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Sommario del 12/11/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa all'ultima udienza giubilare: Dio non esclude nessuno

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Misericordia e inclusione: questo il tema scelto da Papa Francesco per la sua catechesi all’udienza di stamattina in Piazza San Pietro. Si tratta dell’ultima udienza giubilare del sabato nel corso di questo Anno Santo straordinario della Misericordia. Nei saluti ai fedeli un pensiero ai cristiani perseguitati nel Medioriente. Il servizio di Adriana Masotti

 “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Le parole di Gesù tratte dal Vangelo di Matteo, descrivono lo stile di Dio, un Dio che, dice il Papa, nel suo disegno d’amore, non vuole escludere nessuno, ma vuole includere tutti”:

"E noi cristiani siamo invitati a usare lo stesso criterio: la misericordia è quel modo di agire, quello stile, con cui cerchiamo di includere nella nostra vita gli altri, evitando di chiuderci in noi stessi e nelle nostre sicurezze egoistiche".

Questo aspetto della misericordia, l’inclusione, continua Francesco, si manifesta nello spalancare le braccia per accogliere senza escludere;

"… senza classificare gli altri in base alla condizione sociale, alla lingua, alla razza, alla cultura, alla religione: davanti a noi c’è soltanto una persona da amare come la ama Dio. Quello che trovo, nel mio lavoro, nel mio quartiere, è una persona da amare, come ama Dio. “Ma questo è di quel Paese, dell’altro Paese, di questa religione, di un’altra… È una persona che ama Dio e io devo amarla”. Questo è includere, e questa è l’inclusione".

Il Vangelo, afferma il Papa, ci chiama a riconoscere nella storia dell’umanità il disegno di una grande opera di inclusione, che, rispettando pienamente la libertà di ogni persona e di ogni comunità,  chiama tutti a formare una famiglia di fratelli e sorelle e a far parte della Chiesa, che è il corpo di Cristo. Nessuno è escluso dalla misericordia e dal perdono di Dio e tutti abbiamo bisogno di essere perdonati. Lasciamoci coinvolgere in questo movimento di inclusione degli altri, è l’invito conclusivo del Papa,  per essere testimoni della misericordia di Dio verso ciascuno di noi.

Al termine della catechesi, nei saluti ai pellegrini polacchi presenti in piazza, il Papa ricorda che in Polonia, domani, per iniziativa dell’Associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre, verrà celebrata la Giornata di Solidarietà con la Chiesa Perseguitata:

"Le inquietanti e dolorose circostanze attuali ci spingono a sostenere con preghiera fervida e con l’aiuto concreto i nostri fratelli che vivono nell’Iraq e negli altri paesi del Medio Oriente. Innalziamo a Dio la supplica affinché nessuno nel mondo sia escluso dalla società per motivi di religione, di cultura o di razza."

Un pensiero particolarmente affettuoso il Papa lo ha rivolto infine ai volontari del Giubileo Straordinario della Misericordia, provenienti da diverse Nazioni:

"Vi ringrazio per il prezioso servizio prestato perché i pellegrini potessero vivere bene quest’esperienza di fede. Nel corso di questi mesi, ho notato la vostra discreta presenza in piazza con il logo del Giubileo e sono ammirato della dedizione, della pazienza e dell’entusiasmo con cui avete svolto la vostra opera".

Ma ascoltiamo i commenti di alcuni fedeli presenti oggi in Piazza San Pietro. Le interviste sono di Clarissa Guerrieri

D. – Vi è arrivato un messaggio in particolare da questo Giubileo?

R. – Vieni qui e capisci il vero motivo della misericordia.

D. – Che cosa avete provato a partecipare a questo Giubileo della Misericordia?

R. - Una gioia!

D. – Dei temi che ha trattato Papa Francesco, il tema dell’esclusione…

R. – Dico sempre: come mi comporterei io di fronte a una persona esclusa? Non so se riuscirei ad accettarla come ci ha detto stamattina il Papa.

D. – Lei che cosa pensa di questo Giubileo e dei temi che ha trattato Papa Francesco?

R. – Sono temi molto attuali e abbiamo bisogno di ritornare al Signore e di amarlo come si deve.

D. – Che cosa pensa del tema dell’esclusione?

R. – È un argomento difficile: faremo il possibile! Sentiamo che è necessario; è il metterlo in pratica che è molto difficile…

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Il grazie del Papa ai volontari del Giubileo: siete stati bravi!

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Al termine dell’udienza giubilare il Papa ha salutato “con particolare affetto” i volontari del Giubileo Straordinario della Misericordia. Queste le sue parole: 

“Siete stati bravi! Voi, che venite da diverse Nazioni, e vi ringrazio per il prezioso servizio prestato perché i pellegrini potessero vivere bene quest’esperienza di fede. Nel corso di questi mesi, ho notato la vostra discreta presenza in piazza con il logo del Giubileo e sono ammirato della dedizione, della pazienza e dell’entusiasmo con cui avete svolto la vostra opera. Grazie tante!”.

Sono circa 4mila i volontari del Giubileo: in gran parte italiani, ma tanti provengono in particolare da Stati Uniti, Canada, Argentina, Brasile, Messico e Colombia (per le Americhe), Australia (Oceania), Congo (Africa) e India e Taiwan (Asia). Per la maggior parte si sono iscritti individualmente sul sito del Giubileo. Di questi 4mila, 1800 sono dell'Ordine di Malta e hanno prestato anche assistenza sanitaria. I volontari hanno offerto il loro tempo, almeno una settimana, per assistere i pellegrini giunti a Roma da ogni parte del mondo, fornendo indicazioni su tutti i servizi disponibili, accompagnandoli lungo percorsi appositamente riservati per accedere alle Basiliche Papali, attraversare la Porta Santa e rimanere in preghiera nelle Basiliche secondo i tempi e le modalità previste. Un grande impegno svolto in coordinamento con le forze di Pubblica Sicurezza italiane. 

Ascoltiamo Andreina Merheb, coordinatrice dei volontari del Giubileo della Misericordia, al microfono di Clarissa Guerrieri: 

R. – Devo dire che è stata un’esperienza speciale. Impegnativa per le responsabilità che si hanno nei riguardi delle persone che vengono a Roma, che hanno delle aspettative verso un’esperienza che stanno per fare e che vengono da tutte le parti del mondo. Era importante che vivessero fisicamente l’esperienza che venivano a fare. Hanno dato tante soddisfazioni ai pellegrini che venivano in visita a San Pietro o in pellegrinaggio alla Porta Santa. Ogni volontario è venuto da una parte diversa del mondo: dal Brasile, l’India, Taiwan, il Canada; compresa l’Africa con volontari che venivano dal Congo. Con la sua cultura, con le sue aspettative, è stato un arricchimento anche per noi che eravamo lì a lavorare per loro. Per noi la cosa più importante era che loro stessero bene e che potessero compiere il servizio con serenità e fare soprattutto, loro stessi, un’esperienza di fede in questa occasione di volontariato. E’ un incontro di fede che trovi nell’altra persona quando la conosci.

D. – Nessuno è escluso: lo dicono le parole del Vangelo e lo ha ribadito oggi Papa Francesco…

R. – Abbiamo cercato davvero di accogliere tutti, senza chiudere le porte a nessuno. Le loro diversità per noi sono state un arricchimento.

D. – Che sensazioni ha provato nel trovarsi così coinvolta in quest’evento?

R. – Per me personalmente è stato un regalo di Dio: è stato un regalo della vita poter partecipare a questo Giubileo, dare il mio piccolo contributo e ricevere così tanto dalle persone che hanno partecipato. Per me personalmente è stato un arricchimento sia umano che spirituale molto importante.

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Francesco a Ponte Nona dai sacerdoti che hanno lasciato il ministero

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Ieri pomeriggio Papa Francesco si è recato a Ponte di Nona, quartiere all’estrema periferia est di Roma, per incontrare 7 famiglie, tutte formate da giovani che hanno lasciato, nel corso di questi ultimi anni, il sacerdozio. Si è trattato dell’ultimo incontro dei cosiddetti "Venerdì della misericordia" compiuti dal Papa in quest’anno giubilare. Ce ne parla Sergio Centofanti

Un segno di vicinanza e di affetto: è quello che il Papa ha voluto dare a sette giovani che hanno compiuto una scelta spesso non condivisa dai loro confratelli sacerdoti e dai familiari. Dopo diversi anni dedicati al ministero sacerdotale svolto nelle parrocchie - spiega una nota della Sala Stampa vaticana - è accaduto che la solitudine, l’incomprensione, la stanchezza per il grande impegno di responsabilità pastorale hanno messo in crisi la scelta iniziale del sacerdozio. Sono quindi subentrati mesi e anni di incertezza e dubbi che hanno portato a ritenere di aver compiuto, con il sacerdozio, la scelta sbagliata. Da qui, la decisione di lasciare il presbiterato e formare una famiglia.

Quattro dei giovani incontrati sono della diocesi di Roma, dove sono stati parroci in diverse parrocchie della città; uno di Madrid e un altro dell’America latina, che risiedono nella capitale, mentre l’ultimo è originario della Sicilia.

Il Papa è stato accolto da grande entusiasmo: i bambini lo hanno abbracciato tra la commozione dei genitori che non si sono sentiti giudicati ma voluti bene. Francesco ha ascoltato le loro storie, anche riguardo gli sviluppi dei procedimenti giuridici dei singoli casi, e ha rassicurato tutti sulla sua amicizia e sulla certezza del suo interessamento personale,  evidenziando l’esigenza che nessuno si senta privato dell’amore e della solidarietà dei Pastori.

La visita ha concluso i “Venerdì della Misericordia” già vissuti dal Papa nel corso del Giubileo: a gennaio ha visitato una casa di riposo per anziani e una per malati in stato vegetativo a Torre Spaccata; a febbraio, una comunità per tossicodipendenti a Castelgandolfo; a marzo (Giovedì Santo) il Centro di accoglienza per profughi (CARA) di Castelnuovo di Porto; ad aprile la visita dei profughi e migranti nell’Isola di Lesbo; a maggio la comunità del “Chicco” per persone con grave disabilità mentale a Ciampino; a giugno due comunità romane per sacerdoti anziani e sofferenti. A luglio, nel corso del viaggio in Polonia, il Papa ha compiuto il suo “Venerdì della Misericordia” con la preghiera silenziosa ad Auschwitz-Birkenau, la visita ai bambini malati all’ospedale pediatrico di Cracovia e la Via Crucis con i partecipanti alla GMG, presenti i giovani iracheni, siriani e provenienti da altre zone di guerra e disagio. Ad agosto il Santo Padre si è recato in una struttura romana della “Comunità Papa Giovanni XXIII” che accoglie donne liberate dalla schiavitù del racket della prostituzione, mentre a settembre ha visitato un Reparto di neonatologia e un Hospice per malati terminali a Roma. Infine, ad ottobre, il Santo Padre si è recato presso il “Villaggio SOS”, una casa famiglia di Roma che accoglie bambini in condizioni di disagio personale, familiare e sociale.

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Papa: malattie rare e dimenticate, solidali con ogni persona

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Il “valore eminente” della persona umana sia alla base di soluzioni “realistiche, coraggiose, generose e solidali”. Così il Papa nel messaggio ai partecipanti alla XXXI Conferenza internazionale sul tema: “Per una cultura della salute accogliente e solidale a servizio delle persone affette da patologie rare e neglette”, organizzata questa settimana in Vaticano dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. Nelle sue parole, indirizzate a mons. Jean-Marie Mupendawatu, segretario del dicastero, il Pontefice ha voluto ricordare anche l’arcivescovo Zygmunt Zimowski, già presidente del medesimo Pontificio Consiglio, scomparso nel luglio scorso. Il servizio di Giada Aquilino

Il valore eminente dell’essere umano
Una sfida “immane, ma non impossibile”. Papa Francesco si rivolge agli esperti, provenienti da ogni parte del mondo, che si sono riuniti in Vaticano per approfondire il tema delle patologie “rare” e delle malattie “neglette” e, nella sua riflessione, mette in luce il “valore eminente” della persona umana: ciascuna persona, soprattutto quella sofferente, merita dunque “senza alcuna esitazione” ogni impegno per essere “accolta, curata e, se possibile, guarita”. Vanno quindi individuate linee “praticabili” di intervento, avendo come valori fondanti “il rispetto della vita, della dignità e dei diritti dei malati”, insieme con l’“impegno accogliente e solidale”, e realizzando strategie curative mosse da “sincero amore” verso la persona “concreta” che soffre. Il Pontefice vede in un “approccio integrato”, con “attente valutazioni”, il percorso da seguire: non solo “qualificate e diversificate” competenze sanitarie, ma anche extra-sanitarie, per la pianificazione e la realizzazione di strategie operative, il reperimento e la gestione delle ingenti risorse necessarie, pensando ad esempio ai manager sanitari, alle autorità amministrative e politiche, agli economisti del settore. Su tutto, però, prevale una “libera e coraggiosa volontà di bene”, una vera e propria “sapienza del cuore”, finalizzata alla risoluzione di questo rilevante problema di salute globale: secondo dati dell’Oms, ricorda Francesco, di malattie definite “rare” soffrono 400 milioni di persone, mentre quelle cosiddette “neglette” riguardano oltre un miliardo di persone. Si tratta di patologie per lo più di natura infettiva e - osserva il Papa - diffuse tra le popolazioni più povere del mondo, “spesso in Paesi dove l’accesso ai servizi sanitari è insufficiente a coprire i bisogni essenziali”, soprattutto in Africa e America Latina, in aree a clima tropicale, con una potabilità insicura dell’acqua e carenti condizioni igienico-alimentari, abitative e sociali. Risultano pertanto cruciali, aggiunge Francesco, “la determinazione e la testimonianza” di chi si mette in gioco nelle periferie “non solo esistenziali” ma anche “assistenziali” del mondo, insieme ovviamente allo studio scientifico e tecnico.

Una Chiesa dinamicamente in uscita
La Chiesa, riflette il Papa, è da sempre “in campo” e continuerà “su questa impegnativa ed esigente via di vicinanza e di accompagnamento” all’uomo che soffre: è “prioritario” che essa si mantenga “dinamicamente in uno stato di ‘uscita’”, facendosi “ospedale da campo” per le persone emarginate, che vivono in ogni periferia esistenziale, socio-economica, sanitaria, ambientale e geografica del mondo. Si tratta di una “vera e propria opera di misericordia”, da cui ha mosso proprio la Conferenza del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari per “informare”, per fare il punto sullo “stato delle conoscenze sia scientifiche sia clinico-assistenziali”, per curare meglio “in una logica accogliente e solidale” la vita del malato, per “custodire l’ambiente nel quale l’uomo vive”. È su questo che il Pontefice si sofferma, evidenziando la relazione “decisiva” tra queste malattie e l’ambiente: spesso infatti i fattori ambientali hanno un “forte rilievo” o comunque l’ambiente inquinato “funge da moltiplicatore del danno”. Francesco nota che il “peso maggiore grava sulle popolazioni più povere”: è per questo che nuovamente pone l’accento sull’“assoluta importanza” del rispetto e della custodia del creato, della nostra casa comune.

Accesso alle cure per tutti
La considerazione su scala sociale del fenomeno sanitario delle malattie “rare” e “neglette”, aggiunge Francesco, richiama una chiara istanza di giustizia, nel senso di “dare a ciascuno il suo”, ovvero “uguale accesso” alle cure efficaci per uguali bisogni di salute “indipendentemente” dal contesto socio-economico, geografico, culturale. Ciò, ricorda il Papa, si rispecchia nei principi di socialità, sussidiarietà e solidarietà alla base della dottrina sociale della Chiesa. Auspica infine di individuare soluzioni “realistiche, coraggiose, generose e solidali” che tengano al centro il “valore eminente dell’essere umano”, affidando a Maria l’impegno di rendere sempre “più umano” il servizio che, quotidianamente, le diverse figure professionali del mondo della salute svolgono in favore dei sofferenti.

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Chiesa, medici e scienziati: più risorse per chi soffre nel silenzio

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La cura per le malattie rare e le cosiddette “malattie tropicali neglette” – che colpiscono molte persone nei Paesi più poveri e che spesso sono trascurate dalla ricerca – passa attraverso prevenzione, investimenti regolari e a un maggior coinvolgimento dei pazienti e delle loro famiglie alle terapie. Queste alcune delle raccomandazioni emerse al termine della XXXI Conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, conclusa oggi in Vaticano. I dettagli nel servizio di Michele Raviart

Il primo punto è quello della prevenzione. La diagnosi per una malattia rara è spesso molto lunga, quando basterebbe una sola goccia di sangue per avere uno screening genetico in grado di rilevare eventuali patologie e valutare se è possibile utilizzare farmaci già esistenti, ma adatti allo specifico dna del paziente. Spiega il prof. Giuseppe Novelli, genetista e rettore dell’Università di Tor Vergata di Roma:

"Le nuove tecnologie hanno aperto un mondo che prima non era possibile: quello di analizzare tutto il dna di una persona affetta da una malattia rara di cui non si sapeva assolutamente niente. Attraverso il genoma noi possiamo trovare dei farmaci che prima non avevamo ma senza aspettare di scoprirli, perché – come è stato detto – per far scoprire un farmaco ci vogliono 15 anni, ma se abbiamo un farmaco che ci salva per una cosa lo possiamo usare anche per un’altra".

Grandi sono le differenze tra Nord e Sud del mondo. Malattie come l’Aids raccolgono più fondi perché toccano i Paesi occidentali, mentre altre, come la lebbra sono trascurate e in pericolosa ascesa in Africa. Chiara è la correlazione tra patologie e contesto socio-economico. Il prof. Mario Angi, presidente dell’Ong Christian Blind Mission:

"Nella conferenza è emersa l’importanza e il peso delle malattie rare e delle malattie neglette che riguardano in realtà un miliardo e 400 milioni di persone. Quindi non sono assolutamente rare e non sono assolutamente minoritarie nel panorama dell’umanità. È emersa l’interazione fra genetica, ambiente e il contesto di povertà: crescono e si moltiplicano queste alterazioni genetiche che creano fino ad ottomila diverse specie di malattie rare".

Essenziale è poi la formazione di un personale sanitario competente e che sappia almeno indirizzare il paziente verso i centri specializzati più idonei. Prassi ordinaria deve essere quella di coinvolgere il malato nella scelta delle terapie e sostenere le famiglie, sia dal punto di vista psicologico sia logistico, visto che alcuni pazienti sono costretti anche a cambiare Paese per ricevere le cure più adatte. “Buone pratiche”, come gli esempi presentati da padre Michele Aramini, docente di teologia all’Univesità cattolica del Sacro Cuore:

"Uno è quello che riguarda la malaria, per la quale il numero di farmaci disponibili era progressivamente scemato; un impegno particolare nella ricerca ha portato ad avere nuovi strumenti farmacologici. Lo stesso vale per la tubercolosi in Paesi come il Brasile o altri dell’America Latina; poi abbiamo avuto invece il caso eclatante di Taiwan che, nel giro di venti anni, ha fatto un balzo in avanti enorme nella lotta alle malattie rare dotandosi di un sistema che parte da una legislazione, un finanziamento a una produzione di centri di riferimento, ad uno screening, ad un aiuto alle famiglie, alla ricerca e all’incoraggiamento addirittura di una nuova classe di medici che si occupino delle malattie rare".

L’obiettivo è quello di fornire cure a chi ne ha bisogno, con finanziamenti pubblici più regolari e con l’idea di investire obbligatoriamente in ricerca una percentuale dei ricavi delle industrie farmaceutiche. Il rischio è poi che per ragioni politiche ed economiche alcuni Paesi riducano i loro contributi. In questo senso il ruolo della Chiesa diventa fondamentale per far convergere tutti gli operatori del settore e metterli in comunicazione fra loro. Mons. Jean-Marie Mupendawatu, segretario del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari:

"C’è anche una preoccupazione perché i tre Paesi che hanno dato maggiore contributo per queste malattie neglette, ad esempio, sono stati l’Inghilterra, la Germania e gli Stati Uniti. Con la Brexit e tutto quello che succede nel mondo siamo un po’ preoccupati; molti di coloro che sono venuti qui chiedono alla Chiesa questa leadership, questa anima, questo cuore che è specifico della Chiesa, dove molti possono stare insieme per moltiplicare le forze. La Chiesa deve lavorare per educare ad una cultura della salute. Non c’è missione, evangelizzazione, promozione allo sviluppo dei popoli, se manca anche l’assistenza e la cura agli infermi".

L’ultimo appello è rivolto ai media, che dovrebbero affrontare questi temi più spesso e in maniera più approfondita.

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Altre udienze e nomine

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Per le altre udienze odierne di Papa Francesco e le nomine pontificie rimandiamo al Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Chiusa Porta Santa dell'Ostello Caritas. Vallini: facciamo di più

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E’ stata quella dell’Ostello Don Luigi Di Liegro, della Caritas diocesana, una delle prime Porte Sante ad essere chiuse a Roma. La celebrazione, stamattina, è stata presieduta dal cardinale vicario Agostino Vallini, a concelebrare mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas romana. Francesca Sabatinelli: 

Oltre 12 mila sono state le persone passate attraverso la Porta Santa della Carità dell’Ostello dedicato a Don Luigi Di Liegro: pellegrini, volontari, gli stessi ospiti della struttura che, con la mensa dedicata a Giovanni Paolo II, accoglie centinaia di persone. La Porta, per la prima volta non quella di una cattedrale, era stata aperta il 18 dicembre dell’anno scorso da Papa Francesco. Cosa lascia la Porta Santa della Carità. Il cardinale vicario Agostino Vallini:

“Rimane anzitutto un grande cammino di vita cristiana, di santità di vita, di rimessa in discussione, forse, anche di tanti comportamenti. Io vedo tante persone che soffrono, ma anche tante persone che aiutano. E’ cresciuta certamente, a me pare, la sensibilità verso i chi è nel bisogno. Certo, occorre fare ancora di più. Ognuno faccia un esame di coscienza e dica: 'Cosa posso fare io per gli altri?'. Perché la città siamo noi e quindi diamoci da fare!".

In questi 11 mesi, la Caritas diocesana ha accolto tutti coloro che hanno voluto fare del passaggio sotto la Porta Santa un’occasione di conversione, condivisione e servizio. Alberto Colaiacono, ufficio comunicazione della Caritas diocesana:

R. – La Porta Santa nell’Ostello Di Liegro è stata un segno importante di misericordia per tutta la città di Roma e non solo per la comunità cristiana. E questo perché, per la prima volta, il Papa ha voluto aprire una Porta giubilare in un luogo che non introduce in una chiesa o in una basilica, ma che introduce in mezzo alla gente e in mezzo ai poveri. E’ una porta che non verrà chiusa, perché mentre le porte delle basiliche saranno chiuse con la fine del Giubileo, queste sono porte destinate ad essere aperte.

D. – I romani hanno saputo rispondere a questa chiamata alla carità?

R. – Passando la Porta Santa qui all’Ostello poteva essere chiesta l’indulgenza in un modo particolare, diverso da quello delle basiliche: facendo cioè un servizio di volontariato. In questi 11 mesi sono passate più di 12 mila persone per chiedere l’indulgenza, per chiedere misericordia, facendo un servizio insieme ai poveri. Molti erano romani, ma abbiamo contato persone di oltre 40 nazioni. Sono state anche molte le Caritas italiane venute dalle altre diocesi a fare un pellegrinaggio insieme ai loro ospiti, agli ospiti dei loro ostelli. Il segno particolare è stato questo.

D. – Gli ospiti, i protagonisti, come hanno risposto? Come hanno reagito di fronte a questa attenzione che non sono abituati a ricevere se non in determinate occasioni?

R. – Al di là di qualche momento imbarazzante, soprattutto all’inizio, quando c’era una folla mediatica ed erano tantissimi i giornalisti con il Papa qui, poi è diventata per loro una attività di animazione pastorale. C’è stato un gruppo di ospiti che si è preparato per accogliere i pellegrini e quindi i pellegrini venivano accolti dagli ospiti. E’ stato anche molto bello quando ci hanno chiesto di fare il loro Giubileo qui, quindi in una giornata, a giugno scorso, tutti gli ospiti dell’ostello e della mensa hanno fatto il loro Giubileo nel luogo in cui vivono, quel giorno hanno passato quella porta, che ogni sera attraversano per mangiare, per pregare.

Tra gli ospiti della struttura che hanno accompagnato i pellegrini nel loro percorso c’è Angelo Zurolo. Dal 2012, dopo aver perso casa e lavoro, è ospite dell’ostello, per avere la possibilità, racconta, di fare un cammino che lo porti a riconquistare il giusto spazio nella società:

R. – Per noi che tutti giorni, qui all’ostello, viviamo la situazione di persone che hanno purtroppo perso casa, lavoro o che sono qui per tanti altri brutti motivi, l’apertura della Porta Santa, un anno fa, da parte di Papa Francesco è stato un evento straordinario penso per tutti. Papa Francesco ha fatto, e fa, del suo mandato una Chiesa povera per i poveri e quindi con i poveri e per i poveri. Ieri c’è stato l’inizio del Giubileo dei senza fissa dimora e io sono andato. Il Papa ha detto tante cose, una soprattutto stupenda: “Chiedo perdono a voi poveri per i tanti cristiani che ogni giorno voltano lo sguardo dall’altra parte”. Ha detto: “Poveri sì, ma con dignità! Poveri sì, ma sfruttati no!”. E’ stata una cosa bellissima.

D. – Pensa che in questo Giubileo, qui, all’Ostello di Via Marsala, l’aver attraversato questa Porta per molti romani o per i non romani abbia significato qualcosa dal punto di vista proprio della sensibilità, di capire che l’altro è il ‘prossimo’ e resterà il ‘prossimo’?

R. – Penso proprio di sì. Penso che sia stato fatto un grandissimo lavoro da tutti, dagli operatori, dai volontari, dalla Caritas stessa, per far sì che chi venisse, venisse comunque con quella che è l’intenzione di attraversare la Porta, di toccare con mano la carità e di mettersi al servizio dei poveri, di chi ha bisogno degli altri. Quindi, chiunque abbia attraversato la Porta Santa in questo anno, da tutte le parti d’Italia e anche da altri Paesi del mondo, sicuramente è stato toccato da quello che si vive qui, all’interno dell’ostello, all’interno della mensa che tutti i giorni, tutte le sere, eroga i pasti per tantissime persone. Sicuramente è stato toccato e speriamo che si metta veramente a disposizione degli altri. Penso proprio di sì, penso che questo evento della Porta Santa della Carità e dell’Anno straordinario della Misericordia abbia toccato realmente il cuore di tutti.

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Concerto in Vaticano per i poveri con Morricone e Frisina

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Oggi alle 1830 nell’Aula Paolo VI in Vaticano la seconda edizione del Concerto con i poveri e per i poveri. Sul podio si alternano il Premio Oscar Ennio Morricone che dirige l’Orchestra di Roma Sinfonietta e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e mons. Marco Frisina che guida Orchestra e Coro della Diocesi di Roma. Brani celebri e due inediti in un programma che vuole sostenere un Segno di Carità del Papa per il Giubileo: la costruzione di una Cattedrale in Uganda e di una Scuola di agraria in Burkina Faso. Ascoltiamo le voci dei due direttori, al microfono di Gabriella Ceraso, a partire da mons. Marco Frisina

R. - I poveri non sono “altri” da noi; sono fratelli, sono compagni di cammino. Condividere con loro la bellezza della musica come dono di Dio che consola, che eleva, è ciò che ci ha spinto anche quest’anno a organizzare questo evento. L’anno scorso all’udienza il Papa ci ha detto che la musica unisce ed eleva; ci fa respirare l’aria pura delle grandi cose, ci fa pensare a Dio, all’amore, alla verità, alla bellezza. E non è giusto tenere tutto questo solo per noi, ma è bello condividerlo con chi forse, per la prima volta, ascolta un concerto e non offrendogli “qualcosetta”, ma il massimo che si può, perché è giusto che loro abbiano il massimo!

D. - In questo programma brani suoi e brani del Maestro Morricone si alternano ?

R. - Il Maestro Morricone ha scelto questi tre adagio; sono tre meditazioni prese dalle musiche più belle che ha scritto per il cinema. Poi c’è questo inedito che lui ha voluto riadattare sul testo di Bevilacqua che sarà eseguito all’inizio di questo concerto, per dare il “la”: si tratta di una meditazione brevissima. Poi ci sarà una mia suite sulle musiche dell’Apocalisse di San Giovanni, laddove ho voluto sottolineare che il dolore dell’umanità che Dio operò per amore volge a salvezza, trasforma nel compimento della salvezza: è l’amore che vince sul terremoto, sulla guerra, sulla violenza. Poi del Maestro Morricone c’è “Tra Cielo e terra”, un pezzo di grande suggestione spirituale tratto dalle musiche per Padre Pio che lui scrisse; ci sarà un mio Te Deum nella versione gregoriana, variata con il coro e l’orchestra, come un ringraziamento a Dio per quest’anno di grazia che ci ha voluto donare e per condividere questa gioia che il Te Deum dà. E' lode a Dio che nell’amore ci salva e ci redime insieme a tutti i nostri fratelli. Il concerto finisce poi con un piccola suite da Mission; che ricorda ancora una volta che la fede e la carità vincono anche sulla violenza. Nel film Mission si ricordava proprio come quella storia così dolorosa della comunità gesuita in Paraguay terminava con questa violenza inaudita dei potenti, ma anche lì Dio e la fede vincono, e il tema famoso, che ormai conosciamo tutti, del “Gabriel’s Oboe” sfocia alla fine in questo inno alla nostra vita, alla vita che vince. È la vita di Dio che ci fa vincere su ogni dolore e sofferenza.

D. - Suonare davanti ai poveri fa bene anche ai musicisti?

R. - Fa bene anche a noi. L ‘anno scorso ho visto che il Maestro Daniel Oren che è di religione ebraica - eppure ha diretto musiche mie cristiane - era emozionatissimo. Mi ha detto: “È una delle cose più belle della mia vita, perché mi rendo conto di cosa significa la musica”. In questi casi la musica acquista un valore che è quello dell’intrattenimento e dell’esibizione vanitosa. Ma la musica diventa un dono d’amore; è una carezza per loro, è un bacio, un abbraccio, una consolazione e questa è la  cosa più bella che si possa vivere. A me capita spesso, perché come sacerdote lo faccio con questo spirito, ma ogni volta è una sorpresa perché ogni volta ci si rende conto di quello che Dio può fare attraverso la musica e attraverso di noi e come può toccare il cuore di tanta gente e può, con loro, vivere la gioia e la luce che l’arte ci dona. 

Maestro Ennio Morricone, lei che ha suonato davanti al pubblico di tutto il mondo, cosa prova stasera a trovarsi difronte ad un pubblico così speciale, a cui farà dono della sua musica?

R. – Non penso al regalo che io faccio a questo pubblico; penso che è stato il Papa a volere questo pubblico. È molto importante che un pubblico non ricco, anzi il contrario, assista a questa musica, con questo coro, con questa orchestra. Questa è una cosa che mi stimola molto a fare bene, a far suonare l’orchestra con il cuore e intensamente per loro, che spero sentano bene questa nostra prestazione e apprezzino il programma che ho scelto per loro. In questa occasione avrei potuto fare dei pezzi più difficili, un po’ più scorbutici … Ma no, ho scelto dei pezzi semplici che potessero essere ascoltati senza complicazioni.

D. - Musiche particolarmente dolci che toccano e che arrivano al cuore. Sono anche modi per meditare?

R. - Certamente. Sono pezzi orecchiabili che si possono memorizzare e possono ricordare questo evento che Papa Francesco ha voluto. Spero che l’impressione che loro avranno sia positiva e rimanga nella loro mente.

D. - Mi dice qualcosa sul suo brano inedito su testo di Alberto Bevilacqua. Cosa le piace? Che cosa comunica?

R. - Quello che mi piace? Glielo recito, spero di ricordarlo tutto: “Dio, Dio, uno di noi. Dio, Dio sempre con noi. Ci spezza il pane e poi si inchioda sulla nostra Croce per noi”. In poche parole racconta la storia del cristianesimo, della Passione di Cristo.… È incredibile questa sintesi di Bevilacqua.

D. - La musica l’aiuta personalmente a meditare?

R. - L’autore inizia a riflettere davanti ad una pagina bianca, un mondo aperto. È una cosa straordinaria e anche un momento drammatico: cosa scrivere? C’è un punto interrogativo intenso. L’autore naturalmente ha la responsabilità di quello che poi andrà a scrivere, la stessa responsabilità che ha verso coloro che ascolteranno la musica.

D. - Maestro, è stato il suo compleanno. Innanzi tutto le faccio i miei migliori auguri: quale è il regalo più bello che la vita le ha fatto?

R. - Mia moglie, la mia famiglia, certamente la musica e il fatto che la gente abbia seguito e ancora segue il mio lavoro.

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Oggi in Primo Piano



Usa, continuano le proteste anti-Trump: un ferito a Portland

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Ennesima notte di proteste anti-Trump negli Stati Uniti: in molte città l’America scende in piazza con lo slogan "Not my president" e a Portland si registra anche un ferito da un colpo di pistola. Intanto, il neoeletto presidente Usa ha illustrato le priorità del suo programma in punti che dovranno essere attuati nei primi 100 giorni. Tra questi: il rilancio dell'occupazione, la lotta all’immigrazione irregolare, la semplificazione fiscale con la deregulation sui prestiti da parte delle banche e la revisione dell’accordo sul clima. Delle sfide che aspettano la nuova presidenza, Roberta Barbi ha parlato con Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana: 

R. – In campagna elettorale, Donald Trump si è caricato di molti impegni, sia all’interno - cioè verso i cittadini americani - sia all’esterno, verso la cosiddetta “comunità internazionale”. All’interno, credo che l’impegno maggiore sia quello di far ripartire la macchina economica americana attraverso un’iniezione di liberismo.

D. – Uno dei punti chiave è l’immigrazione: si parla dell’espulsione dei circa due milioni di immigrati irregolari che hanno commesso reati; della cancellazione dei visti di ingresso ai Paesi che non si riprendono gli immigrati; e della sospensione dell’immigrazione dai Paesi in conflitto dove c’è terrorismo…

R. – È anche una delle cose di più difficile applicazione, perché uno dei grandi “plus” dell’America contemporanea è stato proprio quello di saper attrarre risorse umane, intelligenze, volontà, energie, proprio un po’ da tutto il mondo; di saperle attrarre anche con la forza delle proprie università e del proprio “melting pot”. Intervenire su questo sarà un grosso problema per Trump, anche se una qualche concessione alle promesse fatte in campagna elettorale dovrà farla. Vedremo se riuscirà a bilanciare qualche provvedimento restrittivo con, invece, una strategia che consenta agli Usa di continuare a essere quel centro di attrazione che tutti conoscono.

D. – Per quanto riguarda le sue posizioni sulla teoria gender?

R. – Ho avuto l’impressione, in questa campagna elettorale, che i riferimenti all’etica e alla bioetica fossero un po’ scontati, fatti un po’ per dovere, un po’ per rispettare anche il proprio personaggio, più attaccato ai valori. Credo che, poi, la strada scelta sarà anche per Trump una strada in fondo mediana.

D. – Un altro punto importante è la semplificazione fiscale, che dovrebbe portare molti vantaggi alla classe media, provata dalla crisi, e la deregulation sui prestiti da parte delle banche…

R. – Questo fa sempre parte di questa ambizione liberale e liberista che, però, poi deve essere anche realizzata. Molti passi nel senso di una maggiore deregulation sono stati fatti, e farne di ulteriori potrebbe sconvolgere degli equilibri che noi è poi facile ricostruire. Non a caso Trump, sulla riforma della sanità – la cosiddetta “salute per tutti”: l’Obamacare – ha già fatto qualche passo indietro: durante la campagna elettorale aveva detto che andava smontato tutto; adesso dice che forse certe parti si possono mantenere, perché comunque lui sa che l’America non è questa macchina automatica per cui a minori tasse corrispondono maggiori iniziative economiche. Fu esattamente la ricetta del “denaro più facile e minori tasse” a innescare, per esempio, nel 2008 la bolla immobiliare che poi ha fatto così tanti disastri.

D. – Ha fatto discutere anche la sua posizione sui cambiamenti climatici, anche se il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si è detto “fiducioso” sul fatto che non annullerà l’adesione degli Stati Uniti all’accordo sul clima…

R. – Io non credo che Trump prenderà delle iniziative così clamorose. Credo che la denuncia degli accordi sul clima facesse parte, in campagna elettorale, del suo atteggiamento di “America first”, e quindi di lavoratori americani prima di chiunque altro: cerchiamo di perseguire il loro benessere prima di quello di chiunque altro, e anche di quello del Pianeta. Ma andrà abbastanza con i piedi di piombo in questo settore, perché è un settore dove c’è tutto un complesso di relazioni internazionali che vanno comunque curate: ad esempio, sul clima erano stati raggiunti degli accordi con la Cina e abbandonare questi accordi potrebbe creare qualche problema.

D. – Cosa si può dire sulla politica energetica?

R. – La politica energetica degli Stati Uniti in questo momento è una sorta di “unicum” storico, perché per la prima volta nella storia il Paese che consuma più petrolio – gli Stati Uniti – è anche il primo Paese produttore di petrolio al mondo. Dal punto di vista delle forniture energetiche, gli Stati Uniti sono assolutamente al riparo da tutto, e anzi sono in grado di diventare fornitori, cosa che non hanno mai fatto, perché solo di recente è stato abolito il divieto di esportare petrolio. Credo che il tema della politica energetica non sia uno dei temi al primo posto dell’agenda di Donald Trump.

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La Battaglia di Mosul: fuga disperata dei civili dalle carneficine

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In Iraq, si intensificano gli scontri nelle aree urbane di Mosul e l'Acnur, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si sta preparando a rispondere, in termini di assistenza, a protezione degli sfollati. Secondo i dati Onu, sono oltre 47mila le persone che sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni dall’inizio dell’attacco congiunto contro la roccaforte dello Stato Islamico, il 17 ottobre scorso. I sei campi già aperti dell’Acnur possono ospitare circa 54mila persone, ma per far fronte ai recenti flussi, l'Agenzia ha aperto un nuovo sito a Hasansham che accoglie oltre 10mila persone. Intanto, le carneficine non sembrano arrestarsi: 40 sono le vittime civili ritrovate nelle ultime ore a Mosul, appese ai lampioni dai jihadisti dell'Is con l’accusa di tradimento. A commentare la situazione don Renato Sacco, coordinatore nazionale Pax Christi, intervistato da Sabrina Spagnoli: 

R. – Parlare di Mosul oggi, da una parte è doveroso, dall’altra è difficile, perché come sempre in zone di guerra non è facile avere notizie e soprattutto averne di oggettive. E anche quando vediamo giornalisti che sono lì: come hanno fatto ad arrivare lì? Sono al seguito di una parte e quindi daranno la loro versione. Ciò detto, la situazione credo che sia tragica, soprattutto per i civili. Credo che all’interno della città, quando arriverà la fine, un giorno, troveremo massacri indicibili e tanti morti. Chi riesce a scappare sono centinaia di migliaia di persone che hanno bisogno di tutto, perché scappano per salvare la vita. Quindi è una fuga disperata dalla morte verso la vita: credo che sia un po’ questa la tragedia che vive la città di Ninive, quella che noi oggi chiamiamo “Mosul”.

D. – Quali sono i maggiori pericoli che la popolazione si trova a dover affrontare?

R. – Il primo è quello di essere uccisa. Il primo obiettivo è proprio salvare la vita, perché non c’è rispetto certo per la vita. E poi credo che ci sia bisogno di tutto: non dimentichiamo che da quelle parti fa già freddo, siamo al nord. Ci aiuta un po’ condividere la sofferenza dei nostri terremotati per immaginare chi si trova in una situazione tragicamente peggiore. Quindi c’è bisogno di tutto: la sanità, un minimo di igiene personale, il nutrimento… E soprattutto vincere la paura e trovare un po’ di serenità. Chi arriva nella zona di Erbil è più tranquillo; e pure nella fascia più liberata come Qaraqosh ... Direi che è interessante anche sapere che da Erbil i profughi iracheni hanno mandato delle offerte: circa 20mila euro per i terremotati italiani. E questo rovescia un po’ la nostra lettura: chi ha bisogno, ha il cuore aperto per capire i bisogni degli altri. E quindi se noi pensiamo ai profughi di Mosul, loro pensano alle nostre sofferenze, quelle dei terremotati.

D. – Che tipo di supporto viene fornito agli sfollati?

R. – Il supporto religioso: ho parlato con il patriarca, Louis Sako e lui è stato fin dove si può per dare un segnale di presenza. A Qaraqosh qualche prete è ritornato, anche se il ritorno in questi villaggi intorno a Mosul non è così facile perché ci sono mine, trappole... Non si ritorna così facilmente dopo un terremoto, figuriamoci dopo una cosa del genere! Credo che lì ci sia il lavoro anche di tante associazioni e sempre la speranza di un fiore di pace, di non violenza, come ci ricorda il Papa nel messaggio prossimo di Capodanno. C’è bisogno di tutto: c’è chi sta lavorando con piccole gocce, insieme a loro - con loro - per alleviare le sofferenze di chi ha bisogno: proprio dal sapone a un minimo di dignità e di conforto umano.

D. – Parlando con la popolazione, ovviamente secondo la sua esperienza passata, quali sono i problemi particolari, i disagi?

R. – Il problema è quello di riuscire a guardare al futuro. Queste persone hanno sulle spalle un peso che dura da anni. Adesso sono quelli della Siria che scappano. E quindi è un dolore profondo che dura da tanti anni, e si chiedono quando finirà… Ma nel cuore, nella profondità del proprio animo, del proprio essere, c’è bisogno davvero di pace; c’è bisogno di tornare a sperare, di non perdere la speranza. E soprattutto, “non dimenticateci!”: hanno bisogno di essere ricordati, sicuri che non ci dimentichiamo di loro.

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Il Bataclan riapre con un concerto di Sting, la vita riprende

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“Il terrorismo non ci colpirà di nuovo, abbiamo la forza per vincere”. Così il premier francese Valls alla vigilia del primo anniversario delle stragi del 13 novembre 2015 compiute a Parigi da un commando di otto terroristi del sedicente Stato Islamico. 130 le vittime di sei attacchi, dallo Stade de France fino allo storico teatro Bataclan, dove durante un concerto, su 1500 persone, 90 vennero trucidate. Stasera il locale riapre Sting, che suonerà per raccogliere fondi per le associazioni delle vittime. Il servizio di Gabriella Ceraso

Il dolore di Parigi è il dolore del mondo intero nel ricordo del 13 novembre di un anno fa. Solo il 27enne Salah Abdeslam è sopravvissuto agli 8 kamikaze, coordinati dalla Siria, dalla mente Abou Ahmad, che, al grido "Allah è grande", o si fecero esplodere o spararono all’impazzata tra chi il venerdì sera lo trascorre per strada o al tavolo di un bar o al ristorante, al Carillon, al Petit Cambodge, alla Belle Équipe, alla Bonne Bière e poi al teatro Bataclan. Il prof. Augusto Sainati era lì poche ore prima:

R. – In quel quartiere c’era già stato, pochi mesi prima, l’attentato di Charlie Hebdo: a 500 metri di distanza… Quindi già in quei giorni c’era molta tensione; c’era una tranquillità un po’ dissimulata che percorreva il quartiere, anche se niente lasciava presagire questo inferno che si è scatenato poi. 

D. - Al Bataclan suonavano i gruppi più alla moda: quella sera era il rock degli Eagles of Death Metal a fare da protagonista alle 21.40, quando 4 terroristi irruppero e svuotarono alla cieca i caricatori dei Kalashnikov sui presenti. Avanzarono dall'ingresso, alla platea, cercando i superstiti anche nei camerini e nei bagni. Si scappava solo dal tetto, dalle finestre o fingendosi morti. Poi la presa di ostaggi e prima dell’irruzione della polizia e della rivendicazione dell’Is, a mezzanotte e mezza, 90 persone non c'erano più, e il locale era irriconoscibile...

R. – Lo vedevo sempre affollato da lunghissime file di ragazzi giovanissimi: era una specie di punto di raccolta del futuro di quella grande città cosmopolita che è Parigi. C’erano molti concerti delle band che magari non sono ancora quelle che raccolgono 10-20 mila persone nei Palasport, ma che sono quelle che i diciottenni e i ventenni seguono con più passione perché sono le loro scoperte. Quindi colpire il Bataclan vuol dire tagliare le gambe al futuro di quel Paese e simbolicamente un po’ al futuro di tutta l’Europa.

D. – Quindi una guerra a questo, dichiarata alla Francia e all’Europa intera. Poi tante cose sono nate da quel terrore, da quelle modalità di aggressione… Però questo era il messaggio?

R. – Questo era il messaggio|! E poi tante cose sono nate anche nel modo di reagire a quell’evento. Sono ripassato tante volte, in questo anno, davanti al Bataclan e mi ricordo di aver visto una specie di percorso mentale e psicologico ed anche un percorso del dolore, che si è fatto proprio attraverso i segni che si infittivano davanti al Bataclan. I segni più evidenti erano quelli dei colpi di pistola… E poi i segni del dolore: c’erano migliaia e migliaia di messaggi e di bandiere di tutto il mondo, di fiori, di scritte in tutte le lingue, in tutti i caratteri comprese le moltissime scritte in arabo. E questo era un primo segno: cioè l'accaduto aveva avuto l’effetto di un grande compattamento. Tutto un mondo si era ribellato, non si era riconosciuto in quanto accaduto . E poi in seguito, in altre occasione, quando sono tornato, ho visto piano piano la vita riprendere: le perlustrazioni che venivano fatte per concludere gli accertamenti della Magistratura; poi i primi lavori; poi il proseguire dei lavori… Lì davanti al Bataclan c’è un mercato che ovviamente nelle prime settimane era evidentemente sconvolto: ma poi, pian piano, la vita del quartiere, della zona, dei locali – anche se con molta prudenza – è ripresa. 

D. – Lei ha parlato di un percorso: è un percorso di rinascita consapevole, più consapevole di prima?

R. – La Francia, in questo momento, è sottoposta ad una tale prova di stress straordinaria, che forse non ricordiamo, almeno dal dopoguerra in poi. Perchè da una parte è sottoposta a questi attacchi che rendono la vita quotidiana piuttosto tesa; dall’altra c’è una spinta politica che naturalmente fa leva su queste situazioni per promuovere atteggiamenti xenofobi che hanno presa nell’elettorato. 

D. - Stasera dunque sarà la capacità di Sting a cercare di far tornare se non il sorriso, comunque la musica, dopo tanto terrore, in questo ambiente:

R. - Ora l’inaugurazione dovrebbe finalmente, non dico chiudere una pagina, ma se non altro segnare un nuovo punto di partenza definitiva.

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Il card. Tagle a Norcia: ricostruire la comunità per ridare fiducia

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Il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila (Filippine) e presidente di Caritas Internationalis, si è recato ieri a Norcia profondamente ferita dal terremoto del 24 agosto e del 26 e 30 ottobre. Accompagnato dall’arcivescovo Renato Boccardo, dal parroco di Norcia don Marco Rufini, dal direttore della Caritas italiana mons. Francesco Soddu, dal direttore della Caritas diocesana di Spoleto-Norcia Giorgio Pallucco e dal parroco di Montefalco don Vito Stramaccia, il porporato è entrato nella zona rossa della città e si è raccolto in preghiera dinanzi alle macerie della Concattedrale di S. Maria e della Basilica di S. Benedetto.

«A nome di Caritas Internationalis, dei fedeli della Diocesi di Manila e di tutta la Chiesa della Filippine – ha detto il card. Tagle – esprimo vicinanza e solidarietà alla gente di Norcia, della Valnerina e di tutta l’archidiocesi di Spoleto. Ho visto gli edifici che sono crollati, ma soprattutto ho constatato la paura nelle poche persone che ho incontrato, stato d’animo, questo, che mi è stato confermato da mons. Boccardo e dai sacerdoti. E allora come cristiani – ha proseguito Tagle – siamo chiamati come prima cosa a ricostruire le comunità, a ridare fiducia alla gente, ad abbracciare, accarezzare e ascoltare chi ha perso tutto, a reintrodurre nel tessuto sociale la solidarietà, la carità e la tenerezza. Poi, penseremo alla ricostruzione dei muri di pietra».

In Piazza S. Benedetto il cardinale ha incontrato e salutato il sindaco di Norcia Nicola Alemanno e ha ringraziato i Vigili del Fuoco per il delicato servizio che stanno svolgendo nel mettere in sicurezza gli edifici. 

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Il commento di don Sanfilippo al Vangelo della Domenica XXXIII T.O.

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Nella 33.ma domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui alcuni chiedono a Gesù quando accadrà che del Tempio di Gerusalemme non sarà lasciata pietra su pietra, come lui ha affermato. Prima - risponde il Signore - dovranno arrivare guerre, terremoti, carestie, pestilenze, fatti terrificanti, segni grandiosi dal cielo e persecuzioni. Avrete occasione – prosegue Gesù - di dare testimonianza:

“Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

Su questo brano evangelico ascoltiamo una breve riflessione di Don Gianvito Sanfilippo presbitero della diocesi di Roma: 

Eventi come i conflitti fra i popoli, città assediate, “terremoti, carestie e pestilenze” non possono non suscitare, oltre al dolore e alla solidarietà fattiva, anche un profonda riflessione sul senso della vita umana e sul suo destino. I cristiani sanno che in tali circostanze hanno una missione di particolare rilievo: aiutare chiunque si trovi nell’emergenza, nello sconforto e nel bisogno, senza risparmiare alcuno sforzo come fanno le istituzioni e le varie organizzazioni umanitarie con ammirevole generosità. La Chiesa, come ci ricorda Papa Francesco, non è una “Ong” né solo un’organizzazione umanitaria. Chi porta il nome di Cristo sa che questo nome è impegnativo, la Chiesa ha il compito di annunciare la chiamata fatta ad ogni uomo a vivere in eterno in comunione con Dio perché Cristo ha lavato nel suo Sangue ogni peccato dell’umanità. L’amore cristiano verso i propri nemici, che risponde all’odio con la preghiera e il bene, è la migliore testimonianza della veridicità di tale salvezza.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 317

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.