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Sommario del 19/03/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: i vescovi guardino negli occhi per guardare nel cuore

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Un cuore in costante preghiera, attento ai suoi “primi prossimi”, i sacerdoti, e capace di “guardare negli occhi” ogni persona, sempre in spirito di servizio. Papa Francesco ha tratteggiato così il ministero del vescovo presiedendo in San Pietro, nella Solennità di San Giuseppe, la Messa per l’ordinazione episcopale di mons. Peter Brian Wells, nunzio apostolico in Sud Africa, Botswana, Lesotho e Namibia, e di mons. Miguel Ángel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Il servizio di Alessandro De Carolis

La loro unità di misura è il servizio. Ecco perché i vescovi sono chiamati a essere “i più piccoli” di tutti. E le due figure che la liturgia invita a sdraiarsi faccia a terra davanti a chi sta imponendo loro le mani diventano a un certo punto la raffigurazione tangibile del pastore che, nel gregge della Chiesa, ha il suo posto in basso e accanto a chi deve servire, piuttosto che in alto e distante.

Servitori di tutti, servitori sempre
Papa Francesco ricorda tutto questo con forza a mons. Wells e mons. Ayuso Guixot, poco prima di consacrarli vescovi, nel giorno in cui lui stesso celebra il terzo anniversario di inizio del suo ministero petrino. La sua omelia dovrebbe essere “rituale” – con considerazioni e frasi già previste e scritte per questa occasione – ma non lo è perché il Papa prende quelle parole e le riempie di indicazioni, di vita episcopale vissuta:

“‘Episcopato’ infatti è il nome di un servizio, non di un onore. Poiché al vescovo compete più il servire che il dominare, secondo il comandamento del Maestro: ‘Chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo. E chi governa, come colui che serve’. Siate servitori. Di tutti: dei più grandi e dei più piccoli. Di tutti. Ma sempre servitori, al servizio”.

Primo, pregare
Il vescovo, ricorda Francesco in modo diretto, è “Cristo che predica” la Parola in ogni occasione. È “Cristo che fa la Chiesa” e “che guida”  esortando e ammonendo “con magnanimità e dottrina”. Ma un vescovo semplicemente non esiste, aggiunge, se non si mette sempre in ginocchio:

“Non dimenticatevi che il primo compito del vescovo è la preghiera: questo lo ha detto Pietro, il giorno dell’elezione dei sette diaconi. Secondo compito, l’annuncio della Parola. Poi vengono gli altri. Ma il primo è la preghiera. Se un vescovo non prega, non potrà far nulla”.

Accanto ai propri sacerdoti
L’esperienza pastorale di Francesco si concretizza nell’esempio, spesso rievocato, di una situazione tipo negativa da evitare, dice ai due ordinandi, a qualunque costo, quella di un vescovo che non ha tempo per i suoi sacerdoti, i suo diaconi, cioè la sua prima famiglia:

“Fa piangere quanto tu senti che un presbitero dice che ha chiesto di parlare con il suo vescovo e la segretaria o il segretario gli ha detto : “Ma, ha tante, tante cose da fare, prima di tre mesi non ti potrà ricevere…’. Il primo prossimo del vescovo è il suo presbitero: il primo prossimo. Se tu non ami il primo prossimo, non sarai capace di amare tutti”.

Guardare negli occhi
E la stessa prossimità è per ogni pecora del gregge. “Dietro ogni carta – osserva – c’è una persona. Dietro ogni lettera che voi riceverete, c’è una persona. Che quella persona sia conosciuta da voi e che voi siate capaci di conoscerla”:

“Vicini ai poveri, agli indifesi e a quanti hanno bisogno di accoglienza e di aiuto. Guardate i fedeli negli occhi. Non obliquamente: negli occhi, per guardare il cuore. E che quel fedele tuo sia presbitero, diacono o laico, possa guardare il tuo cuore. Ma guardare sempre negli occhi”.

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Papa nomina nunzi in Turchia, Repubblica del Congo e Senegal

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Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico in Turchia e in Turkmenistan mons. Paul Fitzpatrick Russell, consigliere di Nunziatura, elevandolo in pari tempo alla dignità di arcivescovo. Il presule è nato a Greenfield, negli Stati Uniti, il 2 maggio 1959. Ordinato sacerdote il 20 giugno 1987 è stato incardinato a Boston. Laureato in Diritto Canonico, è entrato nel Servizio diplomatico della Santa Sede il primo luglio 1997, ha prestato la propria opera nella Sezione Affari Generali della Segreteria di Stato e nelle Rappresentanze Pontificie in Etiopia, Turchia, Svizzera, Nigeria e in Cina. Conosce l’inglese, il francese, l’italiano, lo spagnolo e il tedesco.

Il Pontefice ha nominato nunzio apostolico nella Repubblica del Congo mons. Francisco Escalante Molina, consigliere di nunziatura, elevandolo in pari tempo alla dignità di arcivescovo. Il presule è nato a La Grita, in Venezuela, il 29 gennaio 1965. Ordinato sacerdote il 26 agosto 1989, è stato incardinato a San Cristobal. Laureato in Diritto Canonico, è entrato nel Servizio diplomatico della Santa Sede il 13 giugno 1998, ha prestato la propria opera nelle Rappresentanze Pontificie in Sudan, Ghana, Malta, Nicaragua, Giappone e in Slovenia. Lingue conosciute: Spagnolo, Inglese, Francese, Italiano.

Il Papa ha nominato nunzio apostolico in Senegal e delegato apostolico in Mauritania l’arcivescovo Michael W. Banach, finora nunzio apostolico in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Salomone.

In Cile, Francesco ha nominato vescovo di San Juan Bautista de Calama padre Óscar Hernán Blanco Martínez, dei Chierici della Madre di Dio, finora parroco della Parrocchia “Nuestra Señora del Carmen” a Rancagua. Il neo presule nato a Puerto Domínguez, diocesi di Villarrica, il 26 settembre 1964. Compì gli studi di Filosofia presso il Seminario “San Pedro Apóstol” della diocesi di San Bernardo, e quelli di Teologia presso il Seminario Pontificio Maggiore di Santiago. Ha emesso la professione religiosa solenne nell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio il 17 marzo 1996 ed è stato ordinato sacerdote il 13 aprile 1997. Ha svolto successivamente i seguenti incarichi: Cappellano della “Clínica Familia” a Santiago (1997 – ad oggi), Vicario Parrocchiale della Parrocchia “San Lázaro” a Santiago (1997 – 2000), Vicario Parrocchiale della Parrocchia “Nuestra Señora de Guadalupe” a Santiago (2000 – 2001), Parroco della Parrocchia “Nuestra Señora de Guadalupe” a Santiago (2001 – 2006), Parroco della Parrocchia “Nuestra Señora del Carmen” a Rancagua (2006 – 2012), Maestro dei Novizi dei Chierici Regolari della Madre di Dio a Santiago (2013 – 2014) e, dal 2014, Parroco della Parrocchia “Nuestra Señora del Carmen” a Rancagua.

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Il Papa su Instagram: con voi sulla via della tenerezza di Dio

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“Inizio un nuovo cammino, in Instagram, per percorrere con voi la via della misericordia e della tenerezza di Dio”. Con questo tweet Papa Francesco ha annunciato la sua presenza da oggi sul social network lanciato nel 2010 e basato essenzialmente sulla condivisione di foto. È stato lo stesso Papa a inaugurare l’account “Franciscus” da Casa Santa Marta, postando la prima foto che lo ritrae in preghiera. Ad assistere all’avvio del profilo, Kevin Systrom, amministratore delegato e co-fondatore di Instagram, e mons. Lucio Adrian Ruiz, segretario della Segreteria per la Comunicazione.

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Parolin tra i profughi in Macedonia: Ue rispetti diritto umanitario

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Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, nella seconda giornata della sua visita in Macedonia, si è recato nel campo profughi di Gevgelija sul confine con la Grecia. Il porporato ha ascoltato le drammatiche storie dei migranti e le loro richieste per la riapertura dei confini e di nuovo ha rivolto il suo appello all’Ue per trovare un accordo comune puntando sull’aspetto umanitario. Ascoltiamo le parole del cardinale Pietro Parolin al microfono di Iva Mihailova

“Credo che l’Europa possa farlo, perché l’Europa si distingue e si è sempre distinta in questi ultimi anni, dopo le Guerre mondiali, per il suo spirito umanitario e per il rispetto anche del diritto umanitario. Quindi diciamo che ci sono le condizioni veramente per trovarsi insieme, riflettere insieme e cercare insieme anche delle soluzioni”.

Sul commovente incontro del cardinale Parolin con i rifugiati nel campo di Gevgelija, ascoltiamo Iva Mihailova al microfono di Sergio Centofanti: 

R. - Sino a poco tempo fa, questo campo era attraversato ogni giorno da migliaia di persone, ma dopo la chiusura delle frontiere sono rimasti in pochi. Infatti adesso qui ci sono 25 persone, che il cardinale ha voluto incontrare una ad una, specialmente una donna, la mamma di due figli morti annegati nel Suva Reka, che attraverso questo fiume cercavano di raggiungere il suolo macedone illegalmente insieme ad un gruppo di altre 20 persone, tutti qui presenti nel campo di Gevgelija. Il cardinale si è intrattenuto con loro: i profughi hanno pianto, lo hanno abbracciato, gli hanno chiesto di fare qualcosa per loro concretamente. Sono, infatti, bloccati in questo campo senza speranza e aspettano solo la riapertura delle frontiere.

D. – I profughi come hanno accolto questo accordo tra Unione Europea e Turchia?

R. – I profughi sono disperati, perché loro speravano che qualcosa potesse cambiare… Qui c’era anche il vice-ministro macedone, e il cardinale Parolin, in maniera molto accurata, gli ha chiesto diverse informazioni riguardo il flusso dei migranti, i problemi di questi ultimi. Ha chiesto anche al governo macedone di accogliere un numero, magari limitato, di migranti. E poi si è parlato anche del campo di Idomeni, che è a 700 metri, dall’altra parte del confine, dove si trovano accampate 12.000 persone che sono costrette in condizioni invivibili. Invece in questo campo le condizioni sono abbastanza buone. C’è l’asilo nido per i bambini che il cardinale ha visitato: qui ha parlato con tutti i bambini e le mamme. Ha portato loro i saluti del Papa e gli ha detto che lui segue con molta attenzione questa situazione.

D. – Che cosa ha detto il cardinale Parolin sulla questione dei migranti?

R. – Ha detto che è una situazione complicata, che a volte va oltre le forze e le possibilità degli stessi Stati, ma che bisogna comunque cercare una risposta andando concretamente incontro alle persone. Era davvero impressionante come tutti questi profughi vedevano nel cardinale una speranza, una possibilità di cambiamento.

D. – Qual è il lavoro che sta svolgendo la Caritas tra i profughi?

R. – La Caritas è stata sin da subito in prima linea, sin da quando è iniziata la crisi. E qui, al campo di Gevgelija, c’è il parroco cattolico, padre Dimitar Tascev, che ogni giorno con i suoi volontari aiuta i profughi, offrendo loro un pasto caldo, una bevanda calda. Si distribuiscono pannolini, vestiti; sono varie le forme di assistenza. Dall’inizio della crisi, la Caritas in Macedonia ha aiutato oltre 170.000 persone.

La visita a Skopje
Ieri sera il cardinale Parolin aveva portato il saluto e la benedizione di Papa Francesco ai fedeli macedoni riuniti nella Cattedrale del “Sacro Cuore di Gesù” a Skopje. Il porporato ha elogiato la piccola comunità cattolica, appena 20 mila fedeli, definendola “piena di vita e dinamismo” e incoraggiandola a proseguire sulla via “del dialogo ecumenico e interreligioso”. Parlando in precedenza al clero e ai religiosi, il segretario di Stato li ha invitati ad essere testimoni coraggiosi, Chiesa in uscita come esorta Papa Francesco, diventando “testimoni credibili” per la società macedone.

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Card. Sandri: da Ginevra una pace stabile per la Siria

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Un gesto concreto per i fratelli che vengono perseguitati in Medio Oriente affinché non si sentano abbandonati. Questo il fine della Colletta del Venerdì Santo per i cristiani in Medio Oriente, presentata ieri a Roma alla Fondazione Terra Santa, e promossa dalla Congregazione per le Chiese Orientali. Alla raccolta sono state invitate a partecipare le diocesi di tutto il mondo. Il servizio di Marina Tomarro

Aiutare i fratelli che soffrono a non sentirsi soli nella persecuzione nelle ingiustizie e nelle povertà che spesso costringono a lasciare la propria terra e cercare fortuna altrove. E’ questo l’obiettivo della Colletta del Venerdì Santo. Il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali:

R. – Ci sono tantissime possibilità per poter aiutare questi nostri fratelli. La Colletta del Venerdì Santo è una di queste possibilità e pertanto per noi e per la Custodia di Terra Santa ha un’importanza fondamentale sensibilizzare tutti i cristiani e i cattolici perché aiutino quelli che stanno soffrendo di più nella Chiesa di Cristo, come sono i cristiani del Medio Oriente.

D. – Tanti sono i cristiani che ogni giorno fuggono dal Medio Oriente. Perché è importante che i cristiani comunque rimangano in Medio Oriente, che non vadano via?

R. – Perché il Medio Oriente senza i cristiani diventerebbe un altro Medio Oriente: si trasformerebbe in un Medio Oriente di rovine, di pietre, di musei e non di pietre vive che testimoniano nel luogo proprio dove tutti gli eventi nella salvezza si sono realizzati, dall’Antico Testamento. Quindi diverrebbe un luogo santo, senza le persone che testimoniano questa fede. E queste migrazioni, queste fughe sono veramente obbligate, però speriamo che siano condizionate dalla situazione presente e che non si cancelli mai la speranza che loro possano tornare.

D. – Proprio in questi giorni, a Ginevra, si sta discutendo per la prima volta di probabili negoziati di pace per la Siria. Secondo lei, cosa succederà?

R. – Noi speriamo che la buona volontà di tutti quelli che partecipano a questi negoziati sia tale da potere arrivare, ovviamente, con tutte le condizioni di dover anche cedere posizioni, a un aggiustamento giusto ed equilibrato che porti finalmente la pace in Siria. Noi, come Congregazione per le Chiese Orientali, abbiamo avuto, in questi giorni, la visita del segretario della Congregazione in Siria: una settimana in cui non ci sono stati bombardamenti. C’è una tregua, c’è una specie di serenità, almeno apparente. Speriamo che si trasformi in una pace sicura, in una pace sentita da tutti e che porti non solo a ricostruire la vita di quelli che sono rimasti, ma che porti anche quelli che sono fuori a poter tornare. Però, senza l’aiuto della comunità internazionale sarà effettivamente difficile.

E a testimoniare la sofferenza della persecuzione all’incontro era presente padre Jaques Mourad, rapito in Siria nel maggio del 2015 e rimasto per cinque mesi nelle mani dei terroristi del sedicente Stato islamico:

R. – Parce-que quand tu vis dans un état de prison, ça veut dire que tu as perdu la liberté, ta liberté …

Tutti i momenti sono stati difficili, perché quando si vive privati della libertà, tutti i momenti sono complicati nella vita. Io non parlavo con i miei carcerieri: ho soprattutto ascoltato, con il silenzio, con la pazienza e con la mitezza.

D. – Come considera questa  guerra?

R. – La guerre? Comme tous les Syriens: un désastre! Toujours la guerre est un temps d’obscurité …

La guerra? Male come tutti i siriani. E’ un disastro, è un momento di oscurità e di vuoto. Siamo nella Settimana Santa, siamo in cammino con Gesù, e il Signore ci ha fatto capire che il male non è il vero cammino della Creazione, ma sfortunatamente gli uomini non hanno ancora compreso che il male e il dolore non sono la soluzione per la nostra storia. Penso che i politici e i governanti, dovrebbero ascoltare di più anche la Chiesa e dovrebbero ascoltare di più i poveri.

D. – C’è ancora speranza?

R. – Nous avons l’espoir toujours, comme disciples du Christ, parce-que nous voyons derrière la mort…
Noi, in quanto discepoli di Cristo, abbiamo sempre la speranza, perché dietro alla sua morte in Croce noi vediamo la gloria di Cristo rivelata nella sua resurrezione.

D. – Molte le aspettative nei riguardi degli interventi militari della Russia in Siria. Lei cosa ne pensa?

R. – Je m’excuse pour répondre, parce-que d’abord je ne suis pas politicien, mais ce je sens c’est que…
Mi scuso per la risposta che darò, ma io non sono un uomo politico. Sento però che qualsiasi Paese entrasse in questa guerra, non farebbe che complicare le cose.

D. – Come aiutare i cristiani che vivono il dolore della persecuzione?

R. – Je dois mentionner une chose très importante en ce qui se passe en Syrie, que la persécution…
Per quanto riguarda la Siria, devo dire una cosa molto importante e cioè che la persecuzione non è rivolta in maniera specifica contro i cristiani: è una persecuzione contro tutte le etnie siriane. E purtroppo, tutti partecipano a questa persecuzione. E quindi la Chiesa, i cristiani d’Europa e del mondo, se veramente volessero assumersi la loro responsabilità, e voi, giornalisti, insieme ai media, voleste compiere nel modo migliore la vostra missione, dovete contribuire a fermare questa guerra.

D. – Cosa ne pensa dell’ attuale tregua in Siria?

Ci spero. Ma purtroppo servirà a salvare solo una piccola parte del Paese non il Paese intero, perché bisogna pensare non soltanto a quelli che sono nei campi di rifugiati, ma a tutti quelli che non si trovano né in Paesi europei ne in questi campi, ma sono scappati all’interno del Paese, e adesso sono nel deserto o ai confini con altri Paesi, e a loro non arriva nessun aiuto e vivono in una situazione di precarietà assoluta.

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Santa Sede: promuovere la donna per lo sviluppo e la pace nel mondo

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La promozione della donna nella società è una condizione fondamentale per lo sviluppo e la pace nel mondo. È quanto affermato da mons. Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, intervenuto ieri a New York alla 60.ma sessione della Commissione sullo status delle donne.

Donne vittime di violenze e discriminazioni
Violenze e discriminazioni continuano ad essere un ostacolo alla piena realizzazione delle potenzialità delle donne che – ha sottolineato mons. Auza - hanno un ruolo vitale non solo nella promozione dello sviluppo sostenibile, ma anche nei processi di peacekeeping e peace-building nelle tante aree di conflitto oggi nel mondo. Stupri di guerra, traffico a scopo di sfruttamento sessuale, aborti coatti, conversioni e matrimoni forzati: le donne e le bambine sono ancora vittime di vecchie e nuove forme di violenza, anche mortali, che hanno gravi e durevoli conseguenze fisiche, psicologiche e sociali.

L’emarginazione delle donne anziane
L’osservatore permanente si è soffermato quindi sulle tante discriminazioni che colpiscono in particolare alcune categorie di donne. Tra queste le anziane che, in un mondo basato su logiche produttivistiche e segnato dal declino dei valori della famiglia, sono oggi ancora più emarginate e, in alcuni casi, spinte a suicidarsi.

La penalizzazione della maternità e i feticidi femminili
Una forma diffusa di discriminazione riguarda le madri: “In molti luoghi il contributo essenziale delle donne allo sviluppo della società attraverso la maternità non è adeguatamente riconosciuto, apprezzato, promosso e difeso, al punto che molte donne si trovano costrette a scegliere tra lavoro e maternità”. Mons. Auza ricorda poi come in  alcune parti del mondo le pratiche dell’aborto e della fecondazione assistita con selezione pre-impianto del sesso, vengano usate per eliminare le bambine.

Investire sull’educazione e sulla salute delle donne e delle bambine
Quindi l'osservatore permanente richiama l’attenzione sulla necessità di investire in un’educazione e assistenza sanitaria di qualità per le donne e le bambine, due campi che vedono la Chiesa impegnata in prima fila, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e nelle aree di conflitto. Un migliore accesso all’istruzione – ha detto –  non è solo una garanzia per la piena realizzazione delle potenzialità femminili e per migliori sbocchi professionali, ma anche “la chiave per una migliore educazione delle generazioni future”. Inoltre, in molte aree del mondo la salute delle donne è trascurata con gravi conseguenze per il benessere dei bambini, delle famiglie e della società. Un’autentica protezione della salute delle donne e delle bambine - ha ammonito - non può prescindere dalla “tutela della loro umanità femminile e dalla loro dignità”. Promuovere le donne - ha concluso mons. Auza - “aiuterà in modo significativo la comunità mondiale a non lasciare indietro nessuno e avvantaggerà tutti”.

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Mons. Bruguès in Turchia: la diplomazia del libro apre i cuori

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Un vero e proprio successo: così mons. Jean-Louis Bruguès, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, ha definito la sua ultima missione in Turchia che aveva come obiettivo quello di far conoscere in profondità il lavoro della Biblioteca Apostolica e dell’Archivio Segreto Vaticano. Quella turca si può considerare una nuova tappa del progetto legato alla cosiddetta "diplomazia della cultura e del libro" in grado di costruire ponti di dialogo in casi difficili, laddove la diplomazia ufficiale stenta. Ascoltiamo mons. Bruguès al microfono di Federico Piana

R. – In Biblioteca c’è un regolamento pratico: l’ambasciatore si presenta dal Papa, poi dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ed in seguito alla Biblioteca: siamo il terzo livello delle visite diplomatiche. Il nuovo ambasciatore della Turchia, quando è stato nominato, è venuto da me, mi ha regalato dei libri per la Biblioteca e mi ha proposto di fare un viaggio in Turchia. Lo scopo era quello di far conoscere sia la Biblioteca che l’Archivio segreto. Bisogna ricordare che l’opinione pubblica in Turchia ha un concetto piuttosto negativo sia della Santa Sede sia dell’Archivio, perché è segreto: e dunque si pensa che ci siano dei segreti che la Chiesa non vuole rivelare al pubblico. Sono stato invitato a Istanbul, dove c’è una bellissima università – l’università delle Belle Arti – e mi hanno chiesto di presentare sia la Biblioteca sia l’Archivio davanti ad un pubblico composto da 400 studenti. L’attenzione è stata veramente grande! È stato un momento gradevole: avendo io insegnato per 25 anni, ho recuperato quasi una nuova giovinezza davanti al pubblico. E ho detto agli studenti: “La Biblioteca, come anche l’Archivio, sono aperti a tutti gli studiosi, anche agli studiosi turchi. Per cui, se volete, potete lavorare con noi”. Ho ricevuto una risposta entusiasta. E poi abbiamo fatto una cena con loro. Il secondo scopo era quello di andare a Smirne: il nuovo arcivescovo di Smirne è un domenicano, lo avevo conosciuto in passato, e mi ha chiesto di fare una conferenza pubblica per presentare un libro scritto da poco, la Biblioteca e l’Archivio. E poi abbiamo celebrato insieme le Ceneri nella Cattedrale, che adesso non è molto visitata. La comunità levantina si è veramente ridotta nel tempo…

D. – Questo cosa vuol dire, dal punto di vista anche diplomatico?

R. – Nella biblioteca c’è una dimensione scientifica. Ci sono circa 15 mila studiosi che ogni anno vengono da noi per studiare, per fare ricerca. Ma c’è anche una seconda dimensione, che all’inizio non avevo ben capito: cioè, la cultura è in alcuni casi, più difficili e più tragici, l’unico modo di creare ponti quando le diverse attività della mente umana potrebbero creare frontiere, separazioni, opposizioni. E quindi, facendo questo viaggio in Turchia, dove di nuovo – ripeto – l’opinione pubblica era piuttosto negativa, ho voluto dimostrare l’apertura della Chiesa tramite il canale della cultura.

D. – Questo vuol dire che la tappa turca rientra nel più vasto progetto che lei più volte ha definito ‘la diplomazia del libro e della cultura’ e che la Biblioteca Apostolica Vaticana ha avviato ormai da tempo…

R. – Sì, da quasi tre anni. Questa politica presenta tre dimensioni. La prima è che sono stato invitato dai governo di Belgrado, Sofia, Bucarest e anche dai Patriarchi, che mi hanno chiesto di aiutare sia le Chiese locali – ortodosse naturalmente – sia i Paesi a ritrovare, ricostituire, la loro memoria danneggiata dalla guerra, quando le biblioteche nazionali furono bruciate o distrutte. E quindi la prima dimensione, molto interessante, è che le Chiese ortodosse chiedono al Vaticano – alla Chiesa cattolica universale – un aiuto, un appoggio, per ritrovare, ricostituire la propria memoria. La Biblioteca Vaticana adesso è diventata come una “biblioteca madre” per queste biblioteche nazionali ed ecclesiastiche. La seconda dimensione è l’America Latina: ho ricevuto tre settimane fa il nuovo ambasciatore dell’Uruguay, che mi ha chiesto se fosse possibile ricevere sia in Biblioteca sia in Archivio la persona responsabile dell’Archivio nazionale. Questa signora vorrebbe studiare il nostro modo di lavorare, restaurare e accogliere gli studiosi. E quindi ho proposto alla signora di rimanere da noi una, due, forse tre settimane, per studiare il modello della Biblioteca Vaticana. E la terza dimensione è l’Estremo Oriente. L’anno scorso sono andato a Tokyo per inaugurare una bellissima mostra e adesso ne stiamo preparando una itinerante in Cina, nell’estate del prossimo anno, per far conoscere al pubblico cinese gli antichi manoscritti che ora si trovano nella nostra Biblioteca. Per presentarli al grande pubblico verranno totalmente digitalizzati.

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Al via l'Ora della Terra. Alle 20.30 spento anche il Vaticano

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Oggi, sabato 19 marzo, è tornata “Earth Hour”, l’Ora della Terra, la più grande mobilitazione globale in favore del risparmio energetico e contro i cambiamenti climatici. Singoli cittadini, istituzioni e imprese stanno spegnendo le luci per un’ora, dalle 20.30 alle 21.30, lungo tutti i fusi orari. In Vaticano si spegneranno le luci della Cupola, della Facciata della Basilica Vaticana e del colonnato di San Pietro. L’iniziativa è stata lanciata nel 2007 dal Wwf coinvolgendo la sola città di Sidney.

"La grande ola del buio"
Oggi, la “grande ola di buio” percorre 178 Paesi e più di 7.000 città in tutto il mondo. Il direttore esecutivo di "Earth Hour", Siddarth Das, da Singapore ha ribadito la gioia “per come milioni di persone in tutto il mondo abbiano sposato la causa dell'ambiente". Ha sottolineato che la gente oggi comprende maggiormente l'impatto dei cambiamenti climatici, aggiungendo che il surriscaldamento del globo è diventato un argomento quotidiano e personale. Secondo il direttore della campagna, "stiamo assistendo a un momento completamente nuovo nella battaglia per il clima che trascende confini e generazioni”.

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Oggi in Primo Piano



Accordo Ue-Turchia, l'esperto: sono espulsioni collettive

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Un attacco ai diritti umani: questo il commento delle organizzazioni umanitarie dopo l’accordo Ue-Turchia sui migranti, raggiunto ieri a Bruxelles. Un’intesa considerata cinica, che dimostra l’evidente intenzione dell’Unione Europea di voler voltare la faccia alla crisi globale dei rifugiati. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Tre miliardi di euro in più alla Turchia e, in seguito, la probabile accelerazione sulla liberalizzazione dei visti e un possibile passo in avanti verso l’adesione di Ankara all’Ue. E’ la contropartita versata dall’Europa in cambio dei rimpatri dei migranti che arriveranno illegalmente sulle coste greche e che fa parte del controverso accordo raggiunto ieri, in vigore già da domani, che prevede in sostanza rimpatri e garanzie legali e il meccanismo dello "scambio uno per uno".  Le istituzioni europee, così come i leader dei 28, parlano di “intesa equilibrata”, il premier turco Davutoglu parla di “giorno storico”, le organizzazioni umanitarie tutte lo definiscono l’“accordo della vergogna”. Salvatore Fachile, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione:

R. – Questo accordo segna il primo tentativo dell’Unione Europea di utilizzare alcuni strumenti che sono previsti nella normativa europea e che sono, sostanzialmente, quello del rinvio in un Paese terzo che viene considerato “sicuro”. Cioè, questa è la prima volta che l’Unione Europea decide di demandare, di rigettare, in qualche maniera, l’idea di accogliere il richiedente e di poter rispedire un richiedente asilo che lei – l’Unione Europea – considera un Paese sicuro. A questo viene associata questa idea per cui la Turchia è un Paese “sicuro”, anche se non rispetta per niente i requisiti del “Paese sicuro” previsti dalla normativa europea. Però, questa associazione – da una parte, l’idea di applicare questo strumento, dall’altra di considerare la Turchia un “Paese sicuro” – fa sì che l’accordo preveda che tutte le persone che arrivano in Grecia se non si fanno identificare vengano immediatamente respinte e, allo stesso modo, se non esprimono la volontà di chiedere protezione internazionale e asilo vengono immediatamente respinte. Se invece, arrivate in Grecia, esprimono la volontà di richiedere asilo, qui è la grandissima novità, l’Unione Europea stabilisce che le loro domande saranno dichiarate “inammissibili”. Incredibilmente, perché vengono da un Paese che l’Unione Europea adesso, da oggi, considera un “Paese sicuro” e quindi vengono immediatamente rispedite in Turchia. In cambio, la Turchia aiuterà l’Unione Europea assieme a una serie di altri Stati e, ovviamente, anche all’Unhcr, a fare una cernita: un numero molto esiguo di persone solo di nazionalità siriana verrà scelto, senza dei  criteri, per essere riportato in Europa in cambio del fatto che tutte le domande presentate in Grecia sono considerate inammissibili e quindi i loro richiedenti sono stati, mi ripeto incredibilmente, rispediti in Turchia. Si tratta di una misura che l’accordo definisce essere “transitoria” e “temporanea”. Questo perché definire questa misura – così tanto fuori da quelle che sono state le politiche normative  e le scelte dell’Unione Europea degli ultimi 50 anni –  “eccezionale e transitoria” significa in qualche maniera giustificarsi soprattutto dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, sicuramente, verrà adita perché, di fatto, il meccanismo immaginato da questo accordo è una forma di rimpatrio collettivo dei richiedenti asilo.

D. – E quindi parliamo di “espulsioni collettive”, nonostante l’Unione Europea si sia affannata a dire che non è questo il caso…

R. – Ma sì, certo. E’ assolutamente chiaro che, nonostante la dichiarazione di principio per cui verranno analizzate le posizioni individuali, si tratta di un meccanismo che si basa sul concetto di rimpatrio collettivo, perché collettivamente viene considerata la Turchia un “Paese sicuro”, collettivamente viene utilizzato lo strumento della inammissibilità, quindi non può che venir fuori, ovviamente, un processo di rimpatrio collettivo. Il fatto stesso che l’Unione Europea tenti in tutti i modi di dichiarare il contrario è ovviamente segno della grandissima paura che ha che venga sollevata, davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la violazione del divieto di rimpatri collettivi. Nel frattempo, però, si saranno ugualmente ottenuti i risultati, perché i tempi della giustizia sono così lenti che, nel frattempo, si sarà ugualmente raggiunto l’obiettivo politico: quello di bloccare la frontiera tra Grecia e Turchia, quindi di spezzettare e di rendere molto più diffuso in tutto il Mediterraneo il passaggio. Significa che queste 700 mila persone, il numero di coloro che sono passati l’anno scorso da quella frontiera, si sparpaglieranno su molte più frontiere, pagheranno molto di più i trafficanti, rischieranno molto di più la vita, ma non è che si fermeranno in Turchia. Nessuna persona ritiene essere tutelata dalla Turchia.

D. – Si continua a parlare di siriani, ma si sa che ci sono tante altre popolazioni che teoricamente avrebbero lo status di richiedenti asilo. Di queste persone, cosa ne sarà? Parliamo di afghani, di eritrei…

R. – Per gli afghani e gli eritrei, ci sarà una situazione paradossale per cui, molto probabilmente, queste persone resteranno incastrate in Turchia. Dubito che la Turchia riesca a rimpatriare forzatamente gli afghani o gli eritrei ma, sicuramente, tutto questo varrà per tutti gli altri. Per afghani ed eritrei, invece, il paradosso è incredibile perché l’Unione Europea riconosce loro sempre una protezione però, se provano a entrare dalla Turchia, verranno lì rispediti proprio perché considerato un “Paese sicuro”. Ricordiamoci però che la Turchia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra “in toto”, l’ha ratificata con una limitazione geografica importantissima. La Turchia riconosce il diritto di presentare la domanda di asilo solo agli europei. L’afghano, l’eritreo, non hanno il diritto di presentare una domanda di asilo in Turchia, perché per loro non esiste la Convenzione di Ginevra e questo non nella prassi, ma nel diritto. Tutte queste persone saranno tutte degli “irregolari” in Turchia, bloccate in Turchia. Non potranno neanche fare il reinsediamento perché non sono siriani, quindi vengono abbandonate lì e prima o poi cercheranno altre rotte più pericolose. E qualcuno riuscirà ad arrivare in Europa tra anni.

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Attacco kamikaze a Istanbul: 5 morti e oltre 30 feriti

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Almeno 5 morti e 36 feriti, di cui 12 sono stranieri nell'esplosione avvenuta sulla centralissima viale Istiklal a Istanbul, a poca distanza da piazza Taksim. Sembra che il kamikaze che si è fatto saltare in aria avesse un altro obiettivo, ma l'esplosivo che aveva addosso è scoppiato prima del previsto. Precisamente, il kamikaze è saltato in aria su Balo Sokak, a pochi metri dalla piazza di Galatasaray e dal centro commerciale "Demiroren", il più grande della zona. Come avviene regolarmente nei casi di attacchi terroristici in Turchia, l'autorità radiotelevisiva ha imposto una censura sulla trasmissione di immagini dalla zona dell'attentatoPer una riflessione, Fausta Speranza ha intervistato Stefano Silvestri, consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali: 

R. – Diciamo che, purtroppo, il problema continua. Il centro della questione evidentemente rimangono Siria, Iraq, Daesh, i curdi, eccetera. Ma il problema è che l’instabilità si sta espandendo e la Turchia è evidentemente ormai al centro di una vera tempesta. Adesso vediamo: se l’accordo con l’Unione Europea consoliderà un po’ la situazione, questo potrebbe essere un fatto positivo. Però, la realtà è che il governo turco rimane sostanzialmente abbastanza isolata, in parte a causa delle sue stesse politiche. E questo, naturalmente, ne fa un obiettivo allettante per molti.

D. – Quale partita sta giocando, la Turchia?

R. – La Turchia vorrebbe allo stesso tempo rafforzare il suo ruolo di potenza regionale all’interno del Medio Oriente, diventare un po’ il punto di riferimento di tutta la parte del mondo musulmano e in particolare del mondo musulmano arabo-sunnita. E nello stesso tempo, però, rafforzarsi nei confronti dell’Europa, se non come membro dell’Unione Europea, che è una prospettiva molto lontana e forse anche improbabile, almeno come partner privilegiato dell’Unione Europea, mettendosi in mezzo anche, con una certa criticità, nei confronti della Russia. E’ un gioco ambizioso, molto difficile, e che forse potrebbe essere più semplice se non ci fossero anche, in questo momento, i problemi di politica interna del regime di Erdogan.

D. – Diciamo qualcosa proprio a proposito delle problematiche interne?

R. – Diciamo che Erdogan ha voluto forzatamente fare due volte le elezioni per riconquistare una maggioranza assoluta che aveva perso con le elezioni precedenti e in questa maniera, però, ha anche riaperto di forza il problema curdo, in questa maniera si è esposto di più alla contestazione – anche violenta – dei curdi e probabilmente ha offerto il fianco agli attacchi terroristici. Diciamo che quello che ha guadagnato da una parte, rischia di perderlo dall’altra.

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Congo Brazzaville al voto. Nguesso favorito al terzo mandato

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Domenica di voto nella Repubblica del Congo per le elezioni presidenziali. Stando ai sondaggi, il grande favorito è il presidente uscente, Denis Sassou-Nguesso – da oltre 30 anni al potere, con una pausa tra il 1992 e il 1997 – che dovrà vedersela con otto sfidanti. Nguesso si presenta per il terzo mandato consecutivo, grazie al cambio della Costituzione voluto da lui stesso e approvato attraverso un referendum popolare, che toglie il limite di età a 70 anni per potersi candidare (Nguesso ne ha 72) e riduce il mandato presidenziale da sette a cinque anni. Per un’analisi generale della situazione nel Congo Brazzaville, Marco Guerra  ha intervistato Enrico Casale, redattore della rivista "Africa" dei Padri Bianchi: 

R. – Nguesso è certamente il favorito di queste elezioni nella Repubblica del Congo. Per riuscire a essere rieletto per il terzo mandato ha convocato un referendum che modificasse la Costituzione del Paese e gli permettesse di ricandidarsi. Teniamo presente che Nguesso si ricandida per la terza volta, ma lui è da 30 anni al potere in quello che era il Congo francese, un Paese pieno di risorse naturali; pensiamo al petrolio ma anche e soprattutto al legname.

D. – Dopo oltre 30 anni di potere nella mani di Nguesso – c’è stata solo un’interruzione tra il ’92 e il ’97 – nel panorama regionale africano che Paese è il Congo?

R. – Il Congo è un Paese politicamente stabile perché Nguesso è al potere da circa 30 anni. E' un Paese che ha enormi risorse – come dicevo prima – soprattutto petrolio e legname che potrebbero garantire un discreto tenore di vita all’intera popolazione. In realtà non è così, perché le risorse non vengono equamente ripartire e quindi i proventi vanno soprattutto alla classe dirigente legata al presidente.

D. – Però, se non sbaglio, la campagna elettorale è stata abbastanza tranquilla, non ci sono state tensioni. Quindi, parliamo comunque di un Paese pacificato o ci sono delle divisioni? C’è della rabbia che cova sotto?

R. – Sicuramente c’è della rabbia che cova sotto, che è emersa prima del referendum per la modifica della Costituzione, quindi c’è della tensione. Certo, questo presidente dando stabilità è una garanzia nei confronti della regione e quindi delle potenze che acquistano le risorse naturali dal suo Paese.

D. – Abbiamo detto che probabilmente Nguesso verrà rieletto. Quali sono le sfide che spettano al nuovo governo?

R. – Il Congo Brazzaville non ha un’importanza strategica così forte, come ad esempio la vicina Repubblica Democratica del Congo. In questo momento non ha tra i suoi vicini, tra le nazioni confinanti, particolari tensioni, quindi dal punto di vista delle relazioni internazionali non ci sono gravi crisi o gravi problemi che la Repubblica del Congo deve affrontare. Dal punto di vista economico, certamente dovrebbe esserci una migliore ripartizione delle risorse naturali cosa che, se venisse rieletto il presidente, non credo possa esserci.

D. – Il Paese anche etnicamente non è attraversato da divisioni, non ci sono i problemi legati al fondamentalismo…

R. – No, c’è una minoranza musulmana che in quanto tale finora non ha dato alcun problema. Dal punto di vista religioso, in quest’area non ci sono tensioni al momento. La convivenza religiosa è stata abbastanza tutelata dalle istituzioni congolesi.

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Senegal: in costruzione una nuova Chiesa dedicata a San Giuseppe

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La Fondazione pontificia "Aiuto alla Chiesa che Soffre" costruisce una nuova Chiesa dedicata a San Giuseppe a Vélingara, nel Sud del Senegal, Paese africano a stragrande maggioranza musulmana. Oggi viene inaugurato il campanile. Il direttore della fondazione, Alessandro Monteduro, ha spiegato a Maria Laura Serpico la scelta di festeggiare San Giuseppe con questo nuovo progetto: 

R. – Agli italiani, a quei benefattori che ci hanno chiesto di celebrare San Giuseppe quest’anno in un modo tutto particolare, cioè anche attraverso un segno tangibile, noi abbiamo proposto di farlo in Senegal, provando a realizzare tutti assieme un campanile, il campanile della Chiesa di San Giuseppe a Vélingara, questa piccola cittadina del Sud del Senegal. Cosa c’è di più bello, di più straordinariamente evidente riguardo alla presenza cristiana, di un campanile?

D. – Perché avete scelto di costruire questa chiesa proprio nel Sud del Senegal?

R. – Ci è giunta questa richiesta dal parroco locale: “Abbiamo bisogno della generosità dei benefattori di ‘Aiuto alla Chiesa che soffre’ per poter finalmente disporre anche noi di un luogo di preghiera”. Quale momento migliore, intitolando la stessa chiesa a San Giuseppe, se non appunto in occasione della ricorrenza dello stesso San Giuseppe?

D. – Quanto è importante avere un luogo fisico in cui pregare?

R. – Noi siamo abituati a disporre di un luogo fisico presso cui pregare. Proviamo a immaginare la difficoltà di chi continua, nonostante persecuzioni, discriminazioni ma anche situazioni di mera povertà, di mera sofferenza materiale, pensiamo alla sofferenza aggiuntiva di chi, pur essendo cristiano, nostro fratello nella fede, non ha un luogo di preghiera in cui ritrovarsi … Non possiamo rispondere a questa domanda se non capiamo fino in fondo che ci sono centinaia di migliaia di cristiani nel mondo che preferiscono, pur di rimanere cristiani, lasciare le proprie case, lasciare tutto ciò di cui dispongono, i propri possedimenti materiali, per non vedere violata e violentata la loro fede, le loro radici, la loro identità! Ecco perché è essenziale il luogo di preghiera. Lo è per noi e noi ci siamo sostanzialmente abituati, noi italiani, noi occidentali; per loro è probabilmente un cibo importante, quasi quanto o forse più importante di quello strettamente materiale. Del resto, non di solo pane vive l’uomo …

D. – A oggi, quante chiese sono state edificate con il vostro aiuto?

R. – Consideri che “Aiuto alla Chiesa che soffre” ha 69 anni di vita, quindi forse è impossibile darle una risposta certa, compiuta. Le posso dire che ogni anno realizziamo o restauriamo – quindi operiamo interventi di edilizia religiosa – per circa 2.500 interventi; consideri che noi accompagniamo agli aiuti umanitari alle comunità cristiane la nostra caratteristica – che fa di “Aiuto alla Chiesa che soffre” effettivamente una Fondazione totalmente diversa dalle altre che si dedicano alla carità – che è quella degli interventi pastorali. Ovviamente, tra gli interventi pastorali non può non esserci la costruzione o il restauro di chiese, cappelle o seminari. Il 43% dei fondi raccolti nel solo 2014 da “Aiuto alla Chiesa che soffre” nel mondo – 105 milioni di euro, quindi non stiamo parlando di cifre irrilevanti – noi abbiamo deciso di destinarlo appunto all’edilizia religiosa. Mi piace ricordare due esempi velocissimi, due interventi strutturali straordinari: Egitto, Komboa, piccolo villaggio. Lì ci sono ancora 1.500 famiglie cristiane. Non hanno alcun luogo di preghiera presso il quale ritrovarsi. Consideri che per pregare si ritrovano di fronte a una croce disegnata sul muro oppure in un piccolo stanzino privato. Dal vescovo della diocesi locale ci è arrivato l’appello: “Regalateci un luogo di preghiera”. Straordinaria la reazione dei benefattori italiani. Angola, 25 anni di guerra civile, distrutte tutte le chiese. La guerra civile si conclude nel 2002; oggi, dopo 15 anni, in Angola sono state aperte ben sei Porte Sante. Di queste sei Porte Sante, cinque – posso dirlo – si devono all’affetto, all’attenzione, alla generosità, alla vicinanza di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, ma soprattutto ai suoi benefattori e alle sue benefattrici nel mondo. Questo è “Aiuto alla Chiesa che soffre”; per questo ci dedichiamo con particolare trasporto e coinvolgimento alla costruzione delle chiese.

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Comitato Nazionale Bioetica: no a utero in affitto

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L’utero in affitto è "un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto ad un atto di cessione". Così il Comitato Nazionale di Bioetica che ha approvato una “mozione su maternità surrogata a titolo oneroso”: netto il no alla "commercializzazione e allo sfruttamento del corpo femminile". Sul valore di questo pronunciamento Paolo Ondarza ha intervistato Lucetta Scaraffia, membro del Comitato: 

R. - Ha un valore importante perchè stabilisce in base però a principi di trattati internazionali a cui l'Italia ha già aderito che il corpo umano non può essere messo in vendita, che nessuno ha la disponibilità di tramutare il corpo umano in un oggetto di mercato. Questo è il principio fondamentale che sta dietro a questa mozione in cui si parla di "maternità surrogata a titolo oneroso". Si è deciso appunto di isolare il problema della maternità surrogata dietro pagamento, che poi è quello fondamentale, quello più praticato... E mi sembra che abbia posto delle basi importanti per quella che è la richiesta più generale che è stata avanzata anche dalla Francia di proibire la maternità surrogata in tutto il mondo.

D. - Il Comitato si riserva di trattare l'argomento della maternità surrogata senza corrispettivo economico in uno specifico parere più ampio e articolato. Dunque è un primo passo questo pronunciamento?

R. - Sì, è un primo passo perchè nella mozione ci si è pronunciati contro la mercificazione del corpo umano, poi approfondiremo tutti i temi che sono legati dietro questo fatto: il rapporto tra la madre e il figlio, il rapporto simbolico e l'importanza del ruolo della maternità nella definizione dell'identità femminile, cioè dietro questo problema della maternità surrogata ci sono gravi e importanti problemi umani.

D. - Quali conseguenze ha un pronunciamento del Comitato Nazionale di Bioetica nell'ambito del dibattito politico?

R. - La speranza è che possa influenzare i legislatori e anche spingere un eventuale adesione dell'Italia a questo progetto di proibire la maternità surrogata in tutto il mondo. Cioè è una specie di suggerimento al governo per prendere delle decisioni politiche.

D. - Sembra estendersi la sensibilità sul tema dell'utero in affitto, è di pochi giorni fa il no del Consiglio d'Europa a questa pratica...

R. - E' molto importante perchè ci si sta rendendo conto di quella che è una falsa libertà. L'idea che ognuno è libero di fare quello che vuole del suo corpo e quindi venderlo o affittarlo, viene rifiutata. Ci si sta rendendo conto che dietro c'è un pesante sistema di sfruttamento del corpo femminile, una nuova forma di schiavitù femminile e che poi c'è anche una grave svalutazione del ruolo della maternità nella vita di una donna. Le donne sono ridotte ad essere come dei forni da cui esce un prodotto. Si nega che la gravidanza è una relazione, costitutiva e basica della vita degli esseri umani.

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Mons. Santoro: trivelle, ulteriore aggressione a coste già ferite

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Continua il dibattito sul referendum sulle trivelle. Ieri la presa di posizione della Cei che nel comunicato del Consiglio Episcopale Permanente ha ribadito ”l'importanza” che questa tematica “sia dibattuta nelle comunità per favorirne una soluzione appropriata alla luce dell'Enciclica Laudato si' di Papa Francesco". Alessandro Guarasci ha sentito l’arcivescovo di Taranto e presidente della Commissione Episcopale per i problemi sociali mons. Filippo Santoro: 

R. – Bisogna passare dalle posizioni ideologiche del tipo estrattivista o del tipo ambientalista - come se la questione dell’ambiente fosse isolata - ad una visione secondo un’ecologia integrale. Personalmente trovandomi come pastore di questa situazione vedo che ci sono delle ferite aperte e ritengo che l’intervento in occasione del referendum sia da realizzare positivamente, entrando nel merito della questione, e quindi dicendo un “Sì” al referendum motivato da queste motivazioni morali e generali.

D. – Le trivelle, secondo lei, quanto male hanno fatto all’ambiente italiano?

R. – Le coste ioniche e adriatiche sono già ferite da tanti problemi. Pensiamo a noi qui a Taranto: abbiamo il problema dell’Ilva, abbiamo insomma un modello di sviluppo che ha privilegiato rispetto alla vocazione all’agricoltura, al turismo, all’artigianato, altre linee. È chiaro che le cose devono essere composte, però la vocazione originaria non può essere ulteriormente tradita. Per questo l’intervento in questo momento o la continuazione dello sfruttamento dei pozzi comporta di fatto un’ulteriore aggressione.

D. – Però se si dovessero chiudere le trivelle, non c’è un problema anche occupazionale e di politica energetica del Paese secondo lei?

R. – Certo, qui entriamo più nello sviluppo degli aspetti tecnici in cui evidentemente la posizione della Chiesa non sposa una tesi contro l’altra. La posizione della Chiesa - a me sembra secondo quello che il Papa dice – si faccia carico di tutti gli aspetti in gioco. Nell’Ilva ci troviamo di fronte ad un caso differente, ad una difficoltà nel gestire persone che già sono occupate e che quindi in quel caso si deve necessariamente provvedere ad innovazioni tecnologiche che rendano possibile la continuazione del lavoro, dell’occupazione, ma senza toccare l’ambiente. Qui invece ci troviamo di fronte ad interventi che complicherebbero ulteriormente una situazione già ferita.

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Speranza in Iraq: quattro diaconi ordinati tra i profughi di Erbil

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Un volto diverso dell’Iraq, non quello che si svuota dei cristiani ma che si rafforza nella fede. E’ quanto rappresentano quattro giovani seminaristi siro-cattolici, che nella Solennità di San Giuseppe vengono ordinati diaconi nella cappella del campo profughi di Ankawa a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Anche loro profughi, ma testimoni di speranza. A seguirli nella preparazione, don George Jàhola della diocesi siro-cattolica di Mosul. Al microfono di Gabriella Ceraso, il sacerdote spiega le radici di queste quattro nuove vocazioni: 

R. – La situazione difficile che vivono, anche il confronto con l’aggressore, il male, forse spinge di più per questa via, soprattutto se tutti quanti sono stati educati e preparati allo zelo per la Chiesa. Vorrei sottolineare anche che tutti quanti sono stati nel campo, tra i profughi, proprio per dare aiuto. Quindi hanno già una idea di come lavorare con la gente.

D. - Loro sono della diocesi siro-cattolica di Mosul, tutta profuga, vero?

R. – Sì, sono tutti profughi della città di Karakosh, sono usciti da quel contesto per aiutare la diocesi ma anche per incoraggiare la gente.

D. - La loro ordinazione avviene nella cappella del campo profughi di Erbil, un luogo emblematico di sofferenza...

R. – Sì, certamente perché  è un campo che accoglie più di mille famiglie e passeggiando tra le “vie” di questo quartiere vediamo la sofferenza, non soltanto nella realtà, ma nelle facce della gente. Ma loro hanno scelto questa chiesetta invece di scegliere una bella chiesa costruita, per dimostrare che vogliono stare tra la gente, per il servizio, e di questo sono convinti. 

D. – E come risponde la comunità a questa loro scelta?

R. - Nella nostra diocesi le vocazioni non sono mai mancate. Oggi ci sono questi ragazzi ma ce ne saranno altri, quindi la gente aspetta, nella preghiera, questi ragazzi ma anche altri.

D. - È una testimonianza di un Iraq diverso quella che lei ci dà, di un Iraq che si rafforza nella fede …

R. - L’Iraq è vero che si sta svuotando dalla presenza dei cristiani, ma quelli che rimangono sono legati fortemente alla terra ma anche alla fede, perché dobbiamo portare qui la nostra testimonianza, in questa terra. Gesù ci ha chiamati qui e quindi quei pochi che rimarranno saranno come lievito per altre vocazioni nei prossimi anni.

D. - Lei ha detto che questi futuri sacerdoti sono loro stessi profughi. Mi viene in mente quello che il Papa dice sempre dei sacerdoti, che devono stare nel loro gregge e sentire l’odore delle loro pecore …

R. - Sicuramente questi giovani e altri preti, suore, sono stati affianco alla gente, vivevano tra di loro, nelle tende, vicini a chi soffre. Quindi è veramente un esempio da imitare. La Chiesa non ha fatto mancare nulla in quanto al sostegno, ma abbiamo bisogno anche di supporto internazionale, politico, per dare testimonianza in questa terra; una testimonianza che funziona anche tra la gente non cristiana; ammirano il nostro modo di fare, di amare, ma anche di valorizzare l’uomo in quanto tale.

D. - Quindi come dice lei c’è bisogno di un sostegno a livello politico e internazionale perché continuiate a fare questo lavoro?

R. - Sì e anche per proteggere questa comunità secolare che si trova in questa terra.

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Il commento di don Gianvito Sanfilippo al Vangelo della Domenica

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Nella Domenica delle Palme, la liturgia ci propone il racconto della Passione del Signore secondo il Vangelo di Luca, che si apre con queste parole: “Quando venne l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro”:

«Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio».  

Sulla Domenica della Passione del Signore ascoltiamo una breve riflessione di don Gianvito Sanfilippo, presbitero della diocesi di Roma: 

Siamo giunti al culmine della Rivelazione del volto del Padre misericordioso, la settimana in cui si compiono i misteri della nostra salvezza. La Chiesa intera è chiamata a contemplare, a rivivere la Passione di Nostro Signore perché susciti in ogni fedele l’amore e la gratitudine per Lui e si operi la nostra salvezza nella Notte delle notti, la sua Pasqua. Egli non tenne conto della sua dignità divina, ma ci amò fino in fondo salendo a Gerusalemme, entrando mite nella città santa e accettando, con benevolenza, le contraddizioni del suo popolo che lo accoglie festante, capace però, nel volgere di poche ore, di tradirlo e condannarlo a morte. Sommo Sacerdote della nostra redenzione preparerà i suoi discepoli nell’intimità di quella Cena che prefigura e attua la sua Morte e Risurrezione, unico sacrificio vero e banchetto che nutrirà d’amore le generazioni cristiane. Nel colmo della sua angoscia cercherà inutilmente il conforto dei suoi amici ed invocherà  nella solitudine che il Padre allontani il terrore di ciò che l’attende, ma consegnerà per noi il dorso ai flagellatori, le guance a chi gli strapperà la barba, il volto agli insulti e agli sputi. Riposerà solamente reclinando il capo sulla croce, talamo nuziale sul quale si donerà totalmente alla sua sposa: l’umanità.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi dell'Africa centrale: elezioni pacifiche per la regione

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“Facciamo appello alla pace, alla concordia e all’unità in occasione delle elezioni presidenziali che si profilano all’orizzonte dei nostri rispettivi Paesi”: è quanto si legge nel messaggio dell’Associazione delle conferenze episcopali della regione dell’Africa centrale (Acerac), diffuso al termine della recente riunione del suo Consiglio permanente, tenutasi a Brazzaville.

Preoccupazione per le prossime presidenziali nei Paesi dell’Acerac
I vescovi  salutano con soddisfazione il felice e pacifico esito delle recenti elezioni presidenziali nella Repubblica Centrafricana e ringraziano Papa Francesco che, durante il suo viaggio apostolico in Africa, “ha portato la sua solidarietà e contribuito al progressivo ritorno della pace in questa nazione”. Tuttavia – avvertono – con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli altri Paesi della regione (Camerun, Ciad, Congo, Gabon e Guinea Equatoriale) crescono “le minacce e guadagna terreno la precarietà, a causa della crisi economica e finanziaria mondiale e di violenze gratuite e inspiegabili”.

Guardare all’interesse generale
Di fronte a questa situazione, l’Acerac ribadisce quindi l’importanza di “organizzare queste elezioni nel rispetto del gioco democratico e delle regole che garantiscono l’equità e l’uguaglianza delle possibilità per tutti i partecipanti che aspirano a servire il loro popolo”. Essa ricorda poi la necessità di guardare all’interesse generale, di favorire il bene comune e di non risparmiare gli sforzi affinché le elezioni siano giuste e pacifiche.

Il recente messaggio dei vescovi del Congo per l’Anno della Misericordia
La preoccupazione dei vescovi dell’Africa centrale riflette quella espressa il mese scorso dai vescovi della Repubblica del Congo, che in un messaggio per l’Anno della Misericordia si sono rivolti ai responsabili delle istituzioni statali per ricordare che la politica “non è luogo di regolamento dei conti né di soluzione dei conflitti di interessi", ma è il “campo della carità più vasta, la carità politica”. (L.Z.)

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Filippine. Card. Tagle porta il Giubileo nel carcere di Manila

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L’Anno Santo della Misericordia arriva nelle carceri filippine: il prossimo 23 marzo il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, celebrerà la Messa ed aprirà la Porta Santa della cappella posta all’interno della casa circondariale della città. Alla cerimonia, si legge sul sito web dei vescovi filippini, sarà presente anche il nunzio apostolico del Paese, l’arcivescovo Giuseppe Pinto.

I detenuti "strumenti di misericordia"
Dal suo canto, padre Bobby dela Cruz, membro della Pastorale per la Giustizia ripartiva, dedicata ai detenuti e portata avanti dalla Caritas di Manila, sottolinea l'importanza che il Giubileo raggiunga anche le persone in cella: “Vogliamo dimostrare – spiega – che siamo accanto ai detenuti in questo Anno della Misericordia, affinché anch’essi divengano strumenti di misericordia per gli altri".

La porta della cella, simbolo della Porta Santa
La Porta Santa che verrà aperta dal cardinale Tagle raccoglie così l’indicazione di Papa Francesco contenuta nella Lettera con cui si concede l’indulgenza giubilare, siglata lo scorso settembre. In essa, il Pontefice sottolinea che i detenuti “potranno ottenere l’indulgenza nelle cappelle delle carceri, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”. (I.P.)

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Aperta la Porta Santa ad Ayutthaya, culla della Chiesa thai

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La vita e l’esempio di San Giuseppe “ci mostrano la strada per crescere come padri, di famiglia o spirituali, nella strada della giustizia, della bontà e della virtù. E queste sono le strade per la crescita di ogni essere umano”. Lo ha detto il cardinale Francis Xavier Kriengsak Kovithavanit, arcivescovo di Bangkok, aprendo stamani la Porta Santa nella chiesa intitolata proprio a San Giuseppe ad Ayutthaya. Si  tratta della terza Porta santa aperta nel Paese, dopo quelle della cattedrale dell’Assunzione nella capitale e di San Pietro a Nakhon Pathom. La cerimonia aveva un particolare significato, dato che questa chiesa rappresenta la culla dell’evangelizzazione della Thailandia.

Aprire il cuore per ricevere la misericordia di Dio
Alla Messa, alla quale ha partecipato l’arcivescovo emerito, mons. Joseph Sangval Surasarang, e più di 30 sacerdoti fra diocesani e religiosi, erano presenti migliaia di fedeli. Il card. Kovithavanij – riporta l’agenzia Asianews – ha invitato i presenti ad aprire il cuore per ricevere la misericordia di Dio: “Se siamo toccati da questa misericordia, possiamo cambiare i nostri cuori e portare il Suo amore ai nostri fratelli e sorelle che vogliono incontrarlo. I cattolici hanno bisogno di un cambiamento del cuore, di un cambiamento della vita. L’apertura della Porta santa ci rende più facile questo cambiamento. Accettiamolo, perdoniamo e riceviamo il perdono”.

Da Ayutthaya è ripartita l’evangelizzazione della Thailandia
Ayutthaya è considerata la “culla” della Chiesa thai, dato che da qui tre missionari delle Missioni estere di Parigi (Mep) ebbero nel 1666 il permesso dal re del Siam Narai il Grande di costruire una chiesa e una scuola. Il vescovo Lambert de la Motte, insieme ai padri Jean De Bourges e Dedier, impressionarono talmente il sovrano che questi donò loro il terreno su cui venne costruito il “campo san Giuseppe”. Qui vennero convertiti i primi 1.500 siamesi e riprese l’evangelizzazione del Paese. (L.Z.)

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Cile. Depenalizzazione aborto. Appello vescovi a tutelare la vita

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Con 66 voti a favore e 44 contro, la Camera dei deputati del Parlamento cileno ha approvato la proposta di legge presentata dal governo della presidente, Michelle Bachelet, che depenalizza l’aborto in caso di stupro, di rischio per la salute della madre e malformazione del feto. Per diventare legge, la bozza ha bisogno ora dell’approvazione del Senato.

Proposta normativa che offende la dignità umana
Immediata la risposta della Conferenza episcopale locale che ha diffuso un messaggio intitolato “La nostra speranza in difesa della vita”. Il documento verrà letto durante tutte le Messe che verranno celebrate domenica prossima, Domenica della Palme. Indirizzato “ai cattolici ed a tutto il popolo del Cile”, il messaggio ricorda che "la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane hanno sottolineato, con rispetto e più volte, che questa decisione costituisce una grave offesa alla dignità umana e in particolare rappresenta un attacco alla vita del più innocente di tutti gli esseri umani: il nascituro, il quale deve essere tutelato dalla legge, come sancito dalla Costituzione”.

No alla “cultura dello scarto”
La proposta normativa, ribadiscono i vescovi cileni, è una tragica espressione di quella “cultura dello scarto” così spesso denunciata da Papa Francesco, che esclude dalla società coloro che sono ritenuti un "surplus" inutile. Di qui, il richiamo della Conferenza episcopale cilena a difendere la vita umana dal concepimento e fino alla morte naturale. Citando, poi, un passo dell’Enciclica del Pontefice “Laudato si’ sulla cura della casa comune”, i vescovi cileni sottolineano che “non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano quando non si dà protezione a un embrione umano (…) Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono”. (n. 120)

Accompagnare le donne con gravidanze difficili
Per questo, i presuli auspicano che il Senato riesamini in modo approfondito il disegno di legge approvato dal parlamento. “Più che di aborti – si legge ancora nel messaggio – la nostra società ha bisogno di accompagnare le donne con gravidanze difficili, tutelando la vita della madre e del figlio e incentivando i percorsi di adozione”. In prossimità della Pasqua, dunque, l’invito rivolto ai credenti, ma anche ai non credenti, è quello di “mantenere salda la speranza, lavorando di più e con più decisione affinché la vita e la dignità di ogni essere umano siano sempre rispettate”.

Garantire ad ogni essere umano il pieno sviluppo
“Questo è il momento – conclude il messaggio episcopale – di intensificare le preghiere per il Paese ed i suoi legislatori”, così da “garantire che ogni essere umano abbia la possibilità di svilupparsi pienamente ed essere felice”. Il tutto con l’obiettivo di rendere il Cile “una casa comune”, un luogo in cui la vita viene accolta, accompagnata e rispettata. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 79

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.