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Sommario del 17/10/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Sandri porta incoraggiamento del Papa a profughi iracheni e siriani

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Il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha portato il saluto e l’incoraggiamento del Papa alle comunità cristiane e ai profughi siriani e iracheni in Giordania. Il porporato è rientrato questa mattina a Roma dalla terra giordana dove ha partecipato, come inviato speciale del Santo Padre, alle cerimonie per la riapertura del Santuario-Memoriale di Mosè sul Monte Nebo. Ma ascoltiamo il cardinale Sandri al microfono di Sergio Centofanti

R. – Ho avuto l’occasione di salutare gruppi di rifugiati, soprattutto iracheni, e ho trasmesso loro l’incoraggiamento e la benedizione del Papa, dicendogli che devono sentire che il Papa e tutta la Chiesa è con loro, che non devono mai disperare dell’aiuto di Dio e della forza che Dio darà loro per poter costruire un futuro.

D. – Quale il suo appello, alla luce dei richiami del Papa, ai responsabili delle nazioni coinvolte nelle vicende mediorientali?

R. – Approfittando della mia presenza in nome del Papa, proprio sul Monte Nebo da dove Mosè vide la Terra Promessa, mi sono riferito a tante “terre promesse” che tutti i giorni noi rievochiamo: la pace, la cessazione delle guerre e della violenza in nome di Dio. E, allora, ho detto che speravamo tutti, in questa “terra promessa”, in questi cieli e terra nuovi, in un futuro di fraternità, solidarietà e spirito di rispetto per la dignità dell’uomo e della donna in tutto il mondo. E’ una nuova terra promessa da costruire nonostante tutte le difficoltà del mondo di oggi.

D. – Come stanno vivendo i cristiani, soprattutto siriani e iracheni, la notizia dell’offensiva contro le roccaforti del sedicente Stato Islamico?

R. – Questa notizia porta a tutti un respiro di speranza. Certamente, però, una speranza che sarà probabilmente dolorosa, perché porterà altre vittime e, soprattutto, quello che temiamo è che ci possano essere innocenti “usati” in queste circostanze come se fossero degli “scudi” contro i nemici.  Quindi speriamo che questa offensiva risulti veramente portata avanti con il minor danno possibile per le persone, per i bambini soprattutto, e per tutti quelli che soffrono ancora moltissimo.

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Papa riceve presidente Slovenia: al centro le sfide dell’Europa

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Questa mattina Papa Francesco ha ricevuto in udienza Borut Pahor, presidente della Repubblica di Slovenia. Nel corso del colloquio, informa una nota della Sala Stampa vaticana, sono state evocate le positive relazioni bilaterali, anche nella prospettiva dell’imminente ricorrenza del 25.mo anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Slovenia, e si sono passati in rassegna alcuni temi di comune interesse riguardanti l’attuale situazione del Paese.

Quindi, prosegue il comunicato, “ci si è soffermati sui buoni rapporti esistenti tra la Chiesa cattolica e lo Stato e sull’importanza del dialogo nell’ambito di una loro proficua collaborazione per il bene della società slovena, e in particolare delle giovani generazioni”. Infine, conclude la nota, “è stata dedicata attenzione alla situazione internazionale, con speciale riferimento al contesto regionale e alle sfide che l’Europa è chiamata ad affrontare”.

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Il Papa in visita a Genova il 27 maggio. La gratitudine del card. Bagnasco

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Papa Francesco si recherà in visita all'Arcidiocesi di Genova sabato 27 maggio 2017. Lo ha reso noto ieri un comunicato della Sala Stampa vaticana. Grande la gioia e la gratitudine dell'arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, che sentiamo nell'intervista di Debora Donnini

R. – Ho dato la notizia al termine della Santa Messa in cattedrale per l’inaugurazione dell’Anno pastorale, e tutta la gente presente ha accolto la notizia con grandissima gioia e soddisfazione e con grande gratitudine verso il Santo Padre che ha vuole onorare Genova con questa sua presenza.

D. – Come si preparerà l’Arcidiocesi di Genova a questa visita del Papa?

R. – Anzitutto, la preparazione spirituale così come abbiamo fatto anche per il recente Congresso eucaristico; c’è stata un’intensa preparazione spirituale fatta di preghiera, di catechesi … Analogamente, per prepararci a questo incontro, è la temperatura dell’anima della comunità cristiana che deve essere alta, e questo avviene soltanto con la preghiera. La preghiera e la catechesi sulla bellezza della Chiesa, sul Successore di San Pietro, sugli Apostoli … Poi, dal punto di vista organizzativo, siamo appena usciti dal grande evento del Congresso eucaristico che ha richiesto un grandissimo lavoro: si tratta di rimettere in moto rapidamente l’esperienza appena conclusa e proiettarla verso l’accoglienza del Santo Padre, perché veramente sia un evento di grazia per la comunità diocesana.

D. – L’ultima visita di un Pontefice a Genova era stata quella di Benedetto XVI nel 2008. Quindi, dopo nove anni il Papa tornerà a Genova: quale significato ha per la sua Diocesi?

R. – E’ una grande grazia, un grande conforto per tutta la Diocesi, certamente. La visita dei Papi, dei Successori di Pietro, prima Giovanni Paolo II per due volte, poi Papa Benedetto XVI, adesso Papa Francesco … direi che Genova è proprio benedetta da queste visite: ne siamo veramente onorati e grati, per questa attenzione per la comunità di Genova che ha una grande storia di legame profondo con il Papa, di cordiale adesione di vita della Chiesa. Vogliamo però che tutto questo sia rilanciato e confermato dalle parole, dalla preghiera, dalla presenza di Papa Francesco che sa comunicare in modo così diretto con le parole, ma con lo sguardo, con il gesto … con tutto se stesso.

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Segreteria di Stato vigilerà su adempimenti Convenzione fiscale

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E’ stato reso noto oggi dalla Sala Stampa Vaticana il provvedimento di attuazione della Convenzione tra Santa Sede e Governo Italiano in materia fiscale, a firma del cardinale Pietro Parolin. Il documento stabilisce che è la Segreteria di Stato l’autorità competente per gli adempimenti collegati alla Convenzione, entrata in vigore il 15 ottobre scorso. Rispondendo alle domande dei giornalisti, il direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke, ha spiegato che i detentori di conti allo Ior dovranno obbligatoriamente comunicare alle autorità fiscali italiane eventuali attività finanziarie svolte sul proprio conto Ior. Il portavoce vaticano ha inoltre specificato che tali attività riguardano cifre poco significative. Tale regolarizzazione tributaria va compiuta entro 180 giorni dall’entrata in vigore della Convenzione. 

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Altre udienze di Papa Francesco

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Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza Mons. José María Arancedo, Arcivescovo di Santa Fe de la Vera Cruz (Argentina), Presidente della Conferenza Episcopale Argentina, con il Card. Mario Aurelio Poli, Arcivescovo di Buenos Aires, Primo Vice Presidente; mons. Mario Antonio Cargnello, Arcivescovo di Salta, Secondo Vice Presidente; mons. Carlos Humberto Malfa, Vescovo di Chascomús, Segretario Generale, Mons. Alfonso Rogelio Delgado Evers, Arcivescovo di San Juan de Cuyo (Argentina),  Mons. Domenico Sigalini, Vescovo di Palestrina (Italia).

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Oggi in Primo Piano



Iraq: offensiva contro l'Is a Mosul. Onu: rischi umanitari

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E’ cominciata l’offensiva annunciata del premier iracheno al Abadi per liberare Mosul dallo Stato Islamico. I miliziani curdi Peshmerga hanno già conquistato otto villaggi e sono arrivati a sette chilometri dalla periferia di Mosul. All’offensiva partecipano oltre all’esercito di Baghdad anche i miliziani sciiti e i curdi, coadiuvati dai raid aerei e dai bombardamenti della coalizione a guida Usa. L’operazione è la più vasta in Iraq dal ritiro delle truppe statunitensi nel 2011. E se si concluderà con un successo sarà il colpo più duro finora inflitto al Califfato. Il servizio di Marco Guerra

Caccia della coalizione internazionale a guida Usa stanno bombardando il centro di Mosul, mentre continua l'offensiva delle forze curde e irachene a pochi chilometri della città.  Lo riferisce la tv curda Rudaw, aggiungendo che i peshmerga hanno già riconquistato tutti i villaggi che erano stati loro assegnati. Al Jazira parla di milizie curde arrivate a sette chilometri dalla periferia est delle seconda città irachena, mentre le truppe governative avanzano da sud; la tv panaraba racconta anche di forze speciali americane sul terreno. La battaglia per Mosul vede impegnati anche 3000 miliziani sunniti addestrati dalla Turchia, con Erdogan che insiste: “Non possono escluderci da questa offensiva”.

Allarme Onu per un milione di persone 
Curdi e Sciiti resteranno comunque fuori dal centro abitato, per evitare di acuire lo scontro interconfessionale. Ad entrare, ha garantito il premier Abadi, sarà "l’armata irachena” che vede impegnati 25.000 effettivi. Saranno necessarie "probabilmente settimane e forse anche di piu'", per strappare all'Is il controllo della città, ha detto in mattinata il comandante delle forze Usa impegnate in Iraq contro l’Is. "Potrebbe rivelarsi una battaglia lunga e difficile - ha proseguito - ma gli iracheni sono preparati e noi staremo al loro fianco”. In tutti i casi, la battaglia per Mosul sarà un crocevia per la sopravvivenza dello Stato Islamico. La città, che conta quasi due milioni di abitanti, è il centro più importante del Califfato dopo la capitale Raqqa. L'operazione comporta seri rischi umanitari: secondo l'Onu, circa un milione di persone potrebbero ad abbandonare le loro case, e l’ong evidenziano il rischio che i civili siano usati come scudi umani dai jihadisti.

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Warduni: attacco contro l'Is risparmi innocenti, no a vendette

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L'offensiva irachena contro l'Is a Mosul è ormai scattata. Sono ore decisive. Tante le speranze e anche i timori dei cristiani iracheni. La liberazione della città - lo sanno tutti - non sarà indolore. Marco Guerra ha intervistato in proposito il vescovo ausiliare di Baghdad dei Caldei, mons. Shlemon Warduni

R. – Noi vogliamo la liberazione della grande città di Ninive e poi della Piana di Ninive, perché tanti cristiani e anche tanti musulmani, nei villaggi intorno a Mosul, sono stati cacciati dalle loro case. Perciò noi vogliamo la liberazione, ma che sia una liberazione senza le armi. Però, si vede che questo è impossibile: l’uomo è carnefice, l’uomo che non ama Dio non ha coscienza e non pensa ai bambini, alle donne… Quindi noi vogliamo la liberazione, e specialmente sicura, della gente, dei villaggi: quei villaggi e quelle città dove abbiamo vissuto migliaia di anni. E quindi noi vogliamo una liberazione e una protezione.

D. – Ma si rischia una seconda Aleppo? Si rischia un assedio che porti un milione e mezzo di civili ad essere sotto le bombe?

R. – Certo, certo… Ed è questo che noi non vogliamo! Ma ci diranno: “Voi non volete questo e non volete questo!”. Certamente: noi vogliamo i nostri villaggi, le nostre case, le nostre proprietà. Noi vogliamo che ci siano la pace e la sicurezza, che lascino il nostro popolo vivere con onestà e tranquillità: è questo quello che noi vogliamo. Certamente tanta gente andrà sotto le armi, subirà la distruzione delle case… E questo noi non lo vogliamo! Perché questa gente è gentaglia proprio: ha distrutto le opere d’arte, i villaggi, le chiese e anche le moschee, purtroppo…. Noi diamo la colpa alla gente che li ha aiutati, a chi ha dato loro le armi, le munizioni, a chi ha comprato il petrolio al mercato nero. E il mondo guarda soltanto. Bastava non vendere loro le armi, bastava non dar loro il denaro… Bastava, bastava e bastava! Ma nessuno si muove e lascia il male vincere.

D. – In città, ha confermato il premier, entrerà solamente l’esercito nazionale, perché Mosul è una città multiculturale, multireligiosa: dunque è importante che nessuna etnia prevalga sull’altra...

R. – Dovranno prendere la cosa con coscienza, pensando che c’è Dio e che Dio è amore; e non con rancore o vendette. Ecco, che si lascino fuori le vendette. Ma questo penso che non sarà possibile: manca lo spirito umano, manca lo spirito religioso vero, vero… Speriamo, perché altrimenti – purtroppo – ci saranno ancora uccisioni e sarà una grande sciagura per l’Iraq, come è stato ad Aleppo o in altri posti.

D. – Ecco, il ritorno dei cristiani a Mosul e nelle aree vicine a Mosul può aiutare la riconciliazione nazionale?

R. – Sì, può essere che questo accada. Però non si sa, perché quando ci sono il rancore, l’odio e la vendetta, queste cose non si pensano. Ma questo è quello che noi vogliamo: la pace, la tranquillità, e – se possibile – che questa liberazione avvenga, come si dice, senza le armi.

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Acs: domani un milione di bimbi in preghiera per la Siria

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Domani, dalle 9 del mattino, un milione di bambini di tutto il mondo sarà unito nella preghiera del Rosario per la pace e l’unità della Siria. È questa l’iniziativa che da anni mette in campo la Fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre, impegnata nella diffusione del Rosario tra i più piccoli, e che quest’anno è dedicata ai bimbi siriani. Sono decine le piccole vittime degli ultimi raid sulla città di Aleppo, mentre continuano a fallire i tentativi diplomatici. Sull’iniziativa di Acs e sulla situazione nel Paese martoriato dalla guerra, Roberta Barbi ha sentito Alessandro Monteduro, direttore di Acs-Italia: 

R. – Sono 11 anni che “Aiuto alla Chiesa che Soffre” coinvolge in un’enorme,  grande iniziativa i bambini di tutto il mondo: la recita del Rosario. I veri protagonisti di quest’iniziativa sono i bambini. L’ambizione, anche quest’anno, è di arrivare a un milione di bambini che pregano – appunto – il Rosario.

D. – L’ispirazione di quest’iniziativa è venuta dalle parole di San Pio da Pietrelcina che diceva: “Se un milione di bambini pregherà il Rosario, il mondo cambierà”…

R. – È un’iniziativa che nasce prendendo spunto proprio dalle parole di San Pio. Noi su questo siamo impegnati da 11 anni. Abbiamo fatto anche qualcosa di più: abbiamo creato un piccolo testo intitolato “Noi bambini preghiamo il Rosario”, un testo del 2009, distribuito in otto lingue differenti, in 600mila copie. È stato un modo per provare a comporre una comunità orante: quella che abbiamo voluto definire un “social network mariano”. Anche perché, è vero che i protagonisti sono i bimbi, ma è altrettanto vero che chiunque di noi – noi adulti, ovviamente – potrà e dovrà aggregarsi, sempre nella consapevolezza che il cemento, il collante, di questa comunità è, appunto, il Rosario.

D. – Acs è impegnata sul fronte della diffusione del Rosario tra i più piccoli: perché è così importante la preghiera del Rosario?

R. – La risposta al perché è così importante la preghiera, non solo quella del Rosario, è nella fede. Per coglierne l’importanza, forse, bisognerebbe avere, oltre che una personale fede interiore, anche la possibilità e la fortuna di incontrare chi più di altri in questo momento necessita della preghiera. Parlo delle popolazioni povere, delle popolazioni in sofferenza, delle popolazioni vittime di conflitti: visitando quel tipo di realtà, una persona comprende, e soprattutto coglie quanto è importante, ancor prima che per noi o per la nostra fede, quanto è importante per loro – per i destinatari delle nostre preghiere – la stessa recita del Rosario e della preghiera più in generale.

D. – Qual è la situazione dei bambini in Siria? Oggi, nell’ultimo raid su Aleppo, ne sono stati uccisi altri… Come aiutarli?

R. – La situazione è drammatica: sono i numeri a dire di un quadro, non solo in Siria, ma anche in Iraq per la verità, drammatico. Degli 11 milioni e 400mila siriani costretti a fuggire dalle case, circa la metà sono bambini. Qualcosa più di due milioni di bambini in Siria, in questi cinque anni di conflitto, ha lasciato la scuola: due milioni! L’Unicef racconta e riporta che una scuola su quattro è stata distrutta. Secondo, addirittura, i dati dell’Oxford Research Group in Inghilterra, nei primi due anni di guerra in Siria sono stati uccisi 11.500 bambini. Vogliamo andare nel confinante Paese? Vogliamo andare in Iraq? Sono due milioni in Iraq i bambini che non vanno a scuola: sono state 5.300, negli ultimi anni, le scuole distrutte. Questo è l’orrore. Come facciamo ad aiutarli? Con la speranza. A proposito dell’Iraq, di quello che ho avuto modo di vedere, e a proposito di quello che fa Acs, noi diamo la possibilità a settemila bambini, ad Erbil e Duhok, di continuare gli studi, pur essendo loro sfollati e pur essendo stati costretti, dallo Stato Islamico ovviamente, a lasciare la Piana di Ninive e Mosul. E in delle scuole splendide, con un corpo insegnanti altrettanto splendido.

D. – Quale sarà il futuro di questa generazione?

R. – Non dipende da loro, dipende da noi, dipende dalla comunità internazionale e dall’impegno di chi potrebbe, e forse ancora non ha fatto quanto era doveroso fare. Pur tenendo in conto che il destino di un bambino è comunque, sempre, il nostro punto di riferimento, per quanto ci riguarda l’impegno di Acs è far sì che i bambini cristiani possano continuare a vivere felicemente nella loro terra, in Medio Oriente. Lo chiedono loro: loro vogliono continuare a vivere da cristiani, a crescere e a essere ispiratori di una nuova convivenza pacifica nelle loro terre, in Medio Oriente: in Iraq e in Siria.

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Emergenza umanitaria Sud Sudan: 5 milioni di persone a rischio

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Resta difficilissima la situazione umanitaria in Sud Sudan per la difficoltà degli operatori internazionali nel distribuire gli aiuti alimentari alle popolazioni. Il Programma alimentare mondiale (Pam) lancia un appello: tra quattro e cinque milioni di persone rischiano di morire per mancanza di cibo. Secondo quanto riportato dell’agenzia Fides, particolarmente difficile è la condizione degli abitanti di Aweil, nel Nord del Paese, dove i campi sono ricchi di cibo ma la popolazione non può comprarli per i prezzi saliti di dieci volte rispetto allo scorso anno. Una crisi umanitaria determinata dalla guerra civile iniziata nel 2013 e acuita da persistenti contrasti etnici e dal conflitto politico tra il presidente Salva Kiir e l’ex vice presidente Riek Machar. Nei giorni scorsi, nella capitale Juba, si è diffusa la falsa notizia della morte di Kiir e molti cittadini hanno abbandonato le proprie case, alcune delle quali sono state oggetto di saccheggi. Per una testimonianza dal Sud Sudan, Elvira Ragosta ha raggiunto telefonicamente a Juba padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei comboniani: 

R. – La situazione si sta aggravando sempre di più. Siamo alla fine della stagione delle piogge e anche questo influenza tantissimo i movimenti. Il lancio del cibo in alcune zone diventa difficile via terra. Ci sono 5 milioni di persone a rischio fame, con tutto quello che comporta soprattutto per i bambini e le donne, soprattutto dove c’è stata la guerra in questi ultimi tre anni. Si tratta di una delle zone dei tre Stati del petrolio - Unity State, Jonglei State ed Upper Nile - dove praticamente la guerra ha distrutto un po’ tutto, dove c’è gente - anche nelle campagne - che è fuggita. Ci sono quindi più di un milione di persone fuori del Paese e quasi 300 mila persone dentro il Paese, soprattutto nei campi profughi interni.

D. – La crisi umanitaria è la conseguenza anche dell’attuale turbolenza politica. Qualche giorno fa si è diffusa a Juba la falsa notizia della morte del presidente Salva Kiir. La cosa ha creato panico nella popolazione, che è scappata, e ci sono stati dei saccheggi. Resta ancora molto difficile la situazione politica nel Paese: si parla di lotte di potere all’interno dello stesso schieramento di Salva Kiir, mentre il suo avversario, l’ex presidente Riek Machar, non si trova in Sud Sudan in questo momento. Com’è la situazione politica?

D. – A Juba, la capitale, c’è molta tensione. Martedì sera, quando si è diffusa la notizia di questa probabile morte di Salva Kiir, che sicuramente viene fuori dai circoli interni del governo, c’è stata una grande fuga della gente dalla città, per paura di rappresaglie, quindi di prese di potere di qualche altro militare. Fanno nomi di alcune persone, logicamente, all’interno del governo, dei militari, e la gente soprattutto delle altre etnie fugge. Quando c’è una psicosi di questo genere, quando si vedono movimenti dei militari, qui la gente ha molta paura. Purtroppo quello che succede in altre zone sono scontri, scontri concreti nello Unity State, in Central Equatoria e Western Equatoria, dove i militari dell’Spla, quindi dell’esercito regolare, combattono contro vari gruppi di ribelli, che non necessariamente si riferiscono a Riek Machar, perché oggi i gruppi ribelli sono aumentati nel numero e appartengono a diverse etnie. La guerra, quindi, si è espansa in un modo o in un altro anche in altre zone del Paese e con l’economia ormai al collasso totale la gente riesce a malapena a mangiare una volta al giorno. A livello politico, purtroppo, non si vedono segni di impegno verso quello che può essere un discorso umanitario, perché si è concentrati totalmente sull’arena militare e politica, che non è chiara. Tutti e due i leader sono malati. Ci sono poi altri gruppi etnici che sono ormai tutti contro la realtà di un governo ovviamente Dinka. Questo purtroppo è il vero problema. E’ una guerra, iniziata già nel 2013 esclusivamente etnica: prima era una guerra Nuer-Dinka, oggi è Dinka contro tutti.

D. – L’impegno della Chiesa per il Sud Sudan continua. E’ stato di recente aperto un centro per la pace proprio a Juba…

R. – Questa è stata una delle cose che abbiamo fatto noi come religiosi cattolici in Sud Sudan per l’evangelizzazione, per l’educazione, quindi per la formazione umana e per la sanità. Portiamo avanti tantissimi programmi in vari ambiti, proprio  a sostegno di tutte le Chiese locali cattoliche delle sette diocesi che esistono in Sud Sudan e sabato appunto abbiamo aperto questo centro, che si chiama “Centro della pace del Buon Pastore”. Questo è un centro che vuole portare insieme le varie etnie, per fare programmi di formazione umana, spirituale, di “peace building”, costruzione della pace, di “trauma healing”, guarigione dai traumi, perché stiamo parlando di etnie, di milioni di persone, che hanno vissuto 40 anni di guerra.

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Libia: anarchia a Tripoli, dopo tentato golpe islamista

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Situazione di “anarchia” a Tripoli, in Libia, dopo il tentato 'golpe' della scorsa fine settimana ordito dalle milizie islamiste dell'ex premier Khalifa al Ghwell contro Fayez al Sarraj. Scontri si sono verificati in varie zone della città, con un bilancio di almeno un morto e sei feriti. La guardia presidenziale del governo di intesa nazionale di Sarraj, riconosciuto dall'Onu, ha deciso di sostenere al Ghwell, nonostante molti golpisti siano stati arrestati. E le forze dell'autoproclamato esercito nazionale libico di Khalifa Haftar hanno annunciato di controllare “l'80% della Libia” e in particolare “il sud e l'est” del Paese. In questo quadro, agiscono dunque anche le milizie islamiste vicine ai Fratelli musulmani. Di quanto possano essere pericolose per il governo di al Sarraj parla Renzo Guolo, docente di Sociologia dell’islam all’università di Padova, intervistato da Giada Aquilino

R. – Lo sono nel momento in cui mostrano che il governo non ha il pieno controllo del territorio: allora forse questo atto riescono in qualche modo a controllarlo - in un contesto in cui le alleanze tra le diverse milizie e fazioni cambiano repentinamente - però il risultato è che comunque si mostra debolezza. Se al conflitto classico con il generale Haftar e il governo di Tobruk si aggiunge anche una instabilità interna, in una transizione che non è mai stata semplice nella dimensione del potere tripolino riconosciuto a livello internazionale, diventa problematico pensare cosa possa succedere in futuro.

D. – Come inquadrare tali milizie nel vasto e variegato fronte di opposizione ad al Serraj?

R. – E’ evidente, per esempio, come le milizie e i gruppi che erano alleati con i Fratelli musulmani locali non abbiano gradito la modalità con cui la comunità internazionale ha investito il nuovo governo, proprio perché hanno ritenuto di subire questa situazione. Quindi è chiaro che possano manifestarsi anche al loro interno meccanismi di tipo scissionistico, che potrebbero indurre qualcuno a prendere addirittura la via di una rivolta in armi, al di là del tentativo di colpo di Stato effettuato nei giorni scorsi. Dopodiché resta il grande problema di come le milizie riconoscano ancora un potere, una sovranità centrale, perché ciò che sta decidendo ormai la lealtà e la fedeltà alle istituzioni non è l’adesione a un comune quadro politico, ma è sostanzialmente l’accesso alle risorse che, in qualche modo, l’economia di guerra in questi anni molto travagliati ha comunque distribuito. Pensiamo solo al controllo delle risorse petrolifere…

D. – Questa strategia si riflette anche un po’ nella linea delle forze di Khalifa Haftar che, dopo aver occupato proprio la Mezzaluna petrolifera, ora dicono di controllare l’80% del Paese?

R. – Certo: infatti il vero nodo è questo. Soprattutto capire quali siano le intenzioni dell’Egitto e dei Paesi del Golfo che appoggiano l’Egitto in tal senso e, a livello europeo, il ruolo della Francia, perché al di là delle posizioni ufficiali sembra delinearsi una sorta di appoggio o comunque di tentativo francese di disporre di più carte sul terreno libico: non solo il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, ma anche – in seconda battuta – quello appoggiato oggi dall’Egitto.

D. – Cosa si può prospettare allora per il governo al Sarraj e per la Libia?

R. – E’ una transizione ancora molto complicata. Sia sul piano militare – più che contro l’Isis, nei confronti del generale Haftar – sia sul piano politico il quadro non è ancora ben delineato, cioè manca oggi in Libia una forza davvero in grado di unificare sotto il proprio dominio le diverse fazioni: o perché sono d’accordo con l’obiettivo di questo nuovo centro di potere o perché sono costrette ad accettare realisticamente il compromesso in base ai rapporti di forza, questa situazione è ancora molto lontana dall’essersi affermata sul terreno. Quindi, ciò che ci si prospetta è ancora un notevole livello di instabilità, almeno per i prossimi mesi.

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Rapporto Fao: affrontare insieme fame, povertà e clima

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“Cambiamenti climatici, agricoltura, e sicurezza alimentare” sono fortemente correlati, come evidenzia il Rapporto annuale sullo Stato dell'alimentazione nel mondo, presentato stamane a Roma dal direttore generale della Fao, José Graziano da Silva. Il servizio di Roberta Gisotti

L'agricoltura può stabilizzare il clima globale e aumentare allo stesso tempo la produzione alimentare per sradicare la fame nel mondo. Basti dire – documenta il rapporto – che tutto il comparto alimentare (colture, zootecnia, silvicoltura e pesca) è responsabile fino a un quinto delle emissioni globali dei gas serra, rei di assottigliare la fascia di ozono.  I costi dell’inazione – ha denunciato da Silva – sono di gran lunga superiori al costo degli interventi necessari per avere un’agricoltura sostenibile”. Dunque in un pianeta divenuto più caldo - ha ammonito il direttore generale delle Fao - “fame, povertà e cambiamento climatico devono essere affrontate insieme”. E, un ruolo protagonista nel cambiamento è assegnato ai piccoli agricoltori, come spiega l’economista, Andrea Cattaneo, coordinatore del Rapporto

R. – Perché nel mondo ci sono 750 milioni di famiglie che dipendono da un’agricoltura legata a piccole proprietà. Per cui, il cambiamento climatico e la sicurezza alimentare non possono prescindere da questa importante fetta della popolazione. Sono poi anche una categoria che affronta delle difficoltà particolari, sia in termini di accesso alle risorse, ma anche nel fronteggiare i cambiamenti climatici. Inoltre, in molti Paesi in via di sviluppo il problema di accesso alle risorse è ancora più accentuato per le donne. Quindi questo Rapporto si concentra su quelle che possono essere le pratiche agricole più sostenibili in condizioni di cambiamento climatico, e anche nel cercare di proporre opzioni per fronteggiare le difficoltà, siano finanziarie, istituzionali o di politiche governative ed avere un’agricoltura più sostenibile.

D. – Dal vostro osservatorio privilegiato, avete l’impressione che sia cresciuta la volontà politica di prendere atto di questi Rapporti di organizzazioni internazionali da parte poi dei singoli Stati? O restano ‘lettera morta’?

R. – Direi che siamo in un periodo molto interessante, perché con l’Accordo climatico di Parigi, che è stato firmato alla fine del 2015, c’è stata veramente una svolta dal punto di vista, credo, della consapevolezza da parte degli Stati. E questa consapevolezza si è tradotta anche in azioni in ambito agricolo. Per cui, ci sono molti Paesi che stanno proponendo quelli che vengono chiamati i “contributi nazionali per combattere i cambiamenti climatici”: l’acronimo è “Indc”, nel gergo di politica internazionale. E molte di queste misure sono in ambito agricolo. Quindi chiaramente gli Stati si stanno muovendo per incentivare l’adattamento ai cambiamenti climatici in campo agricolo, ma anche per ridurre le emissioni in campo agricolo. L’agricoltura – ricordiamolo – contribuisce intorno al 20% delle emissioni a livello globale. Quindi ridurre le emissioni del 70% a livello globale vuol dire che tutti i settori dovranno ridurre le emissioni, inclusa l’agricoltura.

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Giornata lotta povertà. Caritas: in Italia i più colpiti sono giovani

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Il vecchio modello italiano di povertà, che vedeva gli anziani più indigenti, non è più valido: oggi la povertà assoluta vede tra le prime vittime i giovani. Lo rivela il Rapporto Caritas “Vasi Comunicanti. Povertà ed esclusione sociale in Italia e alle porte dell'Europa”, diffuso nell’odierna Giornata internazionale di lotta alla povertà. Sono soprattutto gli stranieri a chiedere aiuto ai Centri di Ascolto della Caritas, ma per la prima volta, nel 2015, al Sud la percentuale degli italiani ha superato di gran lunga quella degli immigrati. Paolo Ondarza

Sono giovani i nuovi poveri, penalizzati dalla crisi del lavoro e sempre più spesso mantenuti da genitori e nonni. E’ la prima volta infatti che in Italia la povertà assoluta, ai livelli più alti degli ultimi dieci anni, diminuisce con l’avanzare dell’età. Tra i 4,6 milioni di poveri assoluti il 10,2% sono nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni. L'età media di chi si rivolge ai Centri Caritas è 44 anni. A rischio in particolare il Mezzogiorno dove più colpite sono le famiglie con due o più figli e quelle di stranieri. Secondo il rapporto Caritas sono soprattutto gli immigrati a chiedere aiuto ai Centri di Ascolto della Caritas, ma per la prima volta, nel 2015, al Sud la percentuale degli italiani ha superato di gran lunga quella degli stranieri. Pressochè paritaria la situazione di indigenza tra uomini al 49,9% e donne al 50,1%. Tra i bisogni che più spingono a chiedere aiuto ci sono nell’ordine: povertà economica (76,9%), disagio occupazionale (57,2%), problemi abitativi (25,0%) e familiari (13,0%). Sono 7.770 i profughi e richiedenti asilo che hanno bussato agli sportelli Caritas nel 2015, prevalentemente uomini tra i 18 e i 34 anni provenienti da Africa e Asia centro-meridionale. Alto tra loro il livello di analfabetismo: la necessità comune è la mancanza di casa con situazioni di inadeguatezza abitativa e di sovraffollamento. L’appello del Papa ad ospitare i migranti nelle strutture ecclesiali ha provocato il positivo innalzamento a 20 mila delle accoglienze attivate al 9 marzo 2016.

Per un commento ai dati del rapporto Caritas, a partire dall'aumento del fenomeno povertà tra i giovani, Paolo Ondarza ha intervistato Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas Italiana: 

R. – La fascia 18-34 anni è due volte e mezzo quella dei 65 e oltre. Questo a dire come per i giovani oggi sia un momento molto difficile: i lavori sottopagati, la mancanza di lavoro, soprattutto all’interno di una famiglia un po’ numerosa, dove magari il capo famiglia ha perso il lavoro. Ecco, questo costituisce un elemento di fragilità che poi può diventare povertà assoluta, rispetto al quale servono anche delle risposte nuove. Perché il povero non è più l’anziano solo o il senza dimora, ma diventa una questione molto più complessa da affrontare.

D. – Diceva: “Servono risposte nuove”. È dunque una tematica che va ad interpellare le istituzioni…

R. – Sì, in questo senso l’auspicio è che per l’anno prossimo la Legge finanziaria in discussione possa rafforzare il tema del reddito di inclusione sociale, che ha proprio lo zoom verso le famiglie, verso le famiglie con figli e le donne in gravidanza, oppure con dei disabili. Questa misura, che quest’anno ha iniziato ad essere introdotta, di fatto si potrà consolidare solo l’anno prossimo se vi sarà una decisione forte in tal senso.

D. – Secondo il Rapporto, sono soprattutto gli stranieri a chiedere aiuto ai centri di ascolto Caritas; ma per la prima volta, nel 2015, al Sud Italia la percentuale degli italiani ha superato quella degli immigrati…

R. – Qui, ancora una volta, c’è il segnale forte della perdurante crisi che, nonostante tutto, soprattutto in termini di mancanza di lavoro e di un lavoro “degno” per dirla con Papa Francesco, lascia appunto i suoi effetti lunghi, nonostante i numerosi anni che sono ormai trascorsi dal 2007-2008.

D. – Citava Papa Francesco... nel Rapporto si fa riferimento al suo appello alle strutture della Chiesa – le strutture ecclesiali – ad ospitare e ad aprire le porte ai migranti. E questo appello è stato raccolto, tanto che si vede innalzato a 20 mila il numero delle accoglienze attivate al 9 marzo 2016…

R. – Se da un verso il tema è quello della crisi, delle famiglie e anche il Sud, l’altro sono proprio i profughi, che in questi ultimi tre anni sono arrivati in maniera via via consistente. E l’accoglienza verso di loro la Chiesa l’ha messa in pratica, dopo l’invito di Papa Francesco in modo particolare. Queste persone chiedono anche loro un’attenzione particolare, con tutti i loro vissuti anche di violenza spesso alle spalle; per cui è una povertà che si interseca con queste dinamiche di lesione dei diritti umani fondamentali. Ecco perché l’accoglienza della Chiesa è particolarmente importante, perché non è solo un’accoglienza “materiale”, ma anche un accompagnamento della persone con il suo valore integrale.

D. – L’accoglienza da parte della Chiesa italiana si distingue come particolarmente virtuosa nel panorama europeo…

R. – Assolutamente. Perlomeno alcuni governi europei non si sono distinti in termini di accoglienza e solidarietà, ma anche – oserei dire – di lungimiranza politica; perché quasi tutte le nazioni europee hanno dei tassi demografici veramente preoccupanti. Altri – e penso soprattutto alle società civili e alle Chiese di questi Paesi – hanno fatto cose lodevoli. Per cui bisogna sempre distinguere un’Europa chiusa da un’Europa solidale ed aperta.

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Chiesa delle Filippine: “no” alle esecuzioni extragiudiziali

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“Siamo profondamente addolorati e fortemente disturbati dalla crescente ondata di esecuzioni extragiudiziali in relazione alla campagna anti-droga e per l’azione inadeguata da parte del governo nel controllare queste esecuzioni sommarie e condurre i loro responsabili alla giustizia”: lo afferma un appello lanciato dai vescovi di Bacolog, Dumaguete e San Carlos, e dall'amministratore apostolico della diocesi di Kabankalan, tutte diocesi sull’isola filippina di Negros, nel centro dell’arcipelago. I quattro vescovi firmatari sono: mons. Gerardo A. Alminaza, vescovo di San Carlos; mons. Patricio Buzon, vescovo di Bacolod; mons. Julito Cortes, vescovo di Dumaguete; mons. Rolando Nueva, amministratore apostolico di Kabankalan.

Vescovi preoccupati per l'apatia e l'indifferenza dell'opinione pubblica
In una nota ripresa dall'agenzia Fides i quattro Presuli notano che “le dichiarazioni incendiarie dell'amministrazione tendono a favorire l'uccisione di tossicodipendenti”, mentre “l'apatia e l'indifferenza apparente dell’opinione pubblica di fronte a queste esecuzioni extragiudiziali destano forte preoccupazione e allarme”.

Lotta al narcotraffico entro i limiti della legge e nel rispetto dei diritti umani
I vescovi concordano sulla volontà politica e sulla determinazione per affrontare la terribile minaccia della droga che da tempo affligge il Paese, ma chiedono con forza “che ciò avvenga entro i limiti della legge e con pieno rispetto dei diritti umani”, in quanto “l'uomo è creato a immagine di Dio e ogni vita umana è sacra”, e “il comandamento, ‘non uccidere’, ha un valore assoluto e vale sia per l'innocente che per il colpevole”.

Chiesa si impegna nella lotta alla droga e nella riabilitazione dei tossicodipendenti
“Dio non gode della morte del malvagio, ma desidera che invece si converta e viva” ricordano citando il passo biblico del Profeta Ezechiele. I vescovi come “Pastori del gregge”, impegnano le loro rispettive comunità a “pregare costantemente per il nostro Paese”, a “formare le coscienze e promuovere la cultura della vita, a partire nelle nostre famiglie”, e anche “ad offrire piena collaborazione con il governo nel lavoro di prevenzione della droga e nella riabilitazione dei tossicodipendenti”. 

Anche uccidere può diventare una droga
Dal canto suo padre Peter Geremia, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, religioso che opera nelle Filippine a fianco di poveri, tribali, emarginati sull'isola di Mindanao afferma che si deve dire con chiarezza che "anche uccidere può diventare una droga". "Uccidere persone malate può risultare facile, i killer possono sentirsi onnipotenti, ma possono anche sperimentare un profondo senso di colpa, spesso inconscio, che può causare disturbi della personalità, portando a varie forme di violenza, compresi l’alcolismo e la stessa tossicodipendenza. I killer sono pericolosi per le loro stesse famiglie".

Evitare che il Paese diventi dipendente dalla droga della violenza
In una lettera aperta rivolta al Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, ripresa dalla Fides, padre Geremia osserva: "Il Presidente – prosegue - ci sfida a rialzarci dalla nostra accondiscendenza. Vorrei che il nostro Presidente, però, portasse avanti la guerra alla droga evitando la ‘droga degli omicidi’. Vorrei che fosse in grado di convincere più persone a sostenere una lotta pulita, non una guerra sporca contro le droghe e la corruzione". Il missionario auspica che la nazione filippina possa "liberarsi dalla schiavitù della droga e della corruzione", evitando però di diventare "dipendente dalla droga della violenza". (P.A.)

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Fatima: incontro vescovi europei delle Chiese orientali sui migranti

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L’incontro annuale dei vescovi delle Chiese orientali cattoliche in Europa si svolge quest’anno a Fátima (Portogallo), su invito del patriarca di Lisbona, il card. Manuel Clemente, presidente della Conferenza episcopale portoghese. In questo incontro-pellegrinaggio al santuario mariano di Fátima, di cui ricorrerà nel 2017 il centesimo anniversario delle apparizioni - riferisce l'agenzia Sir - i vescovi rappresentanti 15 Chiese cattoliche orientali in Europa insieme a vescovi rappresentanti di diverse Conferenze episcopali dei Paesi dell’Europa occidentale (Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito e Spagna) si confronteranno sulle sfide della cura pastorale dei migranti cattolici orientali in quei Paesi. 

Nuove sfide per la cura pastorale dei migranti di rito orientale
“Sin dal crollo dei regimi totalitari nei Paesi dell’Est-Europeo – si legge in un comunicato diffuso oggi dal Ccee che promuove l’incontro – un flusso massiccio di migranti cattolici di rito orientale, appartenenti quindi prevalentemente a Chiese sui iuris, hanno iniziato una nuova vita nei Paesi Occidentali. Dopo vent’anni, con un flusso abbastanza costante di nuovi migranti e la nascita della seconda generazione fra i primi arrivati, le Chiese locali che accolgono, prevalentemente di rito latino nei Paesi occidentali, sono confrontate a nuove sfide in termini di preservazione dell’identità culturale ed ecclesiale di questi migranti”. 

Saranno presenti anche i cardinali Sandri e Bagnasco
All’incontro parteciperà anche il prefetto per la Congregazione per le Chiese orientali, il card. Leonardo Sandri. I vescovi ascolteranno le analisi dell’economista João Luís César das Neves sulla questione dell’integrazione, le testimonianze di una famiglia romena e di una docente, che lavora quotidianamente con i “figli” dei migranti, e ancora il rapporto tra Chiesa che accoglie e Chiesa di origine. Sarà presente ai lavori anche il nuovo presidente del Ccee, il card. Angelo Bagnasco. I lavori si concluderanno domenica 23 ottobre con la celebrazione della divina liturgia presieduta da Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč, nella chiesa della Santissima Trinità e il passaggio della Porta Santa della Misericordia. (R.P.)

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Assemblea vescovi Russia su vocazioni e rapporti Stato-Chiesa

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Il punto sulle vocazioni e l’attuale  stato dei rapporti tra Stato e Chiesa in Russia. Sono stati questi i due temi centrali della sessione autunnale dei quattro vescovi cattolici della Federazione Russa: mons. Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca e presidente della Conferenza episcopale, mons. Clemens Pickel, vescovo di Saratov, mons. Joseph Werth, vescovo di Novosibirsk e mons. Kirill Klimovich, vescovo di Irkutsk.

La nuova legge anti-terrorismo non ostacoli il lavoro della Chiesa cattolica
L’Assemblea si è svolta il 13 e 14 ottobre scorsi presso il seminario maggiore “Maria Regina degli Apostoli” di San Pietroburgo. Il lavori sono stati dedicati a una serie di questioni legate al calendario liturgico, ma uno dei temi principali è stato quello delle “vocazioni al sacerdozio e alla vita monastica, così come alla formazione dei futuri sacerdoti”, si legge in una nota  citata dall’agenzia Sir. I vescovi hanno preso in esame anche i rapporti Stato-Chiesa, informa la nota, precisando che i vescovi hanno espresso “la speranza che la nuova legislazione della Federazione Russa volta a combattere il terrorismo e a regolamentare l’attività missionaria non crei ostacoli insormontabili al lavoro delle strutture della Chiesa cattolica in Russia”.

Presente ai lavori il nuovo nunzio mons. Celestino Migliore
Il nuovo nunzio apostolico presso la Federazione Russa, l’arcivescovo Celestino Migliore, che ha partecipato ai lavori, “ha assicurato la sua disponibilità a dare tutto l’aiuto necessario alle strutture della Chiesa cattolica in Russia”. (L.Z.)

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Vescovi Scandinavia: lettera sul dialogo cattolici-luterani

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Nonostante tutte le ragionevoli spiegazioni, la Riforma ha creato una divisione nel cristianesimo che ne ha sofferto e ne soffre ancora oggi. A causa di questa divisione la Chiesa cattolica nei Paesi nordici ha potuto ricominciare a vivere solo dopo diversi secoli”, e per questo “il 500° anniversario dell’inizio della Riforma non può essere festeggiato, ma dovrebbe essere invece commemorato in uno spirito di pentimento”. Lo si legge in una “Lettera pastorale della Conferenza episcopale nordica” diffusa sabato scorso in Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Islanda.

Determinati a procedere insieme sul cammino della riconciliazione
Lo scritto, volutamente reso noto nel giorno della festa di Santa Teresa d’Avila e intitolato “Dal conflitto alla comunione”, intende porre la domanda su “come proseguire insieme per crescere insieme nella fede, nella speranza e nella carità”. I vescovi cattolici – riferisce l’agenzia Sir - esprimono la loro determinazione “a procedere insieme sul cammino della riconciliazione con i nostri fratelli e sorelle luterani e a fare di tutto per raggiungere l’unità”.

Attraverso la grazia di Dio è possibile trovare vie per l’unità
Dopo aver formulato da una prospettiva cattolica alcuni punti centrali della dottrina della fede, i vescovi ripropongono anche per il Nord Europa i “cinque imperativi” che l’omonimo documento congiunto cattolico-luterano lanciava nel 2013. Invitano “tutti i cattolici ad accompagnare nella preghiera la preparazione della visita del Papa” a fine mese in Svezia e concludono: “Nonostante le differenze che restano, siamo convinti che attraverso la grazia di Dio è possibile trovare vie per l’unità”. (L.Z.)

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 291

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.