catena generazionale ma non ci fosse una forte motivazione da parte della donna, non so se appunto questo progetto potrebbe partire. Da parte della donna ci vuole una nuova cultura del proprio corpo. Cosa voglio dire? Non è – come si diceva nei tempi del femminismo un po’ radicale – “il corpo è mio e lo gestisco come mi pare”, ma il corpo è un corpo vissuto, quindi rispecchia anche le proprie attitudini, i propri progetti anche per il futuro. Questo vuol dire che il corpo va rispettato: non è una materia che tu hai, che puoi gestire come vuoi. Il corpo vuole che la donna gestisca il tempo: significa accettare l’idea che c’è un margine mediante il quale è possibile gestire la fertilità, e che quindi è necessario riportare le donne a rivedere anche i propri progetti in funzione di una maternità che viene accolta perché il corpo è pronto.

D. – Certo, anche lo Stato potrebbe agevolare questo processo, visto che l’accesso al mondo del lavoro è sempre più ritardato anche per le donne…

R. – Certo. Ma oltre al diritto al lavoro, forse ci sarebbe bisogno anche di un diritto che è all’interno del lavoro. Ad esempio, l’idea che la donna possa lavorare anche part-time, che il lavoro possa rispettare i tempi della donna. Una donna arriva al momento di accettare un lavoro e spesso viene esclusa perché aspetta un figlio, queste sono dinamiche che dovrebbero essere messe da parte.

D. – Anche Papa Francesco è tornato spesso sull’ecologia umana; quindi, quanto è importante riscoprire i tempi del proprio corpo, il dato naturale, il dato biologico?

R. – E’ importantissimo, perché mentre si fa tanta retorica animalista, naturista per cui si cerca di ritornare al cibo assolutamente privo di ogm, da un lato c’è questo ritorno, questo rispetto della natura; dall’altro si fa fatica, invece, a considerare che anche noi siamo natura. Ma siamo sia natura sia cultura: ed è qui che va riscoperta la dimensione propria del ritorno a una natura che abbia rispetto, appunto, per il proprio corpo.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi giapponesi: esame di coscienza su responsabilità del passato

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"Una piacevole sorpresa” che può contribuire “a sviluppare il desiderio di molti giapponesi di bandire le armi nucleari”: così mons. Tarcisio Isao Kikuchi, vescovo di Niigata, commenta la visita di Barack Obama nel Paese nipponico, in particolare ad Hiroshima.

Vera pace si raggiunge con esame di coscienza
“La vera pace – aggiunge mons. Isao – non può essere raggiunta senza un vero e proprio esame di coscienza sulle responsabilità del passato”. “Qualsiasi azione per un mondo senza armi nucleari è auspicabile e benvenuta – conclude il presule – ma non si può andare avanti senza una riflessione matura sugli insegnamenti che ci ha lasciato la seconda Guerra mondiale e sulle misure da adottare oggi, per preservare la pace”.

Rinunciare alla guerra
Come è comprensibile, il tema del disarmo nucleare sta particolarmente a cuore alla Chiesa cattolica giapponese: negli anni 1995, 2005 e 2015, in occasione rispettivamente del 50.mo, 60.mo e 70.mo anniversario del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki e della fine del secondo conflitto mondiale, i presuli nipponici hanno costantemente ribadito il loro impegno non solo a favore della pace, ma anche della rinuncia alla guerra. Più di recente, in un documento del 7 aprile scorso, i vescovi hanno reiterato la loro posizione, denunciando l'entrata in vigore, il 29 marzo 2016, di due leggi che danno la possibilità, all'esercito giapponese, di sostenere un alleato in difficoltà in un conflitto straniero. In tal modo, viene aggirato l'articolo 9 della Costituzione che vieta al Giappone l'uso della forza per risolvere le controversie internazionali.

Riconciliarsi con la preghiera e non con gli eserciti
“La sofferenza causata dalle armi nucleari va al di là di ogni parola – hanno sottolineato i presuli -  Facciamo in modo di non ripetere quegli errori, ma piuttosto come cittadini del nostro tempo e come cristiani, pensiamo seriamente a ciò a cui chiamati. Attraverso la preghiera, piuttosto che attraverso le forze armate, andiamo avanti per costruire una pace basata sulla fiducia reciproca”. (I.P.)

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Egitto: condanna per attacco estremista ai copti di Minya

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Sette case e negozi appartenenti a cristiani copti date alle fiamme e saccheggiati, un'anziana cristiana insultata, picchiata e infine denudata in pubblico da una banda di assalitori inferociti. E' questo il bilancio provvisorio della nuova fase di violenze settarie a danno dei copti esplose ad al Karm, nella provincia di Minya, nell'Alto Egitto. Stavolta, riferisce l’agenzia Fides, a scatenare la ferocia delle bande di esagitati sono state le voci di paese intorno a una presunta relazione sentimentale tra un egiziano copto, figlio della settantenne aggredita, e una donna musulmana.

La condanna del Patriarca copto Tawadros II
La nuova esplosione di violenza settaria, a pochi giorni dall'incontro avvenuto a Roma tra Papa Francesco e il Grande Imam di al Azhar Ahmed al Tayyib, ha richiamato l'attenzione del dibattito pubblico in Egitto, soprattutto per le violenze e le umiliazioni perpetrate contro l'anziana signora. Il Patriarca copto ortodosso Tawadros II, attualmente in Austria, ha diffuso un comunicato in cui paventa la possibilità che i fatti di al Karm possano essere utilizzati per innescare una nuova spirale di scontri confessionali e richiama tutti a tutelare insieme la pacifica convivenza tra le varie componenti della popolazione egiziana.

Il portavoce della Chiesa cattolica : un pretesto per attaccare i cristiani
Il portavoce della Chiesa cattolica egiziana, padre Rafic Greiche, definisce la vicenda un “pretesto” inventato “per attaccare” la comunità cristiana locale, in un’area in cui “vi è una marcata presenza” di gruppi jihadisti ed estremisti islamici e all’agenzia Asianews sottolinea che l’attacco ha colpito tutto il popolo egiziano, cristiani e musulmani uniti nella condanna dell’accaduto.

Il presidente al-Sisi sollecita la punizione dei colpevoli
Anche il presidente Abdel Fattah al Sisi – riferisce un cumunicato diffuso il 26 maggio dallo staff presidenziale – ha fatto appello ai dicasteri governativi competenti affinché i responsabili delle violenze di al Karm siano sollecitamente identificati e puniti. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, almeno cinque persone sono già state arrestate con l'accusa di aver partecipato agli assalti contro l'anziana donna e le abitazioni dei copti. (Fides; Asianews)

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Card. Bo: nascente democrazia del Myanmar ha bisogno dell’Europa

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Il Myanmar ha bisogno del sostegno dell’Europa e di tutta la comunità internazionale per consolidare la sua giovane democrazia. Lo ha detto il cardinale Charles Maung Bo invitato nei giorni scorsi a Bruxelles dalla Commissione degli Episcopati delle Comunità europee (Comece) per parlare ai parlamentari europei della situazione del Paese, uscito lo scorso novembre da 50 anni di dittatura militare. La conferenza è stata organizzata insieme a Christian Solidarity Worldwide, all’Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) e alla Fondazione Missio (Pontificie Opere Missionarie).

Tra le priorità del Paese la lotta alla povertà
L’arcivescovo di Yangon, una delle voci più autorevoli in difesa dei diritti umani, della libertà religiosa e della riconciliazione nazionale del Paese, ha illustrato le numerose sfide che attendono il nuovo Governo birmano guidato dalla Lega nazionale per la democrazia: dalla questione della ridistribuzione delle risorse naturali, alla diffusa povertà nel Paese, dal limitato accesso all’educazione e ai servizi sanitari, al traffico di esseri umani e alla massiccia produzione di oppio (di cui il Myanmar è il secondo Paese produttore mondiale dopo l'Afghanistan).

La preoccupazione per la libertà religiosa e la repressione dei Rohingya
Il card. Bo ha poi parlato della libertà religiosa e di coscienza che continuano a subire pesanti limitazioni. Particolarmente preoccupante – ha detto – è la drammatica situazione dei Rohingya, la minoranza etnica di fede musulmana da sempre discriminata e che subisce una crescente repressione dal Governo di Naypyidaw. Nel suo intervento ha poi ribadito le preoccupazioni della Chiesa cattolica per quattro “Leggi a difesa della razza e della religione” approvate l’anno scorso dal Parlamento allora in carica, su pressione di frange radicali buddhiste. La nuova normativa comprende misure contro i matrimoni misti, le conversioni religiose e la poligamia e per il controllo delle nascite.

L’impegno della Chiesa per la pace e la riconciliazione attraverso il dialogo
L’arcivescovo di Yangon ha quindi rivolto un appello all’Unione Europea e a tutta la comunità internazionale a sostenere il complesso processo democratico in corso, in particolare sul fronte della lotta alla povertà, dell’educazione e dell’accesso ai servizi sanitari e su quello dei conflitti etnici e religiosi. Ha poi ricordato l’impegno della Chiesa in difesa dei diritti umani, per la promozione della pace e della riconciliazione nel Paese, in particolare attraverso il dialogo interreligioso. Citando le parole del suo recente messaggio pasquale, il cardinale Bo ha ribadito in conclusione che il popolo birmano sta vivendo una Pasqua resurrezione piena di speranza. (L.Z.)

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Regno Unito, vescovi: nuovi sforzi per il disarmo nucleare

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Creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari, guardando in particolare alle questioni teologiche e morali: con questo obiettivo, il 24 e 25 maggio, a Londra, si sono riuniti quaranta tra vescovi, studiosi cattolici e analisti politici provenienti da diversi Paesi del mondo. “Il dibattito circa la proliferazione ed il disarmo nucleare è di fondamentale importanza – ha detto, in una nota, il cardinale Vincent Nichols, presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles – ma tale riflessione deve essere guidata da considerazioni morali”.

Non dimenticare le implicazioni etiche della proliferazione di armi nucleari
Gli ha fatto eco mons. Oscar Cantù, presidente della Commissione episcopale Giustizia e pace della Chiesa cattolica negli Usa: “Il confronto politico deve guardare al confronto morale – ha osservato – Abbiamo bisogno di educare e responsabilizzare le nuove generazioni di leader cattolici sulle argomentazioni etiche e politiche relative alla riduzione ed eliminazione delle armi nucleari”.

Promuovere maggiore consapevolezza sull’argomento
Sulla stessa linea anche mons. Marc Stenger, presidente di "Pax Christi" in Francia, il quale ha sottolineato la necessità che i leader della Chiesa “promuovano, presso il grande pubblico, una maggiore consapevolezza delle sfide alla pace rappresentate dalle armi nucleari, fornendo così il giusto spazio a un dialogo aperto sulla deterrenza di tali armamenti”.

Le responsabilità di politici e religiosi
All’iniziativa ha preso parte anche Des Brown, parlamentare britannico già Segretario di Stato del Paese, che ha evidenziato: “I leader mondiali sono responsabili della sicurezza dei loro cittadini, ma le comunità di fede hanno la responsabilità di impegnarsi su questioni che sfidano e minacciano la nostra umanità e, di fatto, la nostra stessa sopravvivenza”. L’evento è stato organizzato dai vescovi di Inghilterra e Galles, Scozia, Germania, Austria, Francia e Stati Uniti. (I.P)

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GB: il card. Nichols e il primate Welby insieme su Facebook

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Il dialogo ecumenico passa anche attraverso i social network. Questa l’idea ispiratrice di una nuova iniziativa on-line proposta dall’arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione anglicana, Justin Welby e dall’arcivescovo cattolico di Westminster, il card. Vincent Nichols, presidente della Conferenza episcopale inglese e gallese (Cbcew).

Una sessione domande e risposte aperta al contributo del pubblico
Nel primo pomeriggio di oggi – riporta la rivista cattolica “The Tablet” - i due primati inglesi terranno una sessione di domande e risposte (Q&A) in tempo reale sui loro profili Facebook per parlare di evangelizzazione. A partire dalle 14.20 di Londra, il pubblico potrà intervenire nella discussione postando domande su argomenti quali la preghiera, l’unità dei cristiani e la condivisione della Buona Novella di Cristo nella sezione “Commenta” della piattaforma sociale. Tra quelle già pronte: come possono i laici promuovere l’unità del cristiani? La Chiesa d’Inghilterra tornerà in comunione con Roma ? Cosa stanno facendo le due Chiese per formare correttamente alla fede i giovani?

L’impegno delle due Chiese per dare una testimonianza comune del Vangelo
Questa nuova iniziativa “dimostra il livello della nostra cooperazione e collaborazione”, commenta il card. Nichols. L’idea lanciata dal Primate Welby, è solo una delle numerose iniziative promosse in questi anni dalle due Chiese per dare una testimonianza comune del Vangelo. Mentre prosegue il dialogo teologico avviato dopo il Concilio dalla Commissione Internazionale anglicana-cattolica romana (ARCIC) per superare le divisioni lasciate dallo Scisma del XVI secolo, cattolici e anglicani nel Regno Unito da anni lavorano fianco a fianco nelle parrocchie e nei loro ambienti di lavoro, soprattutto sul fronte della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, della pace e della difesa del creato e dei diritti degli immigrati e dei rifugiati. (L.Z)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 148

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.