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Sommario del 02/11/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Secolarizzazione, rifugiati e tratta: le risposte del Papa in aereo

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Migranti, tratta, sana laicità e laicismo, sacerdozio femminile e mondanità spirituale: questi e tanti altri i temi al centro del colloquio del Papa con i giornalisti sul volo di ritorno dalla Svezia, dove ha concluso un breve ma intenso viaggio per la commemorazione luterano-cattolica dei 500 anni della Riforma. Il Pontefice è arrivato a Roma nel pomeriggio e prima di rientrare in Vaticano si è recato, come di consueto, a Santa Maria Maggiore per ringraziare la Salus Populi Romani del felice esito del viaggio. Sulla conferenza stampa in aereo ascoltiamo il servizio di Debora Donnini: 

Una visita dedicata alla commemorazione dei 500 anni della Riforma luterana quella di Papa Francesco in terra svedese, un viaggio dal forte sapore ecumenico. Rispondendo in aereo alle domande dei giornalisti sulla Svezia che, dopo una lunga tradizione di accoglienza verso i rifugiati, ora comincia a chiudere le frontiere, il Papa ha prima di tutto ringraziato il Paese scandinavo per aver accolto tanti sudamericani nel periodo delle dittature. Francesco entra nel dettaglio e spiega che bisogna distinguere fra il “migrante” che “dev’essere trattato con certe regole” perché migrare “è un diritto molto regolato”, e il rifugiato, colui che viene da una situazione di guerra, fame, angoscia. Francesco sottolinea che la Svezia ha una grande tradizione non solo di accoglienza ma anche di integrazione:

“Anche in questo, la Svezia sempre ha dato un esempio nel sistemare, nel fare imparare la lingua, la cultura e anche integrare nella cultura. In questo dell’integrazione delle culture, non dobbiamo spaventarci, eh?, perché l’Europa è stata fatta con una continua integrazione di culture, tante culture, no?”.

Accoglienza e prudenza
Francesco focalizza due aspetti: da una parte non si può chiudere il cuore, dall’altra serve la prudenza e spiega cosa pensi dei Paesi che chiudono le frontiere:

“Credo che in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché non solo a un rifugiato lo si deve ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, ma … faccia fino a questo. Altro Paese di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga”.

Si può “pagare politicamente anche un’imprudenza nei calcoli” perché se un migrante non viene integrato “si ghettizza” ed “è pericoloso” quando una cultura “non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura”. Il Papa racconta di aver parlato con un funzionario del governo svedese che gli ha spiegato le difficoltà in questo momento nel sistemare i migranti. E quindi Francesco ritiene che se la Svezia diminuisce la sua capacità di accoglienza non lo faccia per egoismo, ma perché non ha il tempo necessario per sistemare tutti. Tanti infatti conoscono il Paese per la sua accoglienza.

La Chiesa è donna
Ad una domanda se sia possibile il sacerdozio alle donne nella Chiesa cattolica, Francesco risponde che “l’ultima parola chiara è stata data da San Giovanni Paolo II, e questa rimane”. Sottolinea poi che le donne possono “fare tante cose, meglio degli uomini”. Vengono ricordate le due dimensioni della Chiesa: quella petrina e quella mariana. “La Chiesa è donna”, sottolinea, “non esiste la Chiesa senza questa dimensione femminile, perché lei stessa è femminile”.

Secolarizzazione: debolezza nell’evangelizzazione e laicismo
Centrale la questione della secolarizzazione che riguarda ormai tutta l’Europa. Viene chiesto al Papa se i responsabili siano i governi laici o la Chiesa che sarebbe troppo timida. La risposta di Francesco è di ampio respiro e si riallaccia dichiaratamente al pensiero di Benedetto XVI. Prima di tutto non è “una fatalità”. Da una parte, rileva, quando c’è la secolarizzazione, “c’è qualcosa di debolezza nell’evangelizzazione”, ma dall’altra c’è anche “un processo culturale”, quando l’uomo, che riceve il mondo da Dio, si sente invece tanto padrone di quella cultura da “fare lui il padrone di un’altra cultura”, cioè vuole prendere il posto di Dio creatore:

“Non è un problema di laicità perché ci vuole una sana laicità, che è l’autonomia delle cose, l’autonomia sana delle cose, l’autonomia sana delle scienze, del pensiero, della politica, ci vuole una sana laicità. No, un’altra cosa è un laicismo più come quello che ci ha lasciato in eredità l’illuminismo. Ma io credo che sono queste due cose: un po’ la sufficienza dell’uomo creatore di cultura ma che va oltre i limiti e si sente Dio e anche una debolezza nell’evangelizzazione, diventa tiepida e i cristiani sono tiepidi. Lì ci salva un po’ riprendere la sana autonomia nello sviluppo della cultura e delle scienze anche con la dipendenza di essere creatura, non Dio, e anche riprendere la forza dell’evangelizzazione”.

Per il Papa “questa secolarizzazione è molto forte nella cultura e in certe culture” ed è anche molto forte in diverse forme di mondanità, la “mondanità spirituale” che quando entra nella Chiesa “è il peggio”, sottolinea richiamandosi al grande teologo del Concilio, il cardinale de Lubac. Quindi una secolarizzazione “un po’ truccata” nella vita della Chiesa e “pericolosissima”.

Le iniziative ecumeniche
Sulle iniziative ecumeniche con altre Chiese, Francesco ne ricorda due: quando è andato a Caserta alla Chiesa Evangelica e anche nella stessa linea quando a Torino è andato alla Chiesa Valdese. Un’iniziativa “di richiesta di perdono” e per risanare una ferita, sottolinea, perché “parte della Chiesa cattolica non si è comportata cristianamente, bene, nei loro confronti”. Quindi racconta delle iniziative intraprese a Buenos Aires in questo senso: gli incontri con fedeli evangelici e cattolici nei quali si alternavano nella predicazione pastori e sacerdoti cattolici. Incontri che hanno aiutato molto il dialogo.

Il rapporto con il Rinnovamento Carismatico
Riguardo alla celebrazione per i 50 anni del Rinnovamento carismatico, al Circo Massimo, alla Vigilia di Pentecoste, prevede di “andare a parlare lì”. A proposito del Rinnovamento Carismatico, ricorda di essere stato, da provinciale dei Gesuiti, uno dei principali oppositori in Argentina. Quando bisognava fare una celebrazione liturgica, bisognava fare una cosa liturgica e non una scuola di samba, dice. Il Papa spiega però di aver cambiato idea: “Ho sperimentato un processo di riconoscimento del buono che il Rinnovamento ha dato alla Chiesa”, senza poi dimenticare la figura del cardinale Suenens, “che ha avuto quella visione profetica e ecumenica”. Infatti a Buenos Aires, una volta all’anno, nella Cattedrale c’era una Messa del Movimento.

La visita del presidente venezuelano Maduro
Sulla visita del presidente venezuelano Nicolás Maduro e sull’inizio dei colloqui, spiega che il presidente stesso gli chiese un appuntamento perché faceva uno scalo tecnico a Roma, ricorda di averlo ascoltato e ribadisce che il dialogo è l’unica strada:

“L’unica strada per tutti i conflitti, eh? Per tutti i conflitti! O si dialoga o si grida, ma non ce n’è un’altra. Io col cuore ce la metto tutta sul dialogo e credo che si debba andare su quella strada”.

La sua commozione di fronte alla tratta di esseri umani
Quindi il Papa affronta la questione della tratta. “Mi ha sempre commosso”, afferma, “il fatto che Cristo viene crocifisso continuamente nei suoi fratelli più deboli”. Ricorda l’impegno in Argentina di gruppi di credenti e non credenti contro il “lavoro schiavo” di tanti migranti latinoamericani che arrivavano, di quando si incendiò un’industria e bambini morirono. E poi racconta dell’impegno con le suore che lavorano con “le donne schiave della prostituzione” e della Messa che una volta all’anno si celebrava a Piazza della Constitución con queste persone e con chi le aiutava. Infine il Papa loda l’Italia rilevando che qui si lavora bene nel volontariato:

“E’ una cosa bella che ha l’Italia, il volontariato. E questo è dovuto ai parroci. L’oratorio e il volontariato sono due cose che sono nate dallo zelo apostolico dei parroci italiani”.

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P. Majewski: la presenza del Papa a Lund tra fede e penitenza

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Si è concluso ieri il viaggio di Papa Francesco in Svezia dove a Lund la Chiesa Luterana ha iniziato i festeggiamenti per i 500 anni della Riforma. Roberto Piermarini ha chiesto al nostro direttore dei Programmi, padre Andrea Majewski che ha seguito il Papa nel suo 17.mo viaggio apostolico, quale peso ha avuto nelle commemorazioni di lunedì scorso, la presenza di Papa Francesco? 

R. - La presenza del Papa ha certamente influito sullo stile delle celebrazioni a Lund e a Malmö. Non solo festa, ma anche penitenza, soprattutto la liturgia nella Cattedrale a Lund  si è caratterizza di questi due elementi: festa e penitenza; ma festa e penitenza celebrate insieme. Festa, perché anche la Chiesa cattolica ha riconosciuto i doni di Lutero per tutti, come, per esempio, la grande valorizzazione della Sacra Scrittura; anche attraverso le traduzioni in diverse lingue. Si può dire che Lutero ha messo la Bibbia nelle mani delle persone. Penitenza per il dolore della disunione e poi vergona per secoli di conflitti, accuse, e - a volte - anche atti violenti che non avevano niente a che fare con lo spirito del Vangelo. Ma c’è poi un terzo elemento: la comune testimonianza, che è come l’ultima parola pronunciata da luterani e cattolici insieme, soprattutto durante l’incontro ecumenico all’Arena di Malmö. Sia i cattolici che i luterani danno una concreta testimonianza di fede, lavorando a favore delle popolazioni di Siria, Burundi, Sud Sudan, Colombia, India... e sto elencando solo alcuni Paesi di cui si è parlato all’incontro. Alle domande, alle paure e alle ansie del mondo globalizzato la Chiesa cerca di dare una risposta comune, che coinvolga tutti i credenti.

D. - Qualche momento particolare?

R. - Si, alcuni momenti si sono impressi di più nella mia memoria. Il primo è la preghiera del Padre Nostro nella cattedrale di Lund, pronunciata allo stesso tempo, ciascuno nella propria lingua: non si capivano le parole, ma si aveva la sensazione che davvero stavamo pregando insieme. E poi alcuni cenni  - soprattutto nella bella omelia del segretario della Federazione Luterana Mondiale - anche se ancora timidi sul desiderio di poter celebrare un giorno insieme anche l’Eucaristia.  L’altra cosa che ha attirato la mia attenzione è stata la presenza di tanta gente lungo le strade percorse dal Papa. Nell’Arena di Malmö, dove si sono radunati molti giovani luterani, si sentivano tante esclamazioni come “Viva il Papa”, “Viva Papa Francesco”…. La spontaneità di queste voci mi ha fatto pensare che forse sta arrivando una nuova generazione che non si sente più appesantita dalle incomprensioni e riservatezze del passato.

D. – Che messaggio ha lasciato il Papa alla piccola comunità cattolica svedese allo Stadio di Malmö?

R. - Parlando loro delle Beatitudini, il Papa ha rievocato la “figura dei miti”. Di solito Papa Francesco mette in evidenza i poveri, quelli che hanno fame e sete di giustizia, e – in questo Anno Santo – i misericordiosi. Qui, in Svezia, durante il suo viaggio ecumenico, che commemora 500 anni della Riforma Luterana, il Papa ha voluto parlare ai cattolici di una beatitudine particolare di Gesù rivolta ai “miti”: “I Santi – ha detto - ottengono dei cambiamenti grazie alla mitezza del cuore”; ed ha aggiunto “si tratta dell’atteggiamento di chi non ha nulla da perdere, perché la sua unica ricchezza è Dio”. Ed io penso: “Chissà, forse questa è la giusta chiave d’interpretazione degli eventi che abbiamo appena vissuto in Svezia”…

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Mons. Perego: Papa ci ricorda il diritto a migrazione e ospitalità

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Migrare è un diritto, ma è un diritto molto regolato. Il rifugiato viene da situazioni terribili e ha bisogno di più cura e più lavoro. Con queste parole, Papa Francesco ha dedicato all’accoglienza di chi arriva in Europa una parte importante della conferenza stampa sull’aereo che lo riportava dalla Svezia. L’Europa si è formata con le migrazioni – ha detto – chi  chiude le frontiere ha come cattiva consigliera la paura, ma dovrebbe invece avere la prudenza come buona consigliera.  Francesca Sabatinelli ha intervistato mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei: 

R. – Mi pare che nel discorso della conferenza stampa sia stato ribadito, in maniera molto chiara, anzitutto il diritto a migrare e all’ospitalità dei migranti, soprattutto per i migranti che fuggono da situazioni di guerra e dai disastri ambientali. E la distinzione che il Papa fa, tra migranti e rifugiati, nella storia del diritto è sempre stata una distinzione che ha allargato questo diritto di migrare all’ospitalità, guardando non soltanto ai lavoratori, e quindi a chi è necessario per un’economia di un Paese, ma guardando anche al diritto di migrare delle persone che sono in fuga dalle guerre. Il Papa, giustamente, richiama la distinzione tra le due figure, ma al tempo stesso spiega anche come queste due figure siano altrettanto importanti da salvaguardare nel loro diritto di emigrazione.

D. – Mons. Perego, si può dire che è un passo importante anche il riferimento che il Papa fa alla prudenza dei governanti?

R. – La virtù della prudenza, nel Catechismo e anche in San Tommaso, significa salvaguardare il bene con realismo, cioè valutando e scegliendo i mezzi necessari per compierlo. Quindi, mi pare che sia una lezione molto importante per i politici di recuperare questo senso della prudenza, che mette al centro il bene, in questo caso dei migranti, ma valuta anche con realismo tutti quegli strumenti necessari da mettere in atto. Noi abbiamo assistito tante volte a come la valutazione, nel contesto europeo, della situazione dei migranti non abbia visto poi, successivamente, l’adozione dei mezzi necessari ad accompagnare queste migrazioni. E quindi: la superficialità, l’indifferenza e la chiusura sono proprio le risposte sbagliate – dice il Papa – anziché mettere in campo, con realismo, quei mezzi che sono necessari per compiere adeguatamente il bene di cui necessita chi è in fuga da guerre e da situazioni drammatiche.

D. – Quello che ci dice il Papa è “integrare, non ghettizzare”?

R. – Certamente. L’altro passaggio importante, e che è guidato proprio dalla prudenza, è questo. L’accoglienza chiede poi dei mezzi adeguati per accompagnare le persone all’interno di una realtà. Questo è proprio il frutto della politica di cui la prudenza è una virtù importante: questo accompagnamento che significa studiare mezzi e situazioni migliori per fare in modo che ci siano incontro, accoglienza,  ospitalità e integrazione, valutando tutti quegli strumenti che sono importanti. L’interessante è che il Papa abbia detto questo proprio in Svezia, dove una popolazione di meno di 10 milioni di persone sta accogliendo più di 400mila persone, è la nazione con diciassette persone accolte ogni 1000 abitanti: in Italia siamo a tre, in Germania a cinque, in Austria a dieci. Francesco lo ha detto, quindi, in una nazione che ha dimostrato non solo la capacità dell’accoglienza, ma anche di saper costruire dei percorsi importanti di integrazione. Ora, giustamente, secondo il Papa, si sta valutando fino a dove poter arrivare in questo percorso che unisce accoglienza e integrazione.

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Papa: preghiamo anche per i defunti che nessuno ricorda

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Oggi, 2 novembre, alle ore 16, il Papa celebrerà la Messa per la Commemorazione di tutti i fedeli defunti presso il cimitero romano di Prima Porta. In un tweet Francesco scrive: “Con fede sostiamo presso le tombe dei nostri cari, pregando anche per i defunti che nessuno ricorda”. Il servizio di Sergio Centofanti

In tanti si recano in questi giorni al cimitero, una parola greca (koimētḕrion) che significa “luogo del riposo”. Riposo, non morte definitiva, perché in attesa del risveglio finale. “È bello pensare – ha detto Papa Francesco nel novembre di due anni fa - che sarà Gesù stesso a risvegliarci. Gesù stesso ha rivelato che la morte del corpo è come un sonno dal quale Lui ci risveglia. Con questa fede sostiamo – anche spiritualmente – presso le tombe dei nostri cari, di quanti ci hanno voluto bene e ci hanno fatto del bene”. La Scrittura ci dice che “sono nelle mani di Dio”, che sono mani “misericordiose”, mani “piagate” d’amore perché accolgono anche i nostri peccati. “Non per caso Gesù ha voluto conservare le piaghe nelle sue mani per farci sentire la sua misericordia. E questa è la nostra forza, la nostra speranza”. “È Lui che ci salva, è Lui che alla fine della nostra vita ci porta per mano come un papà, proprio in quel Cielo dove sono i nostri” cari.

Il Papa invita anche a ricordare quelli che nessuno ricorda: “le vittime delle guerre e delle violenze; tanti ‘piccoli’ del mondo schiacciati dalla fame e dalla miseria”, i fratelli e le sorelle “uccisi perché cristiani; e quanti hanno sacrificato la vita per servire gli altri”.

“La tradizione della Chiesa – afferma il Papa - ha sempre esortato a pregare per i defunti, in particolare offrendo per essi la Celebrazione eucaristica: essa è il miglior aiuto spirituale che noi possiamo dare alle loro anime, particolarmente a quelle più abbandonate”.

“Il ricordo dei defunti, la cura dei sepolcri e i suffragi – sottolinea - sono testimonianza di fiduciosa speranza, radicata nella certezza che la morte non è l’ultima parola sulla sorte umana, poiché l’uomo è destinato ad una vita senza limiti”, all’incontro gioioso con Dio, con la bellezza, la bontà, la tenerezza, l’amore pieno: “Questa certezza conferisce un senso nuovo e pieno alla vita terrena e ci apre alla speranza per la vita oltre la morte”.

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Venezuela. Mons. Celli: Santa Sede fondamentale per avvio dialogo

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In Venezuela è partito il dialogo tra governo e opposizione alla presenza dell’inviato di Papa Francesco, mons. Claudio Maria Celli, e di una delegazione internazionale. Domenica sera si è svolto a Caracas il primo incontro per risolvere la gravissima crisi istituzionale ed economica che ha colpito il Paese, con l’opposizione che ha promosso un referendum per la destituzione del presidente Maduro, ma che le autorità hanno sospeso. Per il Papa l’unica soluzione è il dialogo. Jean-Charles Putzolu ha chiesto a mons. Celli se ne sono convinti anche i politici venezuelani: 

R. – Tutti sono convinti che il dialogo sia l’unico cammino da percorrere. Perché poi, in determinate situazioni, se non c’è il dialogo c’è la violenza e nessuno vuole che ci sia una presenza di violenza ulteriore nel Paese. E quindi, direi che si è deciso di aprire quattro tavole di tematiche per le situazioni difficili che dobbiamo risolvere. Quindi direi che questo è stato un primo passo, secondo me fondamentale.

D. – Che già sta dando frutti, perché abbiamo visto che l’opposizione ha deciso di posticipare un voto contro il presidente …

R. - … sì, esattamente: il presidente ha liberato alcuni prigionieri politici. E io credo che questo cammino veramente difficile e complesso abbia bisogno di segnali da entrambe le parti, di segnali positivi che esprimono la buona volontà di andare avanti e di costruire un cammino di dialogo. Infatti, poi, nel mio discorso ho invitato a disarmare il dialogo, perché alle volte anche nelle espressioni, nelle formulazioni, c’era un linguaggio molto pesante nei confronti gli uni degli altri, e quindi questo dev’essere pian piano sempre più sottolineato e aiutato. Infatti, l’11 novembre, se tutto va bene e se rimangono in vigore gli accordi raggiunti, dovremmo avere un altro incontro tra le delegazioni governative e dell’opposizione. E saranno sempre presenti i quattro ex-presidenti che accompagnano questo processo e il sottoscritto.

D. – Quindi, lei tornerà in Venezuela tra poco. Quando è arrivato lì ha parlato di disarmare il dialogo, cioè ha trovato le persone proprio – mi scusi l’espressione – "con i fucili puntati" …

R. – Bè, materialmente no, ma la situazione è molto forte, è molto dura, difficile. Io posso dire una cosa, perché questa era la consapevolezza comune e la stessa opposizione me l’ha ripetuto varie volte: “Noi siamo qui unicamente perché c’è lei!”, e cioè: il ruolo che gioca la figura di Papa Francesco in questo contesto è fondamentale. Gli stessi quattro ex-presidenti, hanno tutti e quattro sottolineato che se non ci fosse stata la Santa Sede in questo cammino e con la sua presenza, bè, questo cammino non sarebbe neanche iniziato. Questo lo posso dire con molta serenità. Lei pensi che lo stesso ex primo ministro Zapatero, spagnolo, di cui tutti conosciamo il percorso e la storia, ha riconosciuto ufficialmente, in pubblico, che tutto questo si deve alla presenza di Papa Francesco e quindi alla presenza della Santa Sede che accompagna questo processo di dialogo.

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Caritas Internationalis: insieme coi luterani al fianco degli ultimi

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Un segno importante del cammino verso l’unità è lavorare insieme al fianco dei più poveri: è quanto afferma Michel Roy, segretario generale di Cartitas Internationalis, che il 31 ottobre scorso, nell’ambito dell’Evento ecumenico a Malmö, ha sottoscritto con il World Service della Federazione luterana mondiale una Dichiarazione di intenti impegnandosi a collaborare per la pace, la giustizia, i profughi, i migranti e lo sviluppo sostenibile. Ascoltiamo Michel Roy al microfono di Federico Piana

R. – Un documento che abbiamo firmato alla presenza del Papa e del presidente della Federazione luterana mondiale per dare un segno concreto di avanzamento verso l’unità nel campo del lavoro concreto con i più poveri, con i più vulnerabili. Posso dire che fa parte della volontà di queste due Chiese di andare avanti verso la piena comunione. Abbiamo già, in passato, lavorato insieme ma molte volte avveniva in maniera spontanea, non programmata; specialmente nelle grandi emergenze, ci siamo ritrovati e abbiamo potuto lavorare insieme. Quando dico “noi”, intendo i membri della rete Caritas, con il World Service della Federazione luterana mondiale. E questa volta abbiamo voluto mettere per iscritto la volontà di coordinarci per avere come una strategia per andare avanti insieme, non tanto per fare delle cose insieme – sicuramente – quanto per dare una testimonianza cristiana comune.

D. – Quali sono i punti qualificanti di questa Dichiarazione, di questa intesa?

R. – E’ una volontà di lavorare insieme in alcuni campi e la possibilità, adesso, è che si allarghi il numero di questi campi. Parlo per esempio di rifugiati e migranti. Là dove la Federazione luterana mondiale si occupa di queste situazioni, esiste la possibilità di incrementare la cooperazione con le Caritas locali. Il secondo ambito è quello della promozione della pace e della riconciliazione. Abbiamo già diverse esperienze, di cui una vasta in Colombia nel processo di pace nel quale la Chiesa cattolica è stato uno strumento molto valido, ha contribuito molto, in particolare nelle province più colpite dalla guerra, attraverso la Pastorale sociale della Caritas Colombiana. E dopo, a livello internazionale, quando parliamo con le Nazioni Unite a Ginevra o a New York, c’è già una relazione, ma noi vogliamo andare ancora oltre, per portare insieme una voce cristiana, insieme con altre organizzazioni cristiane. Pensiamo che le due Chiese insieme abbiano la possibilità di rendere più forte la voce delle organizzazioni cristiane, prendendo noi l’iniziativa: soprattutto nel campo delle emergenze, delle politiche di risposta alle emergenze e nel campo della realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale del direttore dal titolo “Per cambiare la storia”.

Marcelo Figueroa sull’ecumenismo della misericordia.

Una task force della speranza: da Norcia, Paolo Giovannelli sul dopo terremoto.

Battaglia finale nella roccaforte dell’Is: le truppe irachene entrano a Mosul.

L’Onu insiste per la pace in Yemen.

Allegato al giornale il numero di novembre di “donne chiesa mondo”.

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Oggi in Primo Piano



Iraq, si combatte a Mosul. Fabbri: guerriglia urbana per mesi

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Dopo oltre due anni le truppe di Baghdad hanno rimesso piede a Mosul, la seconda città dell’Iraq, e puntano ora a strapparla alle forze del sedicente Stato islamico. Anche il loro leader, Abu Bakr al-Baghdadi, si troverebbe nella zona, secondo il britannico ‘The Independent’. Il servizio di Giada Aquilino: 

Sono trascorsi 28 mesi dalla resa di Mosul, quando le truppe di Baghdad si ritirarono di fronte all’avanzata delle forze del sedicente Stato islamico. Da ieri circa 50.000 uomini delle truppe regolari di Baghdad, i paramilitari sciiti, gli uomini delle tribù sunnite, i peshmerga curdi e le forze speciali di alcuni Paesi occidentali stanno convergendo verso il centro della città, nonostante il maltempo stia rallentando le operazioni. Aiutate dal supporto aereo della coalizione a guida Usa e dal fuoco dell'artiglieria francese, le forze irachene hanno preso il controllo dell'edificio della tv di Stato, del quartiere Judaidat Al-Mufti, sulla riva sinistra del Tigri, avanzando anche nella zona di Karama dove i miliziani dell’Is avevano eretto blocchi di cemento e seminato ordigni improvvisati per rallentare l’avanzata.

Dall'inizio delle manovre per la liberazione di Mosul, il 17 ottobre, si ritiene che tra i 4.000 e i 7.000 combattenti di al Baghdadi siano asserragliati nella città e nell’immediata periferia, compreso lo stesso leader, secondo il britannico ‘The Independent’. Nelle ultime ore avrebbero preso in ostaggio numerosi giovani, tutti maschi: circa 50 sarebbero stati uccisi in un collegio pubblico. Allarme per oltre un milione di civili a Mosul, lanciato dal Norvegian Refugee Council che opera sul terreno: 18 mila le persone scappate dalla zona in due settimane.

Ancora tensioni poi tra le autorità irachene e la Turchia, dopo la decisione di Ankara di dispiegare carri armati e pezzi di artiglieria nell'area di Silopi, nella zona di confine, a circa 100 km da Mosul: se le truppe turche “metteranno piede” in Iraq “subiranno molte perdite”, ha detto il premier iracheno Haider al Abadi. La Turchia “vuole che l'Iraq protegga la sua integrità territoriale e la sua indipendenza”, ha replicato il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu.

A convergere su Mosul, dunque, l’esercito di Baghdad, i paramilitari sciiti di Hashed al Shaabi, i combattenti sunniti, i peshmerga curdi, le forze speciali di alcuni Paesi occidentali: com’è possibile che tante forze così disomogenee tra loro possano essere ora schierate assieme contro l’Is? Risponde Dario Fabbri, consigliere scientifico e analista della rivista di geopolitica 'Limes', intervistato da Giada Aquilino

R. – È possibile perché l’obiettivo è considerato molto prezioso, soprattutto da alcune delle potenze cui afferiscono le milizie, su tutte l’autorità centrali di Baghdad – quindi il governo iracheno – ma anche la Turchia e l’Iran: sono questi i tre Paesi in assoluto che hanno maggiormente a cuore le vicende di Mosul per ragioni differenti. Sono seguite poi dai curdi iracheni, le cui milizie sono appunto i peshmerga che hanno intenzione a loro volta di estendere parzialmente la loro influenza sulla città. Tutti questi interessi diversi al momento convergono nel tentativo di strappare la città dalle mani del sedicente Stato islamico: un tentativo che non sarà semplice.

D. – Cos’è cambiato rispetto a 28 mesi fa, quando ci fu una folgorante avanzata dell’Is o, se vogliamo, una repentina ritirata delle forze di Baghdad?

R. – Per il momento, tutte le potenze a cui facevamo riferimento, comprese quelle occidentali, hanno trovato il modo di organizzarsi tra loro e di puntare verso la città, mentre nel 2014 non c’era quest’attenzione nei confronti di Mosul. Ciò che non è cambiato, e che non cambierà neanche nei prossimi mesi, sono le condizioni che hanno invece garantito l’ascesa dell’Is, che sono perfettamente intatte nella regione.

D. – Quali sono tali condizioni?

R. – Per esempio la volontà di gran parte della popolazione di Mosul di scegliere l’Is al posto dell’autorità centrale di Baghdad. Sentiamo dire spesso in queste ore, in questi mesi, della “liberazione” di Mosul dall’Is: liberazione è un sostantivo che c’entra poco ed è anche poco appropriato, perché ricordiamoci che nel 2014 furono accolti come “liberatori” i miliziani dell’Is. Perché la popolazione della città, in larga parte sunnita, preferisce essere evidentemente sotto il tallone di pazzi e sanguinari come quelli dell’Is, però sunniti, piuttosto che sotto l’autorità sciita della capitale, cioè di Baghdad.

D. – Come leggere allora le prese di ostaggi, le uccisioni arbitrarie di queste ultime ore?

R. – Siamo comunque nell’ambito della propaganda, nel senso che da entrambe le parti possono essere ovviamente – purtroppo – vere queste notizie. Resta il fatto che, in un ambito di guerriglia urbana come questo e davanti ad un nemico così spietato e violento come l’Is, non possiamo stupirci se davanti a tentativi da parte della popolazioni civili di mettersi in salvo dalla guerra l’Is invece drammaticamente costringa parte di tali popolazioni a rimanere oppure la utilizzi come scudo umano.

D. – È possibile che lo stesso al Baghdadi si trovi a Mosul?

R. – Se lo stesso al Baghdadi si trovasse a Mosul – mi permetto di dire – sarebbe un errore tattico, visto che in questa fase non è esattamente la città “più sicura” dove stabilirsi: avrebbe più senso se invece si trovasse protetto da qualche tribù sunnita a cavallo tra Siria e Iraq.

D. – Dal punto di vista dei combattimenti, adesso cosa c’è da attendersi?

R. – C’è da attendersi un’operazione che molto probabilmente non sarà breve, perché l’Is non ha come obiettivo in questa fase quello di vincere, visto che il dispiegamento di forze è assolutamente asimmetrico nella sua quantità  e ovviamente vede in grande favore le forze che sono al momento all’offensiva; l’obiettivo dell’Is è semplicemente infliggere talmente tante perdite nei confronti di coloro che attaccano da costringerli o a rallentare l’offensiva o a sospenderla. Per raggiungere quest’obiettivo, che probabilmente nel medio periodo non centrerà, l’Is è pronto però a mantenere la propria difesa, la difesa della città, discretamente a lungo. Tutto questo ci fa prevedere un tentativo da parte delle forze di colazione che è destinato a protrarsi almeno nelle prossime settimane se non nei prossimi mesi.

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Vice priore di San Benedetto: ripartire da Cristo non dalle macerie

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Venerdì il Consiglio dei Ministri approverà un altro Decreto Legge sul terremoto “che snellirà ulteriormente i tempi, le procedure, la burocrazia”. È quanto annunciato dal Premier Renzi, secondo il quale ci sono sia i soldi sia la volontà per ricostruire tutto a cominciare dalla Chiesa di San Benedetto, patrono d'Europa. Le gare – ha proseguito Renzi – saranno monitoriate dalla struttura guidata da Cantone e Tronca. Dal canto suo, il ministro della Difesa Pinotti assicura l’invio di altri 500 militari per prevenire atti di sciacallaggio, mentre il Presidente della Repubblica Mattarella, rientrato anticipatamente dal viaggio in Israele, è atteso nel pomeriggio nelle zone colpite dal sisma. In queste aree sono 200mila le abitazioni lesionate e circa 22mila gli sfollati. “Vogliamo restare ed alimentare nuove vocazioni”, ha detto padre Benedetto Nivakoff, vice-direttore dell'abbazia benedettina di Norcia, intervistato da Marco Guerra

R.- La speranza riparte sempre da Cristo, non dalle macerie ma dalle fondamenta spirituali. La vita monastica, come conseguenza anche la vita per tutti, deve essere fondata sul percorso per il paradiso, sul cammino spirituale… Non è che gli edifici non sono importanti, anzi sono importantissimi, però momenti come questi ci fanno ricordare cosa è più importante.

D. – Quindi una chiesa che non è fatta solo di pietre ma è fatta dalle persone che abitano quella comunità. Come sta rispondendo Norcia?

R. – Abbiamo un legame forte perché san Benedetto per Norcia è il cittadino principale e loro, non per il nostro merito, sono molto devoti, vedono i monaci anche come ambasciatori del patrono. Ci aiutano in tutto e ci chiedono anche l’intercessione. Sanno che noi pregavamo quella mattina del terremoto e sanno che grazie a Dio - è  proprio un miracolo! - non c’è stato nessun morto.

D. – San Benedetto che, ricordiamo, è patrono d’Europa: tutto il continente dovrebbe aiutare a partecipare a questa ricostruzione…

R. – Sì, infatti San Benedetto è un punto cardine della cultura europea. Se quanto è successo offrirà all’Europa una nuova finestra, una nuova visione riguardo le loro radici, allora sarà uno dei frutti che scaturisce da questa grande sofferenza.

D.  – L’imprenditore Cucinelli ha offerto il suo aiuto per ricostruire la Basilica. Come avete accolto questa offerta, questa mano tesa?

R. – Il signor Cucinelli è un grande amico del monastero, da qualche anno. Ci ha già finanziato, ci ha aiutato con tanti interventi sul monastero negli anni precedenti, quindi la sua offerta la accogliamo molto bene. So che ci sono molte offerte e disponibilità che vogliono aiutarci a ricostruire. Abbiamo due monasteri: uno è il luogo della nascita di San Benedetto e l’altro in montagna, che è più concentrato sulla preghiera. Con l’aiuto di tante persone speriamo di poter ricostruire  tutte e due.

D. – Ricostruire i simboli della fede e dell’arte aiuta anche a far ripartire quel tessuto sociale che animava Norcia e tutta quella parte di Umbria…

R. – Sì, assolutamente. L’andamento buono di questo progetto di restauro, di ristrutturazione, va visto come qualcosa che contribuirà a tenere viva l’identità della città.

D. - Sappiamo che nella vostra comunità c’erano frati provenienti da tutto il mondo. C’è voglia di ripartire o di andare via? Che intenzioni hanno i fratelli che, ricordiamo, erano soliti pregare nella cripta della Basilica…

R. – No, anzi il contrario, tutti sono più radicati che mai. Non c’è minimamente l’idea di andare a casa, anzi è il contrario. E vogliamo creare qui una casa per i benedettini, una casa per i monaci molto più solida e molto più grande per poter accogliere molte più vocazioni.

D. - Dalla Chiesa universale, dalla Chiesa di tutto il mondo, avete avuto attestati di vicinanza?

R. - Sì, dappertutto nel mondo. San Benedetto e la sua Basilica sono molto sentiti e  ce ne siamo resi conto tante volte nella nostra storia qui a Norcia, ma specialmente adesso.

D. – Un’immagine che ha fatto il giro del mondo e che ha colpito tutti nel profondo era quella delle persone inginocchiate, religiosi e laici, davanti alla facciata delle Basilica distrutta. Il conforto dello spirito in quei momenti è fondamentale?

R .- L’immagine di uno in ginocchio è sempre l’immagine di uno che vuole fare la penitenza, un’immagine di pentimento, di compunzione: ci rendiamo conto di esserci sbagliati. Questo è molto importante dopo una tragedia: Dio mi ha salvato la vita, perché? Che cosa devo cambiare?

D. –Ci si è interrogati su dov’era Dio nei terremoti precedenti. In questo caso non c’è stata nessuna vittima…

R. – C’è questo fatto, che è difficile per noi vedere questi miracoli. Però se uno guarda l’andamento di questi terremoti, abbiamo iniziato con un terremoto di magnitudo 3, 4-5, poi 6…. E pian piano siamo arrivati a questo grande… Tutti questi terremoti hanno preparato tutti a lasciare la città, hanno spinto tutti a stare a attenti, specialmente noi monaci, perché se non fosse per quei terremoti noi saremmo adesso sotto le macerie della Basilica.

D. – Le pietre si rimettono in piedi, le case si ricostruiscono, però bisogna convincere gli esseri umani a non andarsene da queste terre…

R. – Andrei piano a convincere… si fa fatica a ritornare a casa… e questo si capisce… Ci vuole una buona ricostruzione per dare alla gente la sensazione che l’edificio è veramente sicuro e poi non forzare…

D. – Chiederete l’intercessione di San Benedetto? D’altra parte per voi San Benedetto è anche un volano per attrarre l’attenzione sulle terre terremotate…

R . –Sì, lui è stato sempre il nostro punto di riferimento e lo sarà ancora.

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Cascia. Rettore Basilica S. Rita: siamo soli ma affidati a Dio

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I danni del terremoto sono più ampi di quanto si possa immaginare. La Coldiretti, stima 10.000 posti a rischio nell’agroalimentare solo in Umbria e servono oltre 1000 impiegati per far fronte alle partiche necessarie. I centri storici si svuotano: Accumoli è tutta evacuata, a Visso procedono le demolizioni, a Rieti molti dormono in macchina e nell’anconetano sono 800 le richieste di sopralluoghi ai vigili del fuoco. In arrivo intanto strutture sanitarie mobili in luoghi finora poco considerati come Cascia, dove anziani e malati necessitano di tutto. Gabriella Ceraso ha intervistato il rettore della Basilica di S. Rita, il padre agostiniano Bernardino Pinciaroli

R. – A causa dell’ultima scossa, non sapendo neppure cosa avverrà nei prossimi giorni, ci si è preoccupati di evacuare. In modo particolare le monache sono partite, per andare alcune a Lecceto, altre a Montefalco.

D. – Voi invece come state? E, anche nella vostra struttura, nella vostra struttura, com’è la situazione?

R. – Nella nostra struttura, che è abbastanza sicura – almeno solo il Signore lo sa – siamo rimasti in tre. Gli altri confratelli sono partiti, almeno per qualche giorno, per attutire un po’ l’angustia dei problemi, del terremoto e della preoccupazione costante, anche per poter dormire in serenità. Per quanto riguarda la popolazione, questa è veramente provata, perché molte case – non ho percentuali – molte abitazioni sono inagibili e anche i negozi. Ad esempio, Cascia vive molto sull’aspetto alberghiero; penso che tutti gli alberghi siano chiusi, anche a Roccaporena ho visto. La Basilica è attualmente chiusa; non ci sono gravissimi danni, anche se ci sono alcuni particolari che hanno sicuramente bisogno di poter essere verificati per poter riattivare l’uso della Basilica. Io spero che, quanto prima, almeno la parte dove si trova l’urna di Santa Rita possa essere accessibile.

D. – La gente come sta?

R. – Da quello che ho visto hanno evacuato l’ospedale; alcuni malati che erano lì sono stati trasferiti in alcuni ospedali vicini. Sia la Protezione Civile che i Vigili del Fuoco hanno fatto il campo con le cose di cui hanno bisogno: tra queste chiaramente ci sono i generi alimentari. Tutto questo lo sta fornendo il personale della Protezione Civile.

D. – Ma lei ha avuto l’impressione che di Cascia si fosse parlato poco e che fosse stata un po’ dimenticata rispetto a luoghi più colpiti?

R. – Di Cascia si è parlato poco, veramente. Ieri, per la prima volta, ho avuto tre interviste. Non so se per dimenticanza o per difendere qualcosa, ma altrimenti non se ne è parlato molto.

D. – Voi siete i custodi della Basilica di Santa Rita. Santa Rita è il cuore di questa cittadina ed è anche il cuore di tutti i fedeli del mondo che vengono da voi. Come custodi di questo luogo santo, come vivete questo momento? C’è un po’ di smarrimento, un po’ di paura?

R. – Alcuni hanno più paura, altri un po’ meno. Non so da cosa sia data questa serenità, ma fa impressione: io attualmente sono nel viale che porta al Santuario; e sono solo, mentre sono abituato a vedere la moltitudine di persone – delle folle, dei devoti – e adesso non veder nessuno dà un’impressione da una parte di tristezza, dall’altra di dire: “Questo è quello che oggi il Signore ci chiama a vivere”.

D. – Pensavo a Santa Rita e anche a San Benedetto: questo cuore dell’Italia così ferito è anche il cuore profondamente religioso: è la terra di tanti Santi cari a tutta l’umanità dei fedeli. Cosa fare? Affidarsi, pregarli, rimettersi anche al loro modello di vita?

R. – Secondo me – ripeto – ci invitano sicuramente a riconsiderare un po’ tutta la nostra fede, ad affidarci ancora di più al Signore, e ad essere, in questo momento particolare, proprio dove tutto diventa fragile, relativo e precario – anche la povertà: qualcuno dice: “Ho perduto tutto…” –; tutto questo ci insegna sicuramente a vedere che cosa conta e che cosa vale nella nostra vita.

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Presidenziali Usa: Trump risale nei sondaggi dopo indagini Fbi

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A meno di una settimana dalle presidenziali negli Stati Uniti, il prossimo 8 novembre, si fa sempre più accesa la campagna elettorale. I sondaggi vedono in grande ripresa il candidato repubblicano Donald Trump e in calo la candidata democratica Hillary Clinton. Questo anche grazie alla nuova indagine dell'Fbi sul cosiddetto "emailgate" ovvero l’utilizzo da parte della Clinton, quando era segretario di Stato, di email e server privati per comunicazioni di importanza nazionale. Sempre l’Fbi ha reso pubblici i documenti di una vecchia indagine su Bill Clinton, riguardo una grazia concessa a un manager accusato di evasione fiscale e la cui moglie aveva fatto sostanziose donazioni alla sua campagna per le presidenziali. Ma sulla base di quali motivazioni voteranno gli americani? Clarissa Guerrieri ne ha parlato con Maurizio Molinari, direttore del quotidiano 'La Stampa' di cui è stato per anni corrispondente negli Stati Uniti: 

R. – Gli americani votano su una base di interessi singoli e di interessi nazionali, come ogni Paese: non c’è nessuna differenza tra gli Stati Uniti e le altre nazioni industrializzate. Esattamente nella stessa maniera, vengono influenzati da ciò che avviene a ridosso del voto: per questo, la tradizione americana vuole che la sorpresa di ottobre sia decisiva. Ciò che è avvenuto nel mese di ottobre è che di sorprese ve ne sono state più d’una. Sicuramente, una sorpresa è stato l’audio nel quale si sentiva Donald Trump offendere le donne con un linguaggio inappropriato; sicuramente una sorpresa è stata l’incapacità di Trump di tenere testa a Hillary Clinton nei dibattiti; sicuramente una sorpresa sono state le 11 donne che hanno rivelato di essere state abusate o molestate da Donald Trump; e sicuramente una sorpresa è stata la decisione dell'Fbi di riaprire l’indagine a carico di Hillary Clinton sulle e-mail sottratte al Dipartimento di Stato in ragione del fatto di averne ritrovate altre nel computer di Huma Abedin, la sua ex-collaboratrice, che oggi è la persona più vicina a Hillary-candidata. L’interrogativo è quale di queste sorprese peserà di più nelle urne. La sorpresa la sapremo nella notte dell’Election Day.

D. – In base a che cosa voteranno gli americani, secondo lei?

R. – La tradizione, in America, è che si vota – in genere – sulla base dell’economia. Gran parte delle elezioni che si sono svolte dall’indomani della Seconda Guerra mondiale sono state segnate da preoccupazioni di tipo economico. Nel caso specifico di questa elezione, sicuramente l’economia è stata il cavallo di battaglia di Trump così come Hillary Clinton ha tentato di farvi fronte presentando un proprio progetto economico sotto il nome di “giustizia economica”. E' proprio in ragione dell’indebolimento economico del ceto medio che esiste il popolo di Trump, che ha sostituito i conservatori come base del Partito repubblicano. Non c’è dubbio: le diseguaglianze economiche e l’indebolimento del ceto medio è il grande tema sociale di questa campagna elettorale.

D. – Dopo il Presidente Obama, che cosa vuole la gente?

R. – Che ci sia un’alternanza. E’ già avvenuto più volte che il Partito repubblicano e il Partito democratico si siano alternati dopo due mandati di seguito. Gli unici che sono riusciti a sommare tre mandati sono stati i repubblicani dopo il doppio mandato di Reagan, quando venne eletto Bush-padre. E da qui l’interrogativo sull’esito e il testa-a-testa del quale siamo spettatori.

D. – Che conseguenze avrà sulla politica economica dell’America il candidato che vincerà le elezioni?

R. – Sarà il leader del mondo libero e l’uomo più potente del mondo. Potrà cambiare come lui vuole la politica economica, la vita di migliaia di persone anche fuori dai confini. Guardando con la lente dell’economia, tuttavia, ho l’impressione che ci sia una convergenza tra Trump e Hillary sulla necessità di una maggiore attenzione al mercato interno, ovvero la possibilità che noi avremo delle amministrazioni più protezionistiche. Questo perché il protezionismo può essere una leva per riportare valore d’acquisto al ceto medio indebolito dentro i confini dell’America.

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Costa d'Avorio: al referendum approvata la nuova Costituzione

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Via libera alla riforma costituzionale in Costa d’Avorio: lo indicano i risultati del referendum di domenica scorsa, secondo i quali a esprimersi in favore dei cambiamenti voluti dal Presidente Alassane Ouattara è stato più del 93% dei votanti. Stando ai dati - riporta l'agenzia Sir - l’affluenza ha superato di poco il 42%. Avrebbero pesato il boicottaggio dell’opposizione e gli incidenti che si sono verificati in alcuni quartieri della capitale economica Abidjan. Uno degli articoli della nuova Costituzione abolisce il requisito di “ivorianité” per l’elezione alla presidenza, una condizione usata come strumento di lotta lungo tutto il decennio di conflitto civile e crisi politiche cominciato in Costa d’Avorio nel 2002. (R.P.)

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Emergenza in Sierra Leone: crescono fame e povertà

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Sono 3,5 milioni i cittadini della Sierra Leone (Africa),  che ad oggi soffrono la fame. Lo conferma un rapporto del Programma Alimentare Mondiale (Pam) e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione ed agricoltura (Fao). I civili soffrono per mancanza di cibo e carenze sanitarie, non riuscendo a riappropriarsi delle proprie vite e della ricchezza della loro terra. Ne ha parlato Enrico Casale, esperto di Africa per la rivista dei gesuiti Popoli e responsabile sezione news del sito di Africa, intervistato da Clarissa Guerrieri

R. – La Sierra Leone viene da un lungo periodo di grande crisi dal punto di vista politico e medico-sanitario. Dal punto di vista politico, teniamo presente che la Sierra Leone è stata sconvolta, negli anni Novanta e Duemila, da una guerra civile devastante, che ha contrapposto il governo al Fronte rivoluzionario unito. Questa, nell’immaginario collettivo, è rimasta l’immagine della guerra dei bambini-soldato, in cui erano stati impiegati i bambini; e delle mutilazioni che i ribelli operavano su chi non voleva combattere al loro fianco. Questa è stata una guerra che ha messo in ginocchio il Paese: un Paese che di suo è ricco, perché ha una posizione strategica, ma anche risorse naturali. A questa crisi si è aggiunta poi quella sanitaria, dell’Ebola, che ha provocato nell’arco di un anno e mezzo 3500 morti.

D. – In che modo è assicurato un supporto ai civili?

R. – Sul campo operano organizzazioni non governative; la stessa Chiesa è impegnata nello sviluppo. Il vero problema è che la popolazione è molto, molto povera. Il 70% della popolazione vive sotto il livello di povertà, con meno di due euro al giorno. Non solo, ma il 52% della popolazione è analfabeta.

D. – È sufficiente l’aiuto che viene recato?

R. – Non è mai sufficiente l’aiuto, si dovrebbe fare molto di più. Ma nel lungo periodo questo non basta: servono progetti che permettano al Paese di svilupparsi gradualmente.

D. – Perché c’è difficoltà per questo popolo?

R. – Perché partiva da condizioni terribili. La guerra civile, che è durata undici anni, ha distrutto qualsiasi struttura di carattere sociale ed economico. Le miniere sono state sfruttate in modo predatorio, solamente per alimentare di nuovo la guerra. E, nel momento in cui il Paese stava recuperando, è arrivata la “mazzata” dell’epidemia di Ebola.

D. – Ad oggi, quali risultati sono stati raggiunti?

R. – Il Paese è ancora un Paese problematico. Ho raccolto un po’ di dati, dal punto di vista soprattutto sanitario: pensiamo che, ancora oggi, muoiono nel Paese 2500 persone di Aids; c’è anche un’emergenza Aids. Questo ha portato negli anni un drastico abbassamento della vita media delle persone: oggi un sierraleonese, quando nasce, ha un’aspettativa di vita di 58 anni, che è veramente molto bassa se pensiamo che in Europa ormai si superano tranquillamente i 75, e ci si sta attestando sugli 80.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 307

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.