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Sommario del 22/03/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Bruxelles. Papa: no a violenza cieca, prego per le vittime

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Una serie di attentati terroristici ha insanguinato Bruxelles, questa mattina. In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, Papa Francesco ne condanna una "violenza cieca" e chiede a "Dio il dono della pace". Nelle parole del Pontefice anche la vicinanza ai feriti e ai loro familiari e a tutti quelli che prendono parte ai soccorsi. Bruxelles intanto è sconvolta: almeno 34 i morti e oltre 100 i feriti negli attacchi all’aeroporto e alla metro. “Serve calma e unità”, dice il premier belga. “E' un momento triste per tutta l’Ue”, commenta l’Alto rappresentante per la Politica estera europea, Federica Mogherini. La cronaca nel servizio di Gabriella Ceraso: 

Una mattinata di terrore a Bruxelles che riporta con la memoria agli attacchi molteplici e simultanei a Parigi nel novembre scorso, e nel 2008 a Mumbay. L’intelligence belga ieri aveva saputo di un pericolo imminente ma non dove si sarebbe materializzato. E stamattina l’incubo è diventato realtà e non si è ancora concluso visto che cinque uomini sono ricercati. Tutto è iniziato intorno alle 8 con almeno un kamikaze, entrato in azione all'aeroporto internazionale "Zaventen" alle partenze del "Terminal A", vicino al banco dell'American e Bruxelles Airlines, con due esplosioni udite dopo alcune grida in arabo. Poco dopo, alle 9.20, almeno quattro esplosioni hanno preso di mira le stazioni della metropolitana: interessate, Maalbeek e Schuman ma pare anche Arts Loi, a due passi dal cuore istituzionale dell’Unione Europea. Ma il commando entrato in azione qui è ancora in libertà, per questo le autorità chiedono di restare in casa.

Caos, esercito nelle strade
Il panico è generale, l’esercito è in strada: c’è il blocco totale dei trasporti da e verso Bruxelles. Chiuse scuole, musei e il palazzo reale. In allerta anche tutta l’Europa. Convocati consigli di sicurezza in Francia, Gran Bretagna e Italia. A una minaccia globale, a una guerra lunga al terrorismo, serve una risposta globale, leggi efficaci e rispettose delle libertà, ha detto il presidente francese, Hollande, ma anche un piano europeo antiterrorismo e controlli coordinati in ambito Schengen. Parigi chiude la metro e schiera altri 1.600 agenti tra infrastrutture e frontiere anche Olanda e Svezia elevano il livello di allerta. E con la rivendicazione dell’Is arrivano le voci dall’area: Egitto, Iran e ancora prima Mosca condannano l’accaduto e invocano la cooperazione internazionale contro il terrorismo.

Una tattica che crea scompiglio quella messa in atto dai terroristi oggi a Bruxelles, che trasforma la città in un campo di battaglia e fa pensare a un’Europa smarrita di fronte ad una simile potenza di fuoco.Si tratta di una minaccia globale? E quali saranno le conseguenze? Gabriella Ceraso ne ha parlato con Stefano Silvestri, consigliere scientifico dell’Istituto Affari internazionali: 

R. – Certamente è una minaccia grave, è una minaccia terroristica. Non ha nulla di comparabile però con minacce di guerra o similari. Detto questo è chiaro che le cellule presenti in Belgio erano più strutturate, più reattive, più capaci di quanto evidentemente la polizia, i servizi fossero riusciti a capire. C’è qui duqnue un allarme importante nei confronti dei servizi di investigazione e di “intelligence”.

D. – E’ una mancanza di Bruxelles o in generale è proprio difficile riuscire a prevedere e a intervenire?

R. – E’ onestamente difficile, qualche errore sarà stato fatto ed è sempre possibile. E non è poi così facile controllare il territorio. Il Belgio ha pure debolezze strutturali, dovute alle sue divisioni linguistiche … Diciamo che in questi casi sarebbe molto utile la conoscenza di questi errori per gli altri: e invece la gente tende a nascondere gli errori. Sarebbe necessaria inoltre una molto maggiore cooperazione e integrazione dei servizi di polizia in Europa,perché i terroristi si muovono abbastanza liberamente da un Paese all’altro, Schengen o non Schengen, mentre invece le polizie hanno più difficoltà.

D. – Secondo lei c’è qualche relazione tra questi fatti di oggi e l’arresto di Salah?

R. – Questo è possibilissimo. Se i terroristi temevano che lui parlando rivelasse cose che avrebbero potuto bloccarli, potrebbero avere accelerato l’attuazione di questi attentati. Però gli attentati erano evidentemente già in preparazione da tempo.

D. – Il prezzo che pagheremo tutti è una minore libertà di circolazione, in cambio di una maggiore sicurezza?

R. – Si: pagheremo tutti nel senso che avremo controlli sempre più pesanti che metteranno a rischio la nostra privacy. Però, nello stesso tempo, qui il problema è avere interventi più mirati.

D. – Ancora una volta, tutto accade a Bruxelles: lei crede che dietro ci sia un messaggio diretto a quello che l’Europa sta facendo sul fronte africano o mediorientale ?

R. – Mah … Bruxelles è abbastanza indicativa: calcoliamo che c’è la propaganda dell’Isis secondo cui aumentano pesantemente gli attacchi all’Europa e quindi anche a Bruxelles, Unione Europea eccetera; quindi, è abbastanza indicativo, sì, anche di una scelta politica. A questo dobbiamo aggiungere, evidentemente, che c’era una disponibilità di manodopera e che c’erano quindi i terroristi sul posto disponibili e organizzati.

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Bruxelles. Il nunzio: Dio illumini chi ha progetti contro l'uomo

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Dio illumini chi cova progetti contro l’uomo. È la preghiera del nunzio apostolico a Bruxelles, mons. Giacinto Berloco, che commenta a caldo gli attentati nella capitale belga al microfono di Massimiliano Menichetti

“Noi ci sentiamo vicini a tutte le persone che in questo momento soffrono, sia alle famiglie dei defunti sia alle persone che sono rimaste ferite, e alle quali auguriamo di poter superare questo momento. Ci sentiamo loro vicini, come tutto il popolo belga, che in questo momento si sente unito di fronte a questa terribile tragedia che ha colpito non soltanto il Belgio, perché vi erano anche molte persone di diversa nazionalità nell’aeroporto. E sappiamo che molti di loro sono rimasti uccisi o feriti in questi attentati. Preghiamo il Signore in questo momento, perché non abbiamo altro da dire se non rivolgerci a Dio, Padre di Misericordia, perché dia forza a tutte le persone che stanno soffrendo in questo momento, perché illumini le autorità affinché prendano le misure necessarie. Ma soprattutto che il Signore illumini tante persone che hanno progetti che sono contro l’uomo; e quando un progetto è contro l’uomo è anche contro Dio. E allora preghiamo il Signore, che possa illuminare le menti e i cuori di queste persone. E che di avvenimenti come questi non ve ne siano altri in futuro. Questo è il nostro desiderio e la nostra preghiera. “

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Giovedì Santo, il Papa laverà i piedi a 12 profughi

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Papa Francesco celebrerà la Messa in Coena Domini del prossimo Giovedì Santo nel centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto, dove laverà i piedi a dodici profughi. Ad annunciarlo è stato l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Il servizio di Alessandro De Carolis

Inginocchiato a lavare e ad asciugare piedi di persone alle quali in tanti neanche si accosterebbero, mentre la civile e democratica Europa si barrica dietro un anacronistico filo spinato. O tutt’al più stanzia soldi “per mettere a riposo la coscienza”. Ma sempre con una precisa geometria: noi di qua e gli immigrati dall’altra parte.

Il pressapochismo dei ricchi
Mons. Rino Fisichella fotografa con realismo il quadro internazionale delle migrazioni e lo pone a confronto con le scelte perseguite da mesi da Papa Francesco. Mentre, scrive in un articolo sull’Osservatore Romano, “i Paesi ricchi dell’Occidente permangono nel loro pressapochismo, indifferenti” a un “dramma che sconvolge per la durata e per il numero delle persone coinvolte, il Papa non passa mese – ricorda – che non si mobiliti di persona per dimostrare il valore dell’accoglienza, qualsiasi sia la povertà sociale che lo richieda.

Ai piedi di 12 profughi
Da quell’Angelus del 6 settembre, in cui sollecitò parrocchie e strutture ecclesiali ad aprire le proprie porte per ospitare una famiglia di profughi, da dicembre a febbraio Francesco ha abbracciato senzatetto, anziani e malati in stato vegetativo, giovani tossicodipendenti per arrivare, ora che la Pasqua è alle porte, a ripetere quel gesto caro al suo cuore – la lavanda dei piedi del Giovedì Santo – proprio a persone regolarmente marchiate dallo stigma dello scarto. Il gesto che compirà con 12 profughi ospiti della struttura a Castelnuovo di Porto – scrive mons. Fisichella – “sarà un segno semplice ma eloquente”, un “segno di servizio e attenzione alla loro condizione”. Un gesto che il massimo responsabile dell’organizzazione del Giubileo inquadra nell’ottica della misericordia. Essa, afferma, “per essere un’esperienza completa ha bisogno di convertire il cuore. Mentre si riceve misericordia si diventa strumenti per esprimere misericordia” e dunque accogliere i profughi “diventa per i cristiani un’espressione tangibile per vivere il Giubileo”.

Il rispetto, strada maestra della pace
Con il suo “abbassarsi per lavare i piedi dei profughi” il Papa “vuole dirci – insiste mons. Fisichella – che è necessaria la debita attenzione verso i più deboli di questo momento storico; che siamo chiamati tutti a restituire loro dignità senza ricorrere a sotterfugi. Ci spinge a guardare verso Pasqua con gli occhi di chi fa della sua fede una vita vissuta a servizio di quanti portano impresso nel proprio volto i segni della sofferenza e della violenza”. E considerando che “molti di questi giovani non sono cattolici” ecco che il “segno di Papa Francesco” arriva a indicare “la via del rispetto come strada maestra per la pace”.

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Piqué: tre anni di omelie a Santa Marta, il Vangelo portato a tutti

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Il 22 marzo di tre anni fa, Papa Francesco celebrava la sua prima Messa con omelia a Casa Santa Marta, davanti ad un gruppo di operai e netturbini del Servizio Giardino Vaticano. In quella mattinata, a giudizio di molti osservatori, iniziava dunque a palpitare il cuore pulsante del Pontificato. Alessandro Gisotti ne ha parlato con Elisabetta Piqué, vaticanista argentina de “La Nacion” e biografa di Jorge Mario Bergoglio, che conosce da molti anni: 

R. – Secondo me, il successo è in questo modo straordinario del Papa di comunicare: tutti riescono a capire quello che lui dice, e sono seguite in tutto il mondo! Sono seguite in tutto il mondo, e non solo dai fedeli, ma anche dalla diplomazia. Lui fa vivere il Vangelo, cioè torna all’essenziale e lo spiega in un modo comprensibile, molto facile da capire per tutti, e lo collega al mondo di oggi e così arriva al cuore della gente. In questo senso è bene ricordare che sono diventate libri pubblicati in tutto il mondo, queste omelie, che sono il cuore di questo pontificato: questo “tornare all’essenziale”.

D. – Molti dei contenuti del pontificato di Francesco, anche alcune idee, nascono proprio nelle omelie della mattina a Santa Marta …

R. – Sì, sì: tutto questo conferma perché tutti noi giornalisti, ma non solo i giornalisti, anche chi segue il Vaticano, sa che deve seguire prima di tutto queste omelie mattutine da Santa Marta, in cui c’è proprio l’essenza del messaggio di questo Papa.

D. – Le omelie di Santa Marta sono anche un grande esempio di comunicazione e di condivisione, hanno anche una grande popolarità sui “social network” …

R. – Questo credo che sia anche un riflesso dei tempi in cui viviamo e in questo senso credo che questo Papa sappia benissimo, nei tempi in cui vive, e per questo credo che lo dimostri anche il fatto di essere sbarcato pochi giorni fa su Instagram … Anche se ricordo che lui, tornando da uno dei viaggi, in aereo, ha detto: “Ah, io mi sento un preistorico davanti a tutti questi ‘social’, ‘tweet’ …”, eccetera: sa che viviamo comunque in un mondo dove esiste il “social” e dove, appunto, il Papa capisce che il suo messaggio dev’essere anche “capibile”, questo Papa che anche un bambino deve poter capire. E questo riflette anche perché anche nel “social” questo Papa ha successo.

D. – Tu conosci Jorge Mario Bergoglio da molto prima che fosse eletto Papa. Che ricordo hai delle sue omelie a Buenos Aires? Trovi delle differenze, o invece c’è proprio una continuità nelle espressioni, nelle immagini – anche – che viene a utilizzare?

R. – Credo che ci sia una enorme continuità, perché devo dire che sempre lui ha avuto questa caratteristica di essere un prete che predicava in un modo veramente attraente, e questo lo ricorda anche gente che adesso ha 40 anni ma che ha conosciuto padre Jorge quando faceva catechismo, o a chi ha dato la comunione: che ricordano questo maestro enorme nel predicare, che fa sì che la Parola, cioè il Vangelo, che possa essere totalmente comprensibile e totalmente attuale. Credo che questo sia un dono che ha avuto sempre e che è questo dono di comunicare e che è quello che parlando di lui, prima ancora di essere perfino ordinato sacerdote, quando era maestro di letteratura e di psicologia, al Colegio de la Inmaculada Concepción de Santa Fe, bè, gli alunni lo ricordano come un grandissimo maestro che faceva crescere, che faceva pensare. Bè, credo che questa sia un'abilità che ha sempre avuto. Ovviamente, da Papa avrà sicuramente più ispirazione dallo Spirito Santo e questo lo aiuterà; ma è una dota, un’abilità, questo saper comunicare, saper spiegare, saper arrivare al cuore della gente, che credo abbia sempre avuto.

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Nomine di Papa Francesco

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Papa Francesco ha nominato prelati uditori del Tribunale della Rota Romana i rev.di padri Miroslav Konštanc Adam, O.P., al presente rettore magnifico della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino in Roma, e José Fernando Mejía Yáñez, M.G., al presente Capo della Cancelleria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.

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Conclusa la visita in Bulgaria del card. Pietro Parolin

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La visita del cardinale Parolin in Bulgaria si è conclusa con un ricevimento in occasione del terzo anniversario dall’elezione di Papa Francesco e del 25.mo anniversario dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e Sofia. Ieri il porporato ha incontrato il Patriarca Neofit e il presidente PlevnelievRipercorrendo le tappe più importanti di queste relazioni, il segretario di Stato ha parlato del loro inizio, posto nel 1925 dal delegato apostolico, mons. Angelo Roncalli, che “aveva per i bulgari un sentimento speciale”. “Anche quando divenne Papa Giovanni XXIII – ha detto il porporato – lui ricordava sempre i bei tempi passati in Bulgaria”. I rapporti diplomatici veri e propri, però iniziano solo dopo la caduta del comunismo, nel 1990 con il primo nunzio, mons. Mario Rizzi.

Giovanni Paolo II e la Bulgaria
Il segretario di Stato ha ricordato anche la storica visita di Papa Giovanni Paolo II nel 2002. “La mia visita a Sofia negli ultimi giorni – ha affermato il segretario di Stato – va intesa come un ulteriore segno di amicizia e come un contributo per migliorare ancora i nostri ottimi rapporti”. Concludendo, il cardinale ha espresso la sua “gratitudine per la visita nel Paese delle rose”, “dove si incontrano l’Oriente e l’Occidente, culture, religioni e persone diverse”. All’evento, svoltosi presso l’Hotel Sheraton di Sofia, hanno partecipato numerosi rappresentanti delle autorità statali, ambasciatori e membri del corpo diplomatico, rappresentanti di varie confessioni religiose.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Attacco al cuore dell’Europa - Papa Francesco condanna la violenza cieca che causa tante sofferenze

Via dei non credenti - Maurizio Gronchi su "Il mio Gesù" e "Via crucis" di Beppe Dati

Quando l'estetica incontra la fede - Simona Verrazza su mostra "Sulla Croce" a Lugano

"Siccità e veleni"- un articolo di Andrea Agapito Ludovici sulla Giornata mondiale dell'acqua

"L'ombra di Boko Haram nel bar sotto casa" - Cristian Martini Grimaldi racconta la storia di Toyin, fuggito dalla Nigeria

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Oggi in Primo Piano



Vescovi Belgio: condividiamo l'angoscia del Paese

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Costernazione per gli attacchi a Bruxelles la esprime la Conferenza episcopale belga. I presuli, si legge in una nota, “condividono l'angoscia di migliaia di viaggiatori e le loro famiglie, gli addetti all'aviazione e le équipe di soccorso che si ritrovano ancora una volta in prima linea”. I vescovi affidano dunque alla preghiera "tutta questa nuova situazione drammatica, in particolare le vittime". Ai nostri microfoni, le testimonianze di tre giovani ragazzi italiani raggiunti telefonicamente a Bruxelles subito dopo le esplosioni, quando anche loro erano a lavoro e nei luoghi di studio. Voci e emozioni a caldo, raccolte da Maria Laura Serpico: 

R. – Sono rimasta bloccata in ufficio. In realtà ho saputo della seconda esplosione di  Maelbeek - il mio ufficio è a duecento metri – da un mio collega che è entrato in ufficio in stato di shock urlando semplicemente: “Sangue! Maelbeek! Bomba! Chiamate un'ambulanza!”. Ho chiamato l’ambulanza, ma le linee erano completamente intasate, quindi evidentemente qualcuno aveva già chiamato. I miei colleghi sono andati a portare soccorsi e acqua alla metro che è vicina al mio ufficio. Hanno raccontato di scene di inferno sulla Terra: sangue, fumo, gente sporca di sangue, … É stata una catastrofe, quindi c’è tantissimo shock. Ci si è focalizzati sulla grande polemica che c’è stata qui, perché nessuno in Belgio è contento di questo arresto (di Salah ndr), nel senso che tutti hanno detto che è una vittoria a metà perché hanno impiegato quattro mesi per trovarlo praticamente nel cuore di Bruxelles, a 200 metri da casa sua. Quindi ci si è molto focalizzati sul fare polemica, anche perché nella sua casa erano stati trovati altri piani di attentati... Francamente non ho sentito gente preoccupata di possibili attacchi successivi al suo arresto. Quindi non credo ci fosse una grandissima allerta questa volta o comunque non più di altre volte. A quanto pare c’è una chiusura completa delle strade... È una situazione di fortissima allerta. Speriamo che il numero dei morti non continui a salire… Però quello che le autorità chiedono è di non muoversi ed evitare questa zona rossa e di chiamare dei call center specifici nel caso di problemi. La città è paralizzata, i tunnel sono chiusi, le metro sono chiuse così come le stazioni di Gare du Midi e di Gare du Nord. I treni per gli aeroporti sono sospesi … Tutto è stato dirottato verso gli aeroporti regionali come Charleroi. L’allerta in questo momento è di livello quattro per tutto il Paese.

R.  – Le persone ormai sono quasi abituate a questa situazione di emergenza. C’era un clima generale di maggiore tranquillità in questo periodo. Evidentemente le persone che hanno fatto queste cose hanno sfruttato anche questa illusione che si era creata. Per quanto riguarda le autorità ho ricevuto sul mio cellulare un sms dal Ministero degli Esteri in cui era scritto di evitare spostamenti per il momento... Ho letto sul sito della Farnesina un comunicato in cui si invitano tutti gli italiani a non spostarsi.

R. - La gente è spaventata per i propri amici, i propri cari che si trovavano nei luoghi delle esplosioni. Soprattutto i giovani cercano di pensare a non spaventarsi e a continuare a vivere. Si chiede di rimanere a casa o nei propri uffici e di non farsi prendere dal panico. "Aspettavamo" questo attentato ma con il senno di poi si fa il collegamento con l’arresto del terrorista Salah.

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Bruxelles. Galantino: guerra a pezzi si argina con l'integrazione

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La Chiesa italiana si unisce al coro di condanna del nuovo, efferato episodio di violenza terroristica di Bruxelles. Mons. Nunzio Galantino ribadisce: la violenza si combatte con politiche di integrazione, non di respingimento. Il commento del segretario generale della Cei al microfono di Luca Collodi

R. – Vorrei esprimere la vicinanza, la solidarietà alle famiglie, il dolore per le vittime ed è chiaro che anche un evento di questo genere non possa che richiedere una condanna chiara, perché questi attentati contribuiscono ad accrescere il clima di insicurezza, il clima di paura a tutti i livelli.

 D. – Mons. Galantino, si punta a rendere difficile la convivenza umana?

 R. – Sì, direi ancora di più. Perché ancora una volta viene rilanciato un messaggio forte da queste persone: non ci sono posti sicuri, non ci sono posti al riparo dal fanatismo, di qualsiasi matrice questo fanatismo sia.

 D. – Come si può vincere questa sfida?

 R. – Penso che in questi momenti si riproponga per tutti, e non solo per chi ha responsabilità di governo, la domanda su cosa fare, su come reagire, su come difendersi. Certo, vanno confermati tutti gli sforzi e le misure di sicurezza già in atto. Mi chiedo, però, se e quanto da sole, queste misure contribuiscano a risolvere ragionevolmente ed efficacemente il problema che sta assumendo sempre di più i toni del dramma. Mi chiedo, cioè, fino a che punto le politiche di chiusura, i muri, i fili spinati possano avviare soluzioni ragionevoli ed efficaci. Lei mi chiede cosa si possa fare, dove ci si può muovere … Capisco quanto sia difficile da accettare, in questo momento, ma penso che tutti dobbiamo riflettere e ipotizzare strade nuove, e tra queste penso a quella dell’ integrazione sociale e culturale, almeno per coloro che si rendono disponibili a questo. Ritengo – e lo ripeto anche in questo momento – che questa sia la sfida che ci attende da ora, e penso che debba partire la reazione di tutti: quella dell’integrazione.

 D. – Serve anche una risposta politica comune di tutta l’Europa, cosa che non c’è…

 R. – Questo senza dubbio: lo stiamo dicendo come Chiesa da tantissimo tempo! L’ha detto il presidente della Cei Bagnasco, lo sta dicendo il Papa continuamente. Ormai dobbiamo metterci in testa, se non l’avessimo ancora capito, che questo problema non riguarda Bruxelles, non riguarda il Belgio, non riguarda la Francia, non riguarda solo la Turchia, ma riguarda veramente direi l’Europa. Ma non so se sia sufficiente, perché qui stiamo dimenticando anche quello che sta succedendo in Africa, quello che sta succedendo in Yemen … Il Papa ha ragione: qui si sta combattendo una guerra a pezzi, ma non è soltanto quella che si combatte in posti che conosciamo, ma questa guerra sta diventando uno stile, un clima, un modo di essere per cui se non si è uniti, seriamente uniti, sentendosi tutti coinvolti, penso che si faccia il gioco di chi, purtroppo, ha questi progetti drammatici, questi progetti che non hanno niente a che fare con la religione, non hanno niente a che fare con l’affermazione dell’umanità.

 D. – Le religioni possono contribuire a fermare questa deriva?

 R. – Sono convinto di sì. Nella misura in cui, veramente, si fa riferimento a un Dio che è misericordia, che significa che c’è un Dio che vuole che tutti gli uomini stiano insieme, stiano bene insieme, si aiutino reciprocamente a capire qual è la strada da percorrere tutti insieme. Le religioni non sono nate per mettere gli uni contro gli altri, o gli uomini in contrasto tra di loro: sono nate invece per metterli insieme.

 D. – E’ a rischio la democrazia dei Paesi occidentali?

 R. – Ma … è una domanda troppo grossa per avere una mia risposta. Spero, e lo spero veramente, che si arrivi in tempo a fermare l’arroganza, la voglia senza limiti di queste persone di imporre certi modi di fare,  di pensare, certi modi di agire.

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Giovagnoli: visite Papi a Cuba, battistrada per incontro Obama-Castro

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Attesa a Cuba per il discorso che Barack Obama rivolgerà in diretta televisiva alla nazione, nel corso della sua storica visita nell’isola caraibica, la prima di un Presidente statunitense dopo quasi 90 anni. Ieri, nel Palazzo della Rivoluzione dell’Avana, la storica stretta di mano tra il Presidente statunitense e Raul Castro. Quest’ultimo ha chiesto la revoca dell’embargo da parte americana, mentre il capo della Casa Bianca ha esortato al rispetto dei diritti umani. Sul significato di questa visita e sul ruolo della Chiesa nel disgelo Usa-Cuba, Alessandro Gisotti ha intervistato lo storico Agostino Giovagnoli, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore: 

R. – Non c’è dubbio che si tratta di una notizia importante e molto positiva, perché segna la fine di quell’ostilità che ha diviso gli Stati Uniti e Cuba per più di 50 anni, e che ha rappresentato un fattore di tensione fortissima, anche per quanto riguarda tutta la realtà americana. Siamo dunque su una strada, una strada che è estremamente positiva, una strada di pace e di collaborazione; anche se, come ha sottolineato sia il Presidente Barack Obama sia il suo omologo Raúl Castro, si tratta di un percorso, del quale ancora non si vedono chiaramente gli sbocchi.

D. – Questa visita di Obama a Cuba ha anche un forte significato simbolico: c’è un’immagine che l’ha colpita in maniera particolare?

R. – Certamente, dal punto di vista protocollare, è interessante che ci sia stato l’incontro con il card. Ortega proprio all’inizio della visita. A sottolineare ancora una volta che, dietro questo cambiamento che è attualmente in corso, un ruolo importante lo ha avuto la Chiesa cattolica a Cuba, e ancora di più Papa Francesco e la Santa Sede.

D. – Obama ha proprio ricordato il ruolo di Francesco in questa costruzione di ponti tra Cuba e Stati Uniti: secondo lei quale ruolo potrà avere ora la Chiesa cattolica e i cattolici cubani nel futuro dei rapporti tra i cubani e gli americani?

R. – Questo è un ruolo molto importante, perché la Chiesa ha sempre svolto un’azione positiva, riconosciuta dalla realtà cubana, dalle stesse autorità del Paese. E quindi questo ruolo positivo può proseguire; anche perché è un ruolo da una parte di sostegno alla vita del popolo cubano, di sviluppo nel senso della crescita economica e via dicendo, ma è anche un ruolo che tende a sciogliere i nodi di conflittualità, di ostilità, che sono stati così pesanti per tanto tempo, e che continuano a pesare. Quindi, in altre parole, è un ruolo specifico, che però ha un valore continentale: ha dei riflessi su tutta la realtà latinoamericana.

D. – Molti osservatori hanno notato che con l’arrivo di Obama a Cuba è arrivato anche Google. Ecco, in qualche modo Cuba si apre al mondo anche attraverso Internet, un po’ come auspicava San Giovanni Poalo II nella sua storica visita del 1998…

R. – Sì, in effetti è una conferma del fatto che le visite dei Papi siano state un “battistrada” di questo lento, ma felice, percorso, come vediamo da oggi. Le aperture sul piano economico sono certamente molto importanti. L’accordo con Google aggiunge anche qualcosa di più, perché ovviamente Internet vuol dire comunicazione e quindi anche collegamenti internazionali. Certo, Cuba oggi si trova in bilico tra una questione dei diritti umani non ancora risolta, riguardante quindi democrazia e libertà, e dall’altra il rischio che il miglioramento dei rapporti con gli Usa si trasformi poi in una sorta di nuovo protettorato, non più politico, ma economico. Questa non sarebbe certamente la cosa più auspicabile per quest’isola che invece deve diventare un laboratorio importante in un mondo che invece è sconvolto da tanti conflitti e da tanti contrasti.

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Myanmar. Ad Aung San Suu Kyi tre ministeri del nuovo governo

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In Myanmar Aung San Suu Kyi farà parte del nuovo esecutivo. La notizia si è diffusa dopo la presentazione della lista dei ministri al Parlamento, che entro la settimana dovrà confermare le nomine. La premio Nobel per la Pace e leader del partito di maggioranza la “Lega nazionale per la democrazia” guiderà i dicasteri degli Esteri, Educazione ed Energia. Massimiliano Menichetti ha intervistato Carlo Ferrari, presidente dell’Associazione per l’amicizia Italia Birmania: 

R. – Il fatto che Aung San Suu Kyi si spende in prima persona in questi tre ministeri chiave, dimostra la volontà di portare il popolo verso un futuro di miglioramento: non a caso è stato scelto il Ministero dell’energia che si impegnerà nella sostenibilità; un altro ministero chiave è l’educazione, noi sappiamo dai contatti che abbiamo intrattenuto con Aung San Suu kyi quanto lei abbia a cuore il problema dell’educazione e il fatto che è grazie a questo che il futuro di un popolo può migliorare. Chiaramente nel suo ruolo a ministro degli esteri Aung San Suu Kyi ha una levatura internazionale indiscussa e credo che il Myanmar potrà finalmente trovare il suo posto all’interno del consesso internazionale.

D. - Il primo aprile si insedierà anche Htin Kyaw quale nuovo Capo di Stato, per altro un fedelissimo di Aung San Suu Kyi …

R. - Le dichiarazioni di Aung San Suu Ky, ovvero che lei avrebbe avuto un ruolo chiave nella guida del nuovo governo e il fatto che abbiano insediato un suo fedelissimo chiarisce questo rapporto forte di fiducia. Htin Kyaw è una persona che si pone sicuramente come garante che le idee di Aung San Suu Kyi saranno sicuramente espresse dal nuovo governo.

D. - Dunque possiamo dire che il cambiamento democratico del Myanmar procede speditamente dopo 60 anni di dittatura militare. Quali sono le priorità adesso?

R. - Sicuramente un problema grave è quello della coabitazione delle diverse etnie; ci sono fino a 138 etnie diverse che convivono nel territorio dell’Unione del Myanmar e la pacificazione di zone dove tra l’altro ci sono guerriglie è una priorità. Lo sviluppo sostenibile è sicuramente un’altra delle grandi sfide che caratterizzeranno l’opera del governo nei prossimi mesi. È un Paese che dopo tanti anni si sta aprendo sia al turismo ma anche all’apporto industriale, quindi è una priorità assoluta il fatto che questo sviluppo non sia fatto al di sopra delle persone ma coinvolgendo la realtà locale, facendo crescere un’imprenditoria locale. Altra questione è che la Costituzione è stata fatta in modo molto accurato per poter mantenere il più possibile il potere nelle mani di chi lo aveva detenuto durante la dittatura (ovvero i militari n.d.r.); siamo molto contenti di questi primi passi del nuovo governo, ma non dobbiamo dimenticare che la stragrande maggioranza del potere economico e di alcuni ministeri chiave è nelle mani di militari e delle persone a loro vicine. Adesso la sfida sarà quella di mantenere il cambiamento nell’ambito della non violenza.

D. - In sostanza Aung San Suu kyi ha il timone del Paese: la Lega Nazionale per la Democrazia è il partito che ha vinto a novembre le elezioni e adesso i ruoli chiave sono nelle sue mani. Ci si può attendere, anche in relazione alla Costituzione, un cambiamento di quella norma che formalmente impedisce ad Aung San Suu kyi la candidatura a Presidente?

R. - Ad oggi non è stato possibile farlo. La maggioranza del parlamento è saldamente nelle mani dell’Lnp, ma le norme costituzionali prevedono che il 25% del parlamento sia di nomina militare - quindi non passa attraverso le elezioni –; se a questo aggiungiamo il fatto che le norme di modifica costituzionali prevedono il 75% più uno dei voti, teoricamente non ci sarebbero i numeri per poter fare delle modifiche costruzioni, a meno che non siano condivise.

D. – Questo è stato alla base della decisione della Lega Nazionale per la Democrazia di anticipare la recente elezioni del Presidente?

R. – Certamente. Qualche giorno fa si è deciso di procedere visto che i contatti per modificare la norma non portavano frutti. Possiamo immaginarci le speranze riposte in questo cambiamento in atto… Sono quasi 60 milioni di birmani. Quindi era anche necessario organizzare un’azione di governo. E questo nuovo ruolo che Aung San Suu Kyi si è ritagliata nel governo sicuramente va in questo senso. Ciò che accade è un’azione incisiva e visibile del cambiamento.

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Il Benin conferma la sua democrazia con il voto a Patrice Talon

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E’ Patrice Talon il nuovo presidente del Benin, uscito vittorioso dalle presidenziali di domenica scorsa con oltre il 65% dei voti. Il premier Zinsou, suo avversario, ha telefonato al vincitore congratulandosi con lui, ma anche per garantire il suo contributo alla transizione del potere con il presidente uscente Boni Yayi. Il servizio di Francesca Sabatinelli: 

L’uomo nuovo del Benin ha 57 anni ed è noto come il ‘re del cotone’: Patrice Talon, uomo d’affari che ha vinto a mani basse il secondo turno delle presidenziali in un Paese ritenuto un bastione della democrazia elettorale in Africa. Talon succede a Boni Yayi, che ha completato due mandati, e alle urne ha sconfitto il premier Lionel Zinsou. Il commento di Enrico Casale, della rivista Africa dei Padri Bianchi:

R. – La vittoria di Patrice Talon in Benin è un segno positivo non solo per quel Paese, ma per l’Africa tutta, perché dimostra che i sistemi democratici piano piano, lentamente, si stanno affermando nel continente. E’ un segno positivo perché non solo si sono tenute elezioni libere, serene nel loro svolgimento, ma perché al potere si è verificata anche un’alternanza e questo proprio in coincidenza con altre crisi, penso, per esempio, al Burundi ma in modo anche meno traumatico alla Repubblica del Congo o all’Uganda, dove i presidenti magari accettano, le elezioni, ma tendono a forzarle per ricandidarsi e per rimanere al potere. Quindi, quello del Benin, è un segnale positivo.

D. – In questo senso c'è anche la decisione, annunciata da Talon, di avviare una riforma costituzionale che prima di tutto ridistribuisca il potere che finora era concentrato solo nelle mani del presidente. Credo inoltre che voglia sopprimere la possibilità di un secondo mandato presidenziale, perché lui stesso ha detto che, alla scadenza dei canonici cinque anni, non si ripresenterà…

R. – Sì. Questa tendenza si sta lentamente affermando, in Africa. Voglio dire che in altri Paesi è stato posto il limite dei due mandati, ma spesso e volentieri questo limite è stato superato. In alcuni Paesi, come appunto il Benin, ma penso anche al Senegal o al Ghana, queste tendenze si stanno affermando e si stanno consolidando e quindi rafforzano il processo democratico nel continente.

D. – Abbiamo detto che il Benin è un Paese da considerarsi un importante esempio di democrazia nel continente africano. Sottolineiamo anche il fatto che c’è libertà di pensiero, libertà di stampa. Quali sono i problemi che però il Benin, pure in questo stato di grazia, dal punto di vista delle libertà civili, vive oggi?

R. – Il Benin è ancora un Paese molto povero. Talon dovrà affrontare problemi veramente grandi: la disoccupazione, la corruzione, molto diffusa in tutto il Paese, soprattutto nella classe politica, ma anche una sanità che riguardi tutta la popolazione e un’educazione che, non solo permetta di uscire dall’analfabetismo, ma che aiuti anche il Paese a svilupparsi.

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Tribunale di Roma dice sì all'adozione per due uomini

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Fa discutere il via libera del Tribunale di Roma all’adozione da parte di due uomini di un bambino nato tre anni fa da maternità surrogata in Canada. I due, sposati nel Paese nordamericano, sono rientrati in Italia dove la gestazione per altri è illegale. Si tratta di un nuovo caso di stepchild adoption legittimato da un tribunale, il primo che vede coinvolti due uomini. Che valore ha questa sentenza? Paolo Ondarza lo ha chiesto ad Alberto Gambino, ordinario di diritto privato nell'Università Europea di Roma: 

R. – Il valore giuridico è molto simile anche all’altro caso in cui invece erano state due donne a procedere a questa cosiddetta stepchild adoption. Certo, da un punto di vista sociale, antropologico è molto particolare, perché in questo caso la madre non esiste, o meglio esiste – ahimè – ma è stata il soggetto che ha portato in grembo questo figlio per nove mesi e poi lo ha destinato ad una coppia di papà, tutti e due dello stesso sesso.

D. – E’ stato specificato che il bambino, che ora ha tre anni, sa di avere anche una madre biologica, ma di fatto vive con questi due uomini…

R. – Ecco, questa è – mi si passi l’espressione – un’ipocrisia. Si cerca, cioè, di edulcorare questa vicenda, dicendo che quella che geneticamente ha partorito questo bambino in realtà continua a vivere nella vita di questo figlio, chiede notizie e ogni tanto lo vede. Attenzione, una mamma che mette al mondo un figlio ha una responsabilità giuridica e morale. La genitorialità va di pari passo con la necessità poi di occuparsi del figlio. E quindi, delle due, una: o questa madre non esiste più per il mondo del Diritto e allora questo bambino è in una situazione di abbandono e dovrebbe essere adottato; oppure, se esiste e continua ad occuparsene, non se ne può occupare parzialmente, ma se ne deve occupare totalmente, perché è un dovere morale e giuridico.

D. – Stiamo parlando di un caso di stepchild adoption, ovvero adozione del figlio del partner concepito tramite maternità surrogata, a titolo non oneroso: pratica contestata da più parti a livello internazionale e nazionale negli ultimi mesi. Non è una contraddizione che una sentenza di un tribunale legittimi qualcosa che incontra tanta ostilità?

R. – Il tribunale fa questo ragionamento: ormai sono alcuni anni che il bambino vive con questa coppia di uomini e a questo punto sarebbe peggio levarlo a questa coppia e affidarlo ad un’altra coppia. Si è instaurata, cioè, una qualche continuità affettiva.

D. – Quindi ha prevalso il superiore interesse del bambino?

R. – Secondo i giudici ha prevalso. Facciamo attenzione, però, che qui ha prevalso perché non si è riusciti a perseguire fino in fondo questo divieto che in Italia esiste della surrogazione di maternità. Se invece, infatti, le cose fossero andate come dovevano andare, nel momento del rientro di questo bambino in Italia,  immediatamente, non dopo alcuni anni, sarebbe stata acclarata questa violazione della legge penale - perché la legge vieta la surrogazione di maternità - e a questo punto il bambino sarebbe immediatamente stato dichiarato adottabile e dato ad una coppia evidentemente di sesso diverso. Perché in Italia l’adozione può essere perseguita soltanto da uomo e donna e non da due uomini.

D. – Il ddl sulle unioni civili è stato votato dal Senato grazie ad un accordo di maggioranza senza la stepchild adoption e con il rimando ai giudici, in termini di adozione, ad applicare la normativa vigente. Pare configurarsi, accadere, quanto qualcuno temeva, e cioè che normalizzare la stepchild apra all’utero in affitto…

R. – Sì, la legge sulle unioni civili ad un certo punto fa un rinvio alla legge sull’adozione, ma anche alle sue applicazioni. Diciamo la verità, questo è un artifizio, perché è evidente che la legge non può ratificare l’operato dei giudici. Questo dal punto di vista giuridico ovviamente è un obbrobrio, però da un punto di vista sociale, politico, mette un’enfasi su queste decisioni dei giudici che andrebbero a colmare un vuoto. E quindi il rinvio fatto dalla legge sulle unioni civili effettivamente ratificherebbe un poco l’operato dei giudici. Lo ratificherebbe – ripeto – in termini sociali e politici, ma non giuridici.

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"Acqua e Lavoro" tema della Giornata Mondiale dell'Acqua 2016

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"Acqua e Lavoro" è la tematica prescelta per la Giornata Mondiale dell'Acqua del 2016. Dal 1992, su invito delle Nazioni Unite, il 22 marzo è divenuta la giornata per sensibilizzare la popolazione alla riduzione dello spreco poiché ciascuno è responsabile della mancanza di risorse di altre popolazioni. Perché dedicare una Giornata alle attività legate a questa risorsa? Andrea Masullo, direttore scientifico dell'associazione Greenaccord, lo ha spiegato a Maria Laura Serpico: 

R. – Al mondo, 2 milioni di bambini sotto i 5 anni muoiono per malattie riconducibili all’assenza di acque sicure, come il colera, il tifo e la dissenteria. Sono 2 miliardi le persone che oggi non hanno accesso ad acque sicure, 3 miliardi e 400 milioni ne hanno un accesso discontinuo. In più, andiamo incontro a cambiamenti climatici che sconvolgeranno i cicli idrologici; soltanto questo ci fa pensare quanto sia opportuno ricordarlo in questa Giornata.

D. - Come promuovere attività concrete sulla tematica dell’acqua all’interno dei singoli Stati?

R. - Intanto bisogna cominciare a fare, come previsto dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, delle politiche di adattamento ai cambiamenti che non si riusciranno ad evitare sul tema dell’acqua, cioè porsi seriamente il problema di come tra 10, 15, 20,30 anni si potrà garantire una fornitura di acque sicure a metropoli che saranno sempre più affollate. Quindi nuovi sistemi, nuovi criteri di gestione del territorio, di rinaturalizzazione dei bacini idrologici per ripristinare i cicli che l’attività umana ha incautamente interrotto e nuovi sistemi di governance degli approvvigionamenti idrici per compensare quella che sarà la mancanza dei ghiacciai che tenderanno a sciogliersi.

D. - Come incide l’accesso all’acqua sulla qualità della vita?

R. - La quantità minima vitale deve essere garantita a tutti e i dati che abbiamo fornito in precedenza dimostrano che non è così; sono tantissime le persone che soffrono; stiamo parlando di quasi la metà della popolazione mondiale che non ha un accesso sicuro. L’acqua è fondamentale per la vita, per l’igiene; è un elemento di base anche per l’alimentazione. Non dimentichiamoci che ciascuno di noi è responsabile della mancanza di acqua di tante popolazioni. Quando noi sprechiamo cose e cibo stiamo sottraendo, sprecando quell’acqua che è necessaria, a popolazioni lontane che ne hanno un fortissimo bisogno per vivere.

D. - Quale relazione sussiste tra l’acqua e il lavoro?

R. - L’acqua è fondamentale per la vita, per la sopravvivenza dell’uomo e viene usata per tantissime applicazioni, nell’agricoltura ma anche nell’industria; ricordiamo che l’acqua va anche a raffreddare le centrali energetiche a combustibile, …. Quindi un motivo in più per passare a energie rinnovabili che non hanno bisogno dell’acqua per scopi di raffreddamento, e un motivo in più di preoccupazione perché si crea questa competizione tra agricoltura, industria e alimentazione e approvvigionamento umano. Di conseguenza cresce questa preoccupazione perché di fronte ad una prospettiva di scarsità vince chi sul mercato ha maggiori possibilità; sicuramente l’industria piuttosto che l’agricoltura o il singolo cittadino che ha diritto ad approvvigionarsi di quella quantità minima essenziale di acqua. L’acqua, quindi, ha tante implicazioni con il lavoro, con la società, con la natura, con la sopravvivenza dell’uomo.

D. - Una conversione ecologica mondiale è realmente possibile?

R. - Non solo è possibile ma è necessaria, perché sul nostro pianeta, con tutti i problemi che stiano creando con un modello di sviluppo incentrato sul consumismo e sullo spreco, nessuno si può salvare da solo, neanche i Paesi ricchi perché ormai i problemi ecologici, come quello dei cambiamenti climatici, sono globali. Quindi è fondamentale che i Paesi, tutti insieme, si facciano carico responsabilmente dei problemi della nostra Terra.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi argentini: da 3 anni Francesco un grande dono per tutti

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“I suoi gesti sono un invito che ci spinge ad uscire dalla comodità, a ridurre le distanze e a toccare la carne sofferente di Cristo nel suo popolo”. I vescovi argentini si stringono al Papa, al suo terzo anniversario di Pontificato, e lo fanno mettendo in risalto in una dichiarazione comune una delle caratteristiche più note e globalmente apprezzate di Francesco: quella di saper arrivare al cuore della gente con un abbraccio, una parola schietta.

Il Papa e i poveri
“Il Santo Padre – scrivono i presuli argentini – ha la missione di guidare la Chiesa e di presiederci nella carità. Questa missione la compie attraverso i gesti e le parole, non sempre ben interpretati, così comunica i suoi insegnamenti. Ci mobilita la sua vicinanza ai malati, ai poveri, ai carcerati, ai bambini, agli anziani, ai migranti, alle persone tossicodipendenti e a quanti vivono nelle periferie esistenziali più controverse: gli esclusi, gli scartati, i più fragili e i vulnerabili”.

“Chiesa in uscita” e “casa comune”
L’attenzione verso ogni forma di povertà – con la quale, si afferma, il Pontefice “ha rinnovato con chiarezza l'opzione preferenziale per i poveri” già evidenziata dai suoi predecessori – l’episcopato dell’Argentina sottolinea anche altri temi al centro della riflessione del Papa, dalla “Chiesa in uscita” alla “cura della casa comune”, con la connessa promozione della “ecologia integrale”. L'enciclica Laudato si' – riferiscono in proposito – “è stata ben accolta anche dal mondo accademico, dai membri delle organizzazioni sociali, dai leader politici ed esponenti di altre confessioni religiose”.

Dialogo e Misericordia
Una considerazione dei presuli è anche per i viaggi apostolici che, notano, hanno permesso al Papa di costruire “ponti per il dialogo e la pace tra nazioni in conflitto e di promuovere la cultura dell'incontro”. Inoltre, prosegue il comunicato, “con semplicità e fermezza apostoliche” Francesco ha saputo “rinforzare i vincoli con altre confessioni cristiane incentivando nuovi spazi per il dialogo interreligioso nello spirito del Concilio Vaticano II. Nell'Anno Giubilare invita noi tutti, pastori, a rinnovare la nostra fedeltà all'annuncio del Vangelo, invita anche tutti a riscoprire le opere di Misericordia corporali e spirituali che sono il sentiero per lo sviluppo e la crescita dell'amicizia sociale”.

Grazie per il dono di Francesco
Le ultime parole dei vescovi argentini sono di gratitudine. “Diamo grazie a Dio per il dono di Papa Francesco ed esortiamo le nostre comunità a pregare per Lui affinché continui il suo servizio alla comunione della Chiesa e come artefice di Pace e Giustizia tra i Popoli. Come argentini attendiamo sempre la sua Visita e chiediamo a Maria, Madre della Misericordia che lo protegga con la sua tenerezza”. (A.D.C.)

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Congo: ucciso padre assunzionista. Denunciava sfruttamento del coltan

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“Perché mi uccidete?” Sono queste le ultime parole di padre Vincent Machozi, sacerdote assunzionista ucciso nella notte di domenica scorso nel villaggio di Vitungwe-Isale, a 15 km da Butembo nel Territorio di Beni (Provincia del Nord Kivu nell’est della Repubblica Democratica del Congo). Secondo quanto riferito a “la Croix” da padre Emmanuel Kahindo, vicario generale della Congregazione degli Assunzionisti (Agostiniani dell’Assunzione), egli stesso di nazionalità congolese, “alcuni militari sono arrivati su dei veicoli verso mezzanotte, hanno abbattuto la porte e l’hanno ucciso sul posto”.

Gli assassini sono militari delle forze armate congolesi
Le testimonianze raccolte da padre Kahindo e dal sito benilubero.com concordano sul fatto che gli assassini sono militari delle forze armate congolesi (Fardc). In particolare benilubero.com riferisce che “una decina di soldati in uniforme delle Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo, pesantemente armati, che viaggiavano in jeep, hanno fatto irruzione nel perimetro del centro sociale Mon Beau Village, dove si erano riuniti i capi tradizionali Nande per prendere parte ad una riflessione sulla pace convocata da Mwami Abdul Kalemire III” capo della comunità di Basho, in missione nella zona e ospite dello stesso convento.

I soldati volevano colpire il capo Kalemire e padre Vincent
Nonostante il tentativo degli astanti di nascondere la presenza delle due persone prese di mira - riporta l'agenzia Fides - i militari hanno scoperto padre Vincent che si trovava all’aperto, nel cortile, e stava lavorando al suo computer portatile. Si è sentita una raffica di arma automatica mentre padre Vincent gridava: “Perché mi uccidete?”. Kalemire III si è salvato solo perché aveva appena lasciato padre Vincent per andare a riposarsi.

Il religioso minacciato di morte, sfuggito a sette attentati
Padre Vincent era già stato minacciato di morte, tanto è vero che nel 2003 era stato costretto all’esilio negli Stati Uniti. Questo non gli aveva impedito di diventare Capo Redattore di benilubero.com. Dopo il suo ritorno nella Rdc era sfuggito a sette attentati.

Si era battuto contro i gruppi armati dediti allo sfruttamento del Coltan
Padre Vincent aveva denunciato più volte le sofferenze della popolazione Nande causate dalla presenza nel Territorio di Beni di diversi gruppi armati dediti allo sfruttamento illegale del coltan (minerale usato nella fabbricazione di componenti elettronici per i cellulari), spesso con la connivenza dell’esercito regolare. Il religioso era nato nel 1965. A 17 anni era entrato nella Congregazione degli Assunzionisti. Dopo aver completato gli studi in Francia fu ordinato ad Angers nel 1994. Ha insegnato al seminario di Kinshasa ed ha conseguito un dottorato all’Università di Boston in risoluzione dei conflitti. Sempre domenica scorsa, un sacerdote dell’Ordine dei Chierici Regolari Minori (Padri Caracciolini) è stato ferito gravemente in un agguato stradale a Katwiguru, 30 km da Rutshuru. (L.M.)

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Libano: Domenica delle Palme all’insegna dell’appello di pace

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Pace in Libano e nel mondo, amore, riconciliazione e unità nazionale. Queste le parole più ricorrenti risuonate nelle omelie per la Domenica delle Palme nelle diocesi del Libano.

Il Patriarca Raï : la Domenica delle Palme sia l’alba della giustizia
A Bkerké - riferisce il quotidiano libanese L’Orien-le-jour - il cardinale Patriarca dei maroniti Béchara Raï ha espresso l’auspicio di “una vita di pace “ per i libanesi, pregando Dio che questa festa sia “l’alba della giustizia e del diritto in Libano e in tutti i Paesi del mondo”. Nella cattedrale di San Giorgio, l’arcivescovo maronita di Beirut mons. Boulos Matar, ha, da parte sua, spronato i libanesi a “una vita d’amore perché il Libano possa vivere”. Nell’omelia li ha quindi esortati a “una grande e reale riconciliazione” nazionale e “alla fratellanza, lontano dall’odio”, ricordando l’ingresso umile di Gesù a Gerusalemme compiuto con la “forza dell’amore e della riconciliazione”. Quindi l’arcivescovo ha deplorato la violenza che insanguina il Medio Oriente in cui “ogni giorno ci si uccide in guerre senza fine” e si è rivolto in particolare ai libanesi affinché “restino uniti nel rispetto reciproco” perché il Libano “sia un modello del vivere insieme a immagine del Regno celeste”.

Il Patriarca Grégoire III Laham: basta terrorismo
Un appello alla pace in tutti i Paesi del Medio Oriente è giunto anche da Damasco, dove il Patriarca greco-cattolico Grégoire III Laham ha presieduto la Messa nella cattedrale di Notre-Dame de Niah. Dopo avere condannato con forza il terrorismo che imperversa tanto in Medio Oriente che in Europa, negli Stati Uniti e in Africa, Laham ha invocato “la fine della guerra e del traffico di armi” e chiesto che sia data un’opportunità “alla pace, all’amore e ai bambini”.

L’arcivescovo di Tripoli Abou Jaoudé: i politici si impegnino per la pace
​Analogamente Tripoli, in Libano, l’arcivescovo maronita Georges Abou Jaoudé ha espresso la speranza che i leader politici “operino per diffondere l’amore e la pace e allontanino da sé lo spirito di odio e interessi personali” Egli li ha quindi esortati a fare della politica “l’arte di guidare il popolo verso la pace e a non radicare l’odio nel cuore dei libanesi” In questo senso ha rivolto un appello a tutte le fazioni a proseguire il dialogo per arrivare finalmente all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica che i libanesi attendono da quasi due anni. (L.Z.)

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Comunicato finale della riunione degli Ordinari di Terra Santa

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Il punto sui rapporti tra Santa Sede e Regno di Giordania e l’emergenza profughi nel Paese; l’Accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina siglato nel giugno del 2015; la celebrazione a Nazareth della Giornata Mondiale del Malato; il calo dei pellegrinaggi in Terra Santa; la difficile situazione delle scuole cristiane in Israele; la prossima Gmg di Cracovia. Sono stati questi i temi al centro dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa (Aocts), riunitasi nei giorni scorsi ad Amman, in Giordania.

Gli auguri del Patriarca Twal a Papa Francesco
Ad introdurre i lavori - riferisce il comunicato finale – è stato il Patriarca di Gerusalemme dei Latini Fouad Twal che ha colto l’occasione per fare gli auguri a Papa Francesco per il suo terzo anno di pontificato, esprimere i suoi migliori auspici per il prossimo sinodo pan-ortodosso a Creta e ringraziare padre Pierbattista Pizzaballa che ad aprile finisce il suo mandato come Custode di Terra Santa.

Il punto sui rapporti Santa Sede-Giordania e Santa Sede-Palestina
E’ seguito l’intervento del nunzio apostolico ad Amman, mons. Alberto Ortega, che ha parlato delle buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e il Regno di Giordania, e della situazione politico-sociale del Paese alle prese con l’emergenza rifugiati siriani e iracheni, sottolineando che la Giordania resta ancora un Paese tranquillo nel turbolento scacchiere mediorientale e che la comunità cristiana è rispettata e gode della piena libertà religiosa. Mons. Giuseppe Lazzarotto, nunzio in Israele e delegato apostolico a Gerusalemme, ha invece presentato il testo dell’Accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina siglato il 26 giugno dell’anno scorso, evidenziando che esso sarebbe un modello da imitare in altri Paesi arabi e precisando che prossimamente riprenderanno anche i negoziati per la firma di accordi bilaterali con Israele.

Altri temi: il calo dei pellegrinaggi e la partecipazione alla Gmg di Cracovia
Quanto alla vita della Chiesa in Terra Santa, l’Assemblea ha salutato con soddisfazione il grande successo delle celebrazioni della Giornata Mondiale del Malato l’11 febbraio scorso a Nazareth. All’evento, ha partecipato una delegazione pontificia presieduta dall'arcivescovo Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari. Altro punto evidenziato durante i lavori il significativo calo dei pellegrinaggi in Terra Santa, che peraltro continuano, nonostante le violenze, e si caratterizzano per una maggiore varietà di provenienze. Gli ordinari hanno poi ascoltato un rapporto di mons. William Shomali , ausiliare del Patriarcato Latino di Gerusalemme, sulla prossima Gmg di Cracovia, alla quale è attesa la partecipazione di 700 giovani dalle diocesi di Giordania, Palestina, Israele e Cipro.

All’esame dei vescovi anche la situazione delle scuole cristiane in Israele
Un’ampia riflessione è stata, infine, dedicata alla situazione delle scuole cristiane, soprattutto in Israele, dove esse sono state fortemente penalizzate dai tagli delle sovvenzioni pubbliche di questi anni,  con conseguente aumento dei costi per le famiglie, che pesa soprattutto su quelle arabe israeliane con redditi sotto la media nazionale. Al termine della riunione i vescovi hanno visitato il “Ristorante della Misericordia” inaugurato il 21 dicembre scorso dalla diocesi di Amman e dalla Caritas Giordania in occasione del Giubileo e che serve dai 300 ai 500 pasti al giorno a poveri e bisognosi. (A cura di Lisa Zengarini)

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Bolivia. Mons. Gualberti: "Minacciato lo Stato di diritto"

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"Ogni giorno i media ci presentano notizie di persone che approfittano del potere per arricchirsi, anche ricorrendo alla corruzione, a menzogne e inganni. Nel tentativo di nascondere i fatti contro la legge, sentiamo dichiarazioni contraddittorie e ambigue, che invece di fare luce sui fatti, intralciano la situazione e confondono l'opinione pubblica, proprio per distrarre l'attenzione dal vero problema": così ha parlato domenica scorsa, l'arcivescovo di Santa Cruz, mons. Sergio Gualberti, in cattedrale dinanzi alla comunità cattolica.

Il presule invoca verità e giustizia
Mons. Gualberti ha esclamato: "C'è bisogno di verità! La giustizia deve fare un'inchiesta imparziale, obiettiva e libera da ogni tipo di pressione. Solo nella verità si può superare il clima di sfiducia e la mancanza di credibilità che causano questi fatti e minacciano la coesistenza pacifica e lo stato di diritto in una nazione". La nota inviata a Fides da una fonte locale segnala che l'arcivescovo non ha citato alcun nome né fatto specifico, ma secondo un comunicato dell'ufficio stampa dell'arcidiocesi di Santa Cruz, le sue parole si riferivano allo scandalo “che coinvolge alti livelli del governo”.

Condannata la corruzione e l'impunità politica e giudiziaria
Già nel novembre 2015 la Chiesa cattolica locale aveva denunciato la situazione del Paese: "Viviamo in un tempo caratterizzato dalla esaltazione delle ideologie che non vedono la realtà dei bisognosi o non sentono la loro voce. La corruzione priva coloro che rimangono emarginati dall'occasione di una ripresa; l'impunità politica e giudiziaria protegge e sostiene questa situazione. Quindi, se noi riconosciamo questo, diciamo senza paura: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento”. Inoltre la stampa locale ha segnalato in diverse occasioni il traffico d’influenza delle autorità del governo proprio per alcuni appalti a ditte internazionali. (C.E.)

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Panama. Card. Lacunza chiede una soluzione per i migranti cubani

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Il card. Josè Luis Lacunza, vescovo della diocesi di David, torna a chiedere misure urgenti alla crisi dei migranti cubani bloccati da mesi alla frontiera tra Panama e Costa Rica. Il porporato ha esortato i Paesi centroamericani e il Messico a cercare una soluzione effettiva e rapida per la sempre più critica e preoccupante condizioni di centinaia di cubani fermi nella zona di Paso Canoas blindata dal Costa Rica, nella sua determinazione di non permettere l’ingresso di immigrati nel Paese.

Fondamentale un accordo tra le nazioni centroamericane
“Il Costa Rica - ha detto il card. Lacunza ad una mittente televisiva panamense - ha preso la decisione di non lasciare passare un cubano in più e quelli che riusciranno a farlo saranno deportati”. “Questo - ha aggiunto -  ci pone in una situazione ancora più critica, perché bisognerà vedere fino a che punto il Panama avrà la capacità di  accogliere gli immigrati e le possibilità di fare accordi tra i governi vicini per permettere che questi cubani siano trasferiti fuori della zona di frontiera”

Si teme di stimolare nuovi arrivi
Il card. Lacunza ha ammesso che comprende la preoccupazione dei governi. “Se facilitano l’ingresso dei migranti - ha detto - continueranno ad arrivare e sarà una storia senza fine”. Gli immigranti ancora bloccati a Paso Canoa hanno chiesto la scorza settimana la mediazione del porporato per chiedere al governo del Presidente panamense Juan Carlos Varela, un'uscita diplomatica.  Ci sono circa mille i cubani alla frontiera accolti dalle autorità panamensi in diversi alberghi della provincia di Chiriquí, in attesa  di un accordo regionale che gli permetta di attraversare i diversi Paesi del Centroamerica fino al Messico, per poi raggiungere gli Stati Uniti. (A cura di Alina Tufani)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 82

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.