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Sommario del 04/11/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Messa del Papa per cardinali e vescovi defunti: testimoni dell'amore di Cristo

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“Alla luce del Mistero pasquale di Cristo, la loro morte è, in realtà, l’ingresso nella pienezza della vita”. Lo ha detto il Papa nell’omelia per la Messa in suffragio dei cardinali e dei vescovi defunti nel corso dell'anno, celebrata questa mattina nella basilica di San Pietro. "Alcuni di loro - ha sottolineato Francesco - sono stati chiamati a rendere testimonianza al Vangelo in maniera eroica, sostenendo pesanti tribolazioni". Alessandro Guarasci: 

Il mese di novembre è dedicato al ricordo dei morti. E a San Pietro il Papa prega per i cardinali e i vescovi defunti nell’anno. Francesco afferma che “in questa luce di fede, ci sentiamo ancor più vicini ai nostri Fratelli defunti: la morte ci ha apparentemente separati, ma la potenza di Cristo e del suo Spirito ci unisce in modo ancora più profondo”:

“Continueremo a sentirli accanto a noi nella comunione dei santi. Nutriti del Pane della vita, anche noi, insieme con quanti ci hanno preceduto, attendiamo con ferma speranza il giorno dell’incontro faccia a faccia con il volto luminoso e misericordioso del Padre”.

E appunto, riferendosi a cardinali e ai vescovi defunti, il Pontefice afferma che “con il loro ministero hanno impresso nei cuori dei fedeli la consolante verità che ‘grazia e misericordia sono per i suoi eletti’ (Sap 3,9). Nel nome del Dio della misericordia e del perdono, le loro mani hanno benedetto e assolto, le loro parole hanno confortato e asciugato lacrime, la loro presenza ha testimoniato con eloquenza che la bontà di Dio è inesauribile e la sua misericordia è infinita”.

 Il Papa li definisce “pastori del gregge di Cristo e, ad imitazione di Lui, si sono spesi, donati e sacrificati per la salvezza del popolo a loro affidato":

“Lo hanno santificato mediante i Sacramenti e lo hanno guidato sulla via della salvezza; pieni della potenza dello Spirito Santo hanno annunciato il Vangelo; con amore paterno si sono sforzati di amare tutti, specialmente i poveri, gli indifesi e i bisognosi di aiuto. Per questo, al termine della loro esistenza, pensiamo che il Signore ‘li ha graditi come l’offerta di un olocausto’ . Ora noi siamo qui a pregare per loro, ad offrire il divino Sacrificio in suffragio delle loro anime e chiedere al Signore di farli risplendere per sempre nel suo regno di luce”

Francesco poi ricorda che “Il cammino verso la casa del Padre comincia, per ciascuno di noi, nel giorno stesso in cui apriamo gli occhi alla luce e, mediante il Battesimo, alla grazia. Una tappa importante di questo cammino, per noi sacerdoti e vescovi, è il momento in cui pronunciamo l’ “eccomi!” durante l’Ordinazione sacerdotale. Da quel momento siamo in modo speciale uniti a Cristo, associati al suo Sacerdozio ministeriale”.

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Francesco: vincere l'indifferenza, accogliere profughi e rifugiati

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Superare l’indifferenza, accettare l’altro. E’ quanto chiede Papa Francesco nel videomessaggio per l’intenzione di preghiera del mese di novembre. Il Pontefice torna a esortare un “impegno di solidarietà” a sostegno di quei Paesi che “accolgono un grande numero di profughi e rifugiati”. Il servizio di Alessandro Gisotti

“Può un paese far fronte da solo alle difficoltà che  produce la migrazione forzata?”. E’ la domanda che Papa Francesco rivolge a tutti noi nel videomessaggio per l’intenzione di preghiera del mese di novembre. Il Papa torna a parlare del tema a lui caro della cura dei migranti ed esorta a superare "la indifferenza e la paura di accettare l'altro”. Mentre scorrono le immagini con i volti di persone di diversa etnia il Papa ribadisce che “l’altro” potrebbe essere ognuno di noi. Di qui, l’esortazione ad unirsi alla sua preghiera: “Perché i Paesi che accolgono un grande numero di profughi e rifugiati siano sostenuti nel loro impegno di solidarietà”.

E mentre il Papa torna a chiedere accoglienza e solidarietà per gli immigrati, proprio in queste ultime ore una nuova strage di migranti nel Mar Mediterraneo. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ieri sono morti 239 migranti, dopo il naufragio di alcuni barconi a largo delle coste Nordafricane. L'Europa come deve dunque reagire di fronte a questa ennesima tragedia del mare? Alessando Guarasci lo ha chiesto al direttore della Fondazione Migrantes della Cei, mons. Giancarlo Perego

R. – Di fronte a queste nuove morti nel Mediterraneo - che fanno salire a oltre 4 mila i morti nel 2016, un numero mai raggiunto negli ultimi anni - cresce e si aggrava effettivamente la responsabilità dell’Europa nel disattendere ancora l’impegno di costruire vie legali di ingresso, corridoi umanitari, tra le persone che sono in fuga. Oltre anche ad aumentare le morti, questa indifferenza dell’Europa è ancora più grave perché in continuazione si rimanda quel Piano Marshall per l’Africa che non sia semplicemente un trattenere i migranti nei Paesi di origine ma sia veramente un impegno serio nella cooperazione allo sviluppo. Quindi sono morti che richiamano non solo l’impegno per vie legali e i corridoi umanitari ma l’impegno per una cooperazione che ancora manca.

D. – Questa mancanza di impegno, secondo lei, a che cosa è dovuta? Alle divisioni all’Europa, a problemi di bilancio?

R. – Sono dovute soprattutto al fatto che l’Europa è incapace di uscire dalla logica di chiusura verso la quale alcuni Stati stanno andando e non invece aprirsi a una logica di impegno per lo sviluppo nei Paesi di origine delle persone migranti. Quindi, la mancanza del ricollocamento di 160 mila persone è un segno molto chiaro di questa chiusura e i rimandi continui di un impegno per la cooperazione è una situazione che effettivamente dimostra come l’Europa è incapace di leggere anche il futuro delle migrazioni che necessariamente interesseranno ancora una volta l’Europa.

D. – Lei mi sembra pessimista, guardando se non altro la situazione attuale. Se ne può uscire in qualche modo secondo lei?

R. – Se ne può uscire se effettivamente si esce da questa logica di chiusura e si ottimizzano al meglio le risorse che l’Europa ha a disposizione nelle due direzioni. In primo luogo superando la volontarietà dell’accoglienza e quindi questo ricollocamento dei 160 mila in tutti i 28 Paesi europei. In secondo luogo facendo in modo che le risorse non siano semplicemente per l’accoglienza ma vadano per percorsi di integrazione. L’Europa ha bisogno di nuovi lavoratori, l’Europa ha bisogno anche di questa risorsa importante dei migranti. In terzo luogo, l’Europa potrebbe dare un segnale molto forte in un impegno di politica estera che vada effettivamente nella direzione della pace, soprattutto nel Medio Oriente e in alcuni Paesi africani, cosa che invece continuamente viene rimandata, e non si vorrebbe che la logica sia quella del guadagnare di più anche negli armamenti venduti a questi Paesi.

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Papa a vescovi francesi: aprite cammini di speranza e misericordia

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Aiutate i concittadini francesi a “rafforzare la speranza e a ricercare il bene comune”. Lo scrive Papa Francesco in un messaggio - a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin - ai partecipanti alla Plenaria dei vescovi francesi, riuniti in questi giorni a Lourdes. Il Papa ricorda che la Francia vive in un contesto “ancora segnato” dai gravi attentati che l’hanno colpita e nella prospettiva dell’importante tornata elettorale. Ai presuli, Francesco chiede dunque di aprire “cammini nuovi” affinché gli anni a venire “siano impregnati di misericordia per andare incontro a ciascuno offrendogli l’amore e la tenerezza di Dio”. Rammentando quindi il 60.mo anniversario della “Missione operaia”, il Pontefice invita ad “avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno del Vangelo”. (A.G.)

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A Roma, Assemblea della Renate sulla tratta di esseri umani

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La tratta, una piaga ancora oggi da sconfiggere. Stamani, presso la Sala Stampa della Santa Sede, è stata presentata la seconda assemblea della Renate, l'organizzazione religiosa che si occupa del triste fenomeno, che interessa vaste zone soprattutto del Terzo Mondo. Tema dell'incontro, che si terrà a Roma dal 6 al 12 novembre prossimi, "La fine del traffico degli esseri umani comincia con noi". Giancarlo La Vella ne ha parlato con una delle relatrici, la suora nigeriana Monica Chikwe, della Renate: 

R. – Oggi la tratta degli esseri umani è un fenomeno, che io chiamo “cancro moderno”, che sta devastando la società, le famiglie e la vita di molti. Quindi va combattuto.

D. – Lei, tra l’altro, viene da un Paese come la Nigeria che vive in prima persona questo dramma …

R. – La Nigeria è uno dei Paesi di origine di tante di queste ragazze che vengono in Europa per lo sfruttamento sessuale. Quando diciamo traffico di esseri umani, intendiamo sia per sfruttamento sessuale, sia per il lavoro nei campi, lavori non remunerati e sia anche per l'espianto di organi. Abbiamo anche traffico di persone per trasportare droga … ci sono quindi varie forme di tratta di esseri umani.

D. – Cosa può fare la società civile, cosa può fare la Chiesa?

R. – Tutti dobbiamo fare qualche cosa, non solo la società, non solo la Chiesa. Prima di tutto la società e lo Stato, devono fare in maniera che le leggi che si fanno si preoccupino veramente di punire chiunque venga trovato colpevole. Ma la legge deve essere applicata! Un’altra cosa è combattere i fattori principali di questo fenomeno, che sarebbero i consumatori e i trafficanti. La Chiesa sta facendo tanto, specialmente tramite le suore. Quante suore, fin dal 1980, hanno iniziato ad aprire le loro case per farle diventare case di accoglienza per queste ragazze, perché avevano capito che le ragazze sono sulla strada non perché vogliano stare sulla strada, ma perché qualcuno le mette lì! Per questo, loro fanno di tutto per accogliere, salvare e riabilitare queste ragazze.

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Nomine episcopali di Papa Francesco

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Le nomine di Papa Francesco. Consulta il Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede.

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Albania: Beatificazione a Scutari di 38 martiri vittime del comunismo

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Domani a Scutari, in Albania, il Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi il cardinale Angelo Amato, presiederà la Beatificazione di 38 martiri, torturati ed uccisi dalla dittatura comunista negli anni ‘40. Un regime ateo che ha colpito cattolici, ortodossi e musulmani. Si tratta di un gruppo composto da due vescovi, 21 sacerdoti diocesani, 7 francescani, 3 gesuiti, un seminarista e 4 laici. L’arcivescovo di Scutari mons. Angelo Massafra ricorda la loro testimonianza al microfono di don Davide Djudjaj 

R. – I martiri hanno vissuto la loro vita intanto soffrendo ingiustamente, perché tutti sono stati messi in carcere e accusati ingiustamente di essere nemici del popolo, di essere sabotatori, di essere sobillatori, di essere spioni del Vaticano, eccetera; venivano ingiustamente messi in carcere anche per una parola … c’era questo clima di terrore che ha veramente disumanizzato parte del popolo albanese. E molti sono stati uccisi, non soltanto della Chiesa cattolica, ma anche gli altri; anche se il dittatore si era scatenato soprattutto contro la Chiesa cattolica, uccidendo la maggior parte dei preti di allora, mettendoli in carcere … alcuni sono morti anche durante le torture …

D. – Cosa significa per la realtà albanese questa testimonianza così luminosa e straordinaria che hanno offerto i martiri in quel periodo di buio e di persecuzione?

R. – La speranza che Dio è Dio ed è sempre vicino a chiunque soffra. Abbiamo tante testimonianze del fatto che tutti questi martiri, nel periodo in cui sono stati in carcere, sono stati di aiuto, di sostegno morale, economico … alcuni portavano la loro razione di cibo, per poca che fosse, agli altri, ai bisognosi che soffrivano la fame, pur di dare speranza, di consolarli. Questo dimostra come Dio, anche nelle carceri, abbia operato attraverso i sacerdoti. E quando sono andati per essere fucilati, nessuno ha avuto sentimenti di odio o di disperazione; tutti con il volto sereno, decisi – certamente nella sofferenza – di offrirsi a Dio e di essere fedeli a Dio, alla Chiesa, al Papa.

D. – Così l’Anno della Misericordia per la Chiesa albanese si chiude nel miglior modo possibile?

R. – Si chiude in bellezza, potremmo dire, perché realmente sono due anni molto belli che abbiamo vissuto: con la venuta del Papa, due anni fa, poi nel 2015 abbiamo celebrato il 25.mo della prima Messa fatta al cimitero, quindi la libertà: è stato il primo segno di libertà e l’abbiamo fatto noi cristiani a Scutari, celebrando la Messa al cimitero. Poi, dopo, si sono aperte le moschee … E poi abbiamo avuto Madre Teresa, e così già abbiamo questo dono … Poi, grazie a Papa Francesco, abbiamo avuto anche il dono di un cardinale, un dono insperato … Ecco, sono tutte queste cose che rendono gioia. Dall’altra parte, dimostrano anche che ai doni bisogna rispondere con l’impegno; quindi l’impegno nostro, della Chiesa, dei fedeli a corrispondere ai doni che il Signore ci dà.

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Card. Parolin: la Chiesa è vicina alla gente colpita dal sisma

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Stamattina il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge che prevede nuovi interventi urgenti in favore delle popolazioni e dei territori del Centro Italia interessati dal terremoto. Secondo fonti ministeriali, il testo necessita ancora di alcune limature e la sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale dovrebbe avvenire agli inizi della prossima settimana. Il decreto dovrebbe contenere, tra l'altro, l'ampliamento del numero dei comuni colpiti, norme per lo snellimento delle procedure e misure nell'ambito della scuola, del patrimonio artistico e dell'agricoltura. Confermato lo stanziamento di fondi
per gli allevatori pari a 11 milioni.

Ieri, a margine di un convegno a Bologna, il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha parlato della difficile situazione causata dal sisma. Ascoltiamo le sue parole: 

R. – Ho visto anche nel giornale di oggi, quanti parroci, quanti sacerdoti, sono vicini ai loro fedeli. Ed è questo il principale contributo, ecco. Quello che il Papa dice sempre: la Chiesa della prossimità, la Chiesa che si fa vicina all’uomo che soffre. In questo momento, questi nostri fratelli e queste nostre sorelle stanno soffrendo molto. E’ una situazione davvero drammatica: la Chiesa è lì che condivide prima di tutto e poi, naturalmente, che aiuta, con le sue opere, le sue iniziative, e dà una parola di speranza. In questo momento c’è anche bisogno di avere un po’ di speranza, di guardare al futuro. Ho sentito dire che c’è la volontà di ricostruire tutte le chiese e credo che questo significhi anche una dimensione simbolica, perché ricostruire la chiesa vuol dire anche ricostruire la comunità, ricostruire un tessuto che è andato perduto con il terremoto e che ha bisogno di essere ricomposto per dare vita e dare speranza a queste popolazioni.

Anche il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nello stesso evento di Bologna, ha rinnovato la sua vicinanza ai terremotati:

R.  – L’attenzione fondamentale deve essere data ai terremotati perché questa è una situazione gravissima che riguarda una gran parte del Paese, di queste popolazioni, che danno un esempio di grande dignità e di grande coraggio. Sono stato recentemente, tornerò la prossima settimana in queste zone, in modo particolare Spoleto e Norcia, e porterò la vicinanza dei vescovi italiani. Vedo quanto questa gente sia determinata a ricominciare, a riprendere e non allontanarsi dalla proprie terre.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Un articolo di Lucetta Scaraffia dal titolo “Stupirsi leggendo la Bibbia”: tra filologia e psicoanalisi.

Giubileo dei carcerati: gli articoli di Sabina Fadel e Dario Edoardo Viganò.

Bambini in fuga da Mosul.

Un articolo di Maurizio Gronchi dal titolo “Liberati per grazia”: dal conflitto alla comunione.

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Oggi in Primo Piano



Patriarca Raï: libanesi felici dopo fine lunga crisi istituzionale

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Da ieri, il Libano ha un nuovo premier. Il neopresidente della Repubblica, Michel Aoun, ha dato a Saad Haariri il compito di formare un nuovo governo. Già primo ministro da novembre 2009 a gennaio 2011, 46 anni, sunnita, e vicino all’Arabia Saudita, Saad Hariri è figlio dell’ex premier Rafiq Hariri, ucciso in un attentato a Beirut nel 2005. Dopo l’elezione dei giorni scorsi, da parte del Parlamento, del nuovo presidente Aoun, la nomina di Hariri contribuisce alla ripresa della vita istituzionale libanese, che aveva subito uno stallo da oltre due anni. Sul futuro politico, sociale ed economico del Paese, Francesca Sabatinelli ha intervistato il cardinale Bechara Raï, Patriarca di Antiochia dei Maroniti: 

R. – Noi ora abbiamo un presidente, quindi tutto funziona, perché erano due anni e mezzo che era tutto bloccato: Parlamento, governo, tutto, perché senza testa il corpo è inerte! Quindi, adesso si comincia ad andare avanti: le sfide sono enormi! Dopo due anni e mezzo di vuoto presidenziale e di sospensione di tutte le funzioni pubbliche, si possono immaginare i problemi, prima di tutto quello politico, di riconciliazione interna – che comunque non è tanto difficile – poi quello economico, con i debiti aumentati in modo tremendo e c’è la questione del milione e mezzo di profughi siriani, più mezzo milione circa di palestinesi. La metà della popolazione libanese è composta di profughi, mentre il Libano affronta una fortissima crisi economica. Un terzo della popolazione libanese vive sotto il livello di povertà, poi c’è l’emorragia migratoria. Tutto questo fa parte delle sfide che il governo, il presidente della Repubblica e le istituzioni si trovano a dover affrontare.

D. – Alla luce di queste nuove istituzioni, in qualche modo si può pensare a una stabilità del Libano?

R.  - Certo, certo. Il discorso del presidente, il suo primo discorso, si è basato tutto sulla stabilità politica, economica, sociale e della sicurezza. Certamente questo ha dato stabilità. Comunque, durante questo "vuoto" il popolo libanese ha creato la stabilità, veramente, però tutto era paralizzato. Adesso c’è una forte speranza nel popolo libanese, stanno respirando la speranza che possiamo andare avanti. I libanesi in genere sono coraggiosi nell’affrontare i problemi.

D. – E’ una mano, quella di Saad Hariri, che già si conosce …

R. – Sì, abbiamo due braccia veramente forti. Sia il presidente della Repubblica che il premier Hariri sono conosciuti. Ringraziamo Iddio, vuol dire che il Signore veglia su questo Paese e che tutti hanno pregato per la stabilità, e non possiamo dimenticare l’augurio e l’incessante opera del Santo Padre Francesco. Ogni volta che se ne è presentata l’occasione, sia a livello internazionale sia a livello nazionale, Papa Francesco sempre ha ricordato il problema della presidenza libanese. Noi vogliamo esprimere, tramite la voce della Radio Vaticana, la nostra riconoscenza al Santo Padre, che ha lavorato molto. Io, personalmente, ho sempre sollecitato il Santo Padre, ogni volta che mi trovavo a Roma e anche per iscritto, la sua mediazione presso i grandi del mondo e presso la comunità nostra per l’elezione del presidente. Ringraziamo Iddio perché siamo arrivati! Quindi, il popolo libanese è in festa.

D. – Quindi la Chiesa maronita è in festa …

R. – Certo, la Chiesa maronita, i musulmani, i cristiani di tutte le confessioni, sono tutti contenti e felicissimi perché l’accordo e il consenso che per miracolo, così, si è concentrato sulla persona del presidente e poi il consenso unanime per Hariri: questo fa la festa per tutti i libanesi, cristiani e musulmani. Dobbiamo congratularci tutti insieme perché il Libano – così ci auguriamo – possa riprendere, come diceva San Giovanni Paolo II, il suo ruolo di "messaggio" nella regione del Medio Oriente. Comunque, tutti sanno che i cristiani e i musulmani in Medio Oriente guardano al Libano come un Paese-modello da conservare.

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L'Alta Corte di Londra: sulla Brexit voti il Parlamento

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Una decisione che potrebbe ribaltare il volere del popolo britannico di uscire dall’Unione Europea. Si tratta del pronunciamento dell'Alta Corte di Londra, che ha accolto il ricorso degli attivisti pro Bruxelles. La sentenza rappresenta una forte delegittimazione del processo di distacco dall’Ue avviato dal governo di Theresa May. La premier prende le contromisure e avrà sulla questione un colloquio telefonico con il presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker. Il servizio di Giancarlo La Vella

I sostenitori dell’intangibilità del patto tra Londra e Unione Europea hanno ottenuto che sulla Brexit, dopo il referendum, si pronunci in maniera vincolante anche il Parlamento di Westminster e i sondaggi da sempre dicono che la maggioranza è favorevole a rimanere con Bruxelles. L’Alta Corte ha dato così torto al governo di Theresa May, che rivendica, proprio sulla base della pronuncia popolare, il pieno diritto d'invocare direttamente l'art. 50 del Trattato di Lisbona, che prevede il recesso volontario e unilaterale di un Paese dall'Unione Europea. La premier sembra però determinata ad andare avanti nei piani già decisi sull’uscita dall’Unione e ha annunciato appello contro la decisione dei giudici, che a questo punto rischia di rallentare di molto i tempi della Brexit. Sulla presa di posizione dei giudici britannici, sentiamo Raffaele Marchetti, docente di Relazioni Internazionali all’Università Luiss: 

R. – Quello che verosimilmente ci possiamo aspettare è un ritardo del processo. La premier May aveva fissato l’inizio delle negoziazioni per l’uscita dall’Unione Europea nei primi mesi del 2017; questo tipo di sentenza potrebbe portare un ritardo. Ma io sinceramente non mi aspetto che il Parlamento si prenda una responsabilità così grossa di contraddire e negare un’indicazione così chiara del referendum.

D. – Però c’è la sensazione che ci sia una certa spaccatura nel Paese…

R. – Certo, la spaccatura c’è. Ma penso che andrebbe contro tutte le tradizioni democratiche ormai secolari della Gran Bretagna, e soprattutto porterebbe il Paese a una crisi politica gravissima, che avrebbe delle conseguenze decisive nella prossima tornata elettorale. Cioè, alle prossime elezioni i Conservatori e i Labour verrebbero spazzati via dalle forze anti-sistema.

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Siria: regge la tregua ad Aleppo, ma si combatte nei dintorni

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In Siria è iniziata questa mattina alle 9:00 ora locale la nuova tregua umanitaria di dieci ore decisa unilateralmente dalla Russia. Sospesi i bombardamenti ad Aleppo, anche se si combatte nei sobborghi periferici della città. Il servizio di Michele Raviart

Regge la tregua ad Aleppo, per permettere ai ribelli siriani e ai 275 mila residenti di lasciare gli assediati quartieri orientali della città. La situazione è relativamente tranquilla e non si registrano azioni militari né da parte dell’esercito siriano e dei suoi alleati né da parte delle opposizioni. Aperti corridoi umanitari per combattenti e civili, anche se finora non sono stati utilizzati e c’è il timore che questa pausa possa essere il preludio a una massiccia offensiva russo-siriana nelle aree controllate dai ribelli.

L’obiettivo degli insorti è quello di rompere l’assedio ai quartieri orientali. La tregua non è rispettata nelle zone periferiche della città e nei sobborghi vicini. Combattimenti tra lealisti e ribelli sono in corso a nord e a sud, dopo che nella notte di ieri gli insorti hanno bombardato i quartieri occidentali controllati dal governo. Dodici i civili uccisi, anche se i media di Stato parlano di circa duecento morti. Ad ovest di Aleppo aerei da combattimento filo governativi stanno colpendo le linee di rifornimento dei ribelli, mentre a 24 chilometri dalla città è stato bombardato il villaggio di Atareb.

“Aleppo è diventata il simbolo di questo conflitto”, ha affermato l’inviato delle Nazioni Unite Staffan De Mistura, che ha ricordato come ieri colpi di mortaio e razzi abbiano colpito la parte ovest, sfiorando una chiesa, mentre nella parte est siano state usate contro palazzi civili bombe progettate per distruggere hangar aerei di cemento armato. “Alcuni, in particolare il governo”, ha proseguito De Mistura, “pensano che prendendo Aleppo la guerra finirebbe ma non è così. Non ci sarà un vincitore e un vinto, gli unici vinti sono i civili siriani. Abbiamo proposte politiche, ma quando le parti in causa sono convinte di poter vincere con una soluzione militare è difficile aprire il dialogo”.

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Iraq. Capi Chiese cristiane: nostra unità per riconciliare il Paese

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Nella fase delicata che sta attraversando la nazione irachena, davanti alle prospettive incerte che si apriranno dopo la totale liberazione di Mosul dalle milizia jihadiste del sedicente Stato Islamico (Daesh), i cristiani sono chiamati a manifestare anche a livello operativo la loro unità, non solo per tutelare le proprie prerogative di componente nazionale, ma anche per favorire la riconciliazione di tutto il popolo iracheno ed evitare che l'imminente recupero dei territori ancora in mano ai jihadisti scateni spinte centrifughe e ulteriori derive settarie. E' questa la prospettiva indicata dai Capi delle Chiese cristiane radicate nella regione e di molti tra i rappresentanti politici cristiani operanti sia nel Parlamento nazionale sia nel Parlamento della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, che si sono riuniti ieri, ad Ankawa – distretto a maggioranza cristiana di Erbil – per riflettere ed elaborare proposte sul futuro che attende il Paese dopo la liberazione di Mosul.

I cristiani esprimano una posizione unitaria
All'incontro - riferisce l'agenzia Fides - hanno preso parte, tra gli altri, il Patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, il Patriarca Mar Gewargis III Sliwa, Primate della Chiesa assira d'Oriente, e Nicodemus Daoud Matti Sharaf, Metropolita siro ortodosso di Mosul. E' importante – riferisce il resoconto dell'incontro - che i cristiani si mostrino all'altezza delle responsabilità richieste dal momento, ed esprimano una posizione unitaria nell'affrontare i problemi e le emergenze presenti. Anche perchè, riguardo a quanto avverrà dopo la liberazione di Mosul, già si percepisce l'assenza di un progetto politico chiaro, e una pluralità di scenari possibili.

Le Chiese si asterranno da dichiarazioni provocatorie e critiche divisive attraverso i media
Tra i punti discussi durante l'incontro, elencati nel resoconto ripreso dalla Fides, viene rimarcata innanzitutto l'opportunità per la componente cristiana di muoversi in maniera unitaria sulla scena sociale e politica irachena, mantenendo l'identità dei singoli gruppi, ma evitando che ogni singola Chiesa e comunità – anche differenziabili secondo criteri etnici - perseguano ognuna le proprie istanze in maniera isolata, e soprattutto evitando reciproche intolleranze, visto che “la nostra forza risiede nella nostra unità”. Per questo i Capi delle Chiese e i politici cristiani hanno dato anche l'indicazione di astenersi da dichiarazioni provocatorie e critiche divisive attraverso i media. 

Contrastare con ogni mezzo legale la modifica degli assetti demografici delle aree liberate
Tra le emergenze da affrontare, segnalate con forza dagli interventi di molti partecipanti, la necessità di contrastare con ogni mezzo legale la modifica degli assetti demografici delle aree liberate, garantendo il ritorno degli sfollati e prevedendo misure giuridiche che consentano alle singole comunità etnico-religiose di avere un ruolo nella gestione politica e amministrativa delle aree di insediamento, nel rispetto di quanto stabilito della Costituzione. Durante la riunione è anche emersa la proposta di creare una squadra di persone cristiane competenti nelle questioni relative alla politica, all'economia e alle dinamiche sociali, che diventi uno strumento operativo abilitato a offrire alle istituzioni il contributo di proposte e suggerimenti da parte delle comunità cristiane, a favore del processo di riconciliazione nazionale. (G.V.)

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A Bologna convegno su Benedetto XV, Papa della pace

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Benedetto XV, al tempo della Prima guerra mondiale, cercò in tutti i modi di fermare il conflitto che cambiò per sempre il volto del Vecchio Continente. Fu un profeta, e come spesso accade ai profeti, rimase inascoltato. Ieri a Bologna ha preso il via un Convegno internazionale su di lui, Papa Giacomo Della Chiesa. Per tre giorni si confronteranno studiosi ed esperti. Il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin ha aperto i lavori promossi dalla Presidenza del consiglio, dalle diocesi di Bologna e Genova e dalla Fondazione per le Scienze religiose “Giovanni XXIII”. Il servizio di Luca Tentori

Porta proprio la data di oggi, 4 novembre, il “Bollettino della Vittoria” del generale Armando Diaz che nel 1918 poneva fine alla Prima guerra mondiale per l’Italia. Ma in quegli anni tutti persero sotto le armi. I grandi sforzi di Benedetto XV, che si affacciava alle cancellerie d’Europa con la nuova ed inedita realtà della diplomazia vaticana, non evitarono quella che lui stesso definì con forza "inutile strage" e “suicidio dell’Europa”. Dieci milioni di morti rimasero sul terreno e molti di più tra i civili patirono la fame, gli stenti e le malattie. A ricordare la sua figura, ieri a Bologna ad una tre giorni di studio, l’intervento del segretario di Stato vaticano il cardinale Pietro Parolin:

“Un Papa che fu diplomatico nel senso più alto del termine, affermando con le parole proprie di un mestiere delicato la sollecitudine per l’uomo reale e la vita concreta delle comunità civili e religiose. E insieme un Papa che toccò con mano come promuovere la pace non sia qualcosa di estrinseco alla missione della Chiesa ma parte essenziale del suo compito davanti alla storia e davanti al Vangelo. In Della Chiesa questo era uno stile”.

Scriveva Benedetto XV nel 1914: “La saggezza cristiana è ciò che garantisce la quiete e la stabilità nelle istituzioni”. A citarlo il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, che ha ribadito il suo messaggio ancora attuale per l’Europa.

“Un popolo senz’anima di ordine spirituale non riesce ad essere un popolo, cioè una comunità di vita e di destino, ma sarà un agglomerato di individui, oppure di Stati”.

E a proposito della situazione internazionale di oggi ha aggiunto:

“Le parole così forti di Papa Francesco sul tema della pace veramente trovano una grande eco e approfondimento nelle parole di papa Francesco. E purtroppo possiamo dire che ce ne è ancora tanto bisogno, pur in circostanze e in una situazione storica decisamente diversa, però con delle preoccupazioni che sono molto simili”.

La sua immensa opera, anche con la “Lettera ai capi delle nazioni belligeranti” del primo agosto 1917, agli occhi del mondo parve un fallimento. “Ma lui più di tutto – ha ricordato l’arcivescovo di Bologna mons. Matteo Zuppi, suo successore sulla cattedra di San Petronio – chiese a Dio la sapienza del cuore, per poter guardare la storia con gli occhi delle vittime”. E fece la sua parte, fino in fondo, anche nell’ambito caritativo.

“L’essere ‘super partes’ non significa non dire nulla per non causare dispiacere o possibili equivoci. Occorre essere determinati, e ce lo insegna Benedetto XV: attori liberi, che inequivocabilmente, anche a costo di reazioni – e il poveretto ne ha avute parecchie – prendono con intelligenza, con capacità, la parte della pace, del dialogo, della conoscenza dei problemi, proprio perché interessati e partecipi solo al bene dell’uomo e dell’unica casa comune che la guerra mette in pericolo e distrugge”.

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50 anni fa l'alluvione che devastò la città di Firenze

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50 anni fa l’alluvione dell’Arno che mise in ginocchio la città di Firenze. Trentacinque le vittime e danni enormi al  patrimonio artistico: migliaia i volumi e i manoscritti sommersi dal fango nei magazzini della Biblioteca Nazionale Centrale, come le moltissime opere conservate nei depositi degli Uffizi. Simbolo della tragedia diventa il Crocifisso di Cimabue conservato nella Basilica di Santa Croce che solo dopo un restauro durato anni viene restituito alla città e al mondo. Molte oggi le iniziative per ricordare l’anniversario. Stamattina le commemorazioni ufficiali con la presenza del premier Matteo Renzi e nel pomeriggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Nell'enciclica 'Laudato sì' di Papa Francesco "non c'è spazio per il fatalismo; c'è un invito a fare tutto ciò che si deve per mettere in opera quanto può proteggere il nostro territorio”, ha detto l'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori nell'omelia alla messa celebrata per l’occasione.

Ieri nel Cortile della Dogana di Palazzo Vecchio, è stata scoperta la lapide che ricorda la tragedia e ringrazia i fiorentini e i cosiddetti 'angeli del  fango' che arrivarono da tutto il mondo per aiutare la città. Al microfono di Luca Collodi, Antonina Bargellini, figlia di Piero Bargellini, sindaco di Firenze ai tempi dell’alluvione, ricorda quel 4 novembre 1966 e l’impegno del padre per far ripartire la sua città: 

R. – Certo, lo ricordo benissimo perché avevo 22 anni. Mio padre fu chiamato prestissimo la notte perché avevano paura che crollasse il Ponte Vecchio; e praticamente non tornò più a casa: rimase tutta la notte nel Palazzo Vecchio. Mio padre prese Firenze come la sua famiglia e cominciò a lavorare giorno e notte per cercare di aiutare; non solo cercare di fare appelli per le opere d’arte, ma anche per la povera gente. E in più, la sua preoccupazione fu che il governo da principio non capì esattamente qual era stata la catastrofe. Poi, quando si accorse che i soldi stanziati per le opere d’arte superavano quelli per la povera gente, disse una frase che per mio padre era un po’ particolare, dato che era sempre stato un uomo amante della storia dell’arte, disse: “Basta con ‘Il Cristo del Cimabue’, pensiamo ai poveri cristi”, gente che aveva perso la casa, artigiani che avevano perso il lavoro… E la sua preoccupazione fu di aiutare immediatamente questa gente e cercare il prima possibile di rimettere in moto la città dopo aver fatto la pulizia a questa immane tragedia. Non era solo l’acqua, ma è stato il fango: una cosa veramente tremenda che è durata giorni, mesi… un misto di fango, vetri, di tutto: fogne, animali, carogne…

D. – Dottoressa Bargellini, lei attualmente sta lavorando a un museo virtuale proprio sull’alluvione, e per questo sta andando molte volte nell’archivio di Palazzo Vecchio del comune di Firenze per acquisire documenti. E qui c’è una prima novità, perché noi parliamo sempre degli “angeli del fango”, ma dobbiamo dire che gli aiuti a Firenze arrivarono da tutte le parti del mondo: lei sta proprio lavorando su questi documenti…

R. – Arrivarono non solo da tutte le parti del mondo, ma anche dagli studenti che non poterono venire a Firenze, e che organizzarono feste, rinunciarono al Natale e a tutte le cose per mandare i soldi. Ma più che altro anche i bambini: bambini del Giappone che lavorarono tre o quattro mesi in montagna per far tornare il sorriso ai bambini di Firenze; bambini di Bahia San Salvador - delle favelas - che mandavano magari un niente, ma perché comunque a Firenze avessero da parte loro una dimostrazione. Poi bambini americani, che avevano aiutato in casa le mamme, le nonne, per mandare i soldi, dicendo: “Signor Sindaco, se ha bisogno di noi veniamo o sennò le mandiamo questi pochi soldi con grande amore”. Ma non solo: Paesi dell’Africa. Ho scoperto 90 Paesi che hanno aiutato Firenze in maniera forte, Paesi che non ci si aspetta: dal Sud Africa al Congo, l’Eritrea, l’Afghanistan, l’Argentina, Costa Rica, la Turchia, la Tunisia, il Marocco, il Senegal, la Nuova Zelanda… Le faccio un esempio: dalla Somalia arrivò una nave di banane; dalla Tunisia si offrivano a donare il sangue per i fiorentini. Perciò, non fu solo l’America che aiutò in maniera enorme, ma anche l’Iran, la Siria - Paesi che adesso ci sembra impossibile… – il Nepal, l’India: tutti questi Paesi ci mandarono gli aiuti. Le racconto l’episodio per me in assoluto più toccante di tutti quelli che ho trovato in queste ricerche: l’episodio di Aberfan. Aberfan è un paesino del Galles: è un paesino di minatori, di gente che lavorava con fatica – un paese duro, di minatori di carbone – il 21 ottobre del 1966 crollò una montagna di carbone,  che distrusse la scuola e uccise 150 bambini. Questo paese rimase senza bambini: questo successe il 21 ottobre del ‘66; il 10 novembre partì da Aberfan un pullman guidato da un certo sig. Phillips che portava vestiti, coperte e giocattoli di questi bambini per i bambini di Firenze.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 309

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