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Sommario del 30/03/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Dio dà sempre a chi ha peccato la dignità di rialzarsi

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Il perdono di Dio è sempre “più grande” di “qualunque cosa possiamo rimproverarci”. Lo ha affermato Papa Francesco all’udienza generale in Piazza San Pietro, davanti a oltre 30 mila persone, durante la quale ha terminato la serie di catechesi sulla misericordia nell’Antico Testamento. Dio elimina il peccato “alla radice, ha detto il Papa, che ha concluso: “Se tu vuoi essere perdonato, perdona” a tua volta. Il servizio di Alessandro De Carolis

Tendere la mano al cielo, come fa un bambino finito a terra con sua mamma o suo papà, perché la “dignità del perdono di Dio” sta nel permettere alle donne e agli uomini di potersi rialzare sempre, ogni volta che hanno sbagliato e si pentono.

Più grande di ogni peccato
Papa Francesco conclude il ciclo di catechesi sulla misericordia nell’Antico Testamento con il distillato di tutta la sua riflessione, che è poi il cuore del Giubileo: Dio non si stanca mai di perdonare chi gli chiede perdono. Per spiegarlo usa i versi del Salmo 51, quello che dà voce al re Davide, oppresso dal doppio, grave peccato che ha commesso: l’adulterio con la moglie del suo generale, a sua volta fatto morire. Davide, ricorda Francesco, confessa la propria colpa, non si vergogna della sua miseria, confida nella misericordia divina:

“L’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno nella nostra vita è quella di essere perdonati, liberati dal male e dalle sue conseguenze di morte. Purtroppo, la vita ci fa sperimentare tante volte queste situazioni; e anzitutto in esse dobbiamo confidare nella misericordia. Dio è più grande del nostro peccato. Non dimentichiamo questo: (…) Dio è più grande di tutti i peccati che noi possiamo fare".

Non cancellato, distrutto
Il Papa scruta fin nelle pieghe della dinamica del perdono divino. Il Salmo, afferma, mostra che l’ammettere il proprio errore è già un modo di celebrare “la giustizia e la santità di Dio”. Il quale non si limita a elargire una sommaria benevolenza al peccatore, ma fa molto di più:

“Il peccato... lo distrugge e lo cancella. Ma lo cancella proprio dalla radice, non come fanno in tintoria quando portiamo un abito e cancellano la macchia. No! Dio cancella il nostro peccato proprio dalla radice, tutto!”.

La dignità di rialzarsi sempre
Con il perdono divino, prosegue Francesco, una persona volta letteralmente pagina. Si diventa, dice, “creature nuove, ricolmate dallo Spirito, piene di gioia”. Anzi, soggiunge, accogliendo la grazia divina “possiamo persino insegnare agli altri a non peccare più”:

“Quando un bambino cade, cosa fa? Alza la mano alla mamma, al papà perché lo alzi. Facciamo lo stesso. Se tu cadi per debolezza nel peccato, alza la tua mano: il Signore la prende e ti aiuterà ad alzarti. Questa è la dignità del perdono di Dio! La dignità che ci dà il perdono di Dio è quella di alzarci, metterci sempre in piedi, perché Lui ha creato l’uomo e la donna per essere in piedi”.

Perdona se vuoi essere perdonato
Infine, c’è la condivisione. Chi ha ricevuto il perdono di Dio, conclude con un imperativo Francesco, non può che comportarsi altrettanto con gli altri attorno a sé:

“Tutti coloro che il Signore ci ha posto accanto, i familiari, gli amici, i colleghi, i parrocchiani… tutti sono, come noi, bisognosi della misericordia di Dio. È bello essere perdonato, ma anche tu, se vuoi essere perdonato, perdona anche tu. Perdona!”.

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Onu, mons. Auza: valore alle donne in Africa, basta violenze

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Senza il contributo delle donne non sarà possibile raggiungere gli obiettivi fissati dall’Onu nell’Agenda per lo sviluppo sostenibile. Lo ha sottolineato l’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York, intervenuto nel dibattito aperto al Consiglio di Sicurezza sul tema “Il ruolo delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti in Africa”. Il servizio di Roberta Gisotti

Tra i 17 obiettivi indicati dall’Onu, da raggiungere entro il 2030, c’è quello di “promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile”. Ma questo obiettivo, ha ricordato mons. Auza, è “ancora un sogno lontano” in "molti Paesi dell’Africa, in particolare nella Regione dei Grandi Laghi”, e che “le donne possono contribuire grandemente a realizzare”.

La Santa Sede – ha spiegato il presule – apprezza le iniziative promosse dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e dai governi “per alzare la consapevolezza e arrivare ad un maggiore riconoscimento del ruolo vitale delle donne nella diplomazia preventiva, nella mediazione, nei processi di costruzione e mantenimento della pace”, ma crede che “questo riconoscimento debba essere pienamente tradotto in azioni per liberare competenze e capacità che appartengono alle donne per riportare ordine dal caos, comunione dalla divisione e pace dal conflitto”. Le donne hanno infatti uno “speciale dono nell’educare le persone a essere recettive e sensibili alle necessità degli altri”, che “è cruciale nella risoluzione dei conflitti e nel promuovere la riconciliazione nel dopo conflitto”. Per questo la Chiesa sostiene attraverso varie iniziative le donne che in Africa difendono i più deboli, prevengono le divisioni, curano le vittime di guerra, rafforzano la pace fragile, promuovono i diritti umani fondamentali. Così anche l’aumento di donne nelle alte cariche politiche e nelle sfere diplomatiche – ha osservato mons. Auza – può aiutare l’Africa, a partire dal garantire a tutte le donne l’educazione, un ambito dove la Chiesa cattolica è particolarmente impegnata.

Ma “purtroppo – ha denunciato il presule – per troppe donne è ancora una lotta in salita ripida emanciparsi da situazioni di marginalizzazione, violenza, abbandono ed esclusione. Il mondo continua infatti a confrontarsi con varie, vecchie e nuove forme di violenza diretta contro le donne e le ragazze”, in particolare l’uso dello stupro come arma durante i conflitti, gli abusi nei campi profughi, la tratta a scopo di sfruttamento sessuale, gli aborti, le conversioni e i matrimoni forzati. Da qui l’obbligo che incombe – ha ammonito il l’osservatore vaticano – su ognuno di noi, su ogni governo e in special modo sul Consiglio di Sicurezza, “di porre fine a questi azioni barbariche contro le donne e le ragazze”.

Un omaggio particolare, mons. Auza ha rivolto infine alle quattro suore missionarie – Marguerite e Reginette, rwandesi, Judit, kenyota, e Anselm, indiana – “massacrate da vili fondamentalisti” il 4 marzo scorso nel loro convento ad Aden, nello Yemen.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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L’oceano e la neve: all’udienza generale il Papa ricorda che il perdono di Dio cancella il peccato dalla radice

Devi parlare al mondo: Seraphim Michalenko sul messaggio di suor Faustina Kowalska, segretaria della Divina Misericordia

Quanta storia in quei fumetti: Giorgio Vecchio sugli anni d’oro del Vittorioso, settimanale illustrato della Gioventù italiana di Azione cattolica

Lucetta Scaraffia sull'esperimento Riace

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Oggi in Primo Piano



Mons. Hinder: lo Yemen ripartirà con la cultura della mediazione

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Nello Yemen, sempre viva la speranza di ritrovare padre Tom Uzhunnalil, il sacerdote salesiano di origine indiana rapito il 4 marzo scorso nell’assalto terroristico a una casa per anziani ad Aden. Nel corso dell’attacco, erano state uccise quattro suore di Madre Teresa di Calcutta e altre dodici persone, tutti collaboratori della struttura. Intanto, sul terreno si registrano nuovi scontri tra lealisti e miliziani di Al Qaeda, al sud, e attacchi della coalizione araba contro ribelli sciiti Houthi. Il presidente Hadi ha proposto il varo di una tregua che preceda colloqui di pace. Giancarlo La Vella ne ha parlato con mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale: 

R. – Spero che ci sia un risultato positivo. È chiaro che dopo tanti conflitti, una guerra terribile in questi ultimi 12 mesi, non sarà facile riconciliare le parti. Però, il fatto che almeno si parlino, che cerchino un’uscita è già un buon segno e forse è il risultato che ogni parte si rende conto che da sola non può vincere la guerra. Devono mettersi insieme. Credo ci vorrà un po’ di tempo per ristabilire le cose, perché è una situazione molto complicata.

D. – Intanto, ci sarà modo di soccorrere la popolazione civile che dopo tanti mesi di conflitto soffre in maniera indicibile?

R. – Quello che so è che la maggioranza della gente soffre la fame. Ora, come si porterà soccorso è un’altra questione, perché ci sono tante fazioni, tante tribù, interessi divergenti. Non sarà facile riconciliarli tutti. Forse non hanno ancora imparato la cultura della mediazione. C’è il rischio che ognuno voglia aver tutto per sé, questo non andrà bene.

D. – Tante le speranze di pace, anche speranze che si abbiano notizie di padre Tom…

R. – Io spero prima di tutto che sia ancora vivo, ne sono convinto. Come sarà liberato vedremo…

D. – Ha una speranza personale per il futuro dello Yemen?

R. – Ho speranza perché prima di tutto lo Yemen è una nazione di cultura antica. È veramente un Paese meraviglioso, verso il quale ho sempre avuto molta stima. Spero il futuro sia migliore di quello che è stato in questi ultimi mesi, ma ci vuole gente capace di negoziare, onesta, che va avanti con il rispetto verso le minoranze esistenti. Dopo di che, è possibile ricostruire un nuovo futuro. Questa nazione lo merita.

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Pakistan: migliaia di manifestanti chiedono l'esecuzione di Asia Bibi

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In Pakistan, migliaia di manifestanti sono da diversi giorni accampati all'esterno della Presidenza a Islamabad per chiedere la condanna a morte di Asia Bibi, una donna cristiana, madre di 5 figli, ingiustamente accusata di blasfemìa e in carcere da quasi 7 anni. I dimostranti assicurano di esser "pronti a
morire" pur di non abbandonare l'area, nonostante l’ultimatum della polizia. La protesta è iniziata domenica, subito dopo l’attentato integralista di Lahore dove hanno perso la vita oltre 70 persone, in gran parte cristiani. Il primo vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, in un'interrogazione scritta rivolta all'Alto rappresentante Ue Federica Mogherini, afferma: "L'Unione Europea agisca subito per scongiurare l'esecuzione di Asia Bibi". Purtroppo, su questa drammatica vicenda continua il silenzio dei media internazionali. Federico Piana ne ha parlato con il presidente dell’Azione Cattolica, Matteo Truffelli

R. – Purtroppo sono quelle notizie che è facile far scivolare in seconda, terza, quarta pagina e così via nei giornali. E’ una notizia, infatti, che non fa notizia, purtroppo. Asia Bibi è vittima della legge sulla blasfemìa, che è una legge modificata, che paradossalmente nasce per tutelare la libertà di religione. Viene modificata negli anni ’80 proprio in chiave, esclusivamente, di tutela dell’islamismo. Asia Bibi è accusata ingiustamente e tenuta in prigione solo perché non accetta di piegarsi alla violenza di questa legge.

D. – Gli atti di terrorismo in Pakistan, come in Occidente, non devono impaurirci…

R. – Esattamente, perché cedendo al tentativo di farci rinunciare a quello che siamo – una democrazia tollerante, libera, un progetto di coesistenza pacifico – non sconfiggeremmo il terrorismo e gliela daremmo vinta. Penso che si tratti di una guerra - come ha detto il Papa già qualche tempo fa: “una guerra mondiale a pezzi” - ma una guerra anomala, che non si vince innanzitutto con i carri armati, innalzando muri, creando dei ghetti, come è successo di fatto alla comunità islamica a Bruxelles. Si tratta, infatti, della volontà di colpire questo progetto di convivenza pacifica tra religioni, culture e modi di vivere diversi. Colpisce molto il fatto che sia fatta oggetto di queste violenze una piccola minoranza. I cristiani in Pakistan sappiamo che sono meno del 2 per cento, tra cattolici e protestanti, per di più appartenenti ad una fascia debole della popolazione, povera. Non sono certo un pericolo per i musulmani in Pakistan. Quindi è chiaro il disegno di voler sgretolare una prospettiva di convivenza pacifica; è chiaro il disegno di voler mettere in discussione equilibri che in fin dei conti caratterizzavano il Pakistan fin dalla sua origine.

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Centrafrica, insediato presidente. Nzapalainga: una nuova era

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In Centrafrica si è insediato ufficialmente il nuovo presidente Faustin-Archange Touadéra, eletto lo scorso 14 febbraio. Nel Paese, dopo tre anni di guerra civile, si è instaurato un nuovo clima di pace, in particolare dopo il viaggio di Papa Francesco nel novembre scorso, con gli importanti incontri con i leader musulmani. Su questa giornata, ascoltiamo il commento di mons. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, al microfono di Hélène Destombes

R. – C’est une étape décisive car le peuple centrafricain a beaucoup souffert …
E’ una tappa decisiva, perché il popolo centrafricano ha sofferto molto e adesso spera in un’era nuova. La priorità delle priorità rimane la riconciliazione: un popolo diviso, lacerato, ferito, chiede che tutte le comunità possano riunirsi, rispettarsi e andare nella stessa direzione. Dopo la riconciliazione, bisogna fare in modo che i giovani depongano le armi: ma non solo, perché bisogna raccoglierle tutte. Non si può costruire un Paese con le armi, ma piuttosto con la pace e la scolarizzazione. Noi speriamo che per il nuovo governo questa sia una delle priorità.

D. – C’è poi da prevedere il reinserimento nella vita del Paese dei diversi miliziani…

R. – Oui, c’est tous les groupes; nous savons que certains pourront regagner l’armée …
Certo, questo riguarda tutti i gruppi; noi sappiamo che alcuni potranno tornare nell’esercito, altri no, dovranno reinserirsi nella società civile. Ma bisognerà fare in modo che sia gli uni sia gli altri possano reinserirsi.

D. – La riconciliazione passerà attraverso l’istituzione di congressi nazionali: una tappa molto importante …

R. – C’est une étape importante, parce que les gens ont besoin de se parler …
E’ una tappa importante perché le persone hanno bisogno di parlarsi. Ci sono stati carnefici e vittime: parlare è una terapia e noi speriamo che gli uni e gli altri avranno il coraggio di dirsi tutto quello che c’è da dire, perché soltanto così si potrà intraprendere un vero cammino di riconciliazione, nel rispetto vicendevole.

D. – Il Centrafrica dipende fortemente dalla comunità internazionale; attualmente ci sono i caschi blu dell’Onu e la forza di pace francese. E’ ancora così importante la presenza straniera, oggi?

R. – La présence étrangère est importante, pour ne pas dire nécessaire, car c’est un Pays en lambeaux …
La presenza straniera è importante, per non dire necessaria, perché questo è un Paese a brandelli, un Paese ridotto al nulla. Bisogna ricostruire l’amministrazione, riorganizzare l’esercito: ci sono molte cose da fare e credo che abbiamo bisogno ancora che la comunità internazionale ci accompagni in questo cammino.

D. – Quali sono i punti di forza del nuovo presidente?

R. – Les atouts sont que c’est un homme qui écoute beaucoup, c’est un homme très ouvert …
I suoi punti di forza sono che è un uomo che sa ascoltare molto, è un uomo aperto, che vuole governare per consenso, è un uomo che conosce la classe politica e l’amministrazione; ha la fiducia della popolazione: abbiamo visto che ha già iniziato a fare il giro dei luoghi che non erano stati visitati dall’epoca dell’indipendenza da nessun membro del governo. Si è spinto fino all’estremo oriente del Paese e le persone lo hanno accolto con gioia. Credo che questo sia uno dei suoi punti di forza.

D. – Si può dire che il Centrafrica sta voltando pagina?

R. – Nous pouvons dire que une page est en train de se tourner: le nouveau président a besoin du …
Possiamo dire che si sta voltando pagina, sì. Il nuovo presidente ha bisogno della collaborazione di tutti i centrafricani: non è il messia, non è un mago. Anzi, è un uomo come tutti gli altri che ha bisogno della collaborazione degli uni e degli altri, affinché i centrafricani possano operare una conversione del loro modo di essere dando il loro contributo perché si porti a termine il cambiamento.

D. – Questa conversione è iniziata dopo la visita del Papa nel Paese, a Bangui?

R. – La conversion a débuté avec la visite du Pape …
La conversione, sì, è iniziata con la visita del Papa. Il viaggio del Papa è stato il primo miracolo a cui abbiamo assistito. La sua presenza ha guarito tanti cuori e ha unito; noi dobbiamo fare tesoro di questo viaggio come di un momento importante sulla via della riconciliazione. E’ il tempo della misericordia e dobbiamo aprire il nostro cuore alla tenerezza per aprire il cuore degli altri. Non potremo ricostruire questo Paese con l’odio e la distruzione. Bisognerà osare e prendersi per mano, perdonare e iniziare una nuova vita.

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Sud Sudan afflitto da fame. P. Moschetti: è una catastrofe

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I livelli di fame e malnutrizione, in alcune zone del Sud Sudan, sono allarmanti. La denuncia è della Fao che, in un comunicato, avverte che i prezzi delle derrate alimentari, dopo due anni di guerra civile, sono diventati esorbitanti. A essere colpite soprattutto le zone più dilaniate dalla violenza, dove i prodotti alimentari si stanno esaurendo rapidamente. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Sono soprattutto due gli Stati colpiti dalla fame in conseguenza della violenza, quello di Unity e quello di Upper Nile, in realtà però è tutto il Paese a essere tormentato dalla malnutrizione. I prezzi del cibo sono diventati esorbitanti a causa dell’enorme svalutazione della moneta locale, la sterlina sudanese, rispetto al dollaro e le previsioni peggiorano sempre di più, i prodotti alimentari si esauriscono rapidamente e i combattimenti in alcune zone tra le fazioni del presidente Salva Kiir e del suo vice Riek Machar non cessano. Padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei Comboniani del Sud Sudan, nella capitale Juba:

R. – Sono le due zone dove la guerra veramente ha imperversato e ha continuato a farlo, da aprile fino a dicembre dell’anno scorso, con migliaia di donne stuprate, bambini uccisi, bruciati nelle capanne. E anche ultimamente ci sono stati degli scontri. Quindi, proprio per questo motivo, la situazione nel Paese è ormai catastrofica, l’economia è al collasso totale in tutto il Paese. C’è in atto una svalutazione del pound – la moneta locale – rispetto al dollaro, che ora vale sei volte di più. Molte imprese hanno chiuso, molti investitori stranieri se ne sono andati. Tutto questo sta veramente creando una situazione difficilissima in tutto il Paese. E logicamente molto di più in queste zone, dove c’è ancora un accanimento tra i due gruppi, tra i due leader. Le organizzazioni umanitarie fanno fatica a entrare dentro e a portare gli aiuti umanitari. Sono a rischio 4-5 milioni di persone e il numero sta crescendo in questo senso.

D. – Nel Paese ci sono tra i più alti livelli di mortalità, materna e infantile, per malnutrizione e patologie varie a questa collegate. Padre, voi Missionari comboniani con quali situazioni vi trovate a lavorare ogni giorno?

R. – Difficilissime adesso con la guerra. Anche in quelle situazioni dove prima si poteva ancora dialogare con i soldati, con le autorità, ora tutto sta diventando sempre più difficile, perché i primi nemici della gente sono proprio gli stessi soldati dell’esercito o i ribelli: sono loro che arrivano con le armi e rubano, portano via anche quel poco che la gente ha nelle capanne, cibo o altro, e non soltanto nelle zone di guerra, anche se in queste ancora di più sicuramente si assiste al sopruso, ad atti di violenza, da parte dei ribelli o anche dei soldati regolari, da quelli che dovrebbero aiutare a proteggere la gente. E questo diventa un altro momento di sofferenza e morte per la gente. Stiamo veramente pregando perché ci sia un miracolo, perché siamo in mano a due leader che sono entrambi criminali di guerra. Purtroppo, però, non abbiamo alternativa e quindi dobbiamo andare avanti cercando di far sì che questi due gruppi possano dialogare e arrivare a un governo di unità nazionale nelle prossime settimane – così almeno dicono – anche se però ci sono grandi divisioni interne e grandissime ferite. Quindi, abbiamo bisogno di un grande miracolo, di San Daniele Comboni, il nostro fondatore, che ha dato tutta la sua vita al Sudan, e di Santa Giuseppina Bakhita, prima Santa africana e prima Santa sudanese, schiava cinque volte poi canonizzata da San Giovanni Paolo II.

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Msf: l'India difenda il suo essere "farmacia" per i più poveri

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Al via oggi a Bruxelles il vertice tra Unione Europea e India che dovrebbe riavviare i negoziati sul libero scambio interrotti da più di tre anni. Sul tavolo anche alcuni accordi che, se accettati, potrebbero mettere a rischio la produzione e l’esportazione da parte indiana di farmaci generici e quindi minare l’accesso ai medicinali a basso costo per milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo. L’ipotesi viene denunciata oggi da Medici Senza Frontiere: che il premier indiano, Narendra Modi - è stato il suo appello - difenda “la farmacia dei paesi poveri”. Adriana Masotti ne ha parlato con Silvia Mancini, esperta di salute pubblica per l’organizzazione umanitaria: 

R. – Per anni l’India, pur rispettando le leggi internazionali sul commercio, ha continuato a produrre dei farmaci generici tutelando la salute dei propri pazienti e fornendo tutti questi farmaci anche ai Paesi in via di sviluppo che non avevano capacità produttiva. Oggi, di fatto, l’Europa sta cercando di mettere in discussione questa possibilità chiedendo una serie di restrizioni molto rilevanti sulla proprietà intellettuale e quindi sui brevetti che sono concessi ai farmaci. Queste, se venissero accettate, potrebbero comportare sia un blocco della produzione di questi farmaci, sia un blocco della loro esportazione verso i Paesi in via di sviluppo. Ci sarebbe di conseguenza una riduzione notevole dell’accessibilità dei farmaci a prezzi contenuti. Un’altra cosa da tenere assolutamente sotto controllo è il fatto che, se una grossa multinazionale farmaceutica dovesse citare in giudizio una casa produttrice di farmaci generici, anche le associazioni come per esempio “Medici Senza Frontiere”, che utilizzano questi farmaci generici, potrebbero essere chiamati in causa e in giudizio. Chiarament,e si tratta di una partita molto importante che si sta giocando a questi livelli, il cui contenuto spesso non è di pubblico accesso, né alle parti in causa, né ai governi che potrebbero invece alzare la voce su questo fronte e giocare un ruolo molto importante per difendere la salute dei propri cittadini.

D. – Che cosa c’entra il rafforzamento della proprietà intellettuale con la possibilità di esportare, di vendere i propri medicinali?

R. – Moltissimi Paesi che producono farmaci non generici, e quindi le grandi case farmaceutiche, insistono nel dire che la produzione del farmaco deve essere rivolta al mercato interno, ma che questo non può essere esportato. Ed eventualmente non concedono al Paese produttore di poter esportare verso Paesi che non hanno una capacità produttiva. Ora, quello che si sta cercando di fare è ridurre questa capacità attraverso un rafforzamento della proprietà intellettuale, che da un lato non prevede più l’esportazione, e dall’altro, prevede l’allungamento del periodo di tempo entro cui il brevetto ha un’efficacia, un effetto. Attualmente è sui 20 anni e questo potrebbe subire invece degli allungamenti. Di quanto, dipenderà dal contenuto del negoziato.

D. – Ma perché l’India dovrebbe accettare questa richiesta da parte dell’Unione Europea?

R. – Perché il Trattato di libero scambio non riguarda semplicemente l’accesso ai farmaci, ma è un trattato molto complesso, che riguarda diversi beni prodotti da una parte e dall’altra. Quindi, è un “trade-off”: un Paese mi concede una cosa a fronte del fatto che l’altro me ne concede un’altra. Quindi, bisognerà vedere cos’altro all’India si dà in cambio di questo. Ora, siccome questi negoziati sono - ahinoi - estremamente secretati, è difficile sapere che cos’altro c’è sul tavolo.

D. – Perché l’Unione Europea si fa portavoce delle richieste delle multinazionali farmaceutiche?

R. – L’Unione Europea, come altri Paesi – Stati Uniti, Giappone – sono dei Paesi in cui risiedono moltissimi interessi delle multinazionali farmaceutiche,  basti pensare alle grosse “Big five”: ad esempio, la Pfizer ha sede negli Stati Uniti, la Glaxo nel Regno Unito, la Novartis in Svizzera, la Merck in Germania. Insomma, l’Unione Europea si fa portavoce di una serie di interessi a scapito però dei diritti del paziente, del malato. E teniamo conto che oggi non è più soltanto in discussione l’accesso ai farmaci per i Paesi poveri, ma ricordiamo che ci sono attualmente delle lunghissime liste di attesa per pazienti di Paesi ricchi, ad esempio affetti da epatite C o da cancro per dei farmaci che costano tantissimo e per i quali le casse dei nostri Ministeri non riescono più a far fronte. E quindi, in realtà si tratta sì di difendere interessi commerciali da parte dell’Unione Europea, ma questo non deve essere fatto a scapito della salute pubblica dei propri cittadini e soprattutto dei cittadini dei Paesi in via di sviluppo, che non hanno neanche la tutela dei propri governi.

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Giornata nazionale delle persone con disabilità intellettiva

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Su iniziativa della Presidenza della Repubblica, è stata celebrata la Giornata nazionale delle persone con disabilità intellettiva con un incontro al Quirinale nel quale sono intervenuti il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Roberto Speziale, presidente nazionale dell’Anffas Onlus, l'Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale, ha raccontato a Maria Laura Serpico cosa significa avere una disabilità intellettiva oggi in Italia: 

R. – Nascere con una disabilità intellettiva comporta una serie di difficoltà per tutto l’arco della vita, a partire dalla diagnosi ma anche dalla semplice comunicazione della diagnosi, e alla rete integrata dei servizi. Ancora troppo spesso sono le famiglie a doversi fare carico interamente della persona con disabilità all’interno delle famiglie: le mamme che sono spesso costrette a lasciare il lavoro e per tutto l’arco della vita costrette agli "arresti domiciliari" senza aver mai commesso alcun reato.

D. – Cosa succede alle persone disabili nel momento in cui il supporto familiare viene a mancare?

R. – Questo rappresenta un vero dramma: su questo bisogna assolutamente fare un salto culturale. “Durante di noi” non può essere la frenetica ricerca di un posto letto in emergenza, il “Dopo di noi” va costruito “Durante noi”. Le persone con disabilità intellettiva fin da giovani vanno portate al massimo livello di autonomia possibile, devono avere le loro capacità di indipendenza, di progressivo distacco dalla famiglia per poter rispondere – quando la famiglia divenuta anziana non ce la fa più a svolgere i propri obblighi familiari, oppure i genitori non ci fossero più – attraverso un percorso accompagnato, precostituito, a quella terribile condizione che è la domanda che tutti noi genitori ci facciamo: “Quando io non ci sarò più, di mio figlio chi si prenderà cura?”.

D. – “La presa in carico della persona è un percorso graduale”, ha affermato il presidente Mattarella, che ha sottolineato come l’inclusione scolastica non sia necessaria solo per le persone disabili, ma anche per gli altri studenti per interfacciarsi con la diversità…

R. – L’affermazione del presidente non può essere commentata, perché da sola rappresenta una verità assoluta. L’inclusione scolastica è un processo che non è soltanto dare i giusti supporti alla persona con disabilità. L’inclusione scolastica fa bene, prima di tutto, all’intero contesto-classe: istruisce i nuovi cittadini ad accettare le diversità, crea maggiore sensibilità laddove questo percorso sia fatto in modo positivo, dove la persona con disabilità all’interno della classe non venga vissuta in modo problematico ma, appunto, venga vissuta come una componente che, al pari degli altri alunni e studenti, con i giusti supporti, possa dare il proprio contributo e quindi venga accettata e aiuti a migliorare gli altri compagni senza disabilità.

D. – La normativa per l’inclusione socio-lavorativa di disabili viene rispettata, oggi, in Italia?

R. – Purtroppo, le persone con disabilità che lavorano in Italia sono una minoranza quasi a percentuale zero. Le norme ci sono, le opportunità sono tante: anche la recente legge sul "Jobs act" ha portato buone novità. Però, fino a quando il mondo dell’impresa, del lavoro, ma anche gli stessi enti pubblici considereranno le persone con disabilità come soggetti improduttivi, appunto come pesi, non come persone, le opportunità per entrare nel mondo del lavoro saranno veramente poche. Le leggi ci sono, basta attuarle bene.

D. – Il ministro Lorenzin ha detto che noi guardiamo, ma non vediamo i disabili. Perché è difficile riconoscere l’individualità di queste persone?

R. – La disabilità intellettiva è una disabilità complessa: molto spesso non è facile individuarla semplicemente con l’incontro, diversamente da una persona in sedia a rotelle o a una persona priva della vista. Oppure, ha una forma di disabilità talmente complicata per cui tendiamo a voltare lo sguardo da un’altra parte, piuttosto che guardare quella persona. Il ministro Lorenzin ha detto una cosa molto profonda: ha detto che noi spesso “guardiamo” le persone con disabilità ma non le “vediamo” in quanto persone. Questo mi riporta anche a un’altra considerazione: prima di tutto sono persone, siamo persone, non sono “malati”. Se si facesse questo salto culturale, si guarderebbe a ogni singolo individuo con occhi diversi, si accetterebbe la diversità come una componente della dimensione umana e questo cambierebbe la storia dell’approccio alla disabilità.

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A Lucca il Festival del Volontariato, le storie positive in città

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Punterà sulle risorse positive che sono nelle nostre città, il festival del Volontariato a Lucca dal 14 al 17 aprile. Un modo anche per ricordare il valore della cittadinanza attiva. Il servizio di Alessandro Guarasci

Sono circa sei milioni gli italiani che fanno, in un modo o nell’altro, attività di volontariato. Un fenomeno che è legato anche al tasso di occupazione. Insomma, più c’è lavoro e più ci sono volontari. Questi infatti sono più del 4% della popolazione al Nord e solo l’1,7% al Sud. Il presidente del Centro Nazionale del Volontariato, Edoardo Patriarca, invita a guardare alle tante storie di dono agli altri che sono nelle nostre città. E la politica può aiutare tutto questo, magari varando la riforma del Terzo Settore ora in parlamento. I punti nodali per Patriarca:

“Penso che favorire l’imprenditorializzazione del sociale sia un modo bello e importante per rendere il welfare più sostenibile e anche far sì che produca buona occupazione tra i giovani. Un ultimo punto è il Servizio civile, che vogliamo universale, e far sì che entro la fine di questa legislatura tutti i giovani e le giovani che ne fanno richiesta possano accedere senza problemi. Conto davvero che entro il 2017 o il 2018, quando si concluderà questa legislatura, anche i decreti attuativi siano andati tutti in porto, così che davvero si apra una stagione direi ‘costituente’ per il Terzo settore”.

Volontariato e benessere sono connessi, dice Enrico Giovannini, ex ministro e ora portavoce dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo sostenibile:

“Un sistema che mette al centro le persone e le comunità, che genera anche crescita economica, è un modello diverso ed è il modello di cui abbiamo bisogno. Perché è chiaro che gli shock a cui siamo soggetti non sono episodici: purtroppo avverranno ancora, anche a causa dei cambiamenti climatici e altre modifiche di contesto internazionale. E quindi, dobbiamo far crescere la resilienza delle comunità, delle città, dell’economia e della società”.

Dunque a Lucca, dal 14 al 17 aprile, ministri, professori, economisti, ma anche tante gente si confronteranno per dare più dignità al volontariato.

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Nella Chiesa e nel mondo



Assisi: a settembre nuovo incontro tra i leader mondiali delle religioni

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“A ciò che sta accadendo non possiamo rispondere con il silenzio. È in atto la ‘terza guerra mondiale’ e l’Europa, colpita al cuore e sfidata ripetutamente, non può più rimanere alla finestra a guardare quello che accade nell’Asia medio orientale, in Africa o in altri Paesi apparentemente lontani. Non può nemmeno limitarsi ad aggiornare programmi e convenzioni per l’accoglienza dei profughi”. Lo afferma padre Mauro Gambetti, custode Sacro Convento di Assisi. In una nota diffusa ieri, ripresa dall'agenzia Sir, Gambetti spiega: “Il terrorismo trasversale, infuocato dai proclami di una ‘guerra santa’, costringe i governi e i cittadini a prendere posizione: nascondersi come topi o uscire allo scoperto. Guerra santa? Misericordia”. 

Da Assisi una preghiera corale e una parola unanime
Padre Gambetti cita Giovanni Paolo II che nel 1986, in piena guerra fredda, convocò ad Assisi i leader mondiali delle religioni per invocare la pace nel mondo. “Quest’anno – aggiunge – corre il trentennale di quel primo incontro e i frati francescani di Assisi, insieme alla Comunità di Sant’Egidio e alla diocesi, escono allo scoperto e spalancano le porte per un nuovo incontro tra i leader mondiali delle religioni. Una preghiera corale e una parola unanime, frutto di una riflessione condivisa, questa la risposta che vorremmo suscitare”. L’appuntamento è dal 18 al 20 settembre: “Due giorni di tavole rotonde e una giornata di preghiera. Con i leader religiosi sono invitati uomini politici, esponenti del mondo scientifico e della cultura, operatori di pace e tutti gli uomini di buona volontà”.

Contro la violenza  le religioni devono donare al mondo un messaggio convergente
“Insieme ci domanderemo: quali sono i principi riconosciuti da tutte le religioni per una coesistenza pacifica? Quale contributo la politica, la scienza, le culture in genere possono proporre per la definizione di un decalogo dell’umana convivenza? Davanti all’insensata violenza che imperversa, le religioni devono donare al mondo un messaggio convergente. La politica deve compiere lo sforzo di tracciare un percorso verso l’obiettivo della giustizia e della pace tra i popoli, coniugando ogni progetto con la sostenibilità ambientale”. 

La risposta da dare è la fraternità umile tracciata da san Francesco
​“Nelle principali piazze del mondo, da Oriente a Occidente - si legge nel testo del custode del Sacro Convento di Assisi - faremo conoscere il pensiero che scaturirà dagli incontri e dai dialoghi di Assisi. E coltiviamo un sogno: che l’Italia assurga ad esempio di integrazione delle culture, assumendo il decalogo che verrà scritto in Assisi nell’ordinamento legislativo e nei decreti attuativi. Forse, si potrà estendere tale modello agli Stati europei e poi a tutti gli Stati membri dell’Onu”. “Crediamo che la strada di Assisi, quella della fraternità umile tracciata da Francesco, vissuta sulla strada prima ancora che nei conventi, caratterizzata dalla ‘reciproca sottomissione’, sia la risposta da dare”. (R.P.)

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Siria. L'esercito è a Qaryatayn: tutti fuggiti i cristiani

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Dopo aver liberato l'area archeologica di Palmira, l'esercito governativo siriano – appoggiato dall'aviazione russa e da milizie sciite iraniane e libanesi – punta a liberare l'area intorno a Qaryatayn, la città a 70 chilometri da Homs che era stata conquistata dai jihadisti dello Stato Islamico (Daesh) nell'agosto 2015. Le forze armate siriane hanno già preso il controllo dei sobborghi dell'area urbana, mentre fonti locali riferiscono all'agenzia Fides che Qaryatayn è ormai una città fantasma, abbandonata da tutti coloro che sono riusciti a sottrarsi ai raid aerei che da settimane colpiscono la zona.

Fuggiti i cristiani di Qaryatayn
Le stesse fonti confermano a Fides che sono riusciti a fuggire verso i villaggi della regione di Homs anche gli oltre 170 cristiani di Qaryatayn che erano stati presi in ostaggio e deportati dai miliziani del Daesh quando la città era caduta sotto il loro controllo, e che poi erano stati riportati alle loro case, sottomessi al regime instaurato dal Daesh, dopo essere stati costretti a sottoscrivere il “contratto di pagamento” imposto loro per continuare a vivere nelle loro abitazioni. 

Nell'ottobre scorso la libertà per il sacerdote siriano Jacques Murad
L'allontanamento dei cristiani da Qaryatayn – sottolineano le fonti contattate dall'agenzia Fides – si è realizzato in maniera graduale, a piccoli gruppi, dopo che un primo raggruppamento di cinquanta di loro aveva raggiunto già ai primi di ottobre i villaggi di Zaydal e Fairuzeh, in una zona controllata dall'esercito governativo siriano. L'11 ottobre scorso era tornato a disporre pienamente della propria libertà anche il sacerdote siriano Jacques Murad, che i jihadisti avevano prelevato il 21 maggio 2015 dal monastero di Mar Elian, alla periferia di Qaryatayn.

Fuga dei cristiani anche grazie all'aiuto di amici musulmani
Da ottobre in poi, i cristiani rimasti a Qaryatayn, anche grazie all'aiuto di amici musulmani e di tribù locali, hanno potuto lasciare a piccoli gruppi la città sottoposta ai raid sempre più intensi contro le postazioni del Daesh, e trovare rifugio nei villaggi più prossimi a Homs, sotto controllo dell'esercito governativo. Sotto i bombardamenti realizzati delle forze anti-jihadiste su Qaryatayn sono morti anche otto cristiani.

Qaryatayn è una città fantasma
​Nelle ultime settimane, l'intensificarsi delle operazioni militari ha convinto a fuggire anche le famiglie cristiane più restìe a lasciare le proprie case. Adesso – riferiscono le fonti contattate da Fides – anche tutti gli abitanti musulmani hanno lasciato la città. Molti di loro difficilmente vi faranno ritorno in tempi brevi, dopo che essa verrà riconquistata dall'esercito siriano, per non rischiare di essere arrestati come fiancheggiatori del Daesh. (G.V.)

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Pakistan. Giustizia e pace: governo affronti il fondamentalismo

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Uccidere in nome della religione “è inaccettabile, tanto più se a morire sono innocenti e fra questi addirittura donne e bambini. Oltre alla risposta militare, il governo pakistano deve cercare le radici di questo fondamentalismo violento e deve sradicarle”. È quanto afferma la Commissione episcopale Giustizia e pace in un documento a firma del presidente, mons. Joseph Arshad, e del direttore nazionale padre Emmanuel Yousaf.

Più giustizia e rinforzare misure a protezione dei cittadini
La Commissione - riferisce l'agenzia AsiaNews - stigmatizza il violento attentato che ha colpito Lahore il giorno di Pasqua. Anche se il bersaglio erano i cristiani, dice il documento, “tante nostre sorelle e tanti nostri fratelli sono morti mentre visitavano il parco in una domenica di festa. Preghiamo per tutte le vittime di questo attacco, che erano prima di tutto pachistani. Il primo ministro e il capo dell’esercito hanno condannato quanto accaduto: ci appelliamo affinché i responsabili siano portati alla giustizia e affinché vengano rinforzate le misure a protezione dei cittadini, soprattutto membri delle minoranze e classi più vulnerabili”.

Il governo pakistano deve rispondere alle cause di questa intolleranza
Non basta tuttavia rispondere attraverso l’esercito: “L’esecutivo compia le sue operazioni, ma deve rispondere alle cause di questa intolleranza. Deve condurre un’operazione su larga scala per eliminare quegli elementi, ancora prevalenti non solo nella provincia del Punjab ma anche in altre parti della nazione, che stanno agendo in chiaro disaccordo con il diritto e la legge dello Stato”.

La Chiesa chiede perdono, tolleranza e pace
In Pakistan, concludono mons. Arshad e padre Yousaf, “l’incertezza della vita è sempre più ovvia ed evidente. Preghiamo il nostro Signore Gesù Cristo, affinché conceda alla nostra nazione perdono, tolleranza e pace. Possa Dio dare alle famiglie delle vittime la forza necessaria per affrontare la perdita dei propri cari”. (R.P.)

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Pasqua in Cina: migliaia di battesimi e attenzione ai poveri

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La Pasqua di quest’anno ha visto la celebrazione di migliaia di battesimi in tutta la Cina. Nella sola Pechino se ne sono celebrati 400 nelle quattro maggiori chiese diocesane: la chiesa del Salvatore (Bei Tang), la cattedrale dell’Immacolata concezione (Nan Tang), la parrocchia di Nostra Signora del Carmelo (Xi Tang) e la chiesa di san Giuseppe (Dong Tang). Altissimo - riferisce l'agenzia AsiaNews - il numero di battesimi nella provincia settentrionale dell’Hebei, “roccaforte” cattolica del Paese.

I catecumeni sono giovani provenienti da famiglie cristiane
Nella sola diocesi di Wenzhou – provincia orientale del Zhejiang, teatro della campagna per la demolizioni delle croci lanciata dal Partito – si sono celebrati 400 battesimi. Dopo diversi mesi di studio e riflessione, i catecumeni sono stati accompagnati al sacramento: la maggior parte di loro ha circa 20 anni e viene da una famiglia cristiana. La comunità cattolica è molto attiva nel predicare il Vangelo e nell’introdurre i vicini alla Chiesa. 

Pranzi per i senza fissa dimora
La diocesi di Xian ha scelto anche quest’anno di portare avanti la tradizione “culinaria”. La Chiesa locale ha offerto il pranzo a centinaia di persone senza fissa dimora, cui è stato fatto anche un piccolo dono: uova di Pasqua, mele, candele e rosari. I volontari cattolici hanno spiegato il significato della grande festa e quello della Croce, distribuendo carte colorate agli ospiti. Questi hanno ricambiato scrivendo i propri auguri ed esprimendo il loro amore per Dio. Da quando è nato, il servizio “Sunday Love Kitchen” della diocesi offre un pasto ai senza fissa dimora ogni domenica dell’anno, con pietanze e regali speciali durante le festività.

Molto partecipate anche le celebrazioni del Triduo
I sacerdoti di tutta la Cina hanno lavato i piedi ad anziani, bambini e disabili durante la Messa “in Coena Domini” del Giovedì santo, mentre i giovani della chiesa Nan Tang di Xian hanno messo in scena la Passione di Cristo nel giorno del Venerdì Santo. La rappresentazione è stata curata da un gruppo teatrale giovanile e ha commosso i presenti. Anche a Tangshan, provincia dell’Hebei, i cattolici locali hanno rappresentato le ultime ore del Calvario di Cristo davanti a centinaia di spettatori. (R.P.)

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Sud Sudan: leader religiosi chiedono proposte concrete di pace

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I leader religiosi del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan (South Sudan Council of Churches, Sscc) hanno ribadito il loro impegno a non fermarsi solo alle dichiarazioni e a proporre soluzioni concrete per arrivare alla pace nel martoriato Paese africano.

Il Sud Sudan ha bisogno di pace
Il più giovane Stato del mondo negli ultimi 27 mesi è stato teatro di una guerra civile che ha colpito gran parte dei suoi 12 milioni di abitanti. "Il nostro Paese - affermano i religiosi nel messaggio per le festività pasquali - ha bisogno di pace. Attraverso il nostro contributo inizieremo a trasformare la storia di un conflitto in una storia di pace. Attraverso i nostri forum riuniremo le parti interessate per discutere le cause del conflitto e programmare il futuro della nostra nazione".

Gente innocente continua a soffrire e a morire
Impegno condiviso dall’arcivescovo cattolico di Juba, mons. Paulino Lukudu Loro, per il quale non ci si può permettere che "bambini, anziani e gente innocente continuino a soffrire e a morire". "Non siamo stati creati per subire ingiustizie", ha concluso il presule, ma "per salvarci". (T.C.)

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Uganda. Leader cristiani: liberare leader dell’opposizione

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Durante le festività pasquali diversi leader cristiani ugandesi hanno rivolto appelli perché sia rilasciato il leader dell’opposizione Kizza Besigye, agli arresti domiciliari dal 19 febbraio. Besigye era stato arrestato durante le elezioni che hanno visto la riconferma del Presidente Yoweri Museveni, al potere da 30 anni.

Chiesa cattolica e quella anglicana hanno chiesto la sua liberazione
“Dobbiamo lavorare per unire la popolazione del nostro Paese” ha detto mons. John Baptist Kaggwa, vescovo di Masaka, durante la Messa di Pasqua, rivolgendo un appello al governo perché metta fine alla detenzione domiciliare del leader del Forum for Democratic Change (Fdc). L’arcivescovo anglicano dell’Uganda, Stanley Ntagali, sempre nella domenica di Pasqua, ha chiesto ai fedeli di pregare “per Besigye che si trova agli arresti domiciliari, affinché venga liberato dal governo”. Un altro vescovo anglicano, Johnson Gakumba della Northern Uganda Diocese, ha rivolto un appello al dialogo per risolvere la crisi politica. “Se fossi il Presidente Museveni - ha detto nel corso della celebrazione pasquale a Gulu - parlerei con Besigye. Questo aiuterebbe la nazione ad andare avanti”.

Besigye arrestato per impedirgli di organizzare proteste durante il voto
​Secondo le autorità, Kizza Besigye è stato posto in stato di arresto preventivo per impedirgli di organizzare proteste atte a turbare l’ordine pubblico. L’opposizione afferma invece che con il suo arresto si è voluto impedire ai cittadini di radunarsi per protestare per le gravi irregolarità nello svolgimento delle elezioni. (L.M.)

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Myanmar. Giura il nuovo governo: pace tra le etnie

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In una seduta congiunta del parlamento il nuovo Presidente del Myanmar ha fatto giuramento, insieme ai due vice Presidenti e ai nuovi ministri. Htin Kyaw, fedelissimo di Aung San Suu Kyi e primo Presidente non militare in 50 anni, si insedierà in modo ufficiale il primo aprile, prendendo il posto del generale in congedo Thein Sein. Tra i nuovi ministri - riferisce l'agenzia AsiaNews - figura anche la leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld), che guiderà gli Affari esteri, l’Ufficio presidenziale, l’Educazione e l’Energia. La Aung San Suu Kyi è l’unica donna a far parte del nuovo esecutivo, composto per gli altri 17 membri da soli uomini. Come da Costituzione i ministeri della Difesa, degli Affari interni e dei Confini sono stati assegnati a tre militari.

Htin Kyaw: cessate il fuoco nei conflitti tra minoranze etniche e governo
In un breve discorso rivolto ai membri delle Camere, Htin Kyaw ha promesso “fedeltà” al popolo birmano e ha illustrato le sfide che attendono il nuovo governo. La priorità, ha detto, è quella di raggiungere un cessate-il-fuoco su scala nazionale, per interrompere i conflitti tra minoranze etniche e governo centrale che proseguono da decenni. La “riconciliazione nazionale” è uno dei punti su cui la stessa Aung San Suu Kyi ha insistito di più nelle scorse settimane, scegliendo come candidato alla vice presidenza Henry Van Thio, cristiano dell’etnia Chin, come segno della volontà di coinvolgere tutti nel processo democratico.

Necessità di una riforma costituzionale: possibili frizioni con i militari
Il nuovo Presidente ha anche parlato della necessità di riformare la Costituzione per accordarla ai moderni valori democratici. Secondo molti analisti, questo sarà un punto di frizione tra il nuovo governo e i militari che, mantenendo per Costituzione il 25% dei seggi parlamentari, potranno mettere il veto su qualunque tentativo di modifica della Carta, per il quale sono necessari più del 75% dei voti. La Costituzione contiene anche la norma contra personam che ha impedito ad Aung San Suu Kyi di candidarsi alla presidenza, carica che è preclusa a chi abbia familiari di nazionalità non birmana (i due figli della Signora sono britannici). Nonostante questo la leader della Nld ha dichiarato che governerà “al di sopra del Presidente”.

Il card. Bo vede segni di resurrezione nel Paese
​Il processo democratico nato dopo la larga vittoria della Nld alle elezioni a novembre ha fatto sorgere speranza nella popolazione, di cui si è fatto portavoce il card. Bo, arcivescovo di Yangon. Nel suo messaggio per la Pasqua ha affermato che “il fiume della democrazia si sta lentamente riversando nel deserto della disperazione” e ha elencato i numerosi “segni di resurrezione del Paese che vediamo attorno a noi”. (R.P.)

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Portogallo: nota dei vescovi contro l'eutanasia

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“Con la morte non si elimina la sofferenza, ma si elimina la vita della persona che soffre”. Scrive così il Consiglio permanente della Conferenza episcopale portoghese (Cep) in una nota relativa all’eutanasia. Da tempo, infatti, nel Paese è in atto un dibattito sociale e politico sulla possibilità di legalizzare l’eutanasia ed il suicidio assistito. La proposta arriva da un gruppo di cittadini riunitisi nel movimento denominato “Diritto a morire con dignità”, che ha raccolto le firme necessarie per consentire l’avvio di una discussione sul tema, all’interno delle forze parlamentari. In vista di tale dibattito, dunque, la Cep desidera esprimere il suo parere, affinché ci sia “un dialogo sereno ed umanizzante” e si comprendano bene “le questioni in gioco”.

Uccidere non è mai lecito
Articolata in dodici punti, la nota pastorale ribadisce, innanzitutto, la differenza tra eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico, ovvero di interventi sanitari inadeguati alla situazione reale del paziente. “La rinuncia a metodi di cura sproporzionati – si legge nella nota – non equivale al suicidio o all’eutanasia perché esprime, in primo luogo, l’accettazione di una condizione umana prima della sua morte”. Al contrario, alla base della proposta di legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito “c’è la pretesa di ridefinire la consapevolezza etica e giuridica sul rispetto e la sacralità della vita umana”. Si pretende, infatti, che il comandamento “Non uccidere”, secondo il quale non è mai lecito uccidere una persona innocente, sia sostituito da un altro, in base al quale uccidere una persona è illecito solo senza il suo consenso.

La vita umana è sempre meritevole di protezione
Ciò, spiega la Cep, comporta che “la norma secondo la quale la vita umana è sempre meritevole di protezione, perché è un bene in se stessa, dotata di dignità, venga sostituita da un altro criterio secondo il quale la dignità ed il valore della vita umana sono variabili”. E questo, sottolineano i vescovi portoghesi, “è inaccettabile”. Per i credenti, infatti “la vita non è un oggetto del quale si possa disporre arbitrariamente, bensì un dono di Dio, una missione da compiere”.

Un omicidio è sempre un omicidio, anche con il consenso della vittima
Ed il valore intrinseco della vita umana “in tutte le sue fasi ed in ogni situazione” è profondamente radicato non solo nella cultura cristiana, “ma anche nella ragione universale”, tanto che “la Costituzione portoghese afferma categoricamente che la vita umana è inviolabile”. Pertanto, la sua inviolabilità “non cessa con il consenso del suo titolare” ed “un omicidio non smette di essere un omicidio con l’assenso della vittima”.

Vita umana, presupposto di tutti i diritti
Quindi, i vescovi di Lisbona sottolineano che “la vita umana è il presupposto di tutti i diritti e di tutti i beni terreni”; inoltre, “non si può mai avere la garanzia assoluta che la richiesta di eutanasia sia davvero libera, inequivocabile ed irreversibile”. Ci sono, infatti, molti fattori che possono condizionarla – nota la Cep – come uno stato d’animo momentaneo nel malato sofferente; una fase depressiva; il grido di disperazione di chi si sente abbandonato e vuole richiamare l’attenzione degli altri. Il dubbio sulle reali volontà del paziente, quindi, permane sempre.

Incentivare cure palliative
Di fronte a tali situazioni, dunque – ribadisce la Chiesa portoghese – la risposta non può essere quella di far dipendere la dignità della vita umana dalle circostanze esterne, bensì di tutelarla sempre e comunque, “fino alla fine”, in quanto “valore incommensurabile per tutti”. Al contrario, “l’eutanasia è una forma facile ed illusoria di affrontare la sofferenza, la quale, invece, va affrontata seriamente attraverso la medicina palliativa e l’amore concreto per i malati”, tutelando la loro dignità e migliorando, per quanto possibile, la loro qualità di vita.

Misericordia è aiutare gli altri a vivere fino alla fine
“Sopprimere la vita di una persone sofferente in nome di una presunta diminuzione della sua dignità – afferma la Cep – è facile e poco costoso. Ma è disumano!”, perché “la morte non è una soluzione”. Inoltre, i vescovi ricordano che “molti malati, soprattutto i più poveri, non hanno accesso alle cure palliative” ed è su questo punto, invece, che bisognerebbe lavorare di più. Infine, i presuli si appellano “alla coscienza dei legislatori”, affinché si comprenda bene “cosa c’è davvero in gioco”. “Nell’Anno giubilare della misericordia – si conclude la nota – ricordiamoci che essa ci spinge ad aiutare gli altri a vivere fino alla fine. Non ad ucciderli o ad aiutarli a morire”. (A cura di Isabella Piro)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 90

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.