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Sommario del 31/03/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Sinodo. Esortazione "Amoris Laetitia" del Papa sarà presentata l'8 aprile

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Si intitola “Amoris  laetitia” e verrà presentata venerdì 8 aprile, alle 11.30 nella Sala Stampa vaticana, l’Esortazione Apostolica post-sinodale di Papa Francesco sull’amore nella famiglia. Il documento è frutto dei due Sinodi sulla famiglia svoltisi in Vaticano nel 2014 e nel 2015. Alla presentazione interverranno il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei Vescovi, il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e i coniugi Francesco Miano e Giuseppina De Simone, lui docente di Filosofia Morale presso l'Università romana di Tor Vergata, lei docente di Filosofia presso la Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale di Napoli.

La Conferenza Stampa si potrà seguire in diretta streaming audio-video sul sito: http://player.rv.va/(Vatican Player della Radio Vaticana), dove sarà disponibile anche in seguito on demand.

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Papa incontra bimbo malato, genitori incoraggiati dalla sua vicinanza

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Papa Francesco ha ricevuto, ieri in udienza privata a Casa Santa Marta, il piccolo Ignazio Fucci con la sua famiglia. Il bambino di 8 anni è affetto da una malattia rara, della quale sono registrati soltanto 40 casi nel mondo. Ignazio è stato il primo bimbo in Italia a sottoporsi a trapianto di midollo donato dalla mamma. Da ottobre 2014 è ospite, con i suoi genitori, della Casa Bernadette, la struttura gestita dal "Progetto Bambini" dell’Unitalsi che accoglie gratuitamente le famiglie con bambini ricoverati o in cura presso l’Ospedale Bambino Gesù. All’udienza era presenta anche Emanuele Trancalini, presidente di Unitalsi Roma e responsabile nazionale del Progetto Bambini. Alessandro Gisotti ha raccolto la sua testimonianza sul toccante incontro: 

R. - È stato veramente un momento di grande commozione. Immaginate che si tratta di una famiglia che soffre da qualche anno e che, ad un certo punto, ha dato per finita la vita del proprio figlio, e ora si trova davanti al Santo Padre che li ascolta: è stato veramente un momento di grande commozione e molto tenero. La cosa particolare è questo grande amore di Papa Francesco per queste situazioni di sofferenza. L’ho visto molto preso ed emozionato. Poi mi hanno colpito le sue parole rispetto al grande lavoro che stiamo facendo come Unitalsi con le nostre case di accoglienza. Mi ha colpito quando mi ha detto che le persone devono sapere quanto io sia contento e quanto sia colpito da questa grande dedizione verso le persone più deboli e malate. Questo per noi è stato un incentivo in più per andare avanti e capire che non dobbiamo mollare da questo punto di vista.

D. - Papa Francesco recentemente, rispondendo alla domanda di un bambino che poi è contenuta in un libro sottolineava che se potesse fare un miracolo, se dovesse scegliere, guarirebbe tutti i bambini. C’è una forte consapevolezza nel Papa della sofferenza inspiegabile, lui stesso lo dice, se non con gli occhi della fede di un bambino affetto da una malattia grave …

R. - Lui ha detto più volte di essersi chiesto il perché di questa sofferenza e questo lo rende molto umano. Ieri si è vista veramente questa grande attenzione e questa sua sofferenza, anche nell’ascoltare la storia di questo bambino. È una cosa che mi ha colpito molto così come l’incoraggiamento che ha dato alla famiglia che ad un certo punto ha detto: “Papa Francesco, noi siamo stati per un periodo arrabbiati con Dio per tutta la situazione che si è venuta a creare”. Devo dire che Papa Francesco è stato molto tenero, ha cercato di tranquillizzarli. La famiglia si sentiva quasi in colpa di questo. Lui li ha tranquillizzati dicendo di trasformare anche questo in preghiera e chiedere la forza e il coraggio. Sono stati momenti di tenerezza pura.

D. - Questo incontro di ieri come poi il tanto, tanto tempo che Francesco passa con i malati, disabili all’udienza generale e in tanti altri incontri ha molto a che fare con il Giubileo della Misericordia …

R. - Assolutamente. Infatti poi è quello che è uscito fuori con la famiglia. Sono stato con loro tutto il giorno e il papà ad un certo punto mi ha detto: “Emanuele, ma il Papa ci stava ascoltando? Stava proprio lì con noi? Ci ascoltava? Era interessato a quello che dicevamo!”. Erano incoraggiati da questo. Quindi anche la considerazione, l’essere ascoltati. Credo che alla fine siamo, davanti alla malattia, tutti un po’ impotenti. Questo credo che abbia dato loro una grande forza. Potrei dire che questo è uno dei grandi segni del Giubileo della Misericordia!

D. - Dall’ottobre 2014 il piccolo con il papà e la mamma sono seguiti dalla Casa Bernadette, gestita dal Progetto Bambini dell’Unitalsi. Ovviamente un evento come questo e le parole stesse di Francesco, che lei ricordava, sono un grande incoraggiamento ad andare avanti …

R. - Assolutamente sì, anche perché queste case – il Progetto Bambini ormai va avanti da più di dieci anni – sono un grande incoraggiamento per tutte le famiglie che sono passate nelle nostre strutture. Purtroppo devo dire che abbiamo delle liste di attesa lunghissime. Ci sono tantissime famiglie in queste condizioni. Quello della malattia è un mondo nascosto, che non si conosce. Purtroppo se ne viene a conoscenza solamente quando ti colpisce in prima persona. La nostra testimonianza deve essere di apertura. Bisogna far conoscere queste situazioni, bisogna far conoscere le strutture; ce ne devono essere sempre di più perché c’è un grande bisogno. C’è un mondo dietro. Noi abbiamo iniziato questo progetto proprio perché abbiamo visto persone, famiglie intere dormire in macchina fuori dagli ospedali. Questo non è umanamente possibile, soprattutto per un cristiano, un credente! Ci sono famiglie che vengono completamente lasciate sole, purtroppo. Forse in questi casi devono lasciare il loro Paese, la loro casa, il loro lavoro a seguito della malattia di un figlio perché a quel punto lasci tutto. E noi non possiamo lasciare sole queste famiglie!

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Papa, tweet: fenomeno migratorio interrogativo cui rispondere

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Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Il fenomeno migratorio pone un serio interrogativo culturale, al quale non possiamo non rispondere”.

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Schönborn: la misericordia è sempre "qui e ora" verso chi soffre

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L’Anno Santo straordinario indetto da Papa Francesco vive in questi giorni uno dei suoi momenti più salienti. A Roma, da oggi al 4 aprile prossimo, si riuniscono i partecipanti al Congresso Apostolico Europeo della Misericordia (Wacom), che sabato prossimo vivranno col Papa, in Piazza San Pietro, la Veglia di preghiera per quanti aderiscono alla spiritualità della Divina Misericordia e il giorno dopo saranno di nuovo in Piazza per la Messa presieduta da Francesco. Ad aprire il lavori del Congresso è stato il presidente del Wacom, il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn. Alessandro De Carolis ne sintetizza l’intervento: 

Misericordia. È la parola d’ordine del momento. Se ne parla ovunque, dalle cattedre universitarie alle sale parrocchiali. Ma la misericordia, quella propagata da Gesù, “in cosa consiste”? È umana, cioè praticabile dagli uomini, o bisogna essere Dio per realizzarla? “È una reazione spontanea che dovrebbe essere in ogni uomo quando si trova di fronte a un vero dolore”, oppure è “solo un atteggiamento” di Gesù, “e di conseguenza dal cristianesimo, specifico per il suo modo di vedere le cose?”.

Questione di “viscere”
Non sono domande banali, anzi sono “le” domande, di quelle che vanno a toccare il fondo della coscienza di un cristiano. Da esse parte il cardinale Schönborn nella sua lunga e magistrale riflessione. Prima di tutto, spiega, la misericordia di Gesù è una questione di “viscere”. È questo che esprime il verbo greco usato dai Vangeli quando Gesù è “profondamente commosso”. Davanti al figlio morto della vedova di Nain, al lebbroso, ai due ciechi che implorano la guarigione: quando Gesù vede la sofferenza “non passa oltre”, “non distoglie lo sguardo ma – afferma il cardinale Schönborn – si fa raggiungere dal dolore”. Eppure, si chiede il porporato, “è naturale avere pietà di un lebbroso o è ‘soprannaturale’, comprensibile solo per grazia?”. Non è più misericordioso, soggiunge, “uccidere un malato inguaribile piuttosto che la posizione, nata dall’ideale ebraico cristiano, di conservare la vita nonostante il dolore?”.

Umana e divina
La misericordia di Gesù verso i bisognosi, sostiene l’arcivescovo di Vienna, ha “una spontanea base naturale, emotiva” nell’uomo – tanto è vero che è umano “inorridire di fronte all’orrore” e, viceversa, si considera “la mancanza di pietà una mancanza di umanità”. Allo stesso tempo l’amore di Gesù, “certamente anche emotivo”, “non è solo questo. Esso ha un forte momento volitivo, altrimenti non potrebbe superare la ripulsione che provoca, nella nostra emotività, l’incontro con un lebbroso”. “Nella volontà di dedizione”, asserisce il cardinale Schönborn, c’è dunque “anche un elemento di ragione, di non vedere nell’altro la malattia che ripugna, bensì l’uomo che soffre di questa terribile malattia. È perché è un uomo, che Gesù ha compassione”.

Compassione “qui e ora”
Ma a chi deve essere rivolta la misericordia? “Gesù ha avuto pietà di singole persone o di tutti?”. Posta così in astratto, dice il porporato, questa domanda non ha senso, perché Gesù stesso ha spiegato come vada intesa la misericordia con la parabola del Buon samaritano. Il sacerdote e il levita che passano oltre l’uomo mezzo morto a bordo strada potevano aver avuto i loro “buoni motivi” per comportarsi così, riconosce il cardinale Schönborn. Magari avevano paura di essere loro stessi aggrediti dai banditi ancora nelle vicinanze. Di entrambi, sottolinea, “non viene detto che cosa provassero, ma solo quello che fecero, perché solo questo conta”. Conta che il samaritano, lo straniero semipagano, fa “qualcosa di diverso”. Si muove a compassione dimostrando che “la misericordia è concreta. Non riguarda in qualche modo un po’ tutti, ma colui che, qui ed ora, ha bisogno del mio aiuto”.

Falsa misericordia
Tuttavia, Gesù si commuove anche per un intera folla, come nella scena della moltiplicazione dei pani. Il cardinale Schönborn ne trae altri elementi di riflessione. Gesù ribalta la misericordia dei discepoli, che vorrebbero che il Maestro, vista l’ora tarda, congedasse la folla consentendole di procurarsi da mangiare. I ceri “misericordiosi” sembrano loro piuttosto che Gesù, che invece ordina loro di sfamare la gente. Ma se è vero che “la misericordia di Gesù è esigente” è altrettanto vero, stigmatizza il cardinale di Vienna, che tante volte “la nostra misericordia” in realtà “deriva dal volerci liberare di qualcuno”, come in effetti nel caso dei discepoli. E allora come “come distinguere fra l’apparente misericordia degli apostoli, che è una forma nascosta di egoismo, e l’apparente severità di Gesù che in realtà è la via della sua vera misericordia divina?”.

Cuori di pietra
Il problema nasce nel cuore dell’uomo e la vicenda terrena di Gesù è lampante: in Lui “è apparsa la misericordia sulla terra, ma essa suscita il contrario”. È un “enigma”, lo definisce il cardinale Schönborn, che coinvolge anche i discepoli della prima ora e quelli di oggi. “Essere così vicini a Gesù ed avere tuttavia il cuore duro. Com’è possibile tale durezza nella vicinanza del sacro? È mai possibile che la vicinanza, il fuoco della presenza di Dio provochi addirittura rifiuto, freddezza, indurimento del cuore?”. Qui, evidenzia il porporato, si tocca “il mistero dell’iniquità”. Routine, comodità, insensibilità si insinuano per il “raffreddarsi del primo amore” e ciò mina tutto, compresi sacerdozio e matrimonio. Cuori duri e chiusi alla misericordia sono quelli che condannano a morte Gesù, il quale, chiosa il cardinale Schönborn, secondo un criterio umano, “fallisce”.

La misericordia inesauribile
Ciò fa porre l’ultima domanda: “C’è misericordia anche per noi peccatori? Sì, c’è, assolutamente e inesauribilmente”, replica l’arcivescovo di Vienna. A due condizioni: “verità e pentimento” perché, osserva, “niente indurisce di più un cuore che la propria giustificazione”, mentre “la giustificazione di sé è l’inizio di ogni durezza di cuore nei confronti degli altri”. La parabola dei vignaioli omicidi svela l’essenza della misericordia di Dio in Gesù, conclude il cardinale Schönborn. Si può avere misericordia per gli assassini del proprio figlio? “Gesù donò la sua vita per coloro che lo uccisero. Morì per causa loro, ed accettò la sua morte per loro. Invece della vendetta scelse la misericordia”, perché “Dio – ribadisce il porporato – non voleva vincere la nostra mancanza di misericordia diversamente che con un eccesso della sua misericordia verso di noi”. Questo, conclude, è “il nucleo della fede cristiana: a chi è senza misericordia, egli ha mostrato misericordia, ha perdonato i peccatori, non ha impartito la punizione agli assassini, ma ha donato amore”.

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A Roma il Congresso apostolico europeo della misericordia

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Sarà la Basilica romana di Sant’Andrea della Valle a ospitare il Congresso Apostolico Europeo della Misericordia (Wacom), evento giubilare che si protrarrà fino a lunedì prossimo e che vedrà molte personalità del mondo ecclesiale approfondire il tema posto da Papa Francesco al cuore dell'Anno Santo. Federico Piana ne ha parlato con il segretario del Wacom, padre Patrice Chocholski

R. – Mi ricordo questa intuizione profetica di padre Christian De Chergé, assassinato in Algeria, che diceva: “Il mondo sarebbe meno deserto se tutti insieme potessimo trovarci dei posti comuni dove abbeverarci mutualmente della misericordia che viene da Dio che non ci appartiene”. Chiaramente, per noi cristiani è il volto di Cristo e per noi è senz’altro l’unico mediatore per saper condividere quest’acqua che viene da Dio con tutti i credenti e prendere il meglio di quanto ci può rendere dinamici per costruire un mondo nuovo, a misura della misericordia di Dio, che ci dà questa nuova creatività. È possibile creare questo mondo a condizione che siamo innamorati della misericordia e che diventiamo capaci di condividerla per far crescere l’altro e ricevere la misericordia dell’altro.

D. – I miracoli più belli, giustamente, arrivano lì, nel confessionale, dove molti si sono santificati. Mi viene in mente Curato D’Ars…

R. – Sì, qui ad Ars siamo i testimoni di questo miracolo in maniera quotidiana. Il Signore attraverso questi raggi di luce penetra all’interno dell’anima della persona e la trasforma dall’interno.

D. – C’è una data importante, quella del primo aprile tra le altre – ovviamene tutte sono importanti – dove dalle 18.00 fino alle 24.00 si svolge la notte di riconciliazione con l’apertura delle chiese giubilari per la celebrazione penitenziale con le confessioni. Quindi, la mattina alle 8.30 avrete le lodi, fino a giungere poi alle 18 quando si apriranno queste chiese giubilari. È un momento importante…

R. – Sì, qui avvengono dei grandi miracoli. Mi ricordo una di queste notti di riconciliazione nel Santuario di Kigali nel Rwanda quando tanti rwandesi erano stati chiamati da tutte le diocesi a prendere parte all’iniziativa. In quell’occasione, il vescovo di Kigali annunciava alcuni sacerdoti, una ventina, abilitati a dare anche il perdono per i peccati riservati. Avevamo capito bene che si trattava del peccato di genocidio. Tanti si sono riconciliati con il Signore, con i loro fratelli. È stato un rinnovamento per il Paese. Quindi, ci auguriamo che tutte queste possibilità durante le notti di misericordia, di riconciliazione, portino un rinnovamento per Roma ma anche per tutto il mondo. Il rinnovamento comincia dal cuore.

D. – Le chiederei un’ultima cosa sul fatto che ci sarà un Congresso mondiale dopo quello europeo…

R. – Il Congresso mondiale si terrà dal 16 al 20 gennaio 2017, subito dopo la chiusura dell’Anno della misericordia, a Manila, sotto la presidenza dei cardinali Shönborn e Tagle, quindi con tutta l’effervescenza di tutte le minoranze asiatiche e anche nel contesto delle relazioni interreligiose. Ci aspettiamo molto da questo congresso mondiale, così come ci aspettavamo molto da quello che si è svolto a Bogotá – interamente teso verso la missione e le periferie – e dal quale abbiamo ricevuto molto. Qui il contesto religioso sarà interessante proprio in vista della costruzione con il Signore di questa civiltà della misericordia.

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Convegno della Penitenzieria Apostolica sulla Misericordiae Vultus

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In occasione dell’Anno Santo della Misericordia, la Penitenzieria Apostolica ha organizzato un convegno dedicato alla Bolla Misericordiae Vultus, che si tiene oggi e domani a Roma, presso il Palazzo della Cancelleria. Al microfono di Fabio Colagrande, mons. Krzysztof  Nykiel, reggente della Penitenzieria, ne illustra struttura e contenuti: 

R. - Il Convegno si rivolge soprattutto ai sacerdoti, religiosi e le religiose, agli alunni delle facoltà teologiche, agli operatori pastorali e i laici impegnati nelle comunità parrocchiali. I diversi e autorevoli relatori, che si avvicendano durante questi due giorni, sviluppano un tema il cui titolo coincide con una frase tratta dalla Bolla. Saranno così approfonditi e ben illustrati i principali contenuti teologici, spirituali e pastorali della Misericordiae Vultus. Il cardinale penitenziere, Mauro Piacenza, ha tenuto oggi una prolusione dal titolo: “L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia”, nella quale ha messo in evidenza come la misericordia sia “un fiume che da sempre ed incessantemente vivifica l’intero campo della Chiesa e, attraverso di essa, del mondo”.

D. - Qual è, secondo lei, il messaggio principale della Misericordiae Vultus?

R. - Credo che il messaggio principale sia che la misericordia è il cuore del Vangelo. Il tema della misericordia è il motivo cardine del magistero di Papa Francesco che non si stanca di ripetere al mondo che Dio è un Padre ricco di misericordia il quale è felice quando perdona ogni suo figlio che ritorna a lui con cuore contrito e umiliato. Già nell’omelia pronunciata il 7 aprile 2013, in occasione del suo insediamento come vescovo sulla Cattedra Romana, Papa Francesco sottolineò quant’è bella, per la nostra vita, “questa realtà della fede: la misericordia di Dio”. “Quello di Dio verso di noi - ricordò Francesco - è un amore così grande, così profondo, che non viene mai meno e sempre afferra la nostra mano e ci sorregge, ci rialza, ci guida”. La Divina Misericordia è perciò il fondamento di tutta l’azione pastorale di Papa Francesco che si esprime poi concretamente nei suoi innumerevoli gesti di attenzione e paterno affetto nei confronti degli ultimi, dei poveri, dei sofferenti e degli emarginati che vivono nelle tante periferie esistenziali del mondo intero.

D. - Che rapporto c’è tra la Chiesa e l’annuncio della misericordia?

R. - Gli assunti ormai universalmente noti di Papa Francesco, cioè di considerare la comunità come “Chiesa in uscita” e, come affermò in una nota intervista, “ospedale da campo” trovano la loro origine, il loro fondamento, proprio nell’intima relazione della Chiesa con Gesù Cristo: un’intimità itinerante che si configura come “comunione missionaria”. Secondo questo modello, che è proprio del Maestro, la Chiesa è invitata a uscire anche dai propri luoghi tradizionali per annunciare e manifestare il vangelo della misericordia a tutti e in tutti i luoghi, là dove l’uomo abita la sua quotidianità. La Chiesa può annunciare la misericordia del Padre, in Cristo nello Spirito, e prendere l’iniziativa per coinvolgersi e accompagnare le vicende umane, non perché confida autonomamente in una forza che le è propria, ma perché tale forza le viene dal suo Sposo. La santità di Gesù dona slancio missionario alla Chiesa e le permette di raggiungere anche l’ultimo peccatore nel posto più sperduto del mondo. E ciò è possibile perché la medesima santità, mentre spinge la Chiesa ad andare incontro ai lontani così come ai “vicini”, l’ha già preceduta nell’amore: Cristo Gesù è già presente e operante nel cuore e nel luogo in cui la Chiesa si sta recando per annunciare il dono della misericordia.

D. - Uno dei punti decisivi della Misericordiae Vultus sembra essere il n. 17, dedicato alla centralità del Sacramento della Riconciliazione per la vita della Chiesa. Qual è l’importanza di questo passaggio della Bolla?

R. - A mio parere al numero 17 della Bolla, vi è come una positiva tensione tra l’essenza e i frutti del Sacramento della Riconciliazione e il ministro di tale Sacramento. L’esortazione del Santo Padre non lascia dubbi: i confessori devono essere sempre più un vero segno della misericordia del Padre. Proprio in questo contesto riprende il famoso assunto dell’Apologeticum di Tertulliano e lo applica ai confessori: non ci si improvvisa confessori ma lo si diventa! Con ciò il Papa intende evidenziare come un buon confessore possa veramente rivelarsi tale, se egli per primo ha fatto nella propria vita, e continuamente fa, esperienza di perdono e di misericordia attraverso la Riconciliazione. Il Papa invita i confessori a non sentirsi padroni del Sacramento del perdono ma ad accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo. Un padre che attende, va incontro, stringe, perdona, dimentica e ristabilisce; un padre che sa intercettare, dal cuore dell’altro, l’invocazione di aiuto e di perdono. A tal proposito è utile ricordate che nel discorso rivolto il 4 marzo scorso ai partecipanti al Corso sul Foro interno, promosso annualmente dalla Penitenzieria Apostolica, Papa Francesco ha invitato a “rimettere al centro – e non solo in questo Anno giubilare – il Sacramento della Riconciliazione”. Il Papa l’ha definito “vero spazio dello Spirito” nel quale tutti, confessori e penitenti, “possono fare esperienza dell’unico amore definitivo e fedele, quello di Dio per ciascuno dei suoi figli, un amore che non delude mai”.

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Viganò: le omelie di Santa Marta ci portano nel cuore del Vangelo

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“Pensieri per l’Anno Santo”. E’ il titolo del libro del massmediologo Gianpiero Gamaleri, pubblicato dalla Lev, e presentato ieri alla Sala Marconi della Radio Vaticana. Nel volume sono raccolti i commenti alle omelie di Francesco a Santa Marta che l’autore scrive per la rubrica del settimanale “Il mio Papa”. Alla presentazione, ha preso parte il prefetto della Segreteria per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò che, al microfono di Alessandro Gisotti, si sofferma sulla peculiarità di queste omelie e sullo stile comunicativo di Francesco: 

R. – Mi pare che queste omelie siano diventate un genere letterario proprio. Papa Francesco ci introduce nel Vangelo che viene proclamato o nella lettura dell’Antico Testamento raccontando nuovamente quello che è stato proclamato e soprattutto ponendo le domande a sé e a chi in quel momento sta ascoltando l’omelia circa ciò che ha detto Gesù o ciò che un personaggio del Vangelo ha potuto dire a Gesù o pensato rispetto a Gesù. Quindi ci porta nel cuore dei pensieri, dei sentimenti che sono in gioco su quella scena. In questo modo trasporta la nostra vita dentro quel pezzo di Parola di Dio per cui quest’ultima dice qualcosa a me. Il testo in questo modo viene reso familiare, rende questa consuetudine di vicinanza al testo che permette di guardare il mondo, gli eventi, le relazioni con lo sguardo di Dio.

D. - Il modello comunicativo di Francesco è molto suo, in qualche modo anche irripetibile. Però, c’è qualche insegnamento, qualche lezione che possiamo trarre noi tutti comunicatori in Vaticano e non solo?

R. - Mi pare che un aspetto sia il fatto che il Papa - come direbbe qualche studioso - è uno “storyteller”, cioè non parla per concetti e per astrazioni ma racconta le storie. Quando incontra i giovani racconta episodi, aneddoti, parabole … Quindi è un grande raccontatore. Questo è un modo attraverso il quale rende comprensibile, familiare, prossimo, quel contenuto del messaggio evangelico della tradizione dalla Chiesa alle persone che lo ascoltano. Un’altra caratteristica è lo stile conversazionale: pensiamo a quando pone le domande durante l’Angelus, oppure fa ripetere due o tre volte tutti insieme qualche parola. Questo rende ogni persona che lo sta ascoltando uno di famiglia, ci si sente partecipi di quello che passa nel cuore e nella testa del Papa. In questo modo mediatico molto gridato, molto fantasmagorico, lui riesce inoltre a catalizzare l’attenzione probabilmente per la discontinuità perché ha una voce bassa, ha un ritmo molto pacato, usa molte pause. Certo, è una parola che ha la pesantezza, il sudore, la polvere di tutti i chilometri che per anni ha attraversato prima da vicario generale poi da vescovo a Buenos Aires. Quindi ogni sua parola ha il peso della verità di una vita.

D. - Queste omelie così attese ogni giorno da cedenti e non credenti arrivano al cuore di così tanti uomini attraverso la Radio Vaticana, il Centro Televisivo Vaticano, poi successivamente con il servizio dell’Osservatore Romano. In qualche modo è anche un esempio di convergenza su una cosa così preziosa come – appunto - le omelie di Santa Marta …

R. - Diciamo che in questo momento è un esempio di come ci può essere una convergenza editoriale. La convergenza è un’altra cosa: è ciò che faremo tutti insieme come riforma, proprio trovando un linguaggio specifico per quello che sarà l’unico grande portale della Segreteria per la Comunicazione.

Sulle ragioni per cui queste omelie hanno anche un grande valore comunicativo e giornalistico, il commento dell’autore del libro “Pensieri per l’Anno Santo”, il prof. Gianpiero Gamaleri, intervistato da Alessandro Gisotti

R. – Essendo un tipo di comunicazione, una riflessione che è fatta a braccio e quindi ha quel carattere di spontaneità, ha un tratto giornalistico, nel senso nobile del termine, molto forte. Si presta molto quindi ad essere poi ripresa, interpretata proprio dal mondo della comunicazione, in modo tale che la figura del Papa sia a tutto tondo. Certo è un Papa già molto comunicativo di per se stesso nei gesti, ma anche la parola si fa gesto, perché si plasma spesso sulle attualità della giornata.

D. – Le omelie di Francesco a Santa Marta sono uno straordinario successo, anche comunicativo. Perché secondo lei?

R. – Perché forse sono il momento addirittura più spontaneo di tutta la comunicazione verbale del Papa, oltre ai gesti che sono altrettanto spontanei. Hanno quindi quella capacità di catturare l’attenzione e di comunicare. Poi sono una specie di contrappunto alla sua giornata. Io ho portato il caso del periodo in cui c’è stato il Sinodo della famiglia. E’ molto interessante vedere quelle che sono state le discussioni, chiamiamole ufficiali, nell’ambito del Sinodo e la riflessione che lui poche ore prima faceva nella piccola cappellina di Santa Marta. Era il modo con cui lui si preparava, il modo con cui interpretava, senza dirlo in modo esplicito, questa sua esperienza di partecipazione a questo momento così importante della vita della Chiesa. 

D. – Il titolo del libro è molto chiaro, anche nella sua finalità: “Pensieri per l’Anno Santo”. In che modo ritiene che la lettura di questo libro, le omelie di Santa Marta e i suoi commenti a fronte possano aiutare anche il cammino del pellegrino che idealmente o concretamente si appresta a varcare la Porta Santa del Giubileo?

R. – Il modo più diretto è di estrapolare quelle omelie, che non sono poche, in cui si parla della Misericordia di Dio. Quante volte lui dice in queste omelie: “Ricordati che Dio ti è sempre vicino, che non cessa mai di perdonare”. E’ arrivato a dire ad un certo punto, recentemente, che Dio si “dimentica” persino dei nostri peccati più profondi. Quindi tutte quelle che sono permeate dal senso della Misericordia, quelle sono veramente il tema dell’Anno Santo. Ma se uno le legge nel suo insieme, tutte contribuiscono all’Anno Santo, perché passano in rassegna tutti i problemi dell’umanità contemporanea e della Chiesa. E’ una lettura veramente ricca. Mi permetto di consigliarla, non perché ho fatto i commenti, ma perché ci sono le parole del Santo Padre!

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Rinunce e nomine episcopali in Corea e nelle Filippine

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In Corea, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Wonju, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Jacobus Kim Ji-Seok. Al suo posto ha nominato mons. Basil Cho Kyu-man, ausiliare dell’arcidiocesi di Seoul.

Nelle Filippine, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Tarlac, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Florentino F. Cinense. Al suo posto, il Pontefice ha nominato il sacerdote Enrique V. Macaraeg, del clero dell’arcidiocesi di Lingayen-Dagupan, finora parroco della Saint Ildefonse parish, Malasiqui, Pangasinan. Il neo presule è nato a Manila, il 28 dicembre 1955. Ha compiuto gli studi filosofici e teologici presso l’ University of Santo Tomas Central Seminary di Manila, conseguendo infine anche un Master of Arts in Oriental Religions and Cultures. È stato ordinato sacerdote, per l’arcidiocesi di Lingayen-Dagupan, il 19 maggio 1979. In seguito è stato: Decano dei seminaristi presso il San Pablo Seminary, Baguio City (1980-1982); Sacerdote residente al Our Lady of Fatima parish di Quezon City (1982-1983); Vicario parrocchiale a Mangaldan, Pangasinan (1983-1985); a Lingayen, Pangasinan (1985-1986), e infine Santa Barbara (1986-1987); Direttore   di Santo Tomas School, Mangaldan, Pangasinan (1987-1990); Professore e poi Decano degli Studi al Seminario Filosofico di Dagupan-City (1988-1995); Direttore presso la St. John Cathedral School di Dagupan City (1990-2003), presso la Malasiqui Catholic School di Malasiqui, Pangasinan (2000-2002) ed infine presso la St. Charles Academy (2003-2005). In quell’anno è stato nominato anche Direttore diocesano delle Pontificie Opere Missionarie e Vicario zonale del IV Vicariato. Dal 1998 riveste l’incarico di Direttore della Commissione Arcidiocesana per il Clero. Infine, dal 2005 fino ad oggi, è stato Parroco della St. Ildephonse parish a Malasiqui, Pangasinan.

Papa Francesco ha nominato presidente del Consiglio di Amministrazione del Fondo Pensioni vaticano il prof. Nino Savelli, ordinario presso la Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative dell’Università Cattolica di Milano.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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L'uomo che salvò i sonetti del Belli: dal libro "Vincenzo Tizzani. Effemeridi romane" stralci dai testi dell'arcivescovo Vincenzo Paglia, del vescovo Sergio Pagano, prefetto dell'Archivio segreto vaticano, e del curatore Giuseppe M. Croce.

Arte che ferisce: Enzo Bianchi sull'opera di Ulisse Sartini esposta nella Sacrestia del Bramante a Milano.

Persone al centro: da Ginevra, Charles de Pecheyrou sulla conferenza dell'Unhcr a Ginevra.

Siamo tutti emigranti: Claudio Toscani su una saga di Mempo Giardinelli ambientata in Argentina.

Prima stare con Gesù: il cardinale Kurt Koch sull'importanza ecumenica della vita consacrata.

Come limone e mirto: nell'intervista di Nicola Gori il cardinale Angelo Amato parla della misericordia nella vita dei santi.

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Oggi in Primo Piano



Libia. Al Sarraj tra speranze e minacce. Oscurata Al Nabaa

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Alta tensione in Libia dopo l'insediamento del premier appoggiato dalla comunità internazionale Fayez Al Sarraj. Ieri ha proclamato l'entrata in funzione del proprio esecutivo che per ora ha sede in una base navale. Spari e tiri di artiglieria si sono contrapposti alla nuova pagina politica del Paese. Oscurata nella notte la Tv Al Nabaa, tutt'ora chiuso l'aeroporto. Massimiliano Menichetti: 

Raffiche di mitra, spari e anche tiri con le anti-aeree montate sui pick-up. E’ stata questa la risposta di Tripoli all’insediamento ieri del premier sostenuto dall’Onu, Fayez Al Sarraj. "E’ una giornata storica" ha detto il leader dopo l'arrivo via mare, a causa della chiusura dello spazio aereo, alla base navale di Abusetta che sarà sede del governo di unità nazionale finché nella capitale libica non calerà la tensione. Sarraj ha annunciato che "il governo ha assunto le funzioni” esortando a "unire gli sforzi" per "contrastare Daesh" che invece conquista posizioni sulla cosa. Un palco e un gazebo invece sono stati bruciati in piazza Martiri dove avrebbero dovuto manifestare i sostenitori del primo ministro. E tutt’altro che rassicuranti sono le minacce da parte del governo non riconosciuto, ma insediato da quasi due anni a Tripoli, qui il premier, Khalifa Ghwell ha rifiutato la legalità di Sarraj e ribadito che il neo capo di governo “ha due opzioni: consegnarsi alle autorità o tornare da dove è venuto ovvero a Tunisi”. Appello poi "a tutti i rivoluzionari a schierarsi contro" quello che è stato definito un “gruppo di intrusi”. In questo scenario l'inviato Onu per la Libia, Martin Kobler, ha avuto un incontro a Tunisi con il primo vice presidente del parlamento di Tobruk, Emhemed Shoaib, dedicato proprio al tema del processo politico. La città in queste ore è blindata e la situazione è tranquilla, l'aeroporto della capitale continuerà a rimanere chiuso come la tv Al Nabaa. Nella notte l'emittente, vicina alle autorità che si oppongono ad Al Sarraj, è stata assaltata da uomini armati che hanno interrotto le trasmissioni ed evacuato il personale.

Sulla tenuta del nuovo governo di Tripoli abbiamo raccolto il commento di Germano Dottori, docente di Studi Strategici all'Università Luiss di Roma: 

R. – C’è da dubitare che riesca persino a trovare il modo di insediarsi e di governare quella parte di Libia che è fedele, in questo momento, al potere di Tripoli. Il problema è che c’è una discreta probabilità che le Nazioni Unite riconoscano il nuovo governo come l’interlocutore internazionale legittimo del Paese e poi su questa base si raggiunga un accordo in Consiglio di Sicurezza per autorizzare una missione internazionale che lo imponga alla Libia.

D. – C’è chi parla della miccia pronta a far esplodere quella che viene già definita una polveriera…

R. – E’ possibile che – come dice il presidente egiziano al Sisi - Tripoli si trasformi in una specie di Mogadiscio. La realtà di Mogadiscio mi fa pensare a quello che successe tra il 1992 e il 1994, quando ebbe luogo in Somalia una missione di intervento umanitario volto a stabilizzare il Paese e soprattutto permettere la distribuzione di aiuti ad una popolazione che era stremata e ostaggio della guerra fra le diverse fazioni. Andò malissimo e dopo pochi mesi le truppe internazionali divennero praticamente il bersaglio di una serie di attacchi molto sanguinosi, finalizzati a determinare una reazione militare pesante. E così Mogadiscio divenne progressivamente un grande campo di battaglia: l’intervento internazionale fallì e tutti, compresa l’Italia, furono costretti a tornare a casa… Quello scenario è rimasto un punto di riferimento nella storia degli interventi militari all’estero degli ultimi 30 anni come un fallimento particolarmente bruciante.

D. – Quindi – diciamo – in questo momento in Libia bisogna attendere e vedere come si evolverà la situazione?

R. – Certamente, se non vogliamo inserire delle truppe internazionali nella dinamica di quella che potrebbe essere una guerra civile ai primordi. Si tratterebbe di andare a sparare contro chi si oppone al nuovo governo per farglielo accettare e questo in scenari dove le armi sono molto diffuse tra la gente e non ci si pensa due volte ad usarle…

D. – Il governo di unità nazionale è respinto da Tripoli; l’altro parlamento, quello di Tobruk, riconosciuto a livello internazionale, non ha ancora votato però in suo favore. Questo riconoscimento, se fatto in tempi brevi, gli darebbe più forza?

R. – Occorrerebbe vedere la reazione a Tripoli. La mia sensazione è che il nuovo governo cosiddetto di accordo nazionale più di tanto non ne beneficerebbe, mi pare che la base di appoggio di cui gode attualmente sia particolarmente ristretta. Quindi purtroppo questo tentativo è da considerarsi molto probabilmente destinato a fallire, ma a fallire con conseguenze più gravi dei nulla di fatto che hanno preceduto l’intesa raggiunta in Marocco lo scorso dicembre.

D. – Professore, questo in un contesto in cui lo Stato Islamico si sta comunque espandendo. Sono collegate le due cose?

 R. – Relativamente, nel senso che la debolezza degli esecutivi di Tripoli e di Tobruk e la loro separazione è alla base del successo che ha incontrato il tentativo dei neo-gheddafiani di reinserirsi nella vita politica libica, adottando il marchio dello Stato Islamico. E tra l’altro mi sembra di capire da quello che si legge che stanno affluendo - questa volta, però, islamizzati – al raggruppamento dei neo-gheddafiani proprio le stesse etnie – tra virgolette – che sostenevano in altro modo il regime del colonnello durante la guerra del 2011. Certe lealtà sono dure a morire…

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Palmira, segno della rinascita siriana: arrivano gli sminatori russi

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E’ arrivato in Siria il primo gruppo di sminatori russi per bonificare da ogni ordigno la città di Palmira, dove si trova lo splendido sito archeologico d’epoca romana che i miliziani dell’Is hanno occupato dal maggio 2015, depredandolo e in parte distruggendolo. Palmira sta diventando il simbolo della rinascita siriana, dopo 5 anni di guerra civile. Ma quanto e come si potrà recuperare? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Franco D’Agostino, professore di Assiriologia presso l’Università della Sapienza a Roma: 

R. – Sembra possibile riportare Palmira, nel giro di pochi anni, agli sfarzi di un tempo: le distruzioni sono state importanti, ma per quello che possiamo vedere – nonostante la presenza dell’Is e l’atteggiamento che l’Is ha avuto – la città ha subito meno danni di quelli che noi potevamo temere.

D. – Ma nella concretezza che significa?

R. – Significa che, in realtà, molto del distrutto era già stato ricostruito e quindi si può ricostruire senza problemi. Per quanto riguarda le statue, che erano intrasportabili e quindi non erano state messe in salvaguardia all’interno del museo, anche quelle – in qualche modo – si possono restaurare, con un lavoro di due anni o almeno questa è l’ipotesi e con un aiuto dall’esterno: questo è assolutamente necessario!

D. - Perché una forza distruttiva come quella dell’Is si accanisce anche su siti archeologici? Palmira non è il primo e non è l’unico in Siria, come lo è stato anche per l’Iraq…

R. – L’Is ha una ideologia che prevede che nessuna realtà realizzata dall'uomo deve distrarlo dall’unico vero culto di Dio. In questa interpretazione molto ristretta della lettera del Corano, loro hanno tendenza a distruggere – e questo bisogna sottolinearlo – non soltanto le antichità pre-islamiche, ma anche quei resti islamici, come - per esempio - le moschee che sono costruite sulla tomba di personaggi famosi e questo perché quel personaggio, in qualche modo, distrae la venerazione verso l’unico ente, l’unica realtà per cui l’uomo deve avere adorazione. Ovviamente c’è un atteggiamento più politico, che è quello di voler costruire uno Stato e questo impone la distruzione del passato dello Stato precedente: quindi c’è anche una valenza politica, oltre che ideologica e religiosa, in questo atteggiamento.

D. – Che fine hanno fatto le cose che lì non ci sono più e che non si troveranno più?

R. – Molto era stato messo in sicurezza. Si parla molto dell’utilizzo dei beni culturali da parte di Daesh per la loro guerra: in realtà di questo noi non abbiamo una prova diretta. Sappiamo che sicuramente questo saccheggio c’è, ma non abbiamo la prova dell’ampiezza: che un mercato esista è sicuramente così e che sia in Siria che in Iraq esiste la possibilità che oggetti siano trafugati e che vengano perduti per sempre per la scienza e il patrimonio mondiale.

D. – Lei dice che è possibile restaurare, che è possibile recuperare ed è plausibile che esistano, tra gli studiosi, già progetti su questo: ma come si procede? 

R. – E’ necessario da un punto di vista tecnico fare una valutazione dei danni e creare un comitato internazionale possibilmente, che in qualche modo valuti le vie migliori per il restauro; trovare i fondi per questo, con dei donatori internazionali e l’Unesco dovrebbe aiutare in questo; e poi rendersi conto che questa attività è la vera attività di opposizione all'Is da un punto di vista politico e assai più della guerra per certi aspetti: il far vedere cioè al mondo che l’islam non è quella bestia che l'Is vuole incarnare, ma è qualcosa di molto più sofisticato sia culturalmente che storicamente.

D. – Ci dice qualcosa che ci possa veramente far incuriosire di questo posto, tanto da dire che è veramente un patrimonio mondiale?

R. – L’aspetto più straordinario di Palmira è il suo essere una sorta di porto franco, in cui diverse realtà, diverse culture, diversi punti di vista, diverse lingue si sono incontrate, creando una realtà culturale, una storia comune. Noi possiamo leggere nei suoi monumenti proprio questa varietà di diverse popolazioni, religioni, ideologie, lingue, che hanno popolato il Medio Oriente e la Siria nel caso specifico. Credo che la visita a Palmira sia la visita verso una realtà che ci fa capire quanto poco il Califfato abbia a che fare con una tradizione così aperta, così straordinaria, quale è stata quella siriana, anche in epoca islamica.

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Pakistan. Estremisti contro Asia Bibi. Cervellera: serve lotta culturale

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In Pakistan, le autorità sono riuscite a porre fine pacificamente alla manifestazione degli integralisti islamici ad Islamabad che da 4 giorni chiedevano la condanna a morte di Asia Bibi, la donna cristiana madre di 5 figli, in carcere dal 2009 a causa di una ingiusta accusa di blasfemia. Ma nel Paese la lotta del governo all’estremismo ha bisogno di passare dalle parole ai fatti, afferma padre Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews. Ascoltiamolo al microfono di Luca Collodi

R. – Penso che la cosa fondamentale è che la lotta al fondamentalismo deve essere fatta non semplicemente dal punto di vista militare, ma da quello culturale. Hanno preso 5.000 fondamentalisti, ma in Pakistan i talebani hanno aperto oltre 20.000 scuole islamiche! Se ammettiamo che in ogni scuola ci siano almeno 1.000 studenti, tutti questi sono centinaia di migliaia di fondamentalisti. Bisogna trovare queste scuole islamiche, vedere che tipo di insegnamento danno, vedere i testi scolastici e le prediche che si fanno in moschea; ci sono addirittura delle trasmissioni alla televisione pubblica che esaltano il fondamentalismo. Se non si fa questo lavoro a 360°, di tipo culturale e non soltanto militare o di sicurezza, non ne verremo fuori.

D. – Padre Cervellera, di Asia Bibi se ne occupa anche il vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che lancia un appello: “L’Islam moderato ci dia una mano a salvare Asia Bibi”…

R. – Secondo me è molto bello questo appello ai musulmani moderati, perché effettivamente noi tutti diciamo che il fondamentalismo islamico non è tutto l’Islam; ma è anche vero che gran parte del mondo islamico si accontenta semplicemente di dire: “No, questo non è il vero Islam, con questo noi non c’entriamo”. No, c’entrano comunque. Come c’entriamo noi cristiani che partecipiamo alle questioni della società, bisogna che anche i musulmani partecipino, vedano e verifichino come mai dall’insegnamento del Corano vengono fuori queste storture.

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Mozambico: no al dialogo tra governo e partito di opposizione

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Sempre più tesa la situazione politica in Mozambico tra il governo guidato dal presidente, Filipe Nyus,i e il principale partito di opposizione Renamo, la Resistenza nazionale mozambicana, che non ha accettato l’invito al dialogo per mettere fine agli scontri che da mesi colpiscono il Paese sudafricano. Intanto, sono centinaia i profughi mozambicani che in questi giorni stanno fuggendo a Kapise, nel vicino Malawi, per sfuggire ai combattimenti, aggravando così la già delicata situazione economica del Paese, che sta affrontando una delle peggiori siccità della storia.  Al microfono di Marina Tomarro, il commento di don Angelo Romano, responsabile delle relazioni internazionali per la Comunità di Sant’Egidio, in questo momento in Mozambico per monitorare la situazione: 

R. – In Mozambico, c’è un problema di crescente tensione e purtroppo anche di scontri con vittime. È una situazione molto preoccupante. Lo stesso Papa Francesco ha pregato per la pace in Mozambico durante l’Angelus pronunciato il giorno di Pasqua. Ciò mostra quanto questa preoccupazione sia giunta fino all’attenzione del Santo Padre e di quanti siano amici di questo Paese. Questi scontri sono la manifestazione della tensione crescente tra i principali partiti di opposizione: la Renamo, l’antico movimento ribelle, e il governo, espressione del partito vincitore delle elezioni, il Fronte di Liberazione del Mozambico detta Frelimo. Questa tensione crescente ha radici purtroppo in tutta una serie di problemi che non sono stati risolti. Quello che è il fattore principale di speranza per questo Paese è il fatto che c’è una grandissima volontà da parte del popolo mozambicano di non tornare indietro. Il popolo mozambicano vuole la pace. La memoria dell’orribile periodo della guerra civile – che si è conclusa con gli accordi di pace di Orma firmati a Sant’Egidio il 4 ottobre 1992 – durata 17 anni, ha prodotto un milione di morti. Quindi, tuto questo dovrebbe spingere i protagonisti del quadro politico mozambicano a moltiplicare gli sforzi di pace. La presenza di una delegazione della Comunità di Sant’Egidio qui a Maputo e la mia presenza qui come responsabile delle relazioni internazionali nasce proprio da questa preoccupazione di percorrere tutte le strade possibili affinché rinasca il dialogo e si possa ritornare ad una situazione di pace.

D. – Il Mozambico dopo la guerra civile del ’92 ha conosciuto una rinascita. Attualmente come si vive?

R. – È chiaro che il Paese è rinato. Il Paese ha uno sviluppo economico importante, anche se oggi la crisi economica mondiale ha colpito anche il Mozambico. Sappiamo che tutti i Paesi africani, in quanto Paesi esportatori di materie prime, sono colpiti dal calo della produzione industriale. Ovviamente, quando la produzione cala, cala anche l’esportazione. Poi, soffre ovviamente tutte le contraddizioni di cui può soffrire un Paese con una crescita anche molto rapida, quindi problemi di disuguaglianza sociale, a volte anche di corruzione, di ingiustizia. Sono tutte cose che in una società vengono dette “dinamiche normali”. A questo si aggiunge il fatto che questa dinamica interna ancora non risolta tra il principale partito di opposizione e il governo spesso diventa scontro fisico. Questo ovviamente non fa bene al Paese, non fa bene a nessuno, e fa crescere nel cuore di tutti gli amici del Mozambico una preoccupazione forte.

D. – Quel potrebbe essere una soluzione? Tra l’altro, in questi giorni tanti sono i profughi che cercano rifugio nel Malawi…

R. – Questo è il segnale di quanto sia grave la situazione, perché non si abbandona la propria casa per nulla e chi lo fa sa che evidentemente rimanere a casa sua sarebbe esporsi al rischio di perdere la vita. La Chiesa mozambicana ha espresso la sua forte preoccupazione per la situazione. Da parte del presidente Nyusi la chiara volontà di percorrere la via del dialogo. A questo punto, il problema è fare in modo che tutto questo avvenga e che possa fermare un po’ questo rischio di escalation. A volte le cose succedono anche perché la tensione già cresce da sola. Questo è il rischio che vediamo oggi, che anche senza una decisione chiara da parte della leadership politica possa crearsi una situazione irreversibile. Noi siamo qui appositamente per percorrere tutte le vie possibili di dialogo, di confronto, di incontro, affinché questo non avvenga.

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Migranti, nel 2016 incremento degli sbarchi in Italia

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I primi mesi dell’anno presentano un 80% di arrivi in più di migranti sul suolo italiano rispetto al 2015. Maria Laura Serpico ha chiesto al presidente del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), Roberto Zaccaria, se sussiste il pericolo che i flussi migratori verso la penisola italiana continuino ad aumentare nel corso del 2016: 

R. – I numeri che riguardano l’Italia, dopo i numeri più alti del 2014, sono numeri relativamente contenuti rispetto a quello che succede in Grecia e sulla rotta balcanica. La possibilità esiste, certamente: la chiusura di quella rotta può portare a un aumento. Non siamo però a numeri enormi. Il nostro Paese è attrezzato e si sta attrezzando per accogliere proporzioni di questo genere. Il problema quindi si interseca con altre questioni. Non siamo in grado di fare delle previsioni. Credo che il Ministero non sia in grado di fare previsioni solo sulla base di questi dati.

D. – Come risponde in proposito "Frontex", l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione Europea?

R. – "Frontex" ha diverse situazioni aperte. C’è un profilo, che è quello relativo prima di tutto ai salvataggi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che le persone che attraversano il mare rischiano la vita e molti muoiono. Ci sono dei numeri che sono raccapriccianti. La rotta attraverso il Mediterraneo e l’arrivo in Europa è considerato uno dei più pericolosi del mondo. "Frontex", quindi, in primo luogo, con le sue navi deve tutelare le vite umane che attraversano questi Stati. Poi, ultimamente, in base all’accordo con la Turchia, "Frontex" con le navi si assume anche il compito di riportare queste persone nel luogo dal quale sono partite. Ma se sono partite per disperazione – per il fatto che in quei Paesi non trovavano un alloggio sicuro, quanto delle specie di centri di detenzione – evidentemente queste persone non sono portate a tornare in quei luoghi.

D. – L’Europa mostra due volti per l’accoglienza anche per come guarda agli eventi umanitari…

R. – I canali umanitari sono una cosa straordinaria e naturalmente chi li sperimenta dimostra una grande visione, un grande senso di umanità. Il problema è che una cosa è passare da numeri in qualche modo importanti, ma simbolici, di qualche migliaio di persone, alle proporzioni enormi che abbiamo di fronte. Non bisogna mai dimenticare che soltanto con riferimento ai profughi siriani, ce ne sono 2 milioni e 700 in Turchia, oltre un milione in Libano e 650 mila in Giordania. Se questi canali umanitari dovessero avere una dimensione importante, è chiaro che con le disponibilità molto ridotte di molti Stati europei sarebbe molto difficile collocare i numeri ai quali ho fatto riferimento. Noi tutti ci battiamo per questa strada, perché riteniamo che dare la sensazione che esistano questi corridoi e siano percorribili può portare almeno a rallentare il rischio terrificante degli sbarchi, degli esodi via terra, e la permanenza nei centri di detenzione. Anche questo, però, presuppone una visione europea molto matura, che in questo momento non si vede.

D. – Qual è la percentuale di minori presente sui barconi?

R. – E’ difficile dirlo con esattezza. Si parla però di percentuali superiori al 30%. In alcuni casi, quindi, ho visto delle statistiche parlare anche del 40%. Certamente, questa è la cosa più drammatica e più struggente. Vuol dire che ci sono famiglie – e ci sono immagini in questo senso tristissime – ci sono madri che consegnano i loro figli di giovane età senza salire su queste barche, perché vogliono che questi ragazzi, questi giovani, questi bambini possano avere un futuro. Questa è la cosa più drammatica e per questo il Consiglio Italiano per i Rifugiati è molto impegnato ad accogliere questi minori non accompagnati. Sono davvero, infatti, il problema nel problema.

D. – Quali difficoltà incontrano i Porti italiani che accolgono gli sbarchi?

R. – Se si pensa che i primi tre Porti di arrivo sono Pozzallo, Augusta e Lampedusa, dove ci sono numeri importanti, e che già in questo inizio di anno si parla di oltre 3.000 persone a Pozzallo, oltre 3.000 ad Augusta e 2.600 a Lampedusa, si capisce che queste realtà, nonostante ci siano degli interventi molto significativi del Ministero degli interni, sopportano un peso sproporzionato rispetto alle loro forze.

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Assolto Seselj, il leader serbo accusato di crimini guerra

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E’ stato assolto in primo grado, dal Tribunale penale internazionale de L’Aja, l’ultranazionalista serbo Vojislav Seselj, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità nel conflitto intestino che ha insanguinato l’ex Jugoslavia negli anni 1991/’93. Il servizio di Roberta Gisotti

Una sentenza che farà discutere. “Da oggi Vojislav Seselj è un uomo libero”, ha dichiarato stamane il presidente del Tribunale de L’Aja, Jean Claude Antonetti, annunciando l’assoluzione del leader del Partito radicale serbo, deputato tra il 1998 e il 2000, riconosciuto non colpevole riguardo ai nove capi di imputazione, relativi a crimini commessi dalla forze serbe contro le popolazioni croata e bosniaca musulmana. Una sentenza “onorevole e giusta”, ha commentato Seselj, che non era presente in aula. Consegnatosi infatti spontaneamente al Tribunale nel febbraio 2003, gli era stato concesso di rientrare nel novembre 2014 per motivi di salute a Belgrado, rifiutandosi poi di tornare a L’Aja per la sentenza, come richiesto dai giudici. Il discusso leader serbo, che fu stretto collaboratore dell’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, ha rischiato almeno 28 anni di carcere, tanti ne aveva chiesti la Procura, che ora potrà ricorrere in secondo grado. Un’assoluzione vergognosa, ha commentato il primo ministro croato, Oreskovic.

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Confcooperative: col codice degli appalti +3% del Pil

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La riforma degli appalti può determinare subito una crescita del Pil pari all'1% annuo, che a regime potrà salire fino al +3%. La stima è di Confcooperative che oggi ha organizzato un convegno sugli strumenti per combattere la corruzione. Il servizio di Alessandro Guarasci

Norme più chiare, con controlli incrociati, scelte che non puntino solo al prezzo più basso. E’ l’obiettivo del codice degli appalti, in discussione in parlamento. Per Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, se il codice fallisce è un danno per tutto il Paese:

“Credo che, con piccole correzioni, vada nella giusta direzione. Ovviamente è un testo che, al momento dell’applicazione, avrà certamente una serie di problemi fisiologici come tutte le novità”.

Una normativa voluta anche dalle cooperative, alcune di loro infatti sono finite nell’inchiesta di "Mafia capitale". A oggi gli appalti sviluppano un controvalore economico che sfiora i 250 miliardi di euro, pari al 15% del Pil. Una fetta non trascurabile se l’aggiudicano le coop. Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative:

“Occorre lavorare assieme alle istituzioni, in primis il Ministero dello Sviluppo economico con l’Osservatorio. Occorre, con gli organi che oggi sono strumento ispettivo – quindi l’Agenzia delle Entrate, l’Inps, l’Inail – un coordinamento delle varie attività, perché non ci siano più sacche di illegalità. Occorre anche rivedere lo strumento normativo, stringere le maglie, affinché lo strumento giuridico cooperativo non sia adeguato per chi vuole delinquere”.

Con più trasparenza può aumentare anche la domanda interna, punto fondamentale per far ripartire il Paese.

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Nella Chiesa e nel mondo



Messaggio pasquale Chiese di Gerusalemme: pace in Terra Santa

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L’auspicio della sospirata pace in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente e la questione, per molti versi connessa, dell’ondata di profughi che si riversa in Paesi stranieri, con un appello all’accoglienza e al rispetto della dignità delle persone: questi i principali temi al centro del messaggio che i patriarchi e i capi delle Chiese locali di Gerusalemme hanno diffuso in occasione della Pasqua.

Un messaggio ecumenico
Un testo non di circostanza, dunque, ma soprattutto una chiave di lettura aperta alla speranza sulle questioni più scottanti attualmente sul tappeto. Il tutto in una prospettiva ecumenica, con la firma di tre patriarchi, il latino Fouad Twal, il greco ortodosso Théophilo III, l’armeno ortodosso Norhan Manougian, cui si sommano quelle del Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa e dei responsabili locali delle altre nove confessioni cristiane presenti a Gerusalemme.

Il mondo ha bisogno di costruire dei ponti
Nel documento – riporta L’Osservatore Romano - si invita a riflettere sul mistero di quella “tristezza gioiosa”, emblematica del cammino di preparazione alla Pasqua, che caratterizza la condizione dell’umanità in attesa della resurrezione promessa da Cristo. “La sofferenza dell’uomo e l’agonia — si legge— vengono trasformate in gioia grazie alla Croce di Cristo, in cui le realtà umane e quelle divine si incontrano e dalla quale Gesù trionfa sulla morte e sulla sofferenza. La tomba vuota, qui a Gerusalemme, rappresenta allora l’incarnazione della speranza divina per tutto il creato”. Un evento di salvezza, “non destinato esclusivamente a una razza, a un popolo o una nazione”, che “ci invita a considerare con compassione e misericordia la sofferenza e il dolore di moltissime persone nel mondo”.  Cosa che, viene sottolineato, “non si riesce a fare costruendo muri di alienazione, di intolleranza o di respingimento”. Il mondo “ha piuttosto bisogno di costruire dei ponti grazie ai quali la comprensione, l’amicizia e l’accoglienza possano diventare una realtà a favore di chi patisce, e per coloro la cui dignità è offesa e che sono esposti a grandi sofferenze”.

La speranza di una pace giusta per la Terra Santa e tutto il Medio Oriente
Di qui l’appello in favore dei milioni di rifugiati e per le vittime della violenza, della intolleranza e della discriminazione: “Noi preghiamo che la potenza della luce sfolgorante della Pasqua possa brillare in tutti questi luoghi e faccia aprire gli occhi e i cuori del mondo intero su queste realtà”. L’annuncio gioioso della Pasqua non può, inoltre, non avere un significato tutto particolare per la martoriata terra che custodisce i luoghi di Gesù: “La città di Gerusalemme in quanto città della resurrezione è la città della speranza per la Terra santa e per il mondo intero. Oggi, la nostra speranza è quella di una pace giusta per il popolo di Terra Santa e per tutto il Medio oriente. La città di Gerusalemme merita di vivere in pace divenendo una città in cui il popolo di Dio viva insieme e rispetti ogni essere umano”. (L.Z.)

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Mosca: a ottobre summit mondiale sui cristiani perseguitati

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La Chiesa ortodossa russa e la Billy Graham Evangelistic Association (Bgea) organizzeranno a Mosca un grande summit dei leader cristiani, dal 28 al 30 ottobre, che avrà come tema la persecuzione dei cristiani nel mondo. L’incontro - riferisce l'agenzia AsiaNews - dovrebbe portare nella capitale russa circa mille delegati da 150 Paesi. Secondo il portavoce del Patriarcato di Mosca, citato da Interfax-Religion, “la ragione di tenere un evento di tale portata sono le persecuzioni di massa, senza precedenti nella storia contemporanea, paragonabili alla persecuzione dei cristiani nei primi secoli e alla repressione di massa dalle autorità atee nel XX secolo”.

Presenti un centinaio di delegati cattolici
Come aveva anticipato ad AsiaNews il nunzio a Mosca, mons. Ivan Jurkovic, si attende anche un’ampia partecipazione cattolica, con un centinaio di delegati. La Bgea è stata fondata dal predicatore Bill Graham negli Stati Uniti oltre 50 anni fa. L’attuale leader dell’associazione è il figlio del celebre predicatore, Franklin, a capo anche dell’organizzazione di beneficenza Samaritan's Purse.

La collaborazione tra Patriarcato di Mosca e Bgea
​Nella primavera ed estate del 2015, il Patriarcato di Mosca e le due organizzazioni in modo congiunto hanno attuato un progetto nel sud della Russia per aiutare i profughi dall’Ucraina orientale. In questo ambito, sono stati distribuiti oltre 63.000 kit che comprendevano alimenti, oggetti per l’igiene, lenzuola, cancellerie per la scuola e giocattoli per bambini, ricorda Interfax. Franklin Graham è vicino al capo del dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, il metropolita Hilarion. (M.A.)

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Vescovi indiani: appello al governo per la liberazione di padre Tom

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La conferenza episcopale indiana (Cbci) lancia un appello al ministero degli Esteri di New Delhi, perché faccia “tutto il possibile” per assicurare la salvezza e il rilascio di padre Tom Uzhunnalil, il salesiano sequestrato da un commando estremista ai primi di marzo. In una lettera ufficiale indirizzata al ministro Sushma Swaraj e ripresa dall'agenzia AsiaNews, i vescovi auspicano un “intervento urgente” del governo per conoscere “la vera sorte” del sacerdote. I presuli, che fin dai primi giorni del sequestro si erano rivolti al Primo ministro e alle massime cariche dello Stato, chiedono inoltre di adottare “tutti i mezzi possibili” per ottenerne la liberazione. In risposta, un funzionario di primo piano del dicastero ha assicurato che il ministro riceverà a breve una delegazione dei vescovi e condividerà tutte le “informazioni disponibili e pertinenti” la liberazione del sacerdote. 

Ancora nessuna notizia sulla sorte del sacerdote indiano
Dal 4 marzo scorso padre Tom Uzhunnalil è nelle mani del gruppo jihadista, con tutta probabilità legato al sedicente Stato islamico (Is), che ha assaltato una Casa di riposo per malati e anziani delle missionarie della Carità ad Aden, nel sud dello Yemen. Nell’attacco sono state massacrate quattro suore di Madre Teresa e altre 12 persone, presenti all’interno della struttura. Finora non vi sono state notizie ufficiali sulla sorte del 56enne sacerdote nato a a Ramapuram, vicino a Pala (Kottayam, Kerala), da una famiglia profondamente cattolica. Suo zio Matteo, morto lo scorso anno, anch’egli salesiano, è il fondatore della missione in Yemen.  padre Tom si trovava in Yemen da quattro anni.

Il governo indiano si sta impegnando per avere notizie su padre Tom
Nella lettera inviata dai vescovi, a firma del vice-segretario generale mons. Joseph Chinnayyan, si sottolinea che il quartier generale Cbci a Delhi è in “contatto costante” con il governo, il quale si sta impegnando in modo “serio e sincero” per avere notizie di padre Tom. Tuttavia, nonostante lo sforzo profuso ad oggi non vi è alcuna “risposta definitiva” sul luogo in cui è detenuto o il motivo per cui è stato sequestrato dai miliziani del sedicente Stato Islamico. 

I vescovi continuano a pregare per la salvezza del sacerdote
​Condannando le voci che si sono diffuse la scorsa settimana in merito a una presunta crocifissione di padre Tom, i vescovi sottolineano inoltre che è “interesse” del “nostro Paese aumentare gli sforzi per verificare la veridicità” di queste “voci inquietanti”. Ringraziando per l’impegno mostrato anche dal Vaticano, attraverso i suoi canali diplomatici, per avere notizie del salesiano, i vescovi invitano a continuare a pregare per la salvezza del sacerdote. (R.P.)

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Pakistan: mons. Shaw tra i feriti di Lahore e il dolore delle famiglie

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“In questo momento di profondo dolore e lutto, in una situazione traumatica, possiamo solo fare nostra la predicazione di Gesù dopo la Resurrezione e consolare i feriti e i sopravvissuti con le sue parole: pace a voi”. Così l’arcivescovo Sebastian Shaw racconta all’agenzia Fides le sue giornate, in cui sta prodigandosi per visitare le persone rimaste ferite nella strage di Lahore, avvenuta nel giorno di Pasqua, dove 73 persone sono rimaste uccise e oltre 300 ferite in un attentato al parco Gulshan Iqbal.

L’arcivescovo riferisce tutto lo strazio di cui è testimone 
“Abbiamo celebrato i funerali di 20 vittime lunedì scorso, in un'atmosfera di grande commozione. Ora visito i feriti presenti nel Sheikh Zaid Hospital e nel Jinnah Hospital, dove sono raccolti per le cure. Sono cristiani e musulmani, che le nostre suore e i nostri volontari curano e assistono costantemente. E' molto, molto difficile consolarli. Non ci sono parole per consolare una madre che ha i suoi bambini di 4 e 6 anni gravemente feriti, mentre suo marito e un altro figlio sono stati uccisi. Un'autentica tragedia. La speranza può venire solo da Dio”.

Una donna ha perso tutta la sua famiglia nell'attentato
​“Un’altra madre – prosegue mons. Shaw – ha perso i suoi due figli e il marito. Era venuta a Lahore dalla provincia del Sindh, per la Pasqua. Ha perso tutta la sua famiglia: tornerà a casa sola. La sua vita non è più la stessa. Come è possibile consolarla?”. “Le uniche parole possibili – osserva – sono quelle di Gesù: Pace e voi”. L’arcivescovo continuerà a visitare i feriti e a pregare. E conclude con un appello consegnato a Fides: “Abbiamo bisogno delle preghiere in modo da poter continuare la missione affidataci dal Signore Gesù risorto: restituire pace e speranza a questa gente ferita e disperata”. (P.A.)

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Siria: marcia per la pace ad Aleppo per i due vescovi rapiti

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Una “marcia per la pace in Siria”, guidata dal Patriarca siro ortodosso Mar Ignatius Aphrem II, ha attraversato le vie di Aleppo, anche allo scopo di mantenere viva l'attenzione sulla vicenda dei due vescovi della martoriata metropoli – l'arcivescovo siro-ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e quello greco ortodosso Boulos Yazigi – rapiti il 22 aprile 2013 nel contesto del conflitto siriano, e di cui da allora non si hanno notizie certe.

Alla marcia centinaia di giovani
La “marcia per la pace” - riferiscono le fonti del Patriarcato siro ortodosso all'agenzia Fides - ha visto domenica 27 marzo la partecipazione dei sacerdoti e dei religiosi siro-ortodossi dell'arcidiocesi aleppina, accompagnati da più di quattrocento ragazzi e ragazze che partecipavano all'incontro della gioventù siro-ortodossa in corso ad Aleppo. Il corteo si è snodato dal luogo del raduno giovanile fino alla chiesa siro-ortodossa dedicata a Mar Gewargis (San Giorgio).

La preghiera per la liberazione dei due vescovi e di altri rapiti
Il Primate della Chiesa siro-ortodossa ha guidato la preghiera per chiedere al Signore che i due vescovi spariti possano ritornare sani e salvi, e che tutti i rapiti possano presto ritrovare la libertà. Un momento comunitario di celebrazione dei martiri si è svolto anche davanti al monumento – di recente inaugurazione – dedicato ai martiri del Sayfo, espressione con cui si indicano i massacri subiti un secolo fa nell'Impero ottomano dalle comunità cristiane caldee, sire e assire su istigazione dei Giovani Turchi. (G.V.)

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Malaysia: sentenza storica per i cristiani in un Paese islamico

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In  Malaysia, ha suscitato diverse reazioni positive tra i cristiani, la notizia della sentenza dell’Alta Corte dello Stato del  Sarawack, che la settimana scorsa ha stabilito che le conversioni dei minori all’Islam da parte di uno o ambedue i genitori non sono definitive. Il tribunale ha infatti accolto il ricorso di un cittadino nato cristiano, ma registrato dai genitori all’età di 10 anni come musulmano e che non aveva ottenuto dall’anagrafe la rimozione della registrazione dopo essersi nuovamente battezzato.  Il giudice ha motivato il verdetto con l’articolo 11 della Costituzione, che garantisce la libertà religiosa. 

Sentenza storica in un Paese musulmano
Si tratta di una sentenza storica in un Paese musulmano, dove la conversione a un’altra religione è considerata apostasia e in cui le autorità hanno sempre reso quasi impossibile il cambiamento della religione rinviando ogni decisione in merito a un tribunale islamico. Essa si inserisce in un’annosa diatriba sulle “conversioni univoche”, la normativa secondo cui i figli di coppie miste  con un coniuge musulmano, devono essere sempre registrati come islamici.

Per l’Associazione delle Chiese di Serawak una sentenza giusta
L’Associazione delle Chiese di Serawak (Acs) – riferisce l’agenzia Ucan - ha espresso gratitudine all’Alta Corte per la decisione definita in un comunicato “giusta,  imparziale” e ha rivolto un appello al Governo federale, affinché garantisca la libertà di religione  sancita dalla Costituzione. Di notizia “molto positiva” parla anche padre Lawrence Andrew, direttore del settimanale cattolico “The Herald”, anche se - ha precisato - non è detto che porti dei cambiamenti nel breve periodo sulle conversioni unilaterali dei minori. Tanto più che il caso in questione è particolare, poiché il ricorrente Roneey Anak Rebit non aveva mai praticato l’islam. Nel caso invece che una persona sia musulmana praticante è molto più difficile cambiare religione.

A favore della decisione anche un’organizzazione femminile islamica
​Un giudizio favorevole alla sentenza è stato espresso anche dal gruppo “Sorelle nell’Islam” organizzazione moderata musulmana fondata nel 1988 per lottare contro la discriminazione e l’oppressione che le donne subiscono in nome dell’islam secondo il quale essa è in accordo con i principi della religione musulmana, che promuove la compassione e la tolleranza. (L.Z.)

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Perù: messaggio dei vescovi per le prossime elezioni

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“I cittadini votino in modo consapevole e responsabile; i candidati lavorino in favore del bene comune, rispettando il pluralismo politico e sociale”. Queste le raccomandazioni del Consiglio episcopale permanente del Perù, racchiuse in una nota diffusa in vista delle elezioni generali che si terranno il 10 aprile. In particolare, nella scelta dei futuri rappresentanti istituzionali, i presuli invitano a guardare a quei “criteri etici” che permettano di “richiedere un programma realistico di governo; respingere i candidati corrotti e gli opportunisti; valutare le promesse elettorali e le fonti di finanziamento; verificare l’impegno dei canditati nella difesa della vita e la cura del Creato”.

Difendere vita, dignità umana e Creato
“La Chiesa – prosegue la nota – riconosce il valore della democrazia come uno dei sistemi migliori per ascoltare, rispettare e servire la società”. Il voto, inoltre, “è un segno di partecipazione attiva” da parte della società stessa e quindi “la Chiesa rispetta e promuove la libertà di ogni persona nell’esercizio di tale dovere civico”. Al contempo, i presuli, “in fedeltà al Vangelo di Cristo, difendono principi e valori irrinunciabili come il rispetto della dignità umana, il riconoscimento della vita come dono di Dio e la cura del Creato, nostra casa comune”. La nota dei vescovi del Perù si conclude con un richiamo a quanto detto da Papa Francesco nell’Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”: “Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri!” (n. 205). (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 91

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.