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Sommario del 09/03/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Esercizi spirituali: la Chiesa sia trasparente sui beni che possiede

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Il tema della trasparenza dei beni della Chiesa e la più ampia questione della lotta alla fame e contro lo spreco di cibo sono stati due punti chiave della sesta meditazione degli esercizi spirituali della Quaresima, che padre Ermes Ronchi sta predicando a Papa Francesco e alla Curia Romana ad Ariccia. “Ciò che ferisce di più il popolo cristiano – ha osservato padre Ronchi – è l’attaccamento del clero al denaro”, mentre “ciò che lo fa felice è il pane condiviso”. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

“Ci sono persone così affamate che per loro Dio non può avere che la forma di un pane”. Padre Ermes Ronchi apre così la sua meditazione. La vita ha inizio con la fame, dice, “essere vivi è avere fame”. E se lo sguardo si allarga, ecco la fame di massa, “l’assedio dei poveri”, milioni di mani tese che chiedono qualcosa da mangiare, non chiedono “una definizione religiosa”. E la Chiesa, si chiede il predicatore, come risponde?

No a cortine fumogene
Le parole del Vangelo sulle quali padre Ronchi intreccia le sue sono quelle della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il religioso analizza la scena: i discepoli chiedono di congedare la folla perché vada a sfamarsi, Gesù replica di dare loro stessi da mangiare e, all’obiezione dei Dodici sull’entità della spesa, la richiesta del Maestro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Gesù, osserva padre Ronchi, “è molto pratico”, domanda di “fare il conto”, e non finisce di domandarlo:

“L’operazione di verifica è chiesta a tutti i discepoli anche oggi, a me: quanto hai? Quanti soldi, quante case? Che tenore di vita? Andate a vedere, verificate. Quante macchine o quanti gioielli sotto forma di croci o anelli? La Chiesa non deve aver paura della trasparenza, nessuna paura della chiarezza sui suoi pani e i suoi pesci, sui suoi beni. Cinque pani e due pesci”.

Condividere è moltiplicare
“Con la trasparenza si è veri. E quando sei vero sei anche libero”, afferma il predicatore degli esercizi. Come Gesù, che “non si è fatto comprare da nessuno” e “non è mai entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero”. Quando non si ha, nota padre Ronchi, si cerca di trattenere, come quegli Ordini religiosi che provano a gestire i beni come se ciò potesse produrre quella sicurezza erosa dalla crisi delle vocazioni. Invece, la logica di Gesù è quella del dono. “Amare” nel Vangelo si traduce in un verbo asciutto: “dare”. Il miracolo della moltiplicazione dice questo, che Gesù “non bada alla quantità” del pane, ciò che vuole è che quel pane sia condiviso:

“Secondo una misteriosa regola divina: quando il mio pane diventa il nostro pane, allora anche il poco diventa sufficiente. E invece, la fame comincia quando io tengo stretto il mio pane per me, quando l’Occidente sazio tiene stretto il suo pane, i suoi pesci, i suoi beni per sé (…) Sfamare la terra, tutta la terra, è possibile, c’è pane in abbondanza. Non occorre moltiplicarlo, basta distribuirlo, a cominciare da noi. Non servono moltiplicazioni prodigiose, ma battere il Golia dell’egoismo, dello spreco del cibo e dell’accumulo di pochi”.

“La fame degli altri ha dei diritti su di me”
“Date e vi sarà dato e riceverete una misura scossa pigiata traboccante...”. In questa promessa di Gesù è contenuta, ripete padre Ronchi, “la misteriosa, immensa economia del dono e del centuplo, che spariglia ogni bilancio”. Questo “mi conforta – soggiunge – perché mostra che la verità ultima segue la logica del dono, non quella dell’osservanza”. E la “domanda ultima sarà: hai dato poco o hai dato molto alla vita”. “Da questo dipende la vita, non dai beni”, conclude padre Ronchi. E bastano cinque pani donati per cambiare il mondo:

“Il miracolo sono i cinque pani e i due pesci che la Chiesa nascente mette nelle mani di Cristo fidandosi, senza calcolare e senza trattenere qualcosa per sé e per la propria cena. E’ poco ma è tutto ciò che ha, è poco ma è tutta la cena dei discepoli, è una goccia nel mare, ma è quella goccia che può dare senso e può dare speranza alla vita”.

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P. Ronchi: Gesù non è un moralista e pone donna e uomo al centro del Vangelo

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“Gesù non è moralista”. “Siamo noi che abbiamo moralizzato il Vangelo”. Così padre Ermes Ronchi, nella quinta meditazione degli Esercizi spirituali per il Papa e la Curia Romana, in corso nella Casa del Divin Maestro di Ariccia. Nella giornata della donna, il religioso ha ricordato che nel Vangelo molte donne seguivano e servivano Gesù, rammaricando la sola presenza di uomini nell’incontro. Il servizio di Roberta Gisotti: 

“Il Vangelo non è moralista”, ha sottolineato padre Ronchi partendo nella sua riflessione dal racconto evangelico di Gesù, che invitato nella casa di Simone il fariseo, rompe ogni convenzione e lascia che una donna, per tutti la peccatrice, pianga ai suoi piedi e li asciughi con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato. E di fronte alla sorpresa di Simone, Gesù lo ammonisce: “guarda questa donna” che da peccatrice diviene “la perdonata che ha molto amato”:

“Nella cena a casa di Simone il fariseo va in scena un conflitto sorprendente: il pio e la prostituta; il potente e la senza nome, la legge e il profumo, la regola e l’amore a confronto”.

L’errore di Simone è lo sguardo giudicante:

“Gesù per tutta la sua esistenza insegnerà lo sguardo non giudicante, includente, lo sguardo misericordioso”.

Simone - ha proseguito - mette al centro del rapporto tra uomo e Dio “il peccato, ne fa l’asse portante  della religione”:

“È l’errore dei moralisti di ogni epoca, dei farisei di sempre”.

Gesù - ha osservato - "non è moralista”:

“Mette al centro la persona con lacrime e sorrisi, la sua carne dolente o esultante, e non la legge”.

Nel Vangelo troviamo con più frequenza la parola povero che peccatore, ha osservato padre Ronchi:

“Adamo è povero prima che peccatore; siamo fragili e custodi di lacrime, prigionieri di mille limiti, prima che colpevoli”.

Siamo noi - ha aggiunto -.che "abbiamo moralizzato il Vangelo”:

“Ma in principio non era così. Padre Vannucci lo dice benissimo: il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione. E ci porta fuori dal paradigma del peccato per condurci dentro il paradigma della pienezza, della vita in pienezza”.

Simone il moralista guarda il passato della donna, vede “una storia di trasgressioni”, “mentre Gesù - ha spiegato padre Ronchi - vede il molto amore di oggi e di domani”:

“Gesù non ignora chi è, non finge di non sapere, ma la accoglie. Con le sue ferite e soprattutto con la sua scintilla di luce, che Lui fa sgorgare”.

Il centro della cena doveva essere Simone pio e potente e invece il centro è occupato dalla donna:

“Solo Gesù è capace di operare questo cambio di prospettiva, di fare spazio così agli ultimi. Gesù sposta il fuoco, il punto di vista dal peccato della donna alle mancanze di Simone, lo destruttura, lo mette in difficoltà come farà con gli accusatori dell’adultera nel tempio”.

Se Gesù domandasse anche a me - ha detto sorridendo padre Ronchi - la vedi questi donna? dovrei rispondere “no, Signore, qui vedo solo uomini":

“Non è molto normale questo ammettiamolo. Dobbiamo prendere atto di un vuoto che non corrisponde alla realtà dell’umanità e della Chiesa”.

“Non era così nel Vangelo”, dove molte donne seguivano e servivano Gesù, ma “al nostro seguito non le vedo”, ha detto padre Ronchi:

“Che cosa ci fa così paura che dobbiamo prendere le distanze da questa donna e dalle altre? Gesù era sovranamente indifferente al passato di una persona, al sesso di una persona, non ragiona mai per categorie o stereotipi. E penso che anche lo Spirito Santo distribuisca i suoi doni senza guardare al sesso delle persone”.

Gesù, segnato da quella donna che lo ha commosso, non la dimentica: all’ultima Cena ripeterà il gesto della peccatrice sconosciuta e innamorata, laverà i piedi dei suoi discepoli e li asciugherà”.

“Quando ama, l’uomo compie gesti divini, Dio quando ama compie gesti umani, e lo fa con cuore di carne”.

Infine un richiamo per i confessori:

“È così facile per noi quando siamo confessori non vedere le persone, con i loro bisogni, e le loro lacrime ma vedere la norma applicata o infranta. Generalizzare, spingere le persone dentro una categoria, classificare. E così alimentiamo la durezza del cuore, la sclerocardia, la malattia che Gesù più temeva. Diventiamo burocrati delle regole e analfabeti del cuore; non incontriamo la vita, ma solo il nostro pregiudizio”.

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Rinunce e nomine episcopali in Francia e Brasile

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In Francia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di La Rochelle, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Bernard Housset. Al suo posto, il Papa il sacerdote Georges Colomb, finora superiore generale delle Missioni Estere di Parigi. Il neo presule è nato il 15 giugno 1953 a Saint-Anthème (Dipartimento di Puy-de-Dôme), nell’arcidiocesi di Clermont. Dopo il liceo a Riom e a Clermont-Ferrand, ha studiato Gestione alberghiera e Amministrazione economica e sociale a Strasburgo per poi frequentare l’Università Jean Moulin di Lione, dove nel 1978 ha ottenuto la Laurea in Diritto civile. Nel 1979 è diventato Ispettore delle poste fino al suo ingresso nel Seminario des Carmes dell’Institut catholique de Paris. È stato ordinato sacerdote il 13 settembre 1987 per la Società delle Missioni Estere di Parigi. Dal 1987 al 1988 è stato studente presso l’Institut catholique de Paris dove ha ottenuto la Licenza in Teologia. Dal 1989 al 1990 ha studiato il cinese a Taipei (Taiwan) poi dal 1990 al 1998 fu inviato in missione in Cina continentale come Professore di francese nelle Università di Kunming e di Dalian. Dal 1998 al 2004 è stato Assistente del Superiore Generale della Società delle Missioni Estere di Parigi, Responsabile del Servizio per le Vocazioni e Cappellano della Délégation Catholique pour la Coopération. Dal 2004 al 2010 è stato Vicario Generale e dal 2010 ad oggi Superiore Generale della medesima Società.

In Brasile, il Pontefice ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Diamantina, presentata per raggiunti limiti di età da mons. João Bosco Óliver de Faria. Al suo posto, Francesco ha nominato mons. Darci José Nicioli, dei Redentoristi, finora ausiliare dell’arcidiocesi di Aparecida. Mons. Nicioli è nato il 1° maggio 1959 nella città di Jacutinga, arcidiocesi di Pouso Alegre, nello Stato di Minas Gerais. Ha emesso la Professione religiosa come Membro della Congregazione del Santissimo Redentore (Redentoristi) il 31 gennaio 1982 ed è stato ordinato sacerdote l’8 marzo 1986. Ha compiuto gli studi di Filosofia presso la Pontificia Università Cattolica di Campinas (1977-1980) e quelli di Teologia presso l’ITESP – “Instituto Teológico São Paulo” (1982-1985). Inoltre ha conseguito la Licenza in Teologia Sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma (1986-1988). Nel corso del suo ministero ha ricoperto i seguenti incarichi: Vicario parrocchiale; Professore di Teologia; Rettore del Seminario di Filosofia; Superiore di  Comunità religiosa; Consigliere provinciale; Superiore della Casa Generalizia dei Redentoristi a Roma; Amministratore e Rettore del Santuario Nazionale di “Nossa Senhora da Conceição Aparecida”; Vice-Provinciale. Il 14 novembre 2012 è stato nominato Vescovo titolare di Fico ed Ausiliare dell’arcidiocesi di Aparecida e ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 3 febbraio 2013. Nell’ambito della Conferenza Episcopale Brasiliana è l’attuale Presidente della Commissione per la Comunicazione Sociale.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina un editoriale del cardinale arcivescovo di Morelia, Alberto Suarez Inda, dal titolo "Stili di vita e azione pastorale": dopo il viaggio del Papa in Messico.

Quelli che volevano discutere: Anna Foa sull'influenza spagnola nella Riforma dell'Italia del Cinquecento.

Impronta idrica: Andrea Agapito Ludovici sull'acqua e la "Laudato sì".

Quella spada di Damocle sospesa su una pulce: Gabriele Nicolò sul punto esclamativo fra denigratori ed estimatori.

L'autobus della misericordia: da Seoul, Cristian Martini Grimaldi sui volontari tra gli emarginati in Corea del Sud.

E come penitenza la spesa per chi ha bisogno: Nicola Gori a colloquio con il rettore del collegio dei penitenzieri vaticani.

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Oggi in Primo Piano



Suor Cyrene: missionarie uccise, piccoli semi di un amore più grande

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Nello Yemen non ci sono ancora certezze sulla matrice del commando che nei giorni scorsi ha attaccato la Casa di cura per anziani e disabili di Aden, gestito dalle suore di Madre Teresa di Calcutta. Gli assalitori hanno ucciso quattro religiose e altre 12 persone che lavoravano nella struttura. E’ sopravvissuta solo la superiora, suor Sally, mentre padre Tom, un salesiano, è stato sequestrato dai jihadisti: di lui si sono perse le tracce. Suor Cyrene, provinciale per l'Italia delle Missionarie della Carità, racconta - al microfono di Antonella Palermo - come sta vivendo la sua comunità questa drammatica vicenda, che ricorda il martirio di altre tre suore nello Yemen, nel 1998: 

R. – Con la comunità stiamo vivendo nel silenzio, nella preghiera, nell’ascolto della Parola di Dio, della sua volontà. Certo nella sofferenza, ma anche nella speranza che tutto questo sia un seme per una vita nuova, per un amore più grande.

D. – Sono state donne che hanno dato vita, restituendo molte persone ad una vita dignitosa, offrendo il loro aiuto e hanno dato la vita…

R. – Come Missionarie della Carità, offriamo la nostra vita a Dio per i più poveri tra i poveri. Madre Teresa direbbe: “Sono Gesù per noi” e i loro occhi sofferenti sono lo sguardo di Cristo che sulla Croce grida: “Ho sete! Ho sete del tuo amore”. Quindi le suore avevano già offerto la loro vita. E allo stesso tempo essere ai piedi della Croce con Maria, assistere Gesù che è in agonia. E questo è stato anche il motivo per cui le suore sono rimaste lì, ad Aden, a servire i poveri, nel nascondimento, nel silenzio… Una vita quotidiana fatta di piccole cose: questo è vivere ai piedi della Croce. Anche durante i bombardamenti di questi ultimi mesi, le suore erano ben consapevoli che stavano rischiando la loro vita. E poi dobbiamo parlare dei collaboratori: di quelle persone che sono state uccise e hanno lasciato le loro famiglie.

D. – Lei aveva avuto qualche contatto con loro?

R. – Solo con una suora, suor Marguerite: una suora molto gioiosa.

D. – C’era anche spazio per un po’ di paura oppure paura non ce n’è mai?

R. – Timore c’è sempre: timore misto al coraggio. Soprattutto supportati dalla grazia.

D. – Voi avete deciso, come Missionarie della Carità, di restare a servire i poveri e i bisognosi…

R. – Sì. Noi abbiamo altre tre comunità adesso presenti in Yemen. Abbiamo persone malate, persone disabili e non le lasciamo.

D. – Il Papa domenica all’Angelus ha commosso per le parole che ha pronunciato ricordando queste quattro suore definendole “martiri dell’indifferenza”. Come hanno risuonato in lei queste parole di Papa Francesco?

R. – Il Santo Padre ha parlato dell’”indifferenza” e Madre Teresa diceva che “l’indifferenza è il più grande male che affligge l’umanità”. Poi parliamo di misericordia: la parola stessa ci indica il cuore, ci porta il cuore. E sembra che due delle suore siano state colpite direttamente al cuore. Quindi è una questione di cuore. L’indifferenza ci fa morire dentro. La misericordia rende vivo il cuore, quindi possiamo solo rispondere con il cuore. A quello che sembra violenza, attacco, aggressività e anche indifferenza, si può solo rispondere con la misericordia, quindi con il cuore: una scelta del cuore.

D. – Che poi vuol dire perdonare…

R. – Sì, significa perdonare. E più perdoniamo, più siamo perdonati. Più viviamo e doniamo misericordia, più la riceviamo.

D. – Però è difficile perdonare un atto del genere…

R. – Sì, solo con l’aiuto di Dio. È un dono… e sono piccoli semi. Il segno di Dio è un piccolo seme e quindi siamo chiamati a dare piccoli semi. Anche la storia, la vita delle nostre quattro sorelle e di tante altre nel mondo di oggi, nelle varie parti del mondo e anche in parti molto turbolente, come la Siria. Noi siamo presenti in Siria, in Iraq, nella Terra Santa. Sono piccoli semi – piccoli – a volte sembrano così insignificanti, però sono semi che il Signore usa per moltiplicare l’amore, perché l’amore diventi più grande.

D. – Il 15 marzo il Papa firmerà il Decreto per la canonizzazione di Madre Teresa. Come state vivendo questo evento?

R. – Anche qui, con la preghiera, sicure che la Madre ci protegge dal Cielo e intercede per noi.

D. – Che significa per voi che adesso sia Santa?

R. – Per noi già la Madre ci ricordava: “La santità non è qualcosa di straordinario, ma è un semplice dovere per te e per me”. Continuiamo a viverlo nell’ordinarietà, nella semplicità della nostra vita, però facendo piccole cose con amore straordinario. E sicuramente Madre Teresa è presente, molto presente nella nostra vita.

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Tarquinio: suore uccise in Yemen, dolore per il silenzio dei media

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Sulle missionarie della carità e gli operatori sociali trucidati nello Yemen “neppure due righe!”. Dopo il Papa, è l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, che torna sull’incomprensibile silenzio dei media nei riguardi dell'eccidio. Giancarlo La Vella ha raccolto il commento di Marco Tarquinio, direttore del quotidiano “Avvenire”: 

R. – So che purtroppo accade. Una delle spiegazioni che vengono date è che la non prossimità degli eventi - prossimità geografica, sentimentale - condiziona lo sguardo anche dei giornalisti; la cosa mi preoccupa molto. Continuiamo a scoprire come qualunque parte del mondo ci riguardi direttamente, oggi soprattutto attraverso i fenomeni delle migrazioni. Dovremmo continuare a renderci conto che non ci sono drammi umani che non tocchino profondamente anche la nostra vita, perché là dove cresce l’ingiustizia cresce qualcosa che incalza anche la nostra apparente pace e tranquillità.

D. - Si tratta di una situazione di eccessivo localismo dell’informazione?

R. - Ci siamo battuti anche nelle pagine di Avvenire per più di 15 anni perché l’Unione Europea avesse il coraggio della verità, di aggiungere l’aggettivo “cristiano” rispetto alle vittime di stragi compiute in diverse parti del nostro mondo, dal Vicino Oriente, all’Asia e all’Africa. Oggi ci ritroviamo con una difficoltà di leggere, da parte del sistema mediatico, i drammi che riguardano le comunità cristiane, figure di missionari; come ad esempio in Yemen, loro si definivano “operatrici sociali”, perché le suore Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta nei Paesi dove vanno in condizioni straminoritarie accettano la condizione di “social workers” pur di vivere il Vangelo e aiutare gli ultimi. Rispetto a tutto questo, una parte della stampa ha una difficoltà a leggere e ad assumere la gravità di quello che accade. Questa è la cosa più lancinante.

D. - Morire per il Vangelo, morire per gli altri non fa notizia oggi?

R. - Io credo che faccia notizia e come soprattutto sia un seme di futuro, qualcosa che scuote, inquieta, che costruisce la comunità cristiana. Certamente è un segno di scandalo per il mondo, che il mondo stesso non vuol vedere. I cristiani sanno essere catalizzatori di bene, persone che mettono insieme le energie positive nelle società dove operano, dove agiscono per portare il Vangelo. La Chiesa non è una ong, ma è l’occasione per umanizzare il mondo anche per coloro che non riconoscono in Cristo la parola di vita che noi cristiani, noi cattolici riconosciamo.

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La Slovenia chiude le frontiere, stop alla rotta dei Balcani

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Sono oltre 9.300 i migranti sbarcati sulle coste italiane dall’inizio dell’anno, un numero che negli ultimi due anni ha subito un leggerissimo calo, rimanendo abbastanza invariato. Ciò che è cambiato è l’origine dei flussi, meno siriani ed eritrei perché negli ultimi mesi hanno percorso la rotta balcanica, che ora però, tra le polemiche, è stata dichiarata definitivamente chiusa. Lo stop della rotta dei Balcani occidentali non è una questione di azioni unilateriali, ma decisione comune dei 28: così oggi il presidente del Consiglio europeo Tusk. Il servizio di Francesca Sabatinelli

La rotta dei Balcani è praticamente chiusa, dopo Slovenia, Croazia e Serbia, anche la Macedonia ha sbarrato i propri confini, nessuno è entrato nelle ultime ore, hanno dichiarato le autorità di Skopje, mentre alla frontiera con la Grecia a Idomeni, in territorio greco, sono quasi 15 mila i migranti e i profughi bloccati da settimane. Lubiana a mezzanotte ha ripristinato il regime delle regole di Schengen, non verrà consentito quindi il passaggio di grandi flussi di rifugiati in treno o autobus, così come le immagini ci avevano mostrato negli ultimi mesi. In Slovenia, potrà entrare solo chi in possesso dei requisiti validi per la zona Schengen, chi intende chiedere asilo e chi si ritiene che possa usufruire del passaggio per ragioni umanitarie, ma sempre in base a una indagine personale. Le conseguenze non saranno prive di rischi: ne è consapevole la Commissione europea che prevede una frammentazione delle rotte, con la conseguente dispersione dei migranti in arrivo in Europa e la deviazione verso altre destinazioni. Giuseppe Palmisano, direttore dell’Istituto di Studi giuridici internazionali del Cnr:

R. – “Chiusura della rotta balcanica” è un’espressione abbastanza vaga, nel senso che significa che alcuni Stati bloccheranno i flussi di persone, soprattutto richiedenti asilo ma non solo, che in questo momento si stanno servendo della rotta balcanica, appunto, per poi arrivare verso altri Stati europei. E’ chiaro, la ricaduta di una chiusura di questa rotta significa che queste stesse persone stazioneranno più a lungo lì dove sono e che poi cercheranno altre vie per arrivare dove vogliono arrivare. E questo potrebbe coinvolgere ovviamente anche l’Italia.

D. – Dal punto di vista del diritto internazionale, può accadere questo?

R. – Qui bisogna distinguere. Ci sono aspetti che riguardano il diritto dell’Unione Europea, come l’accordo di Schengen che impone certi obblighi agli Stati e che però può essere sospeso in determinate circostanze. Non si può esaurire il discorso intorno all’accordo di Schengen, è chiaro che ci sono anche norme internazionali e anche norme, direi, di diritto internazionale generale fondamentali che impediscono a uno Stato – impediscono giuridicamente anche se poi gli Stati lo fanno lo stesso – di respingere, di non accogliere persone che sono in determinate condizioni, come sono le persone che richiedono asilo e che sono meritevoli, o dovrebbero essere prese in considerazione, quali i rifugiati. E in questo caso stiamo parlando soprattutto di persone in queste condizioni.

D. – Come dovrebbe evolvere questa situazione?

R. – Evidentemente, su un piano multilaterale coordinato. Ci dovrebbe essere cioè un coordinamento tra gli Stati, per consentire quello che già si sta cercando di fare: una redistribuzione di questi flussi di richiedenti asilo più che migranti irregolari tout court, in modo che non ci sia un carico eccessivo di queste persone in alcuni Stati, che oltretutto sono meno attrezzati di altri per ospitarli. Questo sarebbe necessario. Sarebbe anche necessario che questo tipo di problematica non fosse affrontata sul piano politico e giuridico in termini di ricatto, di "do ut des", come in alcuni casi sta avvenendo, penso soprattutto alla Turchia.

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Save the Children: in Siria 250 mila minori privi di tutto

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In Siria, 250 mila bambini nelle città assediate sono ridotti alla fame, sono privi di cure, non vanno più a scuola e vengono arruolati già a otto anni. La denuncia è contenuta nel nuovo Rapporto “Infanzia sotto assedio” di Save the children, in cui si rileva inoltre che, in quelle zone, il 46% delle vittime sono bambini sotto i quattro anni. Forte l’appello dell’organizzazione umanitaria perché sia reso immediatamente possibile l’accesso agli aiuti e si cessi di bombardare ospedali e scuole. Sulla drammatica situazione descritta nel Rapporto, Adriana Masotti ha intervistato Michele Prosperi, portavoce di "Save the Children": 

R. – I bambini sono proprio quelli che stanno pagando il prezzo più alto in questa guerra, che ormai da cinque anni si accanisce sui civili. La realtà delle aree assediate crea condizioni assolutamente estreme: le famiglie sono costrette a vivere chiuse nelle cantine, senza uscire, per paura dei cecchini... Ovviamente, i bambini devono rimanere chiusi come gli altri e c’è una gravissima situazione rispetto alla disponibilità di cibo e all’assistenza medica. La cosa più assurda è che ci sono in questo momento bambini che stanno morendo di fame dopo aver magari mangiato per qualche giorno foglie o erba – queste sono le testimonianze che abbiamo raccolto – e muoiono quando a pochi chilometri di distanza ci sono magazzini nei quali ci sono gli aiuti fermi. Fermi perché l’accesso è difficilissimo, perché ci sono convogli bloccati ai check-point per giorni, oppure i convogli vengono depredati e soltanto una percentuale bassissima degli aiuti arriva a destinazione. Pensiamo che solo l’1% della popolazione delle aree assediate ha ricevuto aiuti alimentari, e solo il 3% ha potuto ricevere assistenza sanitaria. Anche gli ospedali, i dottori, gli infermieri non ci sono più: molti sono stati uccisi e ricordiamo che gli ospedali sono sotto i bombardamenti esattamente come le case dei civili e le scuole.

D. – E naturalmente, non potendo muoversi, i bambini non vanno neppure a scuola…

R. – Certo, in alcune aree gli insegnanti rimasti si sono organizzati come hanno potuto: abbiamo notizie, per esempio, di una scuola nella quale più di mille bambini, nelle classi nascoste nelle cantine, stanno cercando in qualche maniera di continuare a fare lezione... Ma parliamo di una generazione intera perduta ed è questa una cosa particolarmente significativa, in Siria, un Paese dove la scolarizzazione era al 99% prima dell’inizio del conflitto.

D. – E poi, questi bambini non giocano più, non fanno più i bambini ma hanno responsabilità già da adulti e anche questo crea dei problemi per loro…

R. – E’ così. Assistiamo questi bambini in diverse aree all’interno della Siria e li incontriamo, purtroppo, tutti i giorni ai confini con i Paesi vicini alla Siria. Quando arrivano, questi bambini sono assolutamente traumatizzati, portano segni profondissimi dell’orrore a cui hanno assistito. Riporto la testimonianza di una famiglia in fuga da una delle città assediate. Non ce la faceva più, non avevano più da mangiare – e questo padre ci diceva: “Non potevo assistere ai miei figli che morivano di fame”. Hanno abbracciato i loro figli e assieme ad alcuni vicini hanno incominciato a correre sotto il fuoco dei cecchini per cercare di uscire dalla città e alcune persone intorno a loro sono state colpite, ma non si sono neppure potuti fermare ad assisterle: l’unica cosa da fare era correre, guardando avanti… Ecco, queste sono le cose a cui questi bambini hanno assistito, perdendo completamente la fiducia nei confronti degli adulti. Gli adulti che hanno imparato a conoscere sono gli adulti che pilotano gli aerei, che fanno i bombardamenti, sono i cecchini che sparano indifferentemente, anche alle donne e ai bambini.

D. – Anche in Siria c’è il fenomeno dei bambini soldato?

R. – I bambini vengono coinvolti e purtroppo le condizioni di deprivazione sono un’ulteriore aggravante, proprio perché spesso la possibilità di essere arruolati significa la possibilità di un pasto, significa la possibilità di un luogo dove dormire… Naturalmente, un altro inferno ma un inferno in qualche maniera un po’ meno terribile di quello al quale sono costretti.

D. – L’accesso per le organizzazioni umanitarie nelle aree assediate è molto ridotto: “Save the Children” lavora grazie ai partner locali. Che cosa riuscite a fare?

R. – Quello che noi cerchiamo di fare è assistere soprattutto i bambini con le loro famiglie e i bambini che sono rimasti soli: noi cerchiamo di assistere proprio i più vulnerabili e quelli che hanno maggior bisogno sia di assistenza per sopravvivere, ma anche di protezione. Sappiamo che in queste condizioni il rischio di violenze, di sfruttamento nei confronti dei bambini è altissimo.

D. – Leggendo il vostro Rapporto, veramente viene da dire – come voi scrivete – “tutto questo è troppo”. Il vostro appello:

R. – Il nostro appello è un appello molto forte e molto chiaro ed è la richiesta che venga dato immediatamente accesso libero e permanente agli aiuti umanitari nelle aree sotto assedio, che cessino gli attacchi soprattutto sugli obiettivi come le scuole, gli ospedali e le infrastrutture civili vitali, che poi lasciano intere aree senza acqua, senza elettricità. Soprattutto, la distribuzione degli aiuti umanitari non dev’essere legata alle negoziazioni per gli accordi di pace: non può essere merce di scambio! Deve essere una priorità di per sé. Sappiamo quanto sia difficile per la diplomazia internazionale identificare una possibile soluzione al conflitto, ma i bambini che in questo momento stanno rischiando di morire non possono attendere i tempi della diplomazia e devono essere raggiunti immediatamente dagli aiuti. Questo è fondamentale.

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Biden in Israele, dove continuano episodi di violenza

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Il vicepresidente Usa, Joe Biden, arrivato ieri a tel Aviv, ha incontrato questa mattina il primo ministro israeliano, Netanyahu, e questo pomeriggio incontrerà a Ramallah, in Cisgiordania, il presidente palestinese Abu Mazen, che ha criticato per la mancata condanna degli ultimi attacchi in Israele che hanno causato, tra l'atro, la morte di un cittadino americano a Jaffa. Intanto, emerge da un sondaggio del Centro di ricerche americano Pew, che gli israeliani sono divisi sull’ipotesi di trasferimento degli arabi del Paese in altre nazioni (48% i favorevoli, 46% i contrari) e che il 30% degli ebrei israeliani ritengono che le colonie non aiutano la sicurezza in Israele, anzi alimentano violenza. Dell’impasse mediorientale, Fausta Speranza ha parlato con Renata Piccinelli, docente di questioni mediorientali all’Università Luiss: 

R. – Purtroppo, la tensione in Israele e in Palestina non scende: è un fiume in piena che ha dei momenti “carsici” in cui la tensione sembra affievolirsi, diventare sotterranea, per poi riemergere. Questo lo vediamo anche nelle prospettiva storica a lungo termine. Ogniqualvolta si è avuta l’impressione che si potesse andare verso un rallentamento delle tensioni, una pace duratura, abbiamo visto poi rinascere focolai di tensioni. Ora siamo in un nuovo momento di tensioni relative alla questione israelo-palestinese e tensioni che vanno poi collocate all’interno della situazione generale di instabilità regionale.

D. – Si discute in Israele di espulsione di arabi da Israele ma anche delle colonie. Che dire di questo dibattito?

R. – Molti israeliani pensano che il conflitto israelo-palestinese si possa risolvere espellendo gli arabi che vivono sia in territorio israeliano sia in quelli occupati. E poi ci sono alcuni che ritengono che abbiano ragione i palestinesi a pensare che “l’Intifada dei coltelli” sia scoppiata in questa forma nuova di reazione alle politiche di sicurezza in Israele, una reazione alle politiche di occupazione dei territorio in cui abitano i palestinesi.

D. – In questi giorni, Joe Biden è in Israele. Ma c’è un margine di riapertura dei negoziati?

R. – Diciamo che gli ultimi anni abbiamo visto una maggiore freddezza tra gli Stati Uniti d’America e Israele in termini di politica estera, sia per scelte dell’amministrazione Obama rispetto alla questione israelo-palestinese sia per scelte relative all’impegno statunitense nell’area mediorientale. Chiaramente, i margini di manovra di una riapertura di relazioni più strette, più forti, dipendono anche dalle scelte che gli Stati Uniti vogliono fare rispetto alla crisi siriana e alla presenza dell’Is nella Regione. Sono tutti temi fortemente correlati.

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Myanmar anticipa le presidenziali. Nita Yin Yin May: siamo ottimisti

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In Myanmar c’è grande attesa per le elezioni presidenziali che si terranno domani in anticipo di una settimana rispetto alla data prevista. La leader e premio Nobel Aung San Suu Kyi non può ancora candidarsi a causa di un vincolo costituzionale, ma il suo partito la Lega Nazionale per la Democrazia è forte della schiacciante vittoria alle consultazioni di novembre. Massimiliano Menichetti: 

Il processo elettorale inizierà con la presentazione di tre candidati, uno da parte della giunta militare e altri due da parte del parlamento nominato dalla Lega Nazionale per la Democrazia, il partito della premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. La formazione infatti si è imposta massicciamene alle politiche di novembre scorso ottenendo oltre il 70% dei seggi. "The Lady" simbolo del cambiamento democratico del suo Paese, dopo aver trascorso 15 anni della sua vita agli arresti domiciliari, non può ancora candidarsi a Presidente a causa di una norma costituzionale, voluta ad hoc dalla giunta militare, che sbarra la possibilità per chi ha sposato uno straniero. Trattative in queste settimane erano in corso per modificare la normativa, ma a sorpresa la stessa Lega Nazionale per la Democrazia ha deciso l’accelerazione per togliere il Paese dallo stallo. "Grende speranza per il voto" ribadisce Nita Yin Yin May impiegata dell’Ambasciata Britannica di Rangoon, vicina ad Aung San Suu Kyi, che negli anni '90 era incaricata dei rapporti tra la leader e il movimento democratico degli studenti. Fu incarcerata e condannata ai lavori forzati nonostante la gravidanza e dopo la nascita fu costretta a consegnare il figlio ai familiari: 

R. – At the moment people are…
Al momento le persone sono molto eccitate. Domani, infatti, verrà forse annunciato ufficialmente il nome del Presidente e dei due vice-Presidenti. Non ci sono previsioni. Aung San Suu Kyi è a casa, infatti, e non ha voluto che si rendesse nota la lista dei candidati a membri del gabinetto e della presidenza. Ecco perché in questi giorni non è andata in Parlamento. E’ rimasta con i più stretti collaboratori per confrontarsi sulle azioni del governo uscente e dei militari. Questa è la situazione.

D. – Come vede il futuro del Paese e qual è il ruolo oggi dei militari?

R. – We are very optimistic about the future…
Siamo molto ottimisti sul futuro del nostro Paese. E’ stato infatti sotto un governo militare per più di 50 anni e a causa di questa cattiva amministrazione del Paese ci troviamo in una condizione terribile. Il nuovo governo dovrebbe ricominciare da capo nel campo dell’educazione, in ambito sanitario e in altri settori. Però, il problema che il Myanmar sta affrontando ora è l’istituzione militare. I militari infatti sono tutti scesi nell’arena politica, mentre in realtà il loro dovere dovrebbe essere quello di proteggere il Paese. Non c’è bisogno che siano coinvolti in politica, mentre invece lo sono. E sa cosa? Anche dopo la formazione del governo, i militari hanno mantenuto il controllo nei posti chiave dei ministeri. Certamente, è comprensibile che conservino il ministero della Difesa, ma cosa c’entrano gli Affari Interni o il controllo delle frontiere? Lì loro non c’entrano niente. Questo significa, che le forze di polizia stesse sono soggette ai militari. Questo è veramente assurdo: non è facile gestire il Paese in questi termini. Quindi dovremo aspettare per vedere quello che succede. Poi, c’è un’altra cosa: tutti vorrebbero vedere Aung San Suu Kyi Presidente del Myanmar, sia a livello internazionale sia a livello locale; ma secondo la Costituzione del 2008 non può diventare Presidente. Questo è quello che ci aspettiamo: Aung San Suu Kyi Presidente e una nuova nazione democratica per tutto il nostro popolo.

D. – In questo contesto come la popolazione vede i militari?

R. – The people, they don’t like …
Il popolo non ama affatto i militari: nelle manifestazioni di piazza hanno sparato alla gente, hanno imprigionato le persone; poi hanno istituito i lavori forzati, hanno reclutato bambini per farne soldati, e così via; e questo è stato un problema. Aspettiamo e vediamo cosa farà questo governo.

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Elezioni in Niger: tra brogli e carcerazioni, si ritira l'opposizione

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In Niger il 21 febbraio scorso si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali e per il prossimo 20 marzo è previsto il ballottaggio, ma quello che doveva essere un confronto a due, tra il Presidente uscente Mahamadou Issoufou e lo sfidante ex premier Hama Amadou è diventata una corsa in solitaria. Amadou, dal carcere dove è rinchiuso da novembre scorso, annuncia il suo ritiro denunciando irregolarità, ma lasciando così campo libero al suo rivale per una seconda rielezione. Vediamo nel dettaglio la situazione con Ernesto Manfredi, analista dell’International Crisis Group, intervistato da Stefano Pesce

R. - Il Niger è un Paese poverissimo; è in fondo a quasi tutti gli indici di sviluppo umano delle varie organizzazioni internazionali che, però, ha grandi risorse nel sottosuolo. Nel 2011 quando Issoufou è arrivato al potere c’erano grandi aspettative per questa presidenza. Issoufou aveva promesso di rimettere in piedi un po’ il destino del Niger. Secondo molti, nella società civile nigerina, non ce l’ha fatta perché si è piuttosto concentrato a rinsaldare le proprie posizioni di potere e ad assicurare all’élite che lo aveva sostenuto, sufficienti guadagni in modo da poter continuare a governare.

D. – Una rielezione di Issoufou viene salutata da vari Stati come una prosecuzione di stabilità. Ma è realmente così?

R. – Issoufou ha giocato tra le varie carte quella della minaccia terroristica; una minaccia esistente perché il Niger è schiacciato su tre parti: al Nord il Mali, a Nord- Est la Nigeria, quindi Boko Haram, e dalla regione del Fezzan nel Sud della Libia. Il problema è che il controterrorismo diventa anche una facile maniera per utilizzare l’insicurezza per dare addosso all’opposizione politica. Il candidato dell’opposizione che avrebbe dovuto competere nel ballottaggio è in galera pur un supposto traffico di bambini il cui dossier risulta piuttosto vuoto.

D. – L’ex premier Amadou dal carcere ha denunciato brogli e irregolarità. La Comunità internazionale sta seguendo queste elezioni in Niger?

R. - No, non le sta seguendo se non in maniera molto blanda. Non ci sono, nonostante queste innumerevoli stranezze nella dinamica politica nigerina del momento, forti pressioni da parte della Comunità internazionale, soprattutto dei partner di sicurezza del Niger, in particolar modo della Francia e degli Stati Uniti che hanno scelto un profilo basso, che osservano e sperano che Issoufou venga fuori da queste elezioni con il minimo danno d’immagine in quanto vedono in lui una garanzia di mantenimento della stabilità e quindi del proseguimento della lotta comune al terrorismo in uno dei pochi Paesi rimasti stabili nella regione. La domanda da farsi è se questa prospettiva di stabilità su cui gli alleati di Issoufou scommettono, sia una stabilità di lungo, medio o piuttosto di breve termine.

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8 marzo: "Voci di fede", donne testimoni di coraggio e misericordia

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Ieri pomeriggio, nella Giornata internazionale della donna, la fondazione Fidel Götz e il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati hanno organizzato in Vaticano la terza edizione di "Voices of Faith", Voci di Fede. Personalità femminili coraggiose, dai cinque continenti, hanno raccontato il loro impegno per le donne. Il servizio di Eugenio Murrali

Donne vittime di traffico, senza fissa dimora, discriminate per invalidità fisiche, costrette a matrimoni precoci o senza possibilità di accedere all’istruzione. Anche alle loro storie è stato dedicato l’incontro "Voci di Fede", quest’anno incentrato sul tema: “La misericordia richiede coraggio”. E in effetti si sono susseguite le testimonianze di donne a cui il coraggio non manca. Ad esempio Katarina Kruhomja, croata, che ha lasciato il suo lavoro in clinica per contribuire al processo di pace nella ex Jugoslavia, o Cecilia Flores-Oebanda, per quattro anni prigioniera politica nelle Filippine, che ci racconta:

"Sono stata imprigionata sotto il regime di Marcos, durante la dittatura nelle Filippine. E’ stato un periodo davvero buio. Anche mio figlio è stato incarcerato, con l’intera famiglia. Potete immaginare cosa significasse per una madre vedere il proprio figlio in prigione. Talvolta esortavo il mio bambino a essere coraggioso, gli ricordavo che c’era una vita al di là di quelle quattro pareti".

In tante hanno raccontato la loro storia di dolore e di forza. E il pensiero di suor Mary Doris, che nella sua vita ha assistito oltre 2.500 madri senza fissa dimora a New York, è andato anche alle Missionarie della Carità uccise in Yemen:

"Sembra che queste quattro suore stessero svolgendo semplicemente il loro quotidiano lavoro di assistenza agli anziani. Non erano coinvolte in alcuna protesta, non erano lì contro nessuno, stavano soltanto occupandosi di povera gente. Trovo che il loro omicidio sia stato terribile, non posso credere che avvengano sempre più crimini come questo nel nostro mondo".

Infine suor Mary ha affermato che loro sono per noi una testimonianza chiave: ci parlano di compassione e d’impegno nel seguire la Parola di Dio, lavorando con i poveri.

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Nella Chiesa e nel mondo



Yemen: suor Sally al sicuro all'estero. Nessuna notizia di p. Tom

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Suor Sally, la religiosa indiana delle Missionarie della Carità di Aden, in Yemen, scampata al massacro delle quattro consorelle nell’attacco del 4 marzo scorso alla Casa per anziani è fuori del Paese e al sicuro, in un luogo protetto. “Ho incontrato la suora, sta abbastanza bene anche se, come comprensibile, è in preda a un forte stato di shock. Certo è provata per quanto successo, ma sul piano fisico la situazione è accettabile”. È quanto racconta all'agenzia AsiaNews mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen), che in queste ore ha incontrato la missionaria. Una fonte dello stesso vicariato apostolico afferma che non vi sono novità sulla sorte del 56enne padre Tom Uzhunnalil. “Finora - prosegue la fonte - non abbiamo nessuna notizia del sacerdote, anche se continuano le ricerche di contatti. La nostra speranza è che si possano avviare entro due o tre giorni, anche se finora non vi sono state notizie ufficiali da parte delle autorità yemenite o di altri governi coinvolti”. 

Non ci sono ancora certezze sulla matrice del commando
Un commando estremista, forse legato al sedicente Stato islamico (Is) anche se non vi sono ancora certezze, ha attaccato la Casa di cura per anziani e disabili di Aden, nel sud del Paese, gestito dalle suore di Madre Teresa. Gli assalitori hanno giustiziato quattro religiose - suor Anselma dell’India, suor Marguerite e suor Reginette del Rwanda, suor Judit del Kenya - e altre 12 persone che lavoravano all’interno della struttura. Solo la superiora è riuscita a salvarsi dalla brutalità degli assalitori; nel raid i jihadisti hanno sequestrato padre Tom Uzhunnalil.

Nessuno si occupa dei disabili e degli anziani del Centro
La fonte del vicariato riferisce che la zona “è ora sotto il controllo dei poliziotti e delle forze di sicurezza dello Yemen, in attesa di trovare qualcuno che si occupi dei disabili e degli anziani rimasti nella struttura”. All’interno “non c’è più alcuna suora o infermiera” e la speranza è che ora “altri volontari, con il permesso delle autorità, possano rilevare il Centro. Per ora non è previsto il rientro di alcun sacerdote o religiosa”. 

Nel 1998 tre Missionarie della Carità furono uccise in Yemen
In Yemen, dove è in atto una guerra sanguinosa e in cui operano gruppi jihadisti ed estremisti, già in passato le Missionarie della Carità erano state oggetto di violenze. Nel luglio del 1998 tre suore sono state uccise da un uomo armato mentre uscivano dall'ospedale della città di Hodeida. Le autorità di Sanaa dissero all’epoca che l'aggressore era uno “squilibrato saudita”. Due delle missionarie uccise, suor Lilia e suor Anneta, erano di nazionalità indiana, mentre la terza, suor Michelle, era originaria delle Filippine. (R.P.)

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Chiesa di Terra Santa per le vittime del massacro di Aden

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La Chiesa di Terra Santa vuole mostrare la propria solidarietà alle missionarie della Carità di Aden, vittime del massacro. Nel pomeriggio di venerdì 11 marzo, presso la chiesa di san Salvatore a Porta Nuova, nella Città Vecchia, il Patriarca latino di Gerusalemme mons. Fouad Twal celebrerà una Messa in suffragio delle suore martiri in Yemen. Alla funzione, promossa dal Patriarcato latino di Gerusalemme, dalla Custodia di Terra Santa, dalla parrocchia latina di Gerusalemme e dalle Missionarie della Carità della zona, sono invitati il clero, i religiosi, i seminaristi e i laici di tutta la Terra Santa. Nel corso della celebrazione vi saranno preghiere per le suore Anselma, Margaret, Judith e Reginette. 

Le suore di Madre Teresa offrono un servizio encomiabile a tutto il mondo arabo
“Le celebrazioni - spiega all'agenzia AsiaNews Sobhy Makhoul, cancelliere del Patriarcato maronita a Gerusalemme - sono un segno forte di solidarietà che vogliamo mandare alle missionarie dello Yemen e a quelle che operano qui, in Terra Santa, a Gaza e nei Territori palestinesi”. Le religiose, spiega il leader cristiano, “offrono un servizio encomiabile a tutto il mondo arabo, senza fare distinzioni fra cristiani e musulmani”. E anche in Yemen, aggiunge, il loro servizio era “quasi interamente rivolto ai musulmani, i soli ospiti della casa per anziani” teatro del massacro. 

Appello all'occidente sempre più indifferente alle sofferenze dei cristiani in Medio Oriente
“Ci sentiamo responsabili e vogliamo pregare per queste nostre sorelle - prosegue il cancellerie del Patriarcato maronita - che si sono prodigate nel servizio agli altri. Al contempo, voglio lanciare un appello all’Occidente, sempre più cieco e sordo di fronte alle sofferenze dei cristiani in Medio oriente. Basta dare armi e soldi ai terroristi, basta mettere gli interessi economici e politici al di sopra di tutto. Queste sono le conseguenze, e gli effetti si vedono già anche in Europa che non si può più dire al sicuro dalle violenze”. 

Attestati di solidarietà dei musulmani di Terra Santa per il martirio delle suore
Sobhy Makhoul rivolge infine un pensiero alle suore, che riescono con la loro opera, col loro lavoro “a dare un segnale molto forte al mondo musulmano” in quanto a dedizione, carità, attenzione per l’altro. “Con la Messa e le preghiere per le missionarie di Madre Teresa uccise in Yemen - aggiunge - vogliamo svegliare la coscienza dei musulmani, anche e soprattutto di quelli in Terra Santa. E in queste ore abbiamo ricevuto attestanti di stima e solidarietà da molti musulmani nostri vicini, gente comune. Quando si parla di dialogo interreligioso si fa sempre riferimento ai capi, alle autorità… In realtà quello che stiamo facendo con questa Messa, e con il lavoro sui social media, è di andare a parlare con la gente comune, con la popolazione musulmana, per far crescere una coscienza critica”. E la risposta c’è stata, conclude, “perché molti vicini musulmani hanno espresso rammarico per quanto successo in Yemen. Del resto la gente qui conosce bene il lavoro delle suore, vi è una presenza millenaria di consacrate e non si sono mai registrate brutalità simili. E perché non avvengano in futuro è necessario rafforzare questa coscienza, sensibilizzare le persone, costruire un argine contro il fondamentalismo che proviene dall’esterno, da persone assetate di sangue”. (R.P.)

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Vescovi Usa: dichiarare “genocidio” persecuzioni cristiani in Medio Oriente

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I vescovi statunitensi rendono omaggio alle “martiri della carità”, le quattro religiose Missionarie della Carità uccise ad Aden, in Yemen, insieme ad altre 12 persone. E chiedono “una risposta internazionale” e una dichiarazione pubblica da parte del Dipartimento di Stato americano contro “il genocidio in corso in Medio Oriente contro cristiani, yazidi e altre minoranze religiose”. “Invitiamo tutti i fedeli e tutte le persone di buona volontà a unirsi in solidarietà con le persone di tutti le fedi che vedono le loro vite minacciate dal male, dall’indifferenza, dall’odio e dal terrorismo”, affermano in un nota ripresa dall'agenzia Sir. 

Dichiarazione utile per salvare i cristiani del Medio Oriente
“Rinnoviamo il nostro appello a migliorare la risposta internazionale”, sottolineano i vescovi, ricordando la richiesta già inoltrata lo scorso mese di novembre:  dichiarare “genocidio” le persecuzioni contro i cristiani e le minoranze religiose del Medio Oriente. “Questa dichiarazione – spiegano – sarebbe utile per salvare vite e difendere tutti coloro che devono affrontare la violenza degli estremisti”. La comunità cristiana insieme ad altre realtà, precisano, “sta lavorando per aiutare a raccogliere le prove necessarie per sollecitare l’azione del Dipartimento di Stato”. (R.P.)

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Missionario in Etiopia: il Paese sta morendo di sete

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L’Etiopia è il secondo Paese più popoloso dell’Africa e uno dei più poveri del mondo. Oltre 400 mila bambini soffrono di malnutrizione severa e in questi ultimi mesi sta gravemente aumentando la siccità. Si prevede che alla fine del mese di aprile alcune zone rimarranno definitivamente senza acqua. “In quasi 10 anni che sono missionario in Etiopia, è la prima volta che vedo il Paese morire di sete” racconta padre Christopher Hartley in una nota inviata all’agenzia Fides. 

Il Paese trasformato in un immenso deserto
“Come conseguenza della siccità – continua padre Christopher – ci sono molte lotte tribali per l’accesso alle poche fonti di acqua rimaste per la gente e il bestiame, mentre i raccolti stanno irreversibilmente scomparendo, trasformando tutto questo enorme paesaggio in un immenso deserto. Abbiamo cercato di entrare in contatto con l’ultima ondata di rifugiati per distribuire taniche per l’acqua, più di venti tonnellate di cibo e abbiamo costruito una piccola scuola per i bambini che mi hanno detto di non saper scrivere neanche il loro nome perché non hanno mai frequentato la scuola”. 

Oltre 10 milioni di persone hanno urgente bisogno di aiuto
​Su 100 milioni di abitanti in tutta l’Etiopia, quasi 2 milioni sono attualmente privi di accesso all’acqua potabile. Oltre 10 milioni di persone hanno urgente bisogno di kit di sopravvivenza di base in quanto mancano acqua, generi alimentari, prodotti per la semina e il bestiame. (A.P.)

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Vescovi Africa centrale: voto nei nostri Paesi sia giusto e pacifico

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“Facciamo appello alla pace, alla concordia e all’unità in occasione delle elezioni presidenziali che si profilano all’orizzonte dei nostri rispettivi Paesi” scrivono i vescovi dell’Associazione delle Conferenze Episcopali della Regione dell’Africa Centrale (Acerac che comprende Camerun, Congo Brazzaville, Gabon, Repubblica Centrafricana, Ciad, Guinea Equatoriale) nel messaggio diffuso al termine della riunione del Consiglio permanente, tenutasi a Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo.

Sereno svolgimento del voto in Centrafrica grazie a Papa Francesco
I vescovi - riferisce l'agenzia Fides - si rallegrano del sereno svolgimento delle elezioni nella Repubblica Centrafricana e ringraziano Papa Francesco che “ha portato la sua solidarietà e il suo contributo, lo scorso novembre, al ritorno progressivo, a volte difficile, della pace in questo Paese tanto caro dell’Africa Centrale”. Ma l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli altri Paesi dell’Acerac è contrassegnata da “minacce che arrivano dappertutto nel seno della nostra regione; la precarietà conquista terreno con la crisi economica e finanziaria mondiale e a causa di violenze gratuite e inspiegabili”.

Appello alla pace, all'unità e alla concordia nei Paesi dell'Africa centrale
​“È importante organizzare queste elezioni come si deve, nel rispetto del gioco democratico e delle regole che garantiscono l’equità e l’uguaglianza di possibilità per tutti i partecipanti che aspirano a servire il loro popolo” afferma il messaggio. Per questo, ricordando l’importanza e la necessità di guardare all’interesse generale e di favorire il bene comune, lanciamo l’appello alla pace, all’unità e alla concordia, a tutto il popolo di Dio e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà dell’Africa Centrale, e a non risparmiare gli sforzi perché le elezioni siano giuste e pacifiche” conclude il messaggio. (L.M.)

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Sudafrica: appello dei vescovi contro il razzismo

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Combattere il razzismo “costruendo e sviluppando relazioni di uguaglianza, dignità e rispetto reciproco”: lo scrive la Conferenza episcopale del Sudafrica (Sacbc) in una lettera a firma del suo presidente, l’arcivescovo Stephen Brislin, ed intitolata “Appello a superare il razzismo”. “Abbiamo bisogno – sottolineano i presuli – di dialogare chiaramente per affrontare in modo adeguato e serio le divisioni razziali nel nostro Paese”. “Un dialogo razionale e rispettoso – ribadiscono – è infatti necessario per essere pronti a ricevere la guarigione di Dio”.

Risolvere disuguaglianze economiche e sociali derivanti dal razzismo
Ricordando, quindi, il lungo percorso del Sudafrica per la conquista di “libertà democratica e diritti”, la Sacbc evidenzia l’importanza di affrontare “le questioni derivanti dal trauma sociale” vissuto dal Paese “in secoli di colonialismo e decenni di violenza perpetrata dall’apartheid”, invitando poi tutti i fedeli al dialogo ed alla collaborazione reciproca. Al contempo, i vescovi chiedono che vengano risolte, “con urgenza, le disuguaglianze economiche presenti nella società a causa di leggi e pratiche discriminatorie razziali del passato”, così da “fugare timori infondati e promuovere la giustizia”.

La Chiesa riconosce le proprie responsabilità
Nell’ambito del Giubileo straordinario della misericordia, inoltre, la Chiesa sudafricana non tralascia le proprie responsabilità: “Ci impegniamo – scrivono i vescovi – ad un dialogo credibile e completo sul razzismo, il che significa anche riconoscere la presenza di atteggiamenti razziali all’interno della Chiesa, sia prima che durante il periodo dell’apartheid, sia in questi anni di democrazia”. “In umiltà – ribadisce la Sacbc – noi, in quanto Pastori, ci prostriamo davanti a Dio ed a tutti coloro che hanno sofferto, chiedendo perdono per la complicità che la Chiesa ha avuto, nella storia, con il razzismo”. Implorando, quindi, la misericordia di Dio, i presuli si appellano “a tutti i fedeli ed a tutti gli uomini di buona volontà affinché si faccia il possibile per affrontare il problema del razzismo nella società e nella Chiesa”.

Conoscere ed apprezzare di più le diversità etniche e culturali
A tal fine, scrive la Sacbc, verranno avviati “gruppi di riflessione nella diocesi e nelle parrocchie, così da coinvolgere tutti i fedeli” nell’analisi del problema. Non solo: la Chiesa sudafricana incoraggia a promuovere la conoscenza delle diversità culturali espresse anche a livello liturgico e pastorale: “L’esperienza del Vangelo – spiegano i vescovi – ci chiede di gioire davanti alla diversità delle razze, di apprezzarla in modo più entusiasta e di diventare culturalmente più inclusivi”, perché “il corpo di Cristo si arricchisce attraverso i contributi sociali, culturali ed economici di ogni gruppo etnico”. Di qui, l’invito a diventare vera comunità di fede, in unità con il corpo di Cristo.

Ogni parrocchia lanci una campagna contro il razzismo
Inoltre, nella prospettiva di costruire “un Sudafrica libero dal razzismo”, i vescovi esortano i fedeli a “vivere una vita degna del Vangelo”, evitando di “amare solo chi è uguale a noi”. Per questo, viene ribadita l’importanza di un “dialogo franco ed onesto” con tutti e si esorta ad accostarsi al Sacramento della riconciliazione. “In questo Anno giubilare – concludono i vescovi – chiediamo a tutti i parroci ed a tutti i parrocchiani di impegnarsi in una campagna di superamento del razzismo, promuovendo la preghiera in famiglia, oppure una Giornata di digiuno e preghiera, o ancora lavorando insieme ad organizzazioni che si adoperano per l’eliminazione delle discriminazioni razziali”. “Il Signore – si legge nelle ultime righe della lettera pastorale – conceda la pace, la guarigione e la riconciliazione alla nostra nazione”. (A cura di Isabella Piro)

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Olanda: si rinnova ad Amsterdam la Processione silenziosa

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Si rinnoverà nella notte tra il 12 e il 13 marzo prossimi la “Processione silenziosa” che ogni anno attraversa Amsterdam per commemorare il miracolo dell’ostia. Lo riferisce l’agenzia Sir spiegando che era il 15 marzo 1345 quando un uomo gravemente malato ricevette l’unzione degli infermi e la comunione. La mattina dopo, però, tra le ceneri del fuoco dove era stato buttato quanto l’uomo aveva rimesso durante la notte, fu trovata l’ostia intatta. E ancora, dopo che per due volte l’ostia fu riportata alla parrocchia, la particola fece miracolosamente ritorno alla casa del malato.

Meditazione sulla misericordia di Dio
Per questo, nella notte di sabato prossimo, in un tragitto di circa un’ora, percorso al buio ed in silenzio, i gruppi di fedeli che per l’occasione giungono da tutti i Paesi Bassi, ripeteranno il tragitto compiuto dall’ostia in quella speciale circostanza, meditando sul tema di quest’anno “Gesù, volto della misericordia di Dio, pane di grazia per noi”. Inoltre, in occasione dell’Anno giubilare della misericordia, prima dell’inizio delle processione, alle ore 18.00 dieci dei tredici vescovi olandesi attraverseranno la Porta santa della Basilica di Amsterdam e concelebreranno l’Eucaristia.

Messa speciale per i giovani
Infine, in serata, nelle sette Chiese del centro della città saranno celebrate venti Messe in quella serata. Una in particolare sarà dedicata ai pellegrini più giovani e sarà presieduta dal vescovo di Amsterdam, mons. Joseph Punt, delegato per la pastorale giovanile. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 69

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.