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Sommario del 16/10/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: "Pregare non è rifugiarsi in un mondo ideale, pregare è lottare"

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“Pregare è lottare, e lasciare che anche lo Spirito Santo preghi in noi”. Il Papa ha ricordato il valore della preghiera nella Messa in Piazza San Pietro per la proclamazione di sette nuovi santi. Pregare dunque, "non per vincere la guerra, ma per vincere la pace”. Circa 80 mila le persone presenti per rendere omaggio a José Sánchez del Río, Salomone Leclercq, José Gabriel del Rosario Brochero, Manuel González García, Lodovico Pavoni, Alfonso Maria Fusco ed Elisabetta della Santissima Trinità. Nel tweet odierno, Francesco ha poi scritto: “Andiamo avanti con coraggio nel cammino verso la santità”! Il servizio di Alessandro Guarasci

Il martirio, la vicinanza ai poveri e agli ammalati. E’ questo il carattere comune che unisce i sette nuovi Santi proclamati da Francesco. Martiri durante le rivoluzioni messicana e francese, oppure sacerdoti che in America Latina, in Spagna e in Italia hanno assistito gli emarginati e i lavoratori sottopagati, una suora francese che nonostante anche lei fosse ammalata decise di rimanere fino all’ultimo vicina ai sofferenti. Santi quindi che non solo sono un esempio per la nostra vita quotidiana, ma che soprattutto ci insegnano il valore della preghiera,"non per vincere la guerra - dice il Papa - ma per vincere la pace".

"Pregare non è rifugiarsi in un mondo ideale, non è evadere in una falsa quiete egoistica. Al contrario, pregare è lottare e lasciare - sottolinea il Pontefice -che anche lo Spirito Santo preghi in noi.  E’ lo Spirito Santo che ci insegna a pregare, che ci guida nella preghiera, che ci fa pregare come figli”:

“I Santi sono uomini e donne che entrano fino in fondo nel mistero della preghiera. Uomini e donne che lottano con la preghiera, lasciando pregare e lottare in loro lo Spirito Santo; lottano fino al limite, con tutte le loro forze, e vincono, ma non da soli: il Signore vince in loro e con loro”.

E questi sette testimoni canonizzati “hanno combattuto la buona battaglia della fede e dell’amore con la preghiera”:

“Per questo sono rimasti saldi nella fede, con il cuore generoso e fedele. Per il loro esempio e la loro intercessione, Dio conceda anche a noi di essere uomini e donne di preghiera; di gridare giorno e notte a Dio, senza stancarci; di lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi, e di pregare sostenendoci a vicenda per rimanere con le braccia alzate, finché vinca la Divina Misericordia”.

“L’impegno della preghiera - precisa il Papa - richiede di sostenerci l’un l’altro. La stanchezza è inevitabile, a volte non ce la facciamo più, ma con il sostegno dei fratelli la nostra preghiera può andare avanti, finché il Signore porti a termine la sua opera”. L’agire cristiano necessita di comportamenti ben precisi: “essere saldi nella preghiera per rimanere saldi nella fede e nella testimonianza”.

All’Angelus, il Papa ha salutato tutti coloro che dai vari Paesi sono venuti per rendere omaggio ai nuovi Santi. Presenti anche le delegazioni ufficiali di Argentina, Spagna, Francia, Italia, Messico. Francesco ha quindi chiesto che “l’esempio e l’intercessione di questi luminosi testimoni sostengano l’impegno di ciascuno nei rispettivi ambiti di lavoro e di servizio, per il bene della Chiesa e della comunità civile”.

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Le testimonianze della gente alla Messa per le canonizzazioni

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Ecco alcune testimonianze dei presenti alla Messa di canonizzazione del messicano José Sánchez del Río, dei francesi Salomone Leclercq ed Elisabetta della Santissima Trinità, dell’argentino José Gabriel del Rosario Brochero, dello spagnolo Manuel González García, degli italiani Lodovico Pavoni e Alfonso Maria Fusco. Le ha raccolte Giada Aquilino

D. – Il tuo nome…

R. - Michele.

D. – Perché sei venuto in Piazza San Pietro?

R. – Sono un postulante Carmelitano Scalzo e sono venuto qui per la canonizzazione di Elisabetta della Trinità.

D. – Che esempio vi ha dato?

R. – Elisabetta è una figura che affascina: ha tutto un mistero della Trinità interno. Sono venuto qui proprio per ascoltarla parlare ancora. “Nel cuore della Chiesa, io sarò l’amore”: su questo rifletto ed è ciò che sento in questo momento, cioè essere amore nel mondo.

D. – Che esortazione ha dato il Papa a voi giovani, prendendo spunto da questi nuovi Santi?

R. – Ci dà una spinta nuova: dobbiamo tornare a percorrere le strade del mondo e a testimoniare il Signore con gioia. Comincio a pensare alla mia vita da consacrato e mi dico: “Devo veramente portare la gioia agli altri”!

D. – Come si chiama?

R. – Sono suor Marta, da Bratislava, Slovacchia.

D. – Il Papa nell’omelia ha dato molta importanza alla preghiera…

R. - Sì, perché quando noi preghiamo, siamo con Dio. E preghiamo il Signore per noi stessi, per gli altri.

D. – Suor Marta, il Papa ha parlato dei nuovi Santi. Ha detto che essi hanno raggiunto la meta, hanno avuto un cuore generoso e fedele proprio grazie alla preghiera. Che esempio può venire da loro?

R. – Quando c’è l’esempio di persone che pregano, noi possiamo seguirlo perché questo è il senso della vita: preghiera e rimanere con Dio.

R. – Sono Giuseppe Maria.

D. – Perché è venuto in Piazza San Pietro, per le canonizzazioni

R. – Perché sono nato a Valencia, abito in quella città, e Manuel González García è stato il vescovo di quella città, è sepolto nella nostra cattedrale. Conosco la sua vita, qualcuno dei suoi scritti.

D. – Che esempio ha dato questo Santo?

R. – Lo chiamano il vescovo del Tabernacolo abbandonato: non lasciare solo Gesù…

D. – Qual è il suo nome?

R. – Sabina, dalla Nigeria.

D. – Cosa ha significato partecipare alle canonizzazioni in Piazza San Pietro?

R. – Sono molto contenta, come cristiana e cattolica, di aver partecipato con la mia vita, come figlia di Dio, figlia di Maria.

D. – Il Papa ha invitato a prendere esempio dai nuovi Santi. Cosa vuol dire pregare?

R. – La preghiera è importante, in tutti i cristiani, perché senza preghiera nessuno mai potrà vivere una vita buona, una vita santa.

D. – C’è uno dei nuovi Santi che l’ha colpita particolarmente?

R. – Sì, si chiama José Sánchez del Rio, è morto nel martirio, ha sacrificato la sua vita per la santificazione della Chiesa e perché i giovani imitassero la sua esistenza.

D. – Lei è nigeriana: nel suo Paese continua la violenza. Cosa vuol dire essere cristiani oggi, in Nigeria?

R. – C’è tanta paura. Ma abbiamo fiducia in Dio.

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Papa: lottiamo contro povertà che uccide e preghiamo per la pace

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Nel corso della preghiera mariana recitata in Piazza San Pietro, Papa Francesco ha affidato alla Vergine Maria ogni nostra intenzione, specialmente l’“insistente e accorata” preghiera per la pace. Ha quindi ricordato che domani ricorre la Giornata mondiale contro la povertà: 

“Uniamo le nostre forze, morali ed economiche, per lottare insieme contro la povertà che degrada, offende e uccide tanti fratelli e sorelle, attuando politiche serie per le famiglie e per il lavoro”.

Proprio in vista della “Giornata mondiale per lo sradicamento della povertà” indetta dall’Onu, si constata che sono numerosi i progetti della comunità internazionale per lottare efficacemente contro il fenomeno, eppure l’indigenza - come ha sottolineato il Pontefice - è sempre presente in varie zone del mondo, anzi per certi versi si sta estendendo anche in Paesi sinora non toccati da questa emergenza. Sono 900 milioni oggi le persone che vivono in povertà assoluta: e nel 2016, secondo Oxfam, la ricchezza detenuta dall'1% della popolazione mondiale ha superato quella del restante 99%. Su come definire oggi la povertà, Giancarlo La Vella  ha intervistato l’economista Riccardo Moro, copresidente della Coalizione Globale contro la Povertà (Gcap): 

R. – Da un lato, il fenomeno è oggetto di interventi politici un po’ in tutto il pianeta. Il fatto che essa esista tuttora può scoraggiare e addirittura invitare a lasciar perdere. E’ la posizione di molti, i quali dicono: “E’ inutile fare politiche specifiche; è meglio fare politiche che migliorino le condizioni generali”. In realtà, il fenomeno è in trasformazione. Io credo che possiamo vedere tre tipi di povertà: una rappresentata dalla mancanza di mezzi economici; una di tipo diverso, rappresentata dalla difficoltà nell’accesso a tanti servizi e/o opportunità, come la distanza dalla scuola, la difficoltà di opportunità di lavoro e così via; e c’è poi quella che potremmo chiamare una sorta di povertà politica, cioè una difficoltà, un impedimento ad accedere alla democrazia, in qualche modo, a poter incidere sui processi delle comunità di cui si è parte.

D. – Tornando al concetto di povertà come indigenza, molte le risposte che vengono proposte. E’ un fenomeno che si potrebbe attenuare con un finanziamento anche diretto alle famiglie bisognose oppure bisognerebbe cambiare le strutture economiche della società stessa?

R. – E’ chiaro che è molto più efficace la seconda ipotesi. Noi abbiamo bisogno di creare delle condizioni in cui sono le persone che diventano protagoniste del cambiamento. In questo senso, è importante pensare alla povertà politica: o ci rendiamo conto che quelli che noi oggi chiamiamo poveri sono cittadini ed esercitano un ruolo o continueremo a fare degli interventi che rischiano di essere sterili.

D. – Quanto la guerra influisce sul fenomeno povertà nel mondo?

R. – Influisce sicuramente, ma non è l’unico fattore. E’ necessario, però, dotarsi anche degli indicatori giusti per leggere quali sono i fenomeni. E allora, ancora una volta, usare degli occhiali che guardano solo al reddito medio, che guardano solo ad alcuni aspetti di un fenomeno che, viceversa, è multidimensionale, come quello della povertà, impedisce di vederne le reali cause e rende sterili gli interventi da disegnare.

D. – La povertà è un fenomeno, come spesso ha detto Papa Francesco, di cui ognuno di noi deve farsi carico?

R. – Nelle parole di Gesù l’attenzione a chi fa più fatica è assolutamente costante ed è chiaro. Se è vero che per eliminare il fenomeno dell’indigenza occorre cambiare i ruoli nella società, questo significa chiamare in causa il ruolo di tutti, anche quello di ognuno di noi.

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Incontro a Taiwan: dialogo cristiano-taoista sia faro di luce

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Il dialogo tra cristiani e taoisti diventi “un faro di luce” per il mondo di oggi, “lacerato” da guerre, odio, sospetti e paure. Questo uno dei passaggi della dichiarazione finale del primo incontro di dialogo cristiano - taoista, dal titolo “Cercando insieme la verità”, appena conclusosi a Taiwan. L’evento è stato promosso dalla Taipei Baoan Temple Foundation, dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e dalla Chinese Regional Bishops’ Conference. Ce ne parla Giada Aquilino

Rispetto, comprensione, arricchimento, impegno per le sfide di oggi e la promozione dei valori universali. Questi i cardini della dichiarazione finale dell’incontro tenutosi a Taiwan. Presenti mons. Miguel Ángel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, e padre Indunil Kodithuwakku, sottosegretario del medesimo dicastero. Nel testo, lo sguardo va subito ai rapporti tra cristiani e taoisti ma anche alle crisi contemporanee. I partecipanti esprimono “profondo rispetto” reciproco e si impegnano ad un “dialogo sincero” a livello locale, nazionale e internazionale. Cercare la verità insieme, scrivono, serve per una “maggiore comprensione”, un “arricchimento reciproco” e una cooperazione in nome di una carità “senza distinzioni”. Si guarda alle sfide della globalizzazione, con le migrazioni, le tensioni religiose e interculturali, il fondamentalismo. Quindi si auspica che il dialogo tra cristiani e taoisti possa diventare “un faro di luce” per il mondo di oggi, “lacerato” da guerre, odio, sospetti e paure, affrontando “insieme” la secolarizzazione, la crisi ambientale, la piaga dell’indifferenza. Una voce particolare è quella riservata all’importanza di educare i bambini al rispetto, apprezzando cultura e patrimonio propri, come pure quelli degli altri. Non ultima, la diffusione dei valori universali, individuati in giustizia, pace, unità, fraternità, libertà e armonia religiosa.

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Oggi in Primo Piano



Siria: Kerry incontra alleati europei. Stallo con la Russia

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Il segretario di Stato americano John Kerry è a Londra per incontrare il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson e altri colleghi europei: al centro dei colloqui, la situazione in Siria. Il capo della diplomazia Usa arriva da Losanna, in Svizzera, dove ieri si sono conclusi con un nulla di fatto i colloqui per un cessate il fuoco ad Aleppo con l’omologo russo Sergei Lavrov ed altri esponenti del Paesi mediorientali convolti nella crisi siriana. Il servizio di Marco Guerra

Non è stato sottoscritto un documento finale e nemmeno è stata espressa alcuna concreta dichiarazione di intenti comune per porre fine alla violenza in Siria, ieri al termine del vertice, in Svizzera, tra tutti i principali attori coinvolti nella crisi siriana: Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran, Arabia Saudita e Qatar. Kerry e Lavrov, che hanno avuto un colloquio privato di 40 minuti, si sono limitati a parlare di “idee interessanti” sul tappeto, ma il vero nodo rimane l’appoggio di Mosca ad Assad e quello di Washington ai ribelli. L’esito di questo incontro verrà discusso da Kerry oggi a Londra insieme agli alleati europei, fra i quali il ministro degli Esteri britannico Johnson e i gli omologhi di Francia, Jean-Marc Ayrault, e Germania, Frank-Walter Steinmeier. Ma la spaccatura tra Usa e Russia va oltre la questione siriana. Fonti diplomatiche russe si sono dette “preoccupate” per le indiscrezioni circa un ipotetico, imminente attacco informatico ordinato dalla Casa Bianca ai danni del Cremlino. Intanto sul terreno si registra la conquista di Dabiq da parte dei ribelli anti-governativi dell’Esercito siriano libero. La città è stata strappata al sedicente Stato Islamico dopo una violenta battaglia, mentre, riferisce Medici Senza Frontiere, ad Aleppo i bombardamenti hanno colpito altri quattro ospedali: feriti due medici e ucciso un autista di un’ambulanza.

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Haiti: visita di Ban Ki-moon. Msf lancia l'allarme colera

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È “straziante” la distruzione ad Haiti. Lo ha constatato il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, in visita nel Paese caraibico devastato dall'uragano Matthew, che ha provocato oltre 500 vittime. Il numero uno uscente del Palazzo di Vetro ha rinnovato l'appello all'invio di aiuti internazionali, soprattutto per fermare l'epidemia di colera in corso, che preoccupa particolarmente la popolazione. Lo spiega Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, al microfono di Michele Raviart

R. – La situazione a Haiti è critica; come si temeva nei primi giorni, il paventato problema del colera è una realtà che stiamo affrontando con una certa difficoltà. I casi purtroppo si moltiplicano. Il fatto che alcuni villaggi siano raggiungibili in maniera molto difficoltosa naturalmente aumenta la possibilità di contagio tra le persone e soprattutto il fatto che, sebbene stiano giungendo aiuti concreti anche in termini di potabilizzazione dell’acqua, sicuramente a un numero importantissimo di villaggi l’acqua ancora non arriva potabilizzata: molte persone bevono dai fiumi e quindi la possibilità che si diffonda il vibrio del colera aumenta di giorno in giorno.

D. – Quanta gente è coinvolta nell'emergenza e quali sono le priorità sanitarie?

R. – Le priorità sanitarie nei primi giorni sono state sicuramente, oltre a quella del colera, il problema relativo alle infezioni agli arti inferiori date dal fatto che molte persone hanno camminato per giorni interi sui detriti, in zone fangose e quindi molte ferite si sono infettate. L’altro problema grossissimo non è necessariamente sanitario, ma è legato ai tetti, nel senso che l’uragano ha portato via moltissime case, c’è un numero crescente di senzatetto che devono essere ricollocati da qualche parte. E sappiamo benissimo che a Haiti non è semplice: la ricostruzione dal terremoto del 2010 non è mai stata terminata, moltissime persone ancora dormono in tenda.

D. – Un altro allarme è quello dell’approvvigionamento alimentare: nella regione della Grand’Anse, dove tra l’altro opera anche Medici Senza Frontiere, la totalità dei raccolti di grano è stata spazzata via. Qual è la situazione a livello di approvvigionamento alimentare?

R. – Il Programma alimentare mondiale si è messo in moto immediatamente e quindi moltissimi dei magazzini ad Haiti si sono messi in funzione per il cibo. Sicuramente noi, per esempio, ci stiamo attrezzando per il cibo supplementare ai bambini, in particolare il cibo terapeutico per i malnutriti, che in questo momento non sono ancora un numero importante, anche se potrebbero esserlo in futuro; ci saranno sicuramente le distribuzioni del Programma alimentare mondiale in questo senso, nei prossimi giorni.

D. – Di che cosa c’è bisogno adesso, nell’immediato?

R. – E’ fondamentale nel più breve tempo possibile arrivare con l’acqua; la seconda cosa è sicuramente quella di tentare di ripristinare dei centri sanitari il più presto possibile, sia nei vari centri come Jérémie e Le Cayes, sia nei centri più piccoli.

D. – In generale, la macchina degli aiuti sta funzionando?

R. – C’è stato un ritardo considerevole, non legato all’inefficienza delle organizzazioni quanto alla logistica, nel senso che ci si muove ancora rapidamente con l’elicottero e l’elicottero non può essere dato a tutti, ovviamente; quindi c’è un problema oggettivo di spostamenti: stanno lentamente ripristinando la rete viaria, che non è semplice perché è crollato un ponte molto importante, moltissime strade erano colme di detriti… In un Paese che ha già una rete viaria molto, molto precaria è difficilissimo metterla a posto. Ma al di là di questo, direi che piano piano gli aiuti arrivano.

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Libia: nuovi scontri a Tripoli dopo il fallito golpe

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Resta tesa la situazione a Tripoli, in Libia, dopo il fallito golpe di ieri da parte milizie vicine ai Fratelli musulmani e guidate da Khalifa al Ghwell, ex premier dell'allora governo di salvezza nazionale che ad aprile ha ceduto il potere a Sarraj. Scontri tra ribelli e forze governative si sono registrati anche questa notte e all’alba in diverse zone di Tripoli: intorno alla base navale di Abu Seta, ex quartier generale di Sarraj, nell'area di Zaouia Al Dahamani e dell'ospedale Al Layoun. Ieri le milizie fedeli all'ex premier Khalifa Ghwell avevano occupato la sede del Consiglio di Stato. Alla base del tentato golpe ci sarebbe il mancato pagamento della milizia a cui si è appoggiato Ghwell, che non veniva retribuita dal governo forse per sostituirla. Malgrado il suo fallimento, il tentato colpo di Stato rappresenta una nuova battuta di arresto per Sarraj, già contrastato dalle autorità di Tobruk che non riconoscono il suo governo e dal generale a capo delle forze armate, Khalifa Haftar, che un mese fa ha occupato la zona della Mezzaluna petrolifera sottraendola al controllo di una milizia fedele a Tripoli. (M.G.)

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Iraq: attentato a Baghdad, 4 morti. Imminente l'offensiva su Mosul

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La violenza torna a colpire le commemorazioni religiose in Iraq. Almeno 4 persone sono morte e 10 sono rimaste ferite stamani a Baghdad dopo che un attentatore suicida si è fatto esplodere tra la folla, nel quartiere Jadriyah, mentre si celebrava il giorno dell’Ashura per il martirio dell'Imam Hussein, nipote di Maometto. L'attacco è stato rivendicato dal sedicente Stato Islamico. Intanto sarebbero circa 9 mila i miliziani sciiti che si apprestano a partecipare, al fianco dell'esercito iracheno, all'imminente offensiva militare per la riconquista di Mosul. Lo  riferiscono fonti delle milizie di Difesa popolare. E il presidente della regione autonoma del Kurdistan, Massoud Barzani, ha annunciato che i preparativi dell'operazione sono ormai terminati e che anche le milizie Peshmerga saranno della partita, nonostante le resistenze giunte da Baghdad. (M.G.)

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Turchia: attacco kamikaze durante blitz in covo dell’Is

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E' di almeno tre poliziotti uccisi il bilancio provvisorio di un attacco suicida a Gaziantep, in Turchia, nel sud del Paese, non lontano dalla frontiera con la Siria. I feriti sono almeno otto, tra cui quattro siriani. Secondo fonti locali, un numero imprecisato di kamikaze si è fatto esplodere durante un blitz delle forze speciali turche in un covo di militanti del sedicente Stato Islamico. Le forze speciali turche avevano circondato l'edificio, utilizzando anche mezzi blindati, ma mentre stavano cercando di fare irruzione si sono udite le esplosioni, seguite da un conflitto a fuoco. (M.G.)

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Ue e Tunisia: Silvia Costa, si punta su cultura e commercio

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La Tunisia continua ad attraversare un difficile momento di transizione politica dopo l'uscita dalla scena politica di Ben Ali nel 2011, con l'avvio delle manifestazioni della Primavera araba. La cooperazione culturale con l’Europa può aiutare a rafforzare il processo in corso. Andrea Walton ha intervistato sull’argomento l’europarlamentare Silvia Costa, presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo: 

R. – Noi abbiamo approvato a settembre un’importantissima risoluzione del Parlamento che dà il senso di un lancio di una nuova concezione della Tunisia da parte dell’Unione Europea come un partner che deve avere uno statuto speciale, di una democrazia che ha ritrovato una sua solidità anche se con grandi problemi, con grandi difficoltà. Però è veramente il Paese su cui puntare. Per questa ragione abbiamo dato 500 milioni di euro, come aiuto macroeconomico; direi che questa è la più importante iniziativa fatta in questo momento con la Tunisia. Nell’ambito di Erasmus Plus ed Erasmus Tempus, la parte di Erasmus che riguarda la collaborazione fra istituzioni universitarie o di altra formazione, sia europee che di Paesi terzi, abbiamo voluto valorizzare una bellissima iniziativa in corso, guidata dall’università di Urbino e dalla professoressa Laura Baratin, che sta realizzando per la prima volta un corso triennale di alta formazione per restauratori e curatori di beni culturali in Tunisia: tra l’altro vede la realizzazione di laboratori e sta facendo importanti accordi sia con fondazioni culturali tunisine sia con privati, che si spera possano mettere delle risorse. Sugli altri fronti c’è la trattativa per l’accordo fra Unione Europea e Tunisia per il commercio come partner privilegiato e che si chiama appunto Aleca.

D. – Che ruolo può avere la cultura nel processo di transizione politico in Tunisia? Quanto può aiutare nel rafforzamento della democrazia?

R. – Noi abbiamo una storia di relazioni, non solo fra Italia e Tunisia ma fra Europa e Tunisia. Questo va rafforzato e rilanciato sulla base di un partenariato molto più paritario. Per quanto riguarda le relazioni culturali, il dialogo interculturale, di cooperazione, penso alla collaborazione che c’è stata fra l’unione di tutti i broadcaster, tutte le televisioni europee, quando c’è stata la rivoluzione: ci sono stati importantissimi rapporti di cooperazione per formare i giornalisti. Penso anche alla comunicazione in tempi di democrazia in Tunisia. E poi c’è un ruolo che gioca anche la Chiesa.

D. – Quali sono le speranze per il futuro processo di transizione politica in Tunisia?

R.– Mi sembra che ci siano in questo momento promesse interessanti nel nuovo governo, che è un governo di coalizione larga. Questa è la premessa, secondo me, di una transizione che può essere accompagnata da una forte alleanza anche culturale e politica. La seconda prospettiva è quella data dalla lotta comune al terrorismo. Il problema della stabilizzazione della Libia per loro è la vera grande condizione, ma anche verso l'Algeria. Pensiamo però che in Tunisia ci sono 5 mila foreign fighters, cioè è uno dei Paesi che ne ha di più e quindi c’è un tema: collaborare per prevenire la radicalizzazione e collaborare – noi stiamo facendo grandi sforzi, come in Europa – sulla formazione delle forze dell’ordine lì. La terza prospettiva è quella di aiutarli a sviluppare nuova occupazione, una nuova economia, non solo a Tunisi ma nelle altre province. La disoccupazione giovanile è talmente alta che loro ritengono che questi siano elementi che poi creano un terreno favorevole alla predicazione del terrorismo.

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India: domenica di preghiera per la concordia nazionale

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Una giornata nazionale di preghiera per “la giustizia, la pace, la prosperità, il benessere, l’armonia e l’unità” in India. Ad indirla per oggi è stato il cardinale Baselios Cleemis, presidente della Conferenza episcopale indiana (Cbci), in un momento  in cui - scrive in un messaggio ai fedeli - il Paese sta affrontando “sfide straordinarie,  in particolare ai suoi confini”. Il riferimento è all’inasprirsi della crisi nel Kashmir, la regione contesa tra Pakistan e India dal 1947, dove non accenna a diminuire l’escalation di violenze riprese in questi mesi tra la guerriglia separatista e l’esercito federale. Scontri che hanno causato più un centinaio di morti e 12 mila feriti, mentre si riaccendono pericolosamente le tensioni tra Islamabad e New Delhi. 

L’invito a partecipare alla giornata rivolto anche ai credenti di altre religioni
Nella lettera, l’arcivescovo maggiore di Trivandrum dei siro-malankaresi non si rivolge solo ai cattolici, ma invita i credenti di tutte le religioni a unirsi alla preghiera per la pace, un valore che accomuna tutte le fedi. A nome di tutta la Conferenza episcopale, scrive, “invito uomini e donne di buona volontà ad unirsi. Possa ogni luogo di culto risuonare di preghiere per la nostra amata nazione”. A questo scopo il cardinale Cleemis chiede di organizzare liturgie e momenti di raccoglimento in tutte le diocesi.

Ottobre è un mese significativo per tutti i credenti in India
Il messaggio - citato dall’agenzia Asianews - ricorda anche come quello di ottobre sia un mese particolarmente significativo per tutte le comunità di credenti in India: “Il 2 ottobre abbiamo celebrato il compleanno del Mahatma Gandhi; il 4 ottobre è stata la festa di San Francesco di Assisi, messaggero di pace”, seguita, l’11 ottobre dalla festa indù del Dussehra, che celebra la vittoria del bene sul male, il 12 dalla festa islamica del Muharram. Giovedì 20 ottobre, poi, i sikh ricorderanno la nascita del guru Granth, mentre il 30 si celebrerà il Deepavali, la festa che per le religioni tradizionali indiane segna la vittoria della luce sulle tenebre. “Fra tutte queste festività religiose - sottolinea il cardinale Cleemis - il nostro amato Paese affronta una sfida straordinaria, specialmente ai suoi confini. La Chiesa cattolica, con tutti gli altri credenti, vuole pregare per la giustizia, la pace, la prosperità, l’armonia e l’unità”.

La nuova crisi nel Kashmir
Lo scontro tra i separatisti del Kashmir e il governo di Delhi si è inasprito a luglio, quando le forze di sicurezza hanno ucciso Burhan Wani, un militante molto presente sui social network. Da quel momento la vita nello Stato è paralizzata dal coprifuoco. Nonostante i numerosi appelli al dialogo, nelle ultime settimane lo scontro è precipitato. Il 18 settembre un commando di militanti ha fatto irruzione nella base militare indiana a Uri e ha ucciso 18 soldati, prima di essere “neutralizzato”. Alle azioni dei separatisti il doverno ha risposto con attacchi contro le basi dei militanti sparse lungo il confine con il Pakistan e usando la diplomazia per isolare il governo pakistano, accusato da Nuova Delhi di sponsorizzare il terrorismo internazionale.

Le preoccupazioni dei vescovi
Sulla nuova crisi in Kashmir è intervenuto nei giorni scorsi anche il card. Oswald Gracias, presidente dei vescovi indiani di rito latino, che ha rinnovato l’appello “affinché si instauri il dialogo e la cooperazione tra il governo indiano e pakistano”. Grande preoccupazione, in tal senso, è stata espressa anche dall’arcivescovo di Faridabad dei siro-malabaresi, Kuriakose Bharanikulangara, il quale ha ammonito che ogni azione immediata contro il Pakistan servirà solo ad inasprire il conflitto che “è esattamente ciò che vogliono i terroristi”. (L.Z.)

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Corea: studenti cattolici di Seoul si dedicano a evangelizzazione di strada

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Ispirati da Papa Francesco, i giovani universitari cattolici di Seoul si sono dedicati in questi giorni all’evangelizzazione di strada. La Federazione degli studenti cattolici della città, infatti, ha organizzato il Pax Festival a Sinchon, uno dei quartieri più vivaci della capitale, pieno di locali e punti di ritrovo per i giovani. L'evento è stato caratterizzato da attività di ascolto e dialogo, da performance musicali, teatrali e di danza realizzate in strada e si è concluso con una Messa celebrata all’aperto.

Ispirati dalle parole di Papa Francesco in Corea
I partecipanti sono stati ispirati dalle parole di Papa Francesco che, visitando la Corea del Sud nell’agosto 2014, li ha invitati a “svegliarsi e andare avanti” nel donare il Vangelo. Per questo migliaia di ragazzi e ragazze - riferisce l’agenzia Fides - hanno scelto attività di “evangelizzazione di strada”. Attraverso la testimonianza cristiana pubblica - ha sottolineato Clara Oh Yu-jung, presidente della Federazione degli studenti cattolici - “speriamo di incoraggiare i ragazzi a sentirsi orgogliosi della loro fede cattolica e a donarla agli altri”.  Secondo padre Peter Choi Bong-yong, assistente della Federazione “Pax Festival” è un modo per portare il messaggio di Gesù al mondo: “parlando del Vangelo a persone non cattoliche, gli studenti si rendono conto che la cosa più preziosa che posseggono è la fede”. Il movimento studentesco cattolico è iniziato nel 1954 con la fondazione della Korean Catholic Student Association. Oggi la Federazione degli studenti cattolici conta circa 1.200 soci, provenienti da trentasei università di Seoul.

Nei mesi scorsi nominati 35 giovani missionari della misericordia
Il Festival non è l’unica iniziativa giovanile promossa dall’arcidiocesi di Seoul. Nei mesi scorsi, per incoraggiare e responsabilizzare i giovani nell’anno del Giubileo, il Dipartimento per le vocazioni e per la gioventù ha nominato un gruppo di studenti delle scuole medie e superiori della capitale “giovani missionari della misericordia”, con l’obiettivo di aiutare i loro coetanei in ogni circostanza della vita: difficoltà nello studio, materiali e spirituali.  “I giovani saranno un esempio di fede per i loro coetanei - ha spiegato padre Stephan Kim Sung-hoon, responsabile del dipartimento - e crediamo vi sia una grande differenza tra la predicazione che può fare un prete e le parole che può dire un amico”. (L.Z.)

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LegGender metropolitane, il libro del bioeticista Renzo Puccetti

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Sul tema del Gender occorre costruire un dialogo leale, non ideologico, basato su dati razionali. Parte da questa premessa il libro “LegGender metropolitane”, edito da Studio Domenicano e scritto dal bioeticista Renzo Puccetti, docente al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Dal matrimonio gay all’omofobia, dalla famiglia all’omogenitorialità: tanti i temi affrontati con rigore scientifico e una ricca documentazione. Di fronte al pensiero dominante il rischio è l’omologazione, commenta l’autore. Ma cosa si intende per “LegGender metropolitane”? Paolo Ondarza lo ha chiesto allo stesso Puccetti: 

R.- Le "LegGender metropolitane" sono diverse. Ad esempio quella che la costruzione dell'identità maschile e femminile sia soltanto una costruzione sociale e invece non si radichi nella profondità della biologia. E' una leggenda che qualsiasi orientamento sessuale sia equipollente. E' una leggenda metropolitana che sia una emergenza quella della "omofobia" almeno in Italia. Tutte le classifiche internazionali pongono l'Italia tra i Paesi meno omofobici, così come tutti gli studi rivelano come il problema della discriminazione sia estremamente  più variegato. Basti pensare ad esempio che nella scuola il primo motivo di discriminazione è ad esempio l'obesità dei bambini. Il "ciccione" è il bambino per antonomasia accantonato nei giochi.

D. - Ed elencando queste leggende metropolitane lei fa emergere l'aspetto quasi dogmatico, indiscutibile con cui il pensiero Lgbt viene presentato. Poco si presta questo approccio ad un confronto autentico, ad un dialogo che invece meriterebbe serenità. Un dialogo con chi ha una visione diversa su questi temi...

R. - Il libro è quasi una lettera aperta ai contraddittori perchè in qualche modo scendano sul terreno delle "cose", dei fatti. Io ovviamente nel mio approccio alla bioetica, data la mia formazione di medico, parto da quello che è il grande tesoro, che non è esaustivo ovviamente, della conoscenza medico scientifica. Partendo da questo punto possiamo dialogare. Altrimenti facciamo un'operazione diversa, una costruzione ideologica che non mi interessa.

D. - Dunque nell'affrontare queste tematiche evitare inutili contrapposizini e portare fatti, non opinioni. Fatti che lei documenta nel suo libro. Fondamentale porsi delle domande. Lei lo fa: "Gay si nasce?", "Omofobia è razzismo?", "Le teorie gender sono efficaci nel contrastare il fenomeno delle violenze sulle donne?", "E' l'amore che fa la famiglia?". Quale il minimo comune denominatore delle risposte alle quali lei è arrivato?

R. - Si può individuare forse nel rifiuto della omologazione. 

D. - Rischia di omologarsi oggi anche chi magari dissente dal pensiero dominante, ma non si manifesta per paura di risultare impopolare? 

R. - Quando siamo in presenza di pasticceri che vengono messi in condizioni di non più lavorare, albergatori, tipografi, sarti, fotografi, genitori che rischiano la galera perchè non hanno voluto far partecipare i figli all'indottrinamento gender...

D. - Lei sta citando casi avvenuti fuori dall'Italia...

R.- Sono casi fuori dall'Italia, ma in realtà stanno arrivando anche in Italia, basta pensare al caso di una professoressa che è stata al centro di una tempesta mediatica che la vede ancora vittima per le ripercussioni psicologiche che ha patito.

D. - Si riferisce al caso di Moncalieri?

R.- Esattamente. Quando abbiamo persone che dicono: "La madre non esiste, la madre è un concetto antropologico";  quando vengono abolite le feste del papà e della mamma per la non discriminazione... a questo punto, capite bene dove siamo arrivati. Siamo al di là dell'ideologia. C'è chi identifica nel filone gender una setta oscurantista fuori dalle righe che sta prendendo il dominio del dibattito culturale. Quando il presidente Obama stabilisce una direttiva federale che minaccia di togliere fondi alle scuole che non si adattano ad introdurre i bagni gender, credo che siamo fuori da ogni logica minimale.

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Alla Festa del Cinema di Roma, "Immagini residue" di Wajda

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E’ stato presentato alla Festa del Cinema di Roma “Immagini residue”, l’ultimo film del regista polacco Andrzej Wajda, scomparso il 9 ottobre scorso. Il ritratto di un pittore polacco vittima della dittatura comunista, divenuto un simbolo di libertà al quale Wajda ha pensato per lunghi anni. Il servizio di Luca Pellegrini

Li ha vissuti in prima persona quei terribili anni della dittatura comunista nella sua Polonia. Ma non voleva raccontarli come una biografia, quanto trovare la mediazione di un artista e connazionale che potesse esprimere il suo stesso anelito di libertà: dell’arte, dell’individuo, della società. Wajda ha girato “Immagini residue” dopo averlo a lungo pensato. E’ la storia di un pittore, Władysław Stremiński, uno degli artisti polacchi di maggior talento, che agli inizi degli anni  ’50, per aver rifiutato i dettami imposti dal realismo socialista e di sottomettersi all’ideologia marxista, fu vessato dai politici, espulso dall’Accademia e dall’Unione degli Artisti, precipitando in una indigenza e solitudine che lo avrebbero portato addirittura alla morte. Un eroe dal carattere duro, ostico, che non ha accettato compromessi. Un simbolo, come le è divenuto Wajda, che ha portato a termine il suo film, prima che la morte lo cogliesse. L’attore Bogusław Linda, che interpreta il pittore polacco, ricorda con queste parole il grande regista scomparso:

R.- (Parole in polacco)
"Io ricordo soprattutto i tanti anni di collaborazione: abbiamo fatto insieme quattro film e ogni film è stato un’avventura, una vicenda nuova, completamente inedita. E poi Wajda era questo grande bambino, un eterno bambino, felice ogni volta di poter lavorare, di poter giocare. E poi, chiaramente, tornando al discorso della censura, ogni suo film è stato un’impresa difficile da realizzare perché ogni suo film è stato un film importante".

Michał Kwieciński è un importante produttore polacco che è stato al fianco di Wajda per lunghi anni. Ha particolarmente caro questo film, che racconta un capitolo tragico del suo Paese, ma anche denuncia il pericolo che corre l’arte quando asservita al potere:

R. – (Parole in polacco)
"Questo è un film soprattutto sulla libertà dell’artista, un tema molto affascinante: su come l’artista si rapporta con la realtà che incontra, sulle sue scelte, sulla libera scelta dell’artista. Per puro caso, però, abbiamo girato questo film giusto un anno prima delle elezioni, quando sono cambiati l’autorità, il potere in Polonia. Il film, quindi, è diventato attuale in senso politico e pone delle domande sul dominio dello Stato e dell’autorità sulla cultura. E’ stato, però, un puro caso, perché girato appunto un anno prima".

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 290

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