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Sommario del 29/11/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: l’umiltà cristiana è la virtù dei piccoli, non quella di teatro

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Ai piccoli, non ai dotti e ai sapienti, il Signore rivela il Mistero della Salvezza. Lo ha detto il Papa nell’omelia della Messa mattutina a Casa Santa Marta. Francesco si è soffermato quindi sulla virtù dei piccoli che è il timore del Signore, non paura, ha spiegato, ma umiltà. Il servizio di Gabriella Ceraso

“La lode di Gesù al Padre”, di cui narra il Vangelo odierno di Luca, è perchè il "Signore ai piccoli rivela i misteri della Salvezza, il mistero di se stesso".

Ai piccoli è rivelato il Mistero della Salvezza
Il Papa prende spunto dall’evangelista per sottolineare la preferenza di Dio per chi sa capire i suoi misteri, non i dotti e i sapienti, ma il “cuore dei piccoli”. Anche la Prima Lettura, piena “di piccoli dettagli”, osserva Francesco, “va su questa strada”. Il profeta Isaia infatti parla di “un piccolo germoglio” che “spunterà dal tronco di Iesse”, e non di “un esercito” che porterà la liberazione. E i piccoli sono i protagonisti anche del Natale:

“Poi, a Natale vedremo questa piccolezza, questa cosa piccola: un bambino, una stalla, una mamma, un papà … Le cose piccole. Cuori grandi ma atteggiamento di piccoli. E su questo germoglio si poserà lo Spirito del Signore, lo Spirito Santo, e questo germoglio piccolo avrà quella virtù dei piccoli, e il timore del Signore. Camminerà nel timore del Signore. Timore del Signore che non è la paura: no. E’ fare vita il comandamento che Dio ha dato al nostro padre Abramo: ‘Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile’. Umile. Questa è umiltà. Il timore del Signore è l'umiltà".

E solo i piccoli, sottolinea ancora il Papa, “sono capaci di capire” pienamente “ il senso dell’umiltà”, il “senso del timore del Signore”, perché “camminano davanti al Signore”, guardati e custoditi, “sentono che il Signore dà loro la forza per andare avanti”. E’ questa la vera umiltà spiega Francesco:

Camminare guardati dal Signore: no all'umiltà di teatro
“Vivere l’umiltà, l’umiltà cristiana, è avere questo timore del Signore che – ripeto – non è paura, ma è: 'Tu sei Dio, io sono una persona, io vado avanti così, con le piccole cose della vita, ma camminando nella Tua presenza e cercando di essere irreprensibile'. L’umiltà è la virtù dei piccoli, la vera umiltà, non l’umiltà un po’ di teatro: no, quella no. L’umiltà di quello che diceva: ‘Io sono umile, ma orgoglioso di esserlo’. No, quella non è la vera umiltà. L’umiltà del piccolo è quella che cammina alla presenza del Signore, non sparla degli altri, guarda soltanto il servizio, si sente il più piccolo … E’ lì, la forza”.

Chiediamo al Signore la grazia dell'umiltà, di camminare nella Sua presenza
E’ “umile, molto umile”, osserva ancora il Papa col pensiero al Natale, anche la ragazza che Dio “guarda” per “inviare Suo Figlio”, e che subito dopo va dalla cugina Elisabetta, e non dice nulla “di quello che era accaduto”. L’umiltà è così”, soggiunge Francesco, ”camminare nella presenza del Signore”, felici, gioiosi perché “guardati da Lui”, ”esultanti nella gioia perché umili”, proprio come si narra di Gesù nel Vangelo odierno:

“Guardando Gesù che esulta nella gioia perché Dio rivela il suo mistero agli umili, possiamo chiedere per tutti noi la grazia dell’umiltà, la grazia del timore di Dio, del camminare nella sua presenza cercando di essere irreprensibili. E così, con questa umiltà, possiamo essere vigilanti nella preghiera, operosi nella carità fraterna ed esultanti di gioia nella lode”.

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Card. Menichelli: l’umiltà di Francesco, uno “scandalo” che ci fa bene

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Mettersi in cammino per incontrare il Signore. Un incontro che può avvenire soltanto se siamo umili. Sono i temi principali su cui Francesco si è soffermato nelle prime due omelie a Casa Santa Marta in questo Tempo di Avvento. Proprio dal tema dell’umiltà muove la riflessione del card. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona, nell’intervista di Alessandro Gisotti

R. – L’Avvento ci richiama proprio questo: bisogna che noi imitiamo i personaggi di quel tempo. E chi è che accolse il Figlio di Dio nato a Betlemme? I semplici, i puri, gli umili, coloro che non hanno fatto ragionamento sul perché e sul percome; hanno semplicemente accolto un invito, una proposta, un atto di libera adesione; con gioia hanno detto: “Andiamo a vedere quello che è successo”, cioè con uno spirito molto libero e molto umile. Quindi, l’umiltà è l’atteggiamento più utile e più necessario, indispensabile per accogliere il dono di Dio, per accogliere Dio.

D. – Francesco mostra proprio come l’umiltà debba essere al centro della vita del cristiano, e lo fa per primo; non sempre questo atteggiamento proprio dello spirito viene però compreso …

R. – Viviamo in un mondo – come posso dire … – chiamiamolo di eccellenze, di fortezza, di dominio, nel quale poi alla fine tutto si risolve in una sorta di teoria della vanità. Allora la proposta dell’umiltà – tra virgolette – è scandalosa, non trova un’accoglienza. Sì, è stimata … dice: “Ah, che brava persona!”, ma nel momento in cui l’umiltà, dove la testimonianza di una persona deve diventare una tua scelta, tutto questo scandalizza molto, e quindi è ovvio che magari i gesti di umiltà, di semplicità, di autenticità del nostro Papa Francesco non sempre possono essere accolti e compresi come ammaestramento, come cattedra

D. – Una "cattedra dell’umiltà", si potrebbe dire …

R. – Certamente! La cattedra dell’umiltà è indispensabile, è necessaria. L’umiltà è la parola sconvolgente! Se uno ci pensa: ma l’Onnipotente Dio, che cosa ha fatto – come dice San Paolo? Si è fatto piccolo, si è fatto umile, ha assunto la nostra natura, è entrato dentro la nostra fragilità. E questa è proprio una cattedra! La chiamerei anche la cattedra della verità sull’uomo e la cattedra della intelligenza e della sapienza dell’uomo.

D. – Ieri, nell’omelia a Santa Marta, Francesco sottolineava che per incontrare il Signore bisogna mettersi in cammino, non restare fermi; e poi scoprire che anche il Signore si è messo in cammino verso di noi, anzi: prima di noi. Ecco, vediamo come a volte la comodità dello stare fermi, anche nell’ambito della Chiesa, ci impedisca di muoverci …

R. – Diciamo così: che la fede è una scomodità. E’ un grande dono, certamente, ma è una scomodità, perché la fede ti invita a muoverti, ad andare verso. Ma nel caso di cui stiamo parlando, mi pare che il Santo Padre ieri abbia detto una frase che tocca la verità della fede, quando dice: “La fede non è un sapere tutto della dogmatica, ma è un incontrare Gesù”. Abbiamo spesso una fede da intellettuali, più che una fede di vita.

D. – Il Giubileo della Misericordia si è concluso pochi giorni fa; adesso siamo nel periodo dell’Avvento. Il Papa ci ha donato anche un qualcosa che è un messaggio e non solo una lettera, la “Misericordia et misera”. Che cosa l’ha colpita di questo documento?

R. – Mi ha colpito la sua semplicità essenziale. Come, partendo da Sant’Agostino, il Papa abbia messo di fronte, prendendo come spunto la pagina del Vangelo con l’incontro di Gesù, il Santo, con la donna senza nome, peccatrice perché adultera, quando la misericordia è una persona, quando la misera è una persona, l’incontro è salvifico. L’incontro è salvifico! Perché la misericordia non giudica, ma ama, e la misera non si sente abbandonata, ma ritrova una propria dignità. Questo credo che sia un grande tema della verità della testimonianza di fede: l’incontro tra la misericordia, che è una persona, e la misera, che è una persona. E si devono confrontare nell’amore, non nel giudizio reciproco, non nella paura di essere condannato o condannata, ma nella libertà di essere risuscitata. Capisco che queste possano essere parole, ma queste entrano dentro il ministero di ogni sacerdote e di ogni vero discepolo del Signore Gesù.

Se volete ascoltare integralmente l'intervista al cardinale Edoardo Menichelli, cliccate qui: 

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Oggi in Primo Piano



Aleppo assediata. P. Ibrahim: chiedo a tutti di pregare per la pace

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Sempre più grave la crisi in Siria e in particolare ad Aleppo, con la città assediata dall’esercito governativo che ha conquistato due quartieri della zona Est. Intervistato da Francesco Gnagni, il parroco della parrocchia latina di Aleppo, padre Ibrahim Alsabagh parla della situazione drammatica che sta vivendo la sua gente:  

R. – Sentiamo l’esercito regolare, che avanza insieme con i caccia e gli aerei russi e con le forze iraniane per liberare la parte Est della città. Si vede che c’è un’avanzata organizzata proprio bene. Ci sono tantissimi bombardamenti da tutte le parti. Durante il giorno, se non anche di notte, in questa parte occidentale, subiamo tanti lanci di missili sulle abitazioni e sulle case, e questo terrorizza di più la gente.

D. – Le organizzazioni internazionali parlano del numero dei bambini in una situazione di assedio che negli ultimi dodici mesi è raddoppiato, ed è salito quindi a 50 mila…

R. – Noi qui abbiamo assistito a tanti funerali di bambini. Abbiamo assistito a veri massacri, con missili che sono caduti nelle aule scolastiche in pieno giorno, aule affollate di bambini… Poi, abbiamo visto con i nostri occhi che cosa vuol dire anche per un giovane perdere tutte e due le gambe, o ritrovarsi con il corpo pieno di pallottole o di particelle delle bombe esplose. Purtroppo, chi subisce, come in qualsiasi guerra, è sempre il più debole: ossia i bambini, che soffrono tanto, anche a causa della malnutrizione, e che vivono nel terrore, con problemi psicologici. Ma soffrono anche le donne, e specialmente le giovani donne. 

D. – Quali sono principalmente le loro richieste o i loro desideri?

R. – Sicuramente le richieste e i desideri sono gli stessi: avere un po’ di pace, poter vivere senza ogni volta dover avere paura quando il proprio marito esce di casa. E sicuramente la speranza, la richiesta, è quella di avere un po’ di pace, per poter vivere con dignità.

D. – Si dice che il destino di Aleppo sia ormai quasi segnato: cioè che l’eventuale caduta della città rappresenterebbe una svolta a favore del regime di Assad, la cui azione tuttavia, come sta anche lei descrivendo, sta letteralmente demolendo un’intera città…

R. – Sicuramente, il rischio è sempre quello di parlare, e di concentrarci mentre lo facciamo, sulla parte Est della città o su quella Ovest. C’è una lettura che vede in quell’avanzata dell’esercito una liberazione dal terrorismo che la gente subisce nella parte occidentale; mentre quelli che si trovano nella parte Est vedono, in questa stessa avanzata dell’esercito, proprio l’apocalisse, la morte e la distruzione totale. Noi ci concentriamo di più sulla sofferenza dell’uomo, sull’uomo che viene privato della sua dignità umana. La Chiesa, dal primo momento del conflitto, aveva chiaramente detto che c’era tanto da cambiare e che bisognava farlo: “siamo tutti a favore del cambiamento, però un cambiamento che si fa con il dialogo, non con le armi”.

D. – Tutte le parti continuano a voler risolvere questo conflitto attraverso la soluzione militare, mentre alla guerra e alla violenza i cristiani di Aleppo rispondono con preghiere e digiuno. In modo particolare, in corrispondenza dell’inizio dell’Avvento…

R. – Infatti, ultimamente è un momento di grande disperazione. Abbiamo deciso – tutte le comunità cristiane insieme – mettendo davanti a noi i nostri bambini, di fare una preghiera insistente e continua per la pace. E quindi io approfitto anche di questa occasione per invitare tutte le parrocchie, tutti gli oratori, tutti i centri dei bambini, ma anche tutte le congregazioni e le case religiose, ad associarsi a noi in questa iniziativa di preghiera per la pace. Affinché ogni prima domenica del mese, preferibilmente in una Messa del Catechismo, una Messa per i bambini e da loro frequentata, sia dedicata in modo speciale alla pace per Aleppo, per la Siria, ma anche per tutto il mondo. 

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Haiti presidenziali: Moise vince con il 55,6%. Prima sfida l’estrema povertà

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L’uomo d’affari Jovenel Moise ha vinto le elezioni presidenziali ad Haiti. I risultati preliminari del primo turno, svoltosi lo scorso 20 novembre, vedono il candidato vicino all’ex Presidente Martelly in testa con il 55,6% delle preferenze. Una maggioranza assoluta che non richiede alcun ballottaggio, come previsto dal sistema elettorale. Alle urne si è tornati dopo due appuntamenti annullati nell’ultimo anno, per brogli e per la devastazione dell’uragano Matthew. Con questo voto Haiti cerca di consolidare la democrazia, dopo un anno di governo tecnico, e di risollevarsi da una forte crisi economica dovuta anche alla mancata ricostruzione dopo il devastante terremoto del 2010. Sulla vittoria di Moise, Marco Guerra ha intervistato l’esperto di America Latina e presidente dell’Icei, Istituto Cooperazione Economica Internazionale,  Alfredo Somoza

R. - Jovenel Moïse è il figlio di una grande crisi politica che attanaglia Haiti dal 2015. Ormai è più di un anno che questa crisi non si riusciva a chiudere, una crisi iniziata quando era stato deposto l’ex Presidente per problemi di corruzione. È una crisi che poi si è fortemente aggravata dalle catastrofi naturali e non naturali che ha sofferto Haiti: il terremoto, ma soprattutto l’arrivo degli uragani in autunno. È un Paese che ha forse il record mondiale di dissesto idrogeologico, e le conseguenze sono terrificanti. Moïse era stato scelto dall’ex Capo di Stato, il chiacchierato Michel Martelly, che l’aveva nominato come suo “delfino”. Poi, questo nuovo Presidente ha avuto dei mezzi superiori a tutti gli altri, nel senso che era l’unico ad avere un elicottero a disposizione: una cosa imprescindibile per fare campagna elettorale in un Paese che è  rimasto senza più nemmeno le strade. Ha speso in pubblicità più di tutti gli altri rivali messi insieme. Moise non riprende il filone della politica haitiana degli ultimi anni; ripromette una prosperità che allo stato delle cose è molto difficile capire da dove possa provenire. Comunque, va registrato che le elezioni che hanno concluso quest’anno e mezzo di caos politico hanno avuto una bassissima partecipazione, dato che soltanto il 22% degli lettori haitiani si è recato alle urne. Questo ci fa capire che, effettivamente, nella situazione di insofferenza rispetto alla politica, e con in mezzo i disastri naturali, la popolazione interna ha raggiunto un limite forse non più recuperabile.

D, - In campo, si è vista una grande frammentazione delle forze politiche: si rischiano tensioni e proteste alla luce di questo risultato?

R. – No, difficilmente, perché ormai la politica ad Haiti non è più sentita come un qualcosa di trascendente: rimane una dimensione per gli “addetti ai lavori”. Haiti ha avuto un periodo lunghissimo pieno di instabilità, purtroppo durante il regime della famiglia Duvalier – sia il padre sia il figlio – che poi si era concluso con l’elezione nel 1990 di un sacerdote, Jean-Bertrand Aristide, che aveva creato grandissime aspettative, poi anche nel suo caso deluse. Dalla caduta di Aristide avvenuta nei primi anni 90, Haiti è un Paese che non ha più ritrovato la pace, e ormai il livello della popolazione consiste nel garantirsi, se riesce, la sopravvivenza. Quindi è difficile che si producano manifestazioni di protesta per le modalità con cui sono avvenute le elezioni. Ricordiamo che gli osservatori internazionali hanno detto che sono andate discretamente bene, mentre lo scorso ottobre erano state cancellate altre elezioni per evidenti motivi di frode elettorale.

D. – Quali sono le emergenze che si troverà ad affrontare Jovenel Moïse? Qual è l’agenda politica dei prossimi mesi?

R. – Fondamentalmente, sono tutti i problemi legati all’estrema miseria, all’estrema povertà che diventa miseria – Haiti è il Paese più povero dell’emisfero occidentale – insieme alla ricostruzione per i periodici disastri naturali che ha sofferto il Paese. Senz’altro c’è un’emergenza che riguarda la sanità: ad Haiti si ripetono focolai di colera, e c’è una situazione terrificante per quanto riguarda, ad esempio, l’acqua potabile e i servizi igienici. C’è una priorità e un’urgenza sulla ricostruzione di abitazioni, che possano anche resistere ad esempio agli uragani. Diciamo che è un’agenda totalmente emergenziale; ed è per questo motivo che è  difficile che Haiti possa conoscere tempi migliori, almeno per un po’.

D. – Haiti è il Paese più arretrato dell’America Latina; la comunità internazionale cosa sta facendo per aiutarlo?

R. – Ci sono state diverse polemiche da parte di esponenti del governo haitiano con l’ultimo uragano, quando era stata gonfiata la cifra dei morti da parte degli organismi per poter in qualche modo incentivare la raccolta fondi. Il problema di Haiti, come quello di tanti Paesi che vivono le emergenze, è quello in qualche modo di “sdraiarsi” sugli aiuti internazionali, dipendere a dei livelli troppo alti dagli aiuti internazionali, senza capire come fare investimenti per evitare che si ripeta l’emergenza. 

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Cuba: equilibri internazionali dopo la scomparsa di Fidel Castro

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In tutta Cuba continuano le cerimonie e le commemorazioni in onore di Fidel Castro. Le ceneri del Lider maximo, morto a 90 anni sabato scorso, in questi giorni faranno il giro dell’isola caraibica per poi giungere nella città di Santiago de Cuba, dove domenica prossima, 4 dicembre, verranno celebrati i funerali. Intanto ci si interroga sui cambiamenti degli equilibri internazionali che la scomparsa di Castro potrà provocare. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Luigi Bonanate, docente emerito di Relazioni Internazionali all’Università di Torino: 

R. – Il problema grosso della morte di Fidel – che era politicamente già morto da circa un decennio – consiste però nel fatto che la sua morte sia praticamente coincisa con l’elezione del prossimo Presidente degli Stati Uniti, Trump. La condizione attuale di Cuba è in lento miglioramento. Raul è stato tutto sommato un miglior semi-Presidente di quanto forse molti di noi si aspettassero all’inizio. Dall’altro lato del mare c’è non solo la Florida, con gli esuli cubani, e poi un po’ più lontano dalla Florida c’è Washington, dove ci sarà questo nuovo Presidente. Non andiamo subito alla conclusione: è morto Fidel, è arrivato Trump, dunque adesso si induriranno le relazioni tra i due Paesi. E’ una delle possibilità, certo, ma non corriamo troppo.

D. - Potrebbe ricostituirsi quel fronte di Paesi latino-americani schierati contro Washington?

R. – L’antimperialismo di una volta... In America Latina stiamo assistendo a una pagina un po’ ambigua, diciamo così. Perché dopo l’ondata dell’antimperialismo, c’è stata questa salita al potere progressiva di governi di centro-sinistra, che sembrava andassero bene, che avessero migliorato molto le cose… Ma, invece, uno per uno stanno cadendo: Chavez prima; in Brasile, purtroppo, non vediamo la fine di questa crisi; la Bachelet in Cile, che era anche lei molto apprezzata, sta crollando e sembra che non abbia mantenuto le sue promesse. Più che un fronte antiamericano, direi che adesso sarebbe il momento che l’America, ma tutti noi, cercassimo di fare qualcosa per aiutare l’America Latina. Il problema non è più solo finanziario, come poteva essere una volta: adesso si tratta di cultura politica, cioè di capacità di costruire istituzioni comuni, dare vita a intese e a scambi reciproci molto più alti... L’America Latina ha una grande tradizione eurocentrica: dovremmo non farla cadere nelle braccia di nessuno, ma aiutarla tutti quanti.

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Cuba: nota dei vescovi dopo la morte di Fidel Castro

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I vescovi cattolici di Cuba, in una nota firmata dal segretariato generale della Conferenza episcopale, pubblicata sul sito di Palabra Nueva, rivista dell’arcidiocesi dell’Avana, esprimono le proprie condoglianze alla famiglia e alle autorità del Paese per la morte di Fidel Castro. “A partire dalla nostra fede – si legge nella nota ripresa dall'agenzia Sir – raccomandiamo Fidel Castro a Gesù Cristo, volto misericordioso di Dio Padre, al Signore della vita e della storia e, al tempo stesso, chiediamo al Signore Gesù che nulla turbi la convivenza tra noi cubani”.

Una Patria con tutti e per il bene di tutti
 La nota prosegue mettendo tutto il popolo cubano sotto la protezione della Vergine della Carità del Cobre, patrona del Paese, nella speranza che ella “ci protegga e ci animi ad operare uniti, per realizzare il sogno al quale José Martí (il padre dell’indipendenza cubana, ndr) dedicò la sua vita: una Patria con tutti e per il bene di tutti”. (R.P.)

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Venezuela: ancora ferme in dogana le medicine inviate dall'estero

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Ancora nessuna risposta da parte delle autorità alla Caritas Venezuela sulle medicine inviate dall’estero per assistere i casi urgenti della popolazione. La direttrice della Caritas Venezuela, Yaneth Marquez, ha detto ieri a Union Radio - riferisce l'agenzia Fides - che ad agosto era arrivato un carico di medicine provenienti dal Cile per venire incontro all'enorme domanda della popolazione. "Siamo andati al Sistema di regolamento doganale e di Tasse di frontiera - Seniat - a chiedere di consigliarci per avere le autorizzazioni appropriate. Prima che arrivasse il carico avevano già fatto tutte le pratiche al Ministero della Salute, inviando anche delle lettere all'ufficio dell'Economia e al vice Presidente della Repubblica dicendo che stava arrivando questo carico, le caratteristiche dei farmaci e perfino dei contenitori per accelerare i permessi per le procedure".

La Chiesa è molto preoccupata perché la situazione peggiora e la domanda si moltiplica
​Marquez ha aggiunto che il Ministero della Sanità aveva promesso alla Caritas che avrebbe ottenuto i permessi, ma non ha mai avuto una risposta. "La Chiesa è molto preoccupata perché la situazione peggiora e la domanda si moltiplica, mentre le procedure della Seniat stanno diventando complicate, e abbiamo bisogno di un permesso" ha aggiunto.

Il governo non riconosce la gravità della crisi
Nel frattempo Feliciano Reyna, presidente dell'Associazione Azione Solidarietà, ong che lavora nel Paese dal 1995, ritiene che se il governo non riconosce la gravità della crisi, sarà molto difficile che gli aiuti internazionali arrivino lì dove sono necessari. "Sappiamo che la Caritas diventa il principale alleato a cui chiunque può pensare per aiutare il Venezuela" ha concluso. (C.E.) 

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Somalia: posticipate presidenziali, ma il Paese muore di sete

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In Somalia sono state posticipate alla fine di dicembre le elezioni presidenziali previste per domani. Ancora non è nota la data esatta, ma saranno prima del nuovo anno, ha annunciato la commissione elettorale. Non tutti gli Stati regionali somali – è stato dichiarato – avrebbero completato il processo elettorale della Camera Bassa. Tra i candidati il presidente in carica Hassan Sheikh Mohamoud, fortemente contestato perché ancora al potere nonostante il mandato sia già scaduto e accusato di pesanti brogli elettorali. Cosa significa questa battuta d’arresto per il Pase? Francesca Sabatinelli lo ha chiesto a Shukri Said, giornalista somala dell’associazione Migrare: 

R. – Significa incertezza, instabilità istituzionale e anche uno “scempio di governabilità”, perché è ormai dal 10 settembre che sono scaduti i mandati di tutte le istituzioni: Parlamento, governo, presidente. Il premier Sharmarke e il presidente Sheikh Moahmoud sono ambedue candidati che concorrono per queste elezioni presidenziali. Era in agenda il fatto che dovessero essere effettuate le riforme previste, che invece non sono state fatte. Ma essere un candidato vuol dire che avrebbe dovuto rispettare le "regole del gioco", cosa che Sheikh Mohamoud, invece, non ha fatto; e vuol dire concorrere con tutti gli altri candidati. Ma il punto centrale è: perché sta a “Villa Somalia” (residenza ufficiale del presidente della Repubblica ndr) abusivamente da mesi? Perché la comunità internazionale, la missione di peacekeeping, lo protegge nel suo essere dittatore?

R. – In tutto questo, il Paese è in una situazione più che drammatica, preda di una siccità che sta lasciando milioni di persone senza cibo né acqua…

R. – Che sta lasciando anche morire le persone. Due o tre giorni fa ho pianto, perché un bambino di sei anni è morto di sete, di sete! Perché i pastori, i cammellieri, non hanno più né acqua né cibo, e non c’è soccorso, perché sia il presidente che il primo ministro sono impegnati nella loro campagna elettorale e quindi non hanno dato nemmeno l’allarme per questa gente! Anche nelle regioni come Puntland o Somaliland, che erano amministrati meglio, la gente sta morendo e non ci sono soccorsi, non c’è nemmeno un’allerta da parte della comunità internazionale. Basta! Perché il popolo somalo non ha voce, è un popolo seviziato, dai fanatici, dai dittatori e dagli pseudo-dittatori disperati, senza potere, che vogliono restare lì e la comunità internazionale li guarda! Sheikh Moahmoud deve uscire da Villa Somalia e al Paese occorre dare un governo ed anche elezioni vigilate dalla comunità internazionale. Perché si deve consentire questo scempio?

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Minori e nuovi media: perché troppa tecnologia fa male

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Le nuove tecnologie hanno apportato numerosi cambiamenti nella vita quotidiana degli individui, per certi versi coadiuvano le faccende di tutti i giorni, sensibilizzano l’opinione pubblica su aspetti rilevanti, per altri provocano seri rischi per la salute, soprattutto dei più giovani. Un recente studio della Gsma (Assoziazione Internazionale degli Operatori di Telefonia Mobile) ha evidenziato come il 69% dei bambini europei e giapponesi possiede uno smartphone che, inevitabilmente, consente di accedere ad internet e a numerose applicazioni invitanti che espongono i più fragili a messaggi spesso non adatti. A complicare ulteriormente le cose, la mancanza di dialogo tra figli e genitori, e quelli che dovrebbero essere gli insegnamenti di un padre e di una madre, diventano influssi digitali irradiati da un contenitore di informazioni, per cui i giovani non sempre hanno in mano gli strumenti adatti per comprendere i rischi cui si sottopongono. La Dott.ssa Isabella Poli, direttrice scientifica del Centro Studi Minori e Media, evidenzia quali sono le incognite cui i ragazzi vanno incontro nell’intervista di Sabrina Spagnoli: 

R. – I rischi sono stati spesso anche descritti in modo dettagliato sia dai pediatri sia dai critici dei media. Più che di controllo io parlerei di accompagnamento. Il problema dei minori davanti ai media, e soprattutto ai new media, è che sono soli, non sono accompagnati: né nel momento in cui usano uno di questi mezzi di comunicazione, né accompagnati nel loro uso in generale. I genitori non devono delegare altri e la scuola ovviamente deve fare altrettanto: aiutare i propri figli ad un uso responsabile dei media. Devono essere abbracciati ma con le braccia “aperte”, perché i bambini, i minori, devono essere liberi di poter fare da soli le loro scelte anche nel campo della comunicazione e dell’informazione.

D. – Le nuove tecnologie permettono oggi di monitorare i propri figli ovunque e in qualsiasi momento, questo grazie anche a specifiche app sui cellulari o addirittura gps nelle scarpe. Quindi se prima si chiedeva a un bambino dov’era stato, adesso il dialogo viene meno: si monitora ma non si dialoga più in casa…

R.  – E’ cominciato con la tv nella sala da pranzo: la tv che diventava amica di famiglia ma diventava una presenza ingombrante. Poi, siamo passati agli altri media, quelli più sofisticati. E in realtà questo non serve e non aiuta né i genitori né i figli perché i genitori si impigriscono in queste nuove tecnologie ma nello stesso tempo non cercano di trovare un modo di accompagnare i propri figli nel formarsi in questo campo. E c’è anche l’importanza della scuola oltre che della famiglia: dovrebbe aiutare a un uso critico, dovrebbe essere un aiuto più strutturato messo a sistema con, ad esempio, la media education cioè l’educazione all’uso responsabile dei media.

D. - I dati della Gsma sono piuttosto allarmanti. Si parla infatti del 39% dei ragazzi europei e giapponesi che entra in stato di ansia se internet è precluso. Oppure il 10% dorme di meno per stare dietro a internet. Il 20% addirittura taglia le relazioni. Cosa porta a questo stato di isolamento?

R. – Un fuga anche dalla realtà. Noi, come Centro studi minori e media, abbiamo fatto varie ricerche, ad esempio, sull’uso di internet e sull’uso dei videogiochi e la risposta dei ragazzi è stata abbastanza sconcertante. Per esempio, dicevano che se avevano un appuntamento rimandavano perché dovevano finire il gioco. Queste risposte mettono sicuramente in allarme. Non significa che si deve vietare l’uso ai minori di questi nuovi media. In realtà i media sono come un Far West dove si trovano le miniere d’oro ma si trovano anche i serpenti e gli sciacalli. Significa aiutare i propri figli a formarsi anche nel campo della comunicazione.

D. – Quali dovrebbero essere le accortezze per i genitori che lasciano i figli in balìa dei media?

R. – Partiamo dal vecchio media, la televisione: l’apparecchio televisivo non deve essere nella stanza dove si pranza. Se è possibile, inoltre, bisogna trascorrere del tempo insieme ai propri figli nell’uso di questi media. Molto spesso i figli sono più preparati dei genitori ma questo non significa che non si debba stare loro accanto. Direi di non fare usare il computer e i vari giochi elettronici a bambini molto piccoli. Se si fa, si fa solo in caso eccezionale.

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Vescovi asiatici. Card. Gracias: preghiamo per i cristiani siriani

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“Preghiamo per tutte le famiglie e i cristiani in Siria”. Lo ha detto il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc). Il cardinale è intervenuto ieri durante l’11ma Plenaria dei vescovi asiatici, che si è aperta a Negombo, in Sri Lanka e durerà fino al 4 dicembre. Circa 140 delegati - riporta l'agenzia AsiaNews - sono arrivati da tutta l’Asia per partecipare alla riunione, alla quale partecipano vescovi, sacerdoti e rappresentanti delle Chiese orientali. Il tema della Plenaria, che si svolge ogni quattro anni, è “La famiglia cattolica asiatica: La Chiesa locale dei poveri nella missione di misericordia”.

L’incontro tra i leader cristiani e quelli di fede buddista, islamica e indù
Al termine della convention i vescovi redigeranno un documento, una sorta di guida pratica sul ministero nella famiglia per la Chiesa in Asia. “Siamo qui riuniti – ha detto il cardinale – per discutere e deliberare sulla famiglia, ma non possiamo dimenticare le famiglie in Siria, che stanno sperimentando sofferenza, immigrazione e morte, a causa della guerra civile. In particolare, i cristiani stanno vivendo un momento davvero difficile. In questa conferenza dobbiamo pregare per loro”. Tra i momenti salienti della Plenaria di quest’anno, l’incontro del primo dicembre tra i leader cristiani e quelli di fede buddista, islamica e indù.

Le difficoltà che le famiglie affrontano in tutti i Paesi
L’attenzione dei vescovi asiatici verrà posta sulle maggiori difficoltà che le famiglie affrontano in modo trasversale in tutti i Paesi: relazioni extra-coniugali, assenza di figli, aumento del divorzio e delle ore di lavoro che porta a trascorrere meno tempo in famiglia; il proliferare della pornografia come svago, aborto, eutanasia e immigrazione. (S.D.)

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Vescovi Slovacchia: no a ratifica Convenzione di Istanbul

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I vescovi slovacchi chiedono al Governo di non ratificare la Convenzione di Instanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e quella domestica. Secondo l’episcopato, il trattato adottato nel 2011 dal Consiglio d'Europa è ispirato all’ideologia di genere che contrasta “con l’esperienza umana e con il buon senso”. In questo senso si esprime in una nota il presidente della Conferenza episcopale, mons. Stanislav Zvolenský.

A rischio diritti fondamentali, come la libertà religiosa e di educazione
Composta di 81 articoli, la Convenzione individua una serie di nuove tipologie di reato, quali le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato, gli atti persecutori (stalking), l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, descrivendo la violenza contro le donne come una “manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”. Il problema – afferma mons. Zvolenský - è che insieme al principio condivisibile della protezione delle donne dalla violenza, il testo introduce altre istanze che sono invece “inaccettabili” e che interferiscono con altri diritti fondamentali, come la libertà religiosa e di educazione.

La distinzione tra “genere” e sesso biologico contraria al buon senso
A destare le obiezioni dell’episcopato slovacco è in particolare la distinzione tra “genere”, inteso come un insieme di “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini” e sesso biologico (art.3). Questa distinzione è “basata sull’assunto che ogni persona nasce ‘neutra’ e che la mascolinità, la femminilità e altri generi sono il frutto dell’educazione, delle circostanze sociali e di scelte personali”. Un’idea che, sottolinea mons. Zvolenský, “contradice l’’esperienza umana e il buon senso”. L’applicazione della Convenzione, aggiunge, rischia di “violare la libertà di educazione dei genitori e quella religiosa”, dal momento che impegna gli Stati contraenti a intraprendere le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi e i ruoli di genere non stereotipati.  

Non cedere alle pressioni internazionali per la ratifica della Convenzione
“Il peso dell’ideologia in un documento di così grande importanza è controproducente”, afferma in conclusione il presidente dei vescovi slovacchi. Di qui l’appello al Governo di Bratislava a non cedere alle pressioni internazionali per la sua ratifica e ad opporsi alla sua adozione anche  presso le istituzioni europee. (A cura di Lisa Zengarini)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 334

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