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Sommario del 28/09/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: onoriamo eredità di Shimon Peres, uomo di pace

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Il Papa si è detto “profondamente rattristato” per la morte dell’ex presidente israeliano Shimon Peres. In un telegramma indirizzato all’attuale capo di Stato di Israele, Reuven Rivlin, Francesco rivolge le sue “sentite condoglianze” a tutto il popolo israeliano, ricordando con affetto il tempo passato con Peres in Vaticano e rinnovando il suo “grande apprezzamento” per i suoi “sforzi instancabili” a favore della pace.

Il Pontefice auspica che la memoria di Shimon Peres ispiri tutti “a lavorare con sempre maggiore urgenza per la pace e la riconciliazione tra i popoli. In questo modo, la sua eredità sarà veramente onorata e il bene comune per il quale ha lavorato così diligentemente troverà nuove espressioni”, mentre “l'umanità si sforza di avanzare sul cammino verso una pace duratura”.

Quindi conclude: “Con l'assicurazione delle mie preghiere per quanti sono in lutto, soprattutto per la famiglia Peres, invoco le benedizioni divine di consolazione e forza sulla nazione”.

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Papa: Chiesa è per tutti, buoni e cattivi, perché è misericordia

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La Chiesa è per tutti: buoni e cattivi, perché così agisce la salvezza di Dio. Lo ha spiegato Papa Francesco nella catechesi dell’udienza generale in Piazza San Pietro, durante la quale si è soffermato sul perdono di Cristo e sul suo sacrificio per la nostra salvezza. Ce ne parla Giada Aquilino

La Chiesa è per tutti
La salvezza di Dio è “per tutti”. Papa Francesco lo ripete più volte all’udienza generale in Piazza San Pietro, spiegando che il Giubileo in corso è quindi “tempo di grazia e di misericordia” per ciascuno di noi, “buoni e cattivi”, chi è “in salute” e chi soffre:

“La Chiesa non è soltanto per i buoni o per quelli che sembrano buoni o si credono buoni; la Chiesa è per tutti, e anche preferibilmente per i cattivi, perché la Chiesa è misericordia. E questo tempo di grazia e di misericordia ci fa ricordare che nulla ci può separare dall’amore di Cristo!".

Cristo è rimasto sulla croce per salvarci
L’invito del Papa è a guardare il Crocifisso, dove Cristo è rimasto “senza far nulla per salvarsi”, ma per salvare noi:

“Tutti noi sappiamo che non è facile ‘rimanere sulla croce’, sulle nostre piccole croci di ogni giorno. Lui, in questa grande croce, in questa grande sofferenza, è rimasto così e lì ci ha salvati; lì ci ha mostrato la sua onnipotenza e lì ci ha perdonati”.

Guardare il Crocifisso
Morendo in croce, innocente tra due “ladroni”, tra “criminali”, spiega ancora il Papa commentando il Vangelo di Luca, Gesù prova che la salvezza di Dio “può raggiungere qualunque uomo in qualunque condizione, anche la più negativa e dolorosa”:

“A chi è inchiodato su un letto di ospedale, a chi vive chiuso in una prigione, a quanti sono intrappolati dalle guerre, io dico: guardate il Crocifisso; Dio è con voi, rimane con voi sulla croce e a tutti si offre come Salvatore a tutti noi. A voi che soffrite tanto dico, Gesù è crocifisso per voi, per noi, per tutti”.

Nessuno è escluso dal perdono di Dio
È la forza del Vangelo a dare un’“intima certezza”:

“Nessuno è escluso dal perdono di Dio. Soltanto deve avvicinarsi pentito a Gesù e con la voglia di essere da Lui abbracciato”.

Il Signore salva
D’altra parte, ricorda Francesco, il nome Gesù indica “il Signore salva”. Lo si comprende riflettendo sulla figura del “buon ladrone” che diventa “testimone della grazia” perché nel Crocifisso contempla “l’amore di Dio per lui, povero peccatore”:

“È vero, era ladrone, era un ladro, aveva rubato tutta la vita. Ma alla fine, pentito di quello che aveva fatto, guardando Gesù così buono e misericordioso è riuscito a rubarsi il cielo: è un bravo ladro, questo!".

Un condannato a morte modello per i cristiani
Da condannato a morte, chiede a Cristo di ricordarsi di lui quando entrerà nel Suo “regno”, diventando così “modello del cristiano che si affida a Gesù”:

“Un condannato a morte è un modello per noi, un modello per un uomo, per un cristiano che si affida a Gesù; e anche modello della Chiesa che nella liturgia tante volte invoca il Signore dicendo: 'Ricordati... Ricordati del tuo amore'…”.

Non aumenti disoccupazione
Esortando i fedeli in Piazza a rivolgere una “preghiera breve” ripetendo “tante volte” nella giornata “Gesù, Gesù”, il Pontefice invia quindi un saluto speciale al popolo messicano, accendendo poi la fiaccola per le famiglie di Roma e del mondo intero in vista della Settimana della Famiglia, organizzata ad inizio ottobre dalla diocesi di Roma. Il suo pensiero va pure ad un gruppo di operai licenziati della Basilicata:

“Auspico che la grave congiuntura occupazionale possa trovare una positiva soluzione mediante un incisivo impegno da parte di tutti per aprire vie di speranza. Non può salire più la percentuale della disoccupazione!".

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Papa: autori bombardamenti ad Aleppo renderanno conto a Dio

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“I responsabili dei bombardamenti renderanno conto a Dio!”. E’ il forte ammonimento, col quale, all’udienza generale, Papa Francesco ha concluso l’incontro con i fedeli con un  nuovo accorato appello per la pace in Siria. Il Pontefice ha espresso il suo dolore in particolare per la città di Aleppo. Il servizio di Giancarlo La Vella

Il pensiero del Papa va ancora una volta all’amata e martoriata Siria, da dove – dice Francesco – “continuano a giungermi notizie drammatiche sulla sorte delle popolazioni di Aleppo, alle quali mi sento unito nella sofferenza, attraverso la preghiera e la vicinanza spirituale”. Il Pontefice ha poi continuato:

“Nell’esprimere profondo dolore e viva preoccupazione per quanto accade in questa già martoriata città, dove muoiono bambini, anziani, ammalati, giovani, vecchi, tutti, rinnovo a tutti l’appello ad impegnarsi con tutte le forze nella protezione dei civili, quale obbligo imperativo ed urgente”.

Dopo l’accorata esortazione del Santo Padre alla comunità internazionale affinché si faccia qualcosa per la stremata popolazione civile, anche il forte ammonimento a quanti, nonostante la disastrosa situazione, continuano a far prevalere la logica delle armi:

“Mi appello alla coscienza dei responsabili dei bombardamenti, che dovranno dare conto davanti a Dio!”.

Le parole del Papa giungono nel giorno dell’incontro, organizzato dalla Caritas Internationalis a Roma, nel quale, proprio per rispondere alle numerose richieste di Papa Francesco, si parlerà delle vie praticabili per riportare la pace in Siria e anche in Iraq; e alla vigilia dell’udienza dal Papa dei membri di organismi caritativi cattolici, che operano nel contesto delle crisi umanitarie siriana, irachena e nei Paesi limitrofi. Federico Piana ne ha parlato con Paolo Beccegato, vicedirettore della Caritas italiana:

“Questa fase ultima della presa definitiva di Aleppo è particolarmente sofferente perché si mischiano le vittime della guerra alla riduzione alla fame di popolazioni intere. E adesso c’è anche il problema dell’acqua. Tutte queste cose ricadono prima di tutto sui civili, perché i civili restano spesso catturati, perché non possono scappare e perché appunto tutto intorno si combatte. E sono coloro che poi veramente soffrono di più”.

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I terremotati dal Papa: la politica non ci abbandoni

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Ha partecipato all'udienza generale in Piazza San Pietro anche un gruppo di persone giunte dalle zone terremotate di Arquata e Pescara del Tronto guidate dal vescovo di Ascoli, mons. Giovanni D'Ercole. Papa Francesco ha dato la sua benedizione e baciato la piccola Speranza, la bambina di un mese salvata dalle macerie ad Arquata. Tra loro anche il sindaco Aleandro Petrucci, che ha sottolineato l'immensa emozione di questo incontro con il Papa, al quale ha rivolto l'invito ad andare al più presto a visitare quelle terre così duramente colpite dal sisma. ''Adesso - ha spiegato Petrucci - dobbiamo metterci a lavorare per far trovare al Papa una terra che si rialza ed è capace di farlo''. Nel gruppo c'erano anche gli abitanti di Capodacqua, una frazione di Arquata del Tronto, rasa quasi completamente al suolo. Ascoltiamo le loro testimonianze raccolte da Marina Tomarro: 

R. – Con la speranza che tutto si possa rifare come era prima, perché noi siamo molto affezionati al luogo e al posto: io ci sono nato e tanti ci vengono in villeggiatura; però, per noi è fondamentale ricostruirla lì dov’è, con le case com’erano prima.

D. – Di cosa avete bisogno, in questo momento?

R. – In questo momento, che ci assistano specialmente le autorità, che ci diano una mano. Adesso è tutta zona rossa, noi non possiamo entrare nel paese, nemmeno a prendere i beni che abbiamo lasciato il giorno del terremoto. Io ero presente, quando c’è stata la scossa …

D. – Cosa ricorda di quella notte?

R. – Tanto frastuono, tanto rumore, tanta, tantissima paura; la notte ancora non riesco a dormire, perché la paura ancora è tanta, quindi … speriamo che piano piano, con il tempo, si affievolisca.

R. – Noi siamo qui per testimoniare che esistiamo, che abbiamo un grande problema: non vogliamo che si spengano i riflettori dopo la prima fase. Quindi, rispettare le promesse e monitorare che le promesse diventino poi fatti concreti.

D. – Di cosa avete bisogno, in questo momento? Qual è la vostra situazione?

R. – La situazione di Capodacqua in questo momento è una situazione di un paese che non c’è più; però, per fortuna abbiamo altre collocazioni: chi a Roma, chi ad Ascoli … Vogliamo fortemente che questo paese ritorni com’era prima, perché lì ci sono le nostre memorie, i nostri ricordi e c’è il futuro di quelle popolazioni che altrimenti andrebbero disperse nel territorio.

R. – Noi ovviamente chiediamo di poter rientrare nelle nostre case: per il momento, non sarà possibile. Chiediamo di avere un aiuto per non far morire il Paese perché residenti e non residenti, vogliamo tornare tutti.

D. – Ascoltare anche le parole del Papa, cosa vuol dire per voi?

R. – Per noi è una speranza; per noi, la cosa più importante è comunque rimanere uniti, anche nella preghiera, perché il Signore possa aiutare quelli che possono darci una mano: questo è importantissimo!

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Papa in Georgia, padre Spadaro: una missione per l'unità

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Papa Francesco partirà venerdì prossimo per il suo 16.mo viaggio internazionale che lo porterà in Georgia e Azerbaigian, nel Caucaso. Sulla tappa in Georgia ascoltiamo padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, che seguirà il Papa nella sua nuova missione. L'intervista è di Gabriella Ceraso

R. – Sarà un viaggio importante perché completerà di fatto il viaggio nel Caucaso che è una ferita aperta, cioè un luogo di enorme ricchezza soprattutto per quanto riguarda il cristianesimo, ma anche un luogo che ha vissuto e vive tuttora grandi conflittualità, dovute ad interessi di ordine economico e di ordine politico. Direi quindi che il Papa ama sempre toccare con mano ed essere presente nei luoghi in cui ci sono delle ferite aperte che vanno risanate: la dimensione della Chiesa come ospedale da campo significa anche la dimensione terapeutica di Gesù. Il Papa toccherà anche un luogo che è un pozzo di storia cristiana; c’è una vita monastica tuttora attiva, ma anche in questo caso non mancano i problemi perchè i rapporti con la Chiesa ortodossa sono complessi. La Chiesa ortodossa georgiana non riconosce per esempio la validità del Battesimo amministrato dai cattolici, anche se c’è un lavoro costante e continuo di relazioni. Allora, se vogliamo, la presenza del Papa significa anche un messaggio molto chiaro di unità dei cristiani, facendo appello a queste radici profonde che la Georgia custodisce gelosamente. In fondo la cultura e la lingua stessa del popolo sono plasmate dal cristianesimo. Un altro elemento che ritengo molto importante è il fatto che questa è una zona di confine; ovviamente diremmo Asia, ma nello stesso tempo è chiaro che c’è una cultura che fa un chiaro riferimento all’Europa. Quindi in questo senso si pone come un viaggio interessante alle radici cristiane dell’Europa.

D. - Quindi un viaggio tra le difficoltà, le sfide, le questioni politiche, geopolitiche, religiose e culturali. Per quanto riguarda i possibili sviluppi, lei in occasione del viaggio in Armenia parlò della “diplomazia della misericordia”…

R. – Senza dubbio penso che il viaggio del Papa sarà uno stimolo a crescere meglio, in maniera più armoniosa all’interno di questo rapporto tra i cristiani da una parte e, dall’altra, tra cristiani e mondo civile e politico. In fondo quando il Papa visita i Paesi si rivolge a tutti. D’altra parte aiuterà a vivere meglio anche le tensioni che tuttora si vivono e che sono anche molto visibili, ad esempio ci sono molti rifugiati che vengono dalle zone di confine tra la Georgia e la Russia.

D. - Ha avuto la percezione che ci sia un’attesa di questa visita, un interesse?

R. - Io ho avuto la percezione di un grande interesse soprattutto nella fascia giovanile. Ho avuto modo di parlare di questi temi, del significato dei viaggi del Papa … Mi ha colpito un’interessante presenza di giovani ortodossi. Si comprende da questo come la società sia in evoluzione. Il Patriarca Ilia II è una figura storica che tutto sommato rappresenta il passaggio dalla situazione sovietica a quella attuale. Quindi, se vogliamo, c’è quasi l’attesa di un futuro per la Chiesa georgiana che probabilmente va ripensato e la generazione che vive questi fermenti è molto interessata al viaggio del Papa.

D. – Pace e fraternità sono le parole che ci condurranno in queste due tappe, parole scelte anche per i rispettivi “motti”. Sempre in qualità di osservatore, a quali gesti che compirà il Papa ritiene dobbiamo prestare attenzione?

R. - Questo è difficile da prevedere. Il Papa è molto attento alla storia. Questo significa concretamente che è anche attento a quello che avviene durante le sue visite. Questo a volte gli fa cambiare le parole da dire o i gesti da compiere. D’altra parte, dobbiamo dire che i gesti, gli abbracci, tutto quello che significa ponte, che simbolicamente rappresenta l’incontro con realtà, uomini e Chiese, ha un valore assolutamente rilevante che tutto sommato supera persino il contenuto verbale. Il Papa stesso dice che ciò che è importante alla fine non sono le carte bollate, ma sono gli incontri, gli abbracci.

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Papa in Azerbaigian, card. Filoni: messaggio di pace e libertà

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Seconda tappa del viaggio che il Papa compirà da venerdì nel Caucaso, è l’Azerbaigian. Francesco arriva in questa ex repubblica sovietica a maggioranza musulmana dopo 14 anni dalla visita di San Giovanni Paolo II che proprio qui, rispondendo alle richieste di alcuni fedeli alla fine del comunismo, inviò un sacerdote. Oggi in Azerbaigian c'è una Prefettura apostolica affidata ai salesiani, che dipende dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. “Una storia di fede in un contesto non facile” spiega, al microfono di Gabriella Ceraso, il prefetto del dicastero, il cardinale Fernando Filoni

R. - L’inizio di questa piccola comunità cattolica nell’Azerbaigian è una storia molto bella. Risale un po’ al tempo di Giovanni Paolo II, quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, alcune famiglie scrissero al Papa dicendo: “Una volta eravamo una comunità”- nel senso che il comunismo aveva praticamente raso a zero tutte le chiese, i pochi cristiani sopravvissuti erano un po’ dispersi – “perché non ci manda un sacerdote?”. Da lì è partita la missione: furono incaricati i salesiani del Centro Europa all’interno dell’Azerbaigian.

D. - Una Chiesa relativamente giovane, anche se le radici cristiane del Paese sono molto, molto antiche. Che spazio reale c’è di crescita e di sviluppo per la comunità cattolica?

R. - Lo spazio attuale è legato proprio al concetto di libertà religiosa. Sappiamo che in questi Paesi c’è soprattutto la libertà di culto e anche parlare di tolleranza è un aspetto proprio iniziale. Noi, soprattutto come Chiesa, preferiamo parlare di diritti, perché appartiene alla natura stessa dell’essere cittadini professare la propria fede. Se questo viene rispettato in tutti i Paesi, credo che ci sia sempre una possibilità di sviluppo, come dice il Papa, non per induzione, per portare attraverso dei maccanismi alla fede, quanto per contatto, per testimonianza. In Azerbaigian dobbiamo dire che parliamo di alcune centinaia di cattolici molto vivi, molto belli, ben inseriti all’interno del contesto.

D. - Che tipo di frutto, di cambiamento, di influenza potrà aver la presenza del Papa per queste tematiche che lei ha citato, dai diritti alla libertà al dialogo, all’incontro?

R.- Credo che il primo elemento fondamentale, come già il Papa ha avuto modo di fare e di dire in Armenia, è quella della pace, di come i problemi si possono risolvere con la buona volontà; anche lì dove esistono tematiche spinose, delicate. Da un punto di vista religioso i frutti sono quelli dell’apprezzamento di una cattolicità tranquilla, pacifica, direi anche organizzata, dal punto di vista della carità anche con i pochi mezzi che abbiamo.

D. - A livello civile, diritti e libertà: sappiamo che ci sono delle discussioni aperte tra l’Azerbaigian e l’Europa. Pensa che il Papa potrà in qualche modo tener presenti anche queste tematiche? Incontrerà le autorità, e rappresentanza sociali, diplomatiche …

R. - Io non credo che il Papa agirà diversamente da come ha fatto in tutti gli altri Paesi. Sono convinto che l’invito stesso rivolto al Papa di averlo in Azerbaigian non riguarda una semplice formalità o una tattica politica, ma sostanzialmente è la stima verso un Pontefice che da un punto di vista proprio della sua missionarietà, della sua apertura verso i diritti verso tutte le persone e in particolare i più deboli, è un Papa apprezzato. Quindi non può che essere apprezzato e non può non lasciare anche qui traccia della sua capacità, del suo Pontificato, del suo pensiero.

D. - Lei è stato in Azerbaigian nel 2012; erano 10 anni dalla presenza di San Giovanni Paolo II. Lì lascio delle indicazioni incontrando proprio la comunità cattolica; affidò loro la preghiera per le vocazioni, la cura per la famiglia ma anche la promozione dell’apostolato. Erano tematiche importanti che le stavano a cuore. Perché fece quella scelta? Ci sono stati poi nel tempo dei frutti?

R. - Diciamo che sono frutti che stanno crescendo gradualmente: l’attenzione per la famiglia, per i giovani, per le ragazze e anche da un punto di vista del sostegno ad una società che ha bisogno di apprendere anche che cosa significa solidarietà.

D. - Lei è stato nunzio tanti anni in Iraq e nominato inviato speciale del Papa per l’Iraq. In Georgia ci sarà un appuntamento speciale, quello nella Chiesa di San Simone a Tbilisi, una chiesa della comunità assiro-caldea. Lì verranno in tanti proprio dall’Iraq e dal Medio Oriente. Sarà un momento importante per la comunità siro-caldea del mondo …

R. - Trovare il momento di pregare insieme, di stare insieme, di manifestare al Papa anche le difficoltà, le amarezze di quest’ampia zona che è il Medio Oriente credo che sia anche una buona occasione per i cristiani di sentire la solidarietà del Papa e, da parte dei loro pastori, di avere questo approccio con il Papa in una terra che appartiene storicamente e tradizionalmente anche a loro.

D. - In ultima analisi mi sembra che le linee portanti di questo viaggio saranno comunque pace, fraternità, testimonianza e vicinanza …

R. – Si, indubbiamente perché solo dalla comprensione dei popoli, dal rispetto reciproco, dal rispetto dei diritti fondamentali per ogni cittadino, aldilà di ogni religione, solo questo può dare la pace e lo sviluppo ai popoli stessi.

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Nomina episcopale in Brasile

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Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di São João da Boa Vista (Brasile) presentata da S.E. Mons. David Dias Pimentel. Gli succede Mons. Antônio Emídio Vilar, S.D.B., trasferendolo dalla diocesi di São Luiz de Cáceres.

S.E. Mons. Antônio Emídio Vilar, S.D.B., è nato il 14 novembre 1957 a Guardinha, diocesi di Guaxupé, nello Stato di Minas Gerais. Ha compiuto gli studi di Filosofia presso la Facoltà Salesiana di Lorena-SP (1976-1978) e quelli di Teologia (Baccalaureato e Licenza) presso la Pontificia Università Salesiana di Roma (1981-1986). Ha emesso la Professione Religiosa nella Società Salesiana di S. Giovanni Bosco il 31 gennaio 1976 ed è stato ordinato sacerdote il 9 agosto 1986. Nell’ambito della sua Congregazione Religiosa ha ricoperto i seguenti incarichi: Coordinatore di studi e Formatore dei seminaristi; Direttore di comunità; Coordinatore e Professore dell’Istituto Teologico Salesiano Pio XI a São Paulo; Consigliere dell’Ispettoria Salesiana di São Paulo; Maestro di Novizi; Parroco della parrocchia Nossa Senhora Auxiliadora e Direttore dell’Istituto Dom Bosco a São Paulo. Inoltre, è stato Giudice del Tribunale Interdiocesano di Aparecida e Membro del Consiglio Presbiterale della diocesi di São Carlos. Il 23 luglio 2008 è stato nominato Vescovo di São Luiz de Cáceres ed ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 27 settembre successivo. Attualmente è il Vice-Presidente della Conferenza Episcopale Regionale Oeste 2 e Membro della Commissione Episcopale per la Gioventù della CNBB.

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Corea del Nord: preoccupazione del Papa per la questione nucleare

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Interpellato sulla delicata situazione nella Penisola coreana, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Greg Burke, ha confermato la preoccupazione del Santo Padre e della Santa Sede per le persistenti tensioni nell’area, a causa degli esperimenti nucleari condotti dalla Corea del Nord, come è stata ribadito da mons. Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, intervenendo a Vienna ai lavori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Mons. Camilleri ha ricordato l’appello di Papa Francesco alla comunità internazionale a “impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti”.

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Oggi in Primo Piano



E' morto Shimon Peres, ex presidente israeliano e Nobel per la Pace

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Si è spento nella notte l’ultimo dei padri fondatori di Israele, Shimon Peres, 93 anni, dopo due settimane di ricovero in seguito ad un ictus. Passato alla storia per essere stato uno dei fautori degli accordi di Oslo nel 1993, ha ricevuto il premio Nobel per la Pace. I funerali si terranno venerdì a Gerusalemme. Peres sarà sepolto tra i Grandi della Nazione nel cimitero del Monte Herzl a Gerusalemme. Il servizio di Debora Donnini

L’uomo della pace, protagonista in politica dalla nascita di Israele nel 1948, ministro, premier e infine presidente, esponente del Partito laburista. Peres passò da falco a colomba a partire dal 1977. Nato in Polonia ed emigrato da ragazzo in Palestina, entrò in politica dopo aver conosciuto per caso Ben Gurion facendo l’autostop. Spirito indomito, nonostante le diverse sconfitte elettorali si rialzava ogni volta. Centrale il suo impegno negli accordi di Oslo e il conseguente premio Nobel per la Pace del 1994, ricevuto assieme a Rabin e Arafat.

Lui, che in precedenza aveva rifiutato qualsiasi compromesso con i Paesi arabi ostili ad Israele e autorizzato le prime colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, aveva poi compreso che l’obiettivo doveva essere chiaro: due Stati, Israele e Palestina, che convivono in amicizia e cooperazione. Terminato il mandato presidenziale nel 2014, era proseguito il suo impegno per il dialogo con la sua fondazione. Forti i contrasti con Netanyahu, negli anni crebbe sempre più la sua fama di uomo della riconciliazione.

Indimenticabile l’incontro di preghiera per la pace in Vaticano con Papa Francesco, a cui partecipò nel 2014 assieme al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Queste le parole di Shimon Peres:

“Due popoli – gli israeliani e i palestinesi – desiderano ancora ardentemente la pace. Le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori. Noi dobbiamo mettere fine alle grida, alla violenza, al conflitto. Noi tutti abbiamo bisogno di pace. Pace fra eguali”.

Peres ha incontrato anche Benedetto XVI e San Giovanni Paolo II. La sua morte conquista l’attenzione dell’informazione così come dei leader mondiali che inviano messaggi di cordoglio. Il figlio, Chemi, ricorda il suo messaggio: ''Ci ha ordinato di edificare il futuro di Israele con coraggio e saggezza e di spianare sempre strade per un futuro di pace''. Al mondo aveva insegnato infatti che “non c’è alternativa alla pace”. 

Janiki Cingoli è il direttore del Cipmo, il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, nel corso degli anni ha incontrato più volte Shimon Peres. Questo è il ricordo che ne fa al microfono di Francesca Sabatinelli, riandando con la memoria al 1986: 

R. – Ho incontrato la prima volta Shimon Peres quando ho accompagnato Giorgio Napolitano nel suo primo viaggio in Israele, che io avevo organizzato. L’incontro avvenne in un clima un po’ particolare: pochi giorni prima c’era stato l’attentato terroristico alla stazione dei bus e quindi noi ci aspettavamo di trovare un po’ di tensione. E invece, ci stupì il fatto che in qualche modo lui la considerava come una cosa che rientrava nella normalità: ‘Sì, loro hanno fatto l’attentato, noi abbiamo bombardato di là e quindi questa è la situazione che c’è’. Lui invece concentrò la sua attenzione sull’interesse che Israele aveva a riprendere i rapporti con l’Unione Sovietica, che erano stati congelati dopo la guerra del 1967. Napolitano, a quell’epoca, era responsabile internazionale del Partito comunista italiano. Tornato in Italia, poco dopo ebbe una missione a Mosca, pose la questione ai dirigenti di allora e, poco dopo, l’Unione Sovietica aprì i canali diplomatici con Israele.

D. – Di Shimon Peres, oggi, si leggono tanti titoli: “lo stratega”, “il pragmatico”, e se ne sottolinea, giustamente,  il particolare rapporto con Yitzhak Rabin. Chi era Shimon Peres? Come uomo politico, come presidente, come colui che, in seguito, è stato vissuto come l’anziano padre di ogni israeliano?

R. – Lui era un uomo di visione, aveva la visione dell’“Isfalur” (da Israel, Falestin e Urdùn) cioè Israele, Palestina e Giordania, un po’ come Benelux, nel Medio Oriente, un’area più vasta, tipo Unione Europea, anche elaborando progetti complessi, come quello del canale che unisce il Mar Morto al Mar Rosso, che dovrebbe unire, che è un’opera su cui lui ha centrato molto della sua attività e immaginazione, partendo dal ‘Centro Peres per la Pace’ che lui aveva fondato a Jaffa, il quartiere arabo di Tel Aviv. Lui è l’uomo dell’immaginario che rappresenta questa aspirazione complessiva del popolo israeliano per la pace. Direi che la sua popolarità dentro Israele, quando lui era in competizione elettorale, non è stata pari alla sua fama e alla sua levatura. Lui ha perso tutte le elezioni. Tra Rabin e Peres, Rabin era l’uomo che era in contatto con il popolo, Peres era quello che parlava, volava alto, ma forse il suo rapporto con la popolazione era meno forte. Lui non era semplicemente l’uomo che faceva i discorsi di pace, è l’uomo che ha fatto avanzare il progetto della bomba atomica, il fatto che Israele si munisse di armamento atomico. Quindi, lui era un uomo di pace, ma voleva che Israele avesse tutti i mezzi per difendersi. Da quando è stato eletto presidente, ovviamente, ha svolto una funzione importante: mantenere aperti i canali diplomatici anche quando il governo di Netanyahu li teneva chiusi. E’ stato quindi un simbolo di continuità e di apertura, però Israele oggi sta andando in una direzione diversa e in cui il conflitto israelo-palestinese ha iniziato a diventare più marginale nell’attenzione delle opinioni pubbliche internazionali e dei governi e questo ovviamente lascia aperto un problema che oramai la comunità internazionale tende più a maneggiare che risolvere.

D. – In relazione alla questione palestinese, per molte persone è stato difficile negli anni accostare la parola “pace” proprio a Peres …

R. – Lui è stato l’uomo che, insieme a Rabin, ha gestito i colloqui di Oslo, che hanno condotto all’Accordo di Washington. Il Nobel per la  Pace è stato dato a Rabin e a lui non casualmente. Direi che lui era quello che elaborava e che portava avanti l’idea di pace, ma quello che avrebbe potuto realizzarla sul terreno era Rabin e non per caso l’hanno ucciso. Era un binomio anche pieno di rivalità, tuttavia era un binomio che funzionava finché i due c’erano. Quando la parte forte nel rapporto con il popolo, e anche con l’esercito, è venuta a mancare, l’altro è rimasto un po’ disancorato.

D. – Tra le ultime immagini di Peres, ricordiamo quelle che lo ritraggono nei giardini vaticani, con Papa Francesco e Abu Mazen, mentre viene piantato un albero di ulivo …

R. – E’ stato un atto estremo e credo che sia stato un miracolo quello che ha compiuto Papa Francesco. Perché Abu Mazen si rifiutava di incontrare qualsiasi dirigente israeliano, anche se i suoi rapporti con Peres storicamente sono stati sempre forti. Il fatto di averli lì riuniti, testimonia questa tensione verso la pace. Direi che è stato un ultimo contributo a mantenere viva questa aspirazione verso due Stati che vivano affianco uno all’altro. Tuttavia, è un’aspirazione che forse il governo israeliano e, per certi versi, anche l’Autorità Palestinese – con l’ondata di violenza che si è sviluppata negli ultimi mesi – non hanno raccolto a sufficienza.

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Petrolio: la guerra dei prezzi e i casi di Iran e Nigeria

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La questione petrolifera torna al centro dell’attenzione internazionale con il Vertice dell’Opec ad Algeri. Risorsa preziosa, spesso contesa, il petrolio incide sulle economie dei Paesi produttori con le sue variazioni di prezzo sul mercato mondiale. Al microfono di Andrea Walton, la giornalista di "Limes" ed esperta di politiche petrolifere, Margherita Paolini, riflette anzitutto sull’andamento del prezzo del petrolio nell’ultimo anno: 

R. – Si è rivelata una costante volatilità e i mercati non si sono fatti troppo impressionare da notizie che potevano provocare un aumento o una diminuzione dei prezzi: se ci sono state delle oscillazioni sono state molto temporanee. Quello che sembra è che già la soglia dei 50 dollari a barile sarebbe una grossa vittoria. Ormai siamo un pochino sopra – diciamo a metà tra i 40 e i 50 – ma grandi speranze che questo prezzo possa salire in tempi brevi sono molto scarse. Questo comporta dei problemi grossi che al vertice di Algeri, anche se è un vertice informale, verranno discussi, anche perché una delle questioni più importanti per i Paesi produttori è che nessuno va più ad investire.

D. – Quali sono le politiche portate avanti dall’Iran in ambito petrolifero e come l’economia del Paese si avvantaggia di questa materia prima?

R. – L’Iran sta partendo veramente a gamba tesa sul mercato petrolifero e ha fatto recentemente anche una operazione molto importante, perché  il parlamento iraniano ha approvato una nuova legge riguardo ai contratti da applicare alle compagnie che vanno ad investire nel settore idrocarburi – petrolio e gas – in Iran. Era una partita molto rischiosa quella che ha giocato la presidenza iraniana, perché si temeva una resistenza, attraverso il parlamento, dell’élite importantissima dei Pasdaran che hanno un po’ il monopolio degli affari petroliferi: si temeva, quindi, che potessero essere contrari. Invece, questa cosa in parlamento è passata: questo significa che un accordo interno su questo tema, che è importantissimo per la ripresa economica dell’Iran, è passato e dà maggiore stabilità evidentemente al governo di Rouhani.

D. – Come stanno sfruttando questa risorsa economica, ovvero il petrolio, alcuni Paesi emergenti dell’Opec, come per esempio la Nigeria?

R. – La Nigeria lo sta sfruttando per il semplice motivo che la situazione generale è in bancarotta per il fatto che ci siano stati scandali, interruzioni e poi soprattutto ultimamente anche una ripresa della sovversione molto mirata alla produzione petrolifera e gasifera. Diciamo, quindi, che è una situazione molto particolare. Il ministro del petrolio saudita diceva: “Va bene, il caso della Libia e della Nigeria sono situazioni che vanno riconosciute…”. Io credo che la situazione nigeriana sia veramente molto critica, direi drammatica.

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Bimbo nato con Dna di 3 genitori, tecnica con rischi ignoti

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E’ nato in Messico - si chiama Abrahim Hassan, è un maschio, ha cinque mesi, ed è di origini giordane - il primo bambino al mondo che ha il corredo genetico di tre genitori biologici. A dare la notizia è stato il "New Scientist". Il bimbo è stato concepito grazie a una nuova tecnica che sostituisce una parte del codice genetico della madre con quello di una donatrice, al fine di evitare la trasmissione di gravi malattie ereditarie. Nella fattispecie, la procedura ha sostituito i mitocondri difettosi della cellula uovo della madre, che soffre della sindrome di Leigh, con quelli di un’altra donna sana. I genitori del bambino sono stati sottoposti al trattamento genetico in Messico, dove non ci sono regole in materia. La tecnica è per ora approvata legalmente solo nel Regno Unito. La controversa metodologia pone diversi problemi sia di ordine scientifico, si tratta infatti di una tecnica sperimentale;  sia di ordine etico e antropologico come la frantumazione della maternità e del diritto all’identità. Su questi risvolti Marco Guerra ha raccolto il commento della prof.ssa Laura Palazzani, Ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università Lumsa di Roma e vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica: 

R. – Innanzitutto, è una tecnica in sé positiva, perché l’obiettivo è quello di prevenire una patologia e quindi impedire che il bambino che nasce possa portare in eredità la patologia della madre. Il vero problema è che non è una tecnica al 100% preventiva: è una tecnica sperimentale. Cosa vuol dire sperimentale? Vuol dire che noi non sappiamo, a oggi, quali sono i possibili benefici – cioè prevenzione della patologia – ma quali sono i rischi. Per “rischi” si intendono i danni che questa tecnica può provocare. Quindi, paradossalmente questa tecnica viene impedita per impedire la malattia, in realtà infatti questa tecnica potrebbe aggravare ancora più la condizione patologica del futuro bambino. I rischi sono, allo stato attuale dell’applicazione di questa tecnologia, imprevedibili.

D. – La quota del dna trasmessa dal donatore è  comunque minima, però. Parliamo in ogni caso di una frantumazione della maternità: guardando in prospettiva che cosa comporta questo?

R. – Questo comporta che non si sa quanto questa porzione di trasmissione genetica possa poi modificare l’identità genetica del bambino e comunque ovviamente la madre è una – colei che lo porterà avanti in gestazione e che lo accudirà – però, certo, ci sarà sempre anche un’altra referente genetica, che non è un’altra madre, ma certamente una donatrice. E’ un po’ il problema che è emerso anche con l’eterologa: con la donazione di un gamete esterno, c’è comunque un altro referente esterno che frantuma quell’unitarietà familiare e genitoriale che generalmente c’è nell’ambito della famiglia. Quindi, questo pone un altro problema.

D. – Mettendosi nella prospettiva del diritto del nascituro, ritorna la questione del diritto all’identità, del sapere chi si è e da chi si è stati generati…

R. – Il diritto di conoscere le proprie origini: questa è una questione di cui si sta discutendo molto a proposito dell’eterologa, ma che naturalmente ricade anche in questa dimensione, cioè la possibilità per il bambino che nasce di sapere come è nato, con quale tecnica, con quale modalit, ricostruire le sue origini… Ma questo per una duplice ragione: da un lato una ragione medica, perché è evidente che sapere come si è nati è importante per un medico, per sapere e per conoscere e diagnosticare eventuali patologie. Dall’altra, anche per una ragione di carattere psicologico-esistenziale, per poter ricostruire la propria identità biografica, cioè la propria identità anche dal punto di vista propriamente esistenziale.

D. – Quindi, il legittimo diritto di una coppia a cercare di generare un figlio non si concilia sempre con il rispetto della vita umana?

R. – Certo, il diritto dovrebbe essere sempre e comunque garanzia della relazionalità, della giustizia, cioè della pari dignità di tutti i soggetti che entrano in gioco in una relazione. In questo caso non solo i genitori, ma anche il bambino che nascerà e quindi i suoi interessi, i suoi diritti devono essere tenuti in considerazione: il diritto a nascere, il diritto a un’integrità fisica, il diritto alla ricostruzione della sua identità, il diritto ad avere due genitori… tutti diritti che evidentemente devono essere bilanciati. Oggi, quando si parla di questa tecnica, si pensa solo al diritto della madre a concepire, perché anche se è malata vuole trovare ad ogni costo la possibilità di concepire. Ed è legittimo, questo desiderio di maternità. D’altro canto, però, è importante bilanciarlo con quelli che sono i diritti di chi verrà a nascere, con questa tecnica.

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Elezione Superiore Gesuiti. Lombardi: consenso senza "partiti"

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Da domenica prossima, 2 ottobre, si riunisce a Roma la Congregazione Generale della Compagnia di Gesù per eleggere il nuovo Preposito Generale,  successore di padre Adolfo Nicolás. Ieri a Roma è stata presentata questa 36.ma Congregazione Generale con ricchezza di particolari. I lavori prenderanno il via lunedì, all'indomani di una Concelebrazione nella Chiesa del Gesù. Il servizio di Debora Donnini

Sono 212 gli elettori provenienti da tutto il mondo che dovranno eleggere il 31.mo successore di Sant’Ignazio di Loyola. Per essere eletto sono necessari più del 50 per cento dei voti, in questo caso quindi almeno 107. I lavori si terranno presso l’Aula rinnovata della Curia generalizia a Roma. Alla conferenza stampa è stata illustrata, con ricchezza di particolari, la modalità di elezione del Superiore generale di quello che è il più grande Ordine di presbiteri e fratelli della Chiesa cattolica. La Congregazione avrà il compito prima di tutto di accettare le dimissioni di padre Nicolás, poi di eleggere il nuovo Superiore generale, quindi di deliberare su questioni centrali per la stessa Compagnia di Gesù, fondata nel 1540. Il primo che deve essere subito informato su chi è stato eletto, è il Papa, poi il nome sarà annunciato ufficialmente, ha spiegato padre Orlando Torres, rettore del Collegio Internazionale del Gesù, che ha preso la parola assieme ad altri padri gesuiti, tra cui padre Federico Lombardi, in conferenza stampa. Non ci sono candidati ma quattro giorni di preghiera, raccoglimento e penitenza precedono l’inizio delle votazioni. In questi giorni ci possono essere scambi di informazioni, a quattrocchi. Attualmente i gesuiti in tutto il mondo sono 16.740. E mentre si registra una diminuzione in Europa e in America, c’è una crescita in Asia e in Africa: situazione che si va man mano rispecchiando anche nella formazione della stessa Congregazione Generale. “Verso il largo, dove è più profondo” è il logo di questa 36.ma Congregazione, ispirato dall’esortazione di Papa Francesco ai gesuiti nel 2014: il Papa li aveva incoraggiati a saper discernere in tempi difficili, chiedendo di remare insieme al servizio della Chiesa. Papa Francesco, in quanto gesuita, partecipò a due Congregazioni generali, la 32.ma e la 33.ma.

Sull’esperienza dei 4 giorni che precedono il voto, detti “murmuratio”, e su alcuni aspetti dell’elezione, Debora Donnini ha chiesto un approfondimento a padre Federico Lombardi, assistente ad Providentiam e Consigliere generale, presente alla conferenza stampa: 

R. – E’ una esperienza molto importante, anche dal punto di vista spirituale. In quattro giorni, uno può avere anche un numero di colloqui e di incontri personali molto grande… Naturalmente ciascuno prende il suo tempo per pregare e per riflettere, però può conoscere, cercare persone delle diverse parti del mondo, fare anche delle domande mirate. La cosa che è difficile da spiegare, ma che avviene realmente, è che nel corso di questi giorni la convergenza nasce, senza bisogno di fare delle discussioni o degli incontri comuni, ma grazie proprio a questa rete continua e intensa di scambio e di comunicazione personale. Quindi la grande preoccupazione molto bella di Sant’Ignazio di evitare che ci siano partiti, che siano gruppi di pressione, viene perfettamente garantita da questa procedura. La circolazione delle informazioni utili per farsi un’idea e potersi orientare, c’è comunque ed è molto intensa. In questo senso, come è stato detto, di fatto nelle ultime elezioni – e credo anche in moltissime di quelle precedenti – il consenso è stato raggiunto rapidissimamente.

D. – Gli ultimi tre Prepositi generali della Compagnia di Gesù si sono dimessi. Questa è stata una novità rispetto al passato…

R. – Nelle Costituzioni della Compagnia di Gesù, scritte da Sant’Ignazio, l’elezione è ad vitam, cioè l’elezione è senza termine. E così continua ad essere. La Compagnia di Gesù non ha messo in questione questo. Allo stesso tempo non è escluso che ci possa essere, invece, un’opportunità e una procedura adatta per la rinuncia o per le dimissioni. Di fatto in un mondo come il nostro - in cui spesso anche la vita si prolunga a lungo, perché le condizioni sanitarie sono migliorate -  è sempre più frequente il fatto che sia opportuno che ci sia un termine, che non venga conservata una responsabilità per un tempo lunghissimo, quando - magari per l’età avanzata o per delle malattie o altro - le forze vengono meno. Quindi già da alcuni decenni erano state messe a punto delle procedure per la rinuncia: il Generale può manifestare il suo desiderio di rinunciare, ma ha tutta una serie di consultazioni da fare e poi propone la sua rinuncia alla Congregazione generale, che però è l’unico organo che è deputato a poterle accettare e ad eleggere il successore. Il Padre Arrupe aveva già proposto di dimettersi e poi, però, non lo aveva potuto fare.  Poi ha avuto l’ictus ed è diventato incapace di esercitare anche il governo. Con ciò è avvenuta la rinuncia e l’elezione del successore, quando lui era già ammalato. Gli ultimi due, e cioè padre Kolvenbach e padre Nicolás, invece, hanno messo in moto questa procedura e annunciato la loro intenzione di rinunciare.

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Giornata internazionale del diritto d’accesso all’informazione

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Si celebra oggi la prima Giornata internazionale del diritto d’accesso all’informazione, promossa dall’Unesco per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sulla rilevanza del diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni. Il diritto d'accesso all'informazione sottolinea anche la rilevanza della trasparenza nelle pubbliche amministrazioni a favore dei cittadini. Maria Carnevali ha intervistato Franco Bernabè, presidente della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, sulla rilevanza di questa giornata: 

R. – L’accesso all’informazione è uno strumento essenziale e non solo di conoscenza, ma anche di rivendicazione dei diritti individuali e di crescita delle responsabilità da parte dello Stato. Quindi è un fattore di modernizzazione, di civiltà e di democrazia.

D. – Qual è l’intento di questa Giornata e quali iniziative sono state organizzate per tale occasione?

R. – L’intento di questa Giornata è di sensibilizzare nei confronti del problema: devo dire che in molti Paesi l’accesso all’informazione è riconosciuto da leggi, c’è un diritto da parte del cittadino -soprattutto nei confronti della Pubblica Amministrazione - di veder riconosciuto il diritto di sapere quali siano state le motivazioni degli Atti e di aver accesso agli Atti. Direi anche che in molti Paesi – compreso l’Italia – si sono fatti progressi importanti su questo fronte… La cosa importante, per quanto riguarda il diritto all’informazione, è che questo favorisce processi che sono intimamente democratici, perché sono processi trasparenti, tracciabili e non arbitrari. Ecco, il fatto di sapere che si può accedere all’informazione e che si conoscono quindi le ragioni per le quali delle decisioni sono state prese è un grande strumento non solo di civiltà, ma anche di crescita civile di un Paese.

D. – Questa Giornata, secondo l’Unesco, ha una particolare rilevanza per l’Agenda dello sviluppo 2030. Quale relazioni intercorre tra il diritto di accesso all’informazione e lo sviluppo?

R. – C’è soprattutto un valore che riguarda la trasparenza dei processi. Uno degli elementi che determina lo sviluppo è la solidità e l’efficienza della Pubblica Amministrazione: una Pubblica Amministrazione in cui le decisioni sono motivate, tracciabili e trasparenti è una Pubblica Amministrazione che contribuisce in modo molto importante alla crescita e allo sviluppo di un Paese.

D. – Numerosi Paesi, però, non hanno ancora adottato una legislazione sulla libertà e l’accesso all’informazione. Come il panorama mondiale si rapporta all’implementazione del diritto di accesso?

R. – Certo, numerosi Paesi non lo hanno ancora riconosciuto… Però è una questione comunque delicata: nel senso che così come va tutelato l’accesso all’informazione, altrettanto va tutelato il diritto alla privacy e il diritto al vedere riconosciuto il valore delle opere di ingegno e quindi i diritti d’autore. E’ una materia estremamente complessa, che richiede approfondimento, che richiede riflessioni; ma è una materia che sta avanzando in molti Paesi del mondo e che contribuisce alla crescita complessiva del sistema.

D. – Come si possono sfruttare le nuove opportunità dell’era dell’informazione per creare, attraverso proprio l’accesso all’informazione, una società più equa?

R. – Le nuove tecnologie dell’informazione danno accesso indifferenziato e indiscriminato all’informazione: sia quella buona che quella cattiva; sia quella vera, sia quella fasulla. Quindi anche lì si pone un problema molto importante: una volta garantito l’accesso, c’è un problema di contenuti e di qualità dell’informazione che viene diffusa, perché così come si diffonde la buona informazione, così tende spesso ad esser diffusa anche la cattiva informazione e informazione che danneggia i diritti individuali. E i casi degli ultimi giorni danno il segnale di quanto sia importante questa cosa…

D. – Conseguenza del diritto di accesso all’informazione potrebbe essere la progettazione di un sistema efficace di educazione ai media?

R. – Certo, l’educazione è sempre importante! Ma purtroppo soprattutto le nuove tecnologie tendono ad imporsi da sole, senza passare attraverso la fase preliminare della conoscenza e dell’apprendimento, fatto soprattutto attraverso sistemi scolastici. I bambini già utilizzano gli smartphone quando non hanno ancora fatto la scuola dell’obbligo… Quindi direi che questo è un problema, dal punto di vista politico, estremamente importante, che va trattato con la massima attenzione.

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"Servitore di Dio e dell'umanità", biografia di Benedetto XVI

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Si intitola significativamente "Servitore di Dio e dell'umanità" la biografia di Benedetto XVI recentemente pubblicata da Mondadori e firmata dallo scrittore e teologo Elio Guerriero. Il testo è arricchito da una prefazione di Papa Francesco e da un'intervista rilasciata dal Papa emerito all'autore. Nell'intervista di Fabio Colagrande, Guerriero spiega come sia nata l'idea di questo lavoro biografico: 

R. – Il momento in cui divenne più impellente per me l’esigenza di scrivere questo libro fu quello delle dimissioni, con lo sconcerto che si diffuse un po’ nella vita della Chiesa, ma che venne soprattutto ingigantito dai media. Io sapevo che la decisione di Papa Benedetto di ritirarsi veniva dalla sua profonda concezione del servizio con la quale aveva affrontato il ministero petrino. E dal suo punto di vista, l’idea era molto chiara e molto semplice. Lui stava prestando un servizio: nel momento in cui non ritenesse più di avere le forze sufficienti per prestarlo, avrebbe sentito non solo il desiderio, ma il dovere di rinunciare al servizio, pur rimanendo – per quel che riguarda l’aspetto sacramentale – Vescovo emerito di Roma.

D. – Nell’udienza del 27 febbraio 2013, Benedetto XVI disse: “Non scendo dalla Croce. Resto nel recinto di San Pietro”. Quanto sono importanti queste parole?

R. – Estremamente importante è il fatto che Papa Benedetto continui a vivere e continui a testimoniare questa sua disponibilità: io ho pregato, ho meditato, ho sentito il dovere di… E, come più volte ha testimoniato anche Papa Francesco, lui sta vivendo questo con estrema serenità. Ed è la dimostrazione più bella – a mio avviso – e anche più convincente per i fedeli, ma anche per l’umanità intera, questa serenità con cui sta vivendo questo tempo, questa amicizia e questa comunione con il suo successore. Scrive Papa Francesco nella prefazione al mio volume: “E’ la prima volta che si presenta questa eventualità di un Papa e di un Papa emerito”. Ma poiché i due si vogliono bene, stanno bene insieme e danno una testimonianza di fraternità, questo è un qualcosa di straordinariamente bello per la vita della Chiesa. Ed è anche una testimonianza, come dicevo, resa al mondo intero.

D. – Al di là del Pontificato, Joseph Ratzinger lascia una eredità importante alla vita della Chiesa anche come prefetto della Dottrina delle Fede, come teologo…

R. – Le farei, forse, l’esempio più clamoroso: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Lei ricorderà che, al tempo, ci fu tutto un orientamento che era contrario a questa sintesi. Ebbene sia Giovanni Paolo II sia il cardinal Ratzinger all’epoca sentirono il bisogno di dare questa sintesi della fede, per svolgere esattamente il compito petrino di tenere unita la Chiesa. Quel Catechismo – che fu pensato, diretto e in parte anche guidato proprio nella scrittura da Ratzinger – è un lascito che resterà nella vita della Chiesa a lungo, per decenni e forse anche per secoli.

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Nella Chiesa e nel mondo



Nicaragua. Arcivescovo di Managua: Nica Act colpisce i più poveri

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All'inizio della settimana scorsa, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una proposta di legge, il “Nicaraguan investment conditionality act”, ribattezzato “Nica Act”, che prevede sanzioni contro il governo di Daniel Ortega. Questa disposizione avrà come prima conseguenza l'impedimento al Nicaragua di accedere a fondi internazionali. Il governo del Nicaragua, in una nota stampa, ha respinto il "Nica Act", definendolo una grave violazione del Diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.

L’arcivescovo di Managua, il card. Leopoldo Brenes, ha così commentato: "Non c'è dubbio che questa iniziativa avrà un impatto a livello economico, sia per i privati che per la popolazione povera. Molti programmi realizzati nel Paese attraverso gli aiuti saranno compromessi". "Il nostro governo dovrebbe cercare un piano B perché è responsabile del progresso e dello sviluppo del popolo nicaraguense", ha proseguito il cardinale, che ha concluso: "Questo piano B dovrebbe guardare soprattutto alla popolazione più povera, per far sì che non sia così duramente colpita". Secondo dati raccolti da Fides, tale proposta di legge degli Stati Uniti intende fare pressione affinché le prossime elezioni del 6 novembre in Nicaragua siano libere e monitorate da osservatori internazionali.
 

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Vescovi europei: riscoprire l’ospitalità oltre la paura

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“Riscoprire il dono dell’ospitalità”: s' intitola così il messaggio finale dell’incontro dei vescovi e delegati della pastorale dei migranti delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee), riuniti il 26 e 27 settembre a Madrid per riflettere sulle sfide della società europea di fronte al fenomeno migratorio e sui “modelli” di integrazione dei migranti. Invitati dal presidente della Commissione episcopale dei migranti della Conferenza episcopale spagnola, mons. Ciriaco Benavente, i partecipanti hanno condiviso le diverse esperienze di accoglienza di migranti e di rifugiati nei propri Paesi. “Oggi – si legge nel comunicato finale - dopo l’urgenza dell’accoglienza, la Chiesa cattolica è in prima linea per far fronte a un’altra emergenza: quella dell’integrazione di migliaia di migranti”.

Dare spazio alla diversità
L’integrazione è un fenomeno complesso perché implica un equilibrio tra i bisogni e le aspettative sia dei migranti, sia del territorio che gli accoglie. “L’accoglienza e l’integrazione – si legge nella nota – non sono prerogative di un settore specifico della società civile o delle istituzione religiose, ma di tutta la società”. E aggiunge: “Il migrante è una persona a tutto tondo, ovvero una persona che ha bisogno di un lavoro, di una casa, ma anche dell’affetto di una famiglia e di un sostegno spirituale”. In questo contesto, non si tratta di lasciare la responsabilità dell’integrazione solo alla volontà e alla capacità del migrante, ma di percorrere una strada parallela dove entra in gioco anche la capacità e la volontà della comunità che accoglie di dare spazio alla diversità.

Abbattere i muri nei cuori delle persone
La prospettiva della Chiesa – afferma il messaggio – è di promuovere questa doppia dimensione dove vengono rispettati i bisogni e la dignità del migrante, ma anche le necessità  e l’integrità della comunità che accoglie. “I muri – prosegue il comunicato – prima ancora di diventare una realtà fisica, sono muri che si alzano nei cuori delle persone". Secondo i responsabili della pastorale dei migranti d’Europa, le persone devono comprendere cosa significa essere un migrante o un rifugiato e avere la propria vita “racchiusa in uno zaino”. Infatti, l’incontro con persone diverse da noi, se avviene con la giusta predisposizione, “sarà sempre fecondo perché immerso nella prospettiva dello scambio di doni“.

L’integrazione passa attraverso l’educazione
“L’ignoranza e la paura sono di fatto i primi ostacoli da superare”, affermano i partecipanti, per sottolineare che la vera sfida dell’integrazione passa innanzitutto attraverso un percorso educativo della società: “Solo un’educazione all’incontro e al dialogo permetterà di sradicare i timori ingiustificati, sostenuti spesso da stereotipi e cliché che sempre di più alimentano i sentimenti xenofobi in Europa. In questo percorso educativo – sottolinea quindi il comunicato finale – i cristiani devono riscoprire il significato e il valore dell’ospitalità, animati soprattutto dallo spirito dell’Anno della Misericordia. (A cura di Alina Tufani)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 272

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.