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Sommario del 14/04/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Stasera alle 21.15 il Papa al Colosseo per la Via Crucis

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Oggi, Venerdì Santo, secondo giorno del Triduo Pasquale, la Chiesa medita la Passione di Cristo. Il Servizio di Tiziana Campisi

Giorno di digiuno e astinenza dalle carni, il Venerdì Santo è caratterizzato dal silenzio. Le campane non suonano in segno di lutto e non si celebra l’Eucaristia ma si ricorda la crocifissione e morte di Gesù con la Liturgia della Parola, l’adorazione della Croce e il rito della Comunione. Il Papa presiederà questa celebrazione della Passione del Signore alle ore 17 nella Basilica di San Pietro: a tenere l’omelia sarà il predicatore della Casa Pontificia, il padre cappuccino Raniero Cantalamessa.

Alle 21.15 Papa Francesco sarà al Colosseo per presiedere la Via Crucis, che in 14 stazioni rievoca le ultime ore della vita terrena di Cristo. Quest’anno le stazioni non saranno quelle tradizionali. Lo spiega l’autrice delle meditazioni, la biblista francese Anne Marie Pelletier, che nei suoi testi ha voluto evidenziare la presenza femminile e portare il dramma delle guerre, dei migranti, delle famiglie lacerate e dei bambini violentati:

R. - Ho preso spunto dal fatto che la Via Crucis ha diversi riferimenti e che non ha uno schema vincolante e ho scelto quei momenti che mi sembravano particolarmente significativi. Così ho deciso di inserire il rinnegamento di Pietro e la scena in cui Pilato, consultato dalle autorità ebraiche, dichiara anche lui che Cristo doveva essere crocifisso. Per me era molto importante voler ricordare, in questa circostanza, ebrei e pagani uniti nella complicità della condanna a morte di Gesù. Sappiamo che nel corso dei secoli i cristiani sono stati tentati di attribuire la responsabilità della morte di Cristo solo al popolo ebraico. I testi, però, così come sono scritti, ci aiutano a capire che, in realtà, ci si trova dinanzi a un enorme dramma spirituale, nel quale ebrei e pagani sono uniti nello stesso rifiuto di Cristo, nella stessa violenza che porta alla sua condanna a morte.

A portare la Croce al Colosseo saranno il cardinale vicario Agostino Vallini, una famiglia romana, rappresentanti dell’Unitalsi e religiosi e laici di diversi Paesi, tra cui Egitto, Portogallo e Colombia dove il Papa si recherà in visita apostolica quest’anno.

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Papa nel carcere di Paliano: Dio ci ama fino alla fine, servire è seminare amore

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La “Lavanda dei piedi” del Giovedì Santo ci ricorda che “Dio ci ama fino alla fine”, nonostante i nostri peccati. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa in Coena Domini, celebrata nel Carcere di Paliano, istituto in provincia di Frosinone, riservato in particolare ai collaboratori di giustizia. Rivolgendosi ai 70 detenuti presenti nella Casa di Reclusione e al personale penitenziario, Francesco ha quindi affermato che, come ci insegna Gesù, il Papa è il primo chiamato a “servire” per “seminare amore”. Ha così invitato i detenuti ad aiutarsi l’uno con l’altro. Il servizio di Alessandro Gisotti

“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”. Papa Francesco si è soffermato, nella sua omelia della Messa in Coena Domini, su questo passaggio del Vangelo che narra l’Ultima Cena di Gesù con i suoi discepoli.

Dio ci ama fino alla fine, nonostante i nostri peccati
Il Signore, ha detto, sapeva che era stato tradito, che stava per essere consegnato da Giuda, ma ama “fino alla fine” e dona la vita “per ognuno di noi”:

Amare fino alla fine. Non è facile, perché tutti noi siamo peccatori, tutti abbiamo i limiti, i difetti, tante cose. Tutti sappiamo amare, ma non siamo come Dio che ama senza guardare le conseguenze, fino alla fine. E dà l’esempio: per far vedere questo, Lui che era 'il capo', che era Dio, lava i piedi ai suoi discepoli".

Gesù è venuto al mondo per servire, lo stesso deve fare il Papa
Quello di lavare i piedi, ha sottolineato il Papa, “era un’abitudine che si faceva all’epoca prima dei pranzi e delle cene”, perché la gente nel cammino s’impolverava i piedi. “Ma questo – ha ammonito – lo facevano gli schiavi”. Gesù, invece, “capovolge” questa regola e lo fa Lui. E a Simon Pietro che non voleva permetterlo, Gesù spiega “che Lui è venuto al mondo per servire, per servirci, per farsi schiavo per noi, per dare la vita per noi, per amare sino alla fine”:

"Oggi, nella strada, quando arrivavo, c’era gente che salutava: 'Viene il Papa, il capo. Il capo della Chiesa …'. Il capo della Chiesa è Gesù; non scherziamo! Il Papa è la figura di Gesù e io vorrei fare quello che ha fatto Lui. In questa cerimonia, il parroco lava i piedi ai fedeli. C’è un capovolgimento: quello che sembra il più grande deve fare il lavoro da schiavo, ma per seminare amore. Per seminare amore fra noi!".

La “lavanda dei piedi” non è folklore, è il segno dell’amore di Dio
Francesco ha così invitato i detenuti ad aiutarsi reciprocamente, a fare “un servizio” ognuno per il proprio compagno, “perché questo è amore, questo è come lavare i piedi. E’ essere servo degli altri”. Una volta, ha rammentato Francesco, “i discepoli litigavano tra loro, su chi fosse il più grande, il più importante”. E Gesù rispose che “chi vuole essere importante, deve farsi il più piccolo e il servitore di tutti”. E questo, ha soggiunto, è quello che fa Dio con noi. Dio “ci serve, è il Servitore”:

"Tutti noi, che siamo poveracci, tutti! Ma Lui è grande, Lui è buono. E Lui ci ama così come siamo. Per questo, durante questa cerimonia pensiamo a Dio, a Gesù. Non è una cerimonia folkloristica: è un gesto per ricordare quello che ha dato Gesù. Dopo di questo, ha preso il pane e ci ha dato il suo Corpo; ha preso il vino, e ci ha dato il suo Sangue. E così è l’amore di Dio. Oggi, pensiamo soltanto all’amore di Dio".

Papa Francesco ha dunque compiuto il rito della “lavanda dei piedi” a 12 dei 70 detenuti presenti nel carcere, 10 italiani, un argentino e un albanese. Tra questi anche tre donne e un musulmano che riceverà il Sacramento del Battesimo il prossimo mese di giugno. Un carcere particolare quello di Paliano. E’ infatti l’unico istituto penitenziario in Italia riservato ai collaboratori di giustizia. Due dei carcerati presenti hanno ricevuto la condanna all’ergastolo, mentre per gli altri detenuti la conclusione della pena è prevista tra il 2019 e il 2073.

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Direttrice carcere Paliano: Francesco ha donato a tutti amore e speranza

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Un forte messaggio di speranza. E’ stato questo il sentimento che ha suscitato la Messa In Coena Domini, celebrata da Papa Francesco nel carcere di Paliano. Il nostro inviato Davide Dionisi ha raccolto la testimonianza della direttrice della Casa di Reclusione, Nadia Cersosimo

R. – L’emozione è troppo forte, tant’è che non so se adesso riuscirò a “racimolare” tutte le sensazioni che in questo momento sono nel mio cuore. So di certo che questo Triduo Pasquale avrà un valore particolare per me, per la mia famiglia e per “la mia famiglia qui”, in casa di reclusione: questo è sicuro. Il Santo Padre ci ha dato un messaggio non solo di speranza, ma ci ha detto che l’amore di Dio – cosa che noi già sapevamo – è grande e che è pronto a perdonare tutti. Grazie!

D. - Che cosa significa avere il Papa in casa?

R. – Significa avere un Padre, una persona di famiglia, una persona che ti mette a tuo agio … è la cosa più bella che ci potesse capitare in questo mondo, è la cosa più bella che possa capitare a una famiglia. E noi ci siamo sentiti “la famiglia del Papa”.

D. – E questo clima?

R. – Ah … questo clima è splendido! Non speravamo tanto.

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Francesco visita Benedetto XVI per gli auguri di Pasqua e i 90 anni

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Il Papa si è recato mercoledì pomeriggio al monastero "Mater Ecclesiae" in Vaticano per porgere, come ogni anno, gli auguri di Pasqua a Benedetto XVI. Lo ha reso noto la Sala Stampa vaticana. Nell’occasione Francesco ha fatto anche gli auguri al Papa emerito per il 90.mo compleanno che compirà proprio il giorno di Pasqua, domenica 16 aprile.

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Viganò: Venerdì Santo, condividiamo il dolore dei martiri cristiani

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“Per trovare i martiri non è necessario andare alle catacombe o al Colosseo: i martiri sono vivi adesso in tanti Paesi. I cristiani sono perseguitati per la fede”. Così, mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, con un passo di un’omelia del Papa a Casa Santa Marta, inizia la prefazione all’instant book “Joe” distribuito dalla “Fondazione Santina” per la collana “Volti di speranza” (Velar Marna edizioni). Il volume raccoglie il racconto del vescovo di Garissa, in Kenya, mons. Joseph Alessandro, sulla strage del gruppo islamista di Al-Shabaab che poco più di due anni fa, nel giorno del Giovedì Santo, provocò la morte di 148 studenti universitari cristiani. Luca Collodi ha chiesto a mons. Dario Edoardo Viganò come possiamo ricordare i martiri cristiani nella giornata dedicata alla Passione del Signore: 

R. – Siamo nel cuore della testimonianza, una testimonianza intesa come martirio. Siamo nel dramma di tanti fratelli e di tante sorelle che ancora oggi muoiono confessando il nome di Gesù Signore. Credo che oggi, Venerdì Santo, ricordare i martiri cristiani significhi condividere con loro l’angoscia della solitudine, sperimentare con loro l’arsura, sperimentare il fatto che la gola si brucia quando è irritata dalla sabbia, che ti toglie il respiro, che porti nel corpo i segni della violenza brutale dell’odio, della morte che continua a essere seminata … In quel momento di abbandono, però, nasce nel cuore il “sì”, nasce la partecipazione a qualcosa che diventa nuovo. Gesù è un seme che muore e per questo diventa vita nuova. Quindi, qualcuno ridona il respiro, fa intravedere il senso del dolore, riporta la vita perché, come dice Schmemann, “un martire è colui per il quale Dio non è un’altra è l’ultima possibilità di mettere fine al terribile dolore; Dio è la sua stessa vita e quindi ogni cosa nella sua vita va verso Dio, ascende nella pienezza dell’amore”.

D. – Nel libro “Joe” si parla del campo profughi più grande del mondo, il campo di Dadaab nella diocesi di Garissa – in Kenya – dove vivono anche profughi cristiani in fuga dalla violenza, perseguitati. Sono i segni del martirio della Chiesa di oggi?

R. – Certamente. Penso anche a Mosul, dove appunto il vescovo Abel Nona, che è profugo insieme ad altri 100 mila della Piana di Ninive, diceva: “A Mosul abbiamo lasciato tutto, ma non abbiamo perso ciò che di più prezioso ci era rimasto, e cioè la nostra fede”. Ecco, credo allora che i fotogrammi del campo di Dadaab, a Garissa, come i fotogrammi di tanti altri campi in altrettanti Paesi, siano i fotogrammi di una persecuzione che è sempre più globalizzata, come dice Papa Francesco. E questi fotogrammi si susseguono, mentre ci inchiniamo davanti al sacrificio di tanti fratelli per i quali anche una pallottola si trasforma in dono per amore. Dunque, oggi contempliamo il Volto di Cristo crocifisso e su quel Volto vediamo i tratti di quei tanti volti dei testimoni cristiani di oggi. Quindi è una preghiera per loro, una preghiera per le loro comunità ed è anche un’invocazione a Dio perché la pace sgorghi nuovamente da questo sangue di martiri.

D. – Nel campo profughi e nella comunità cristiana di Garissa c’è una Chiesa che continua a versare sangue. E’ un segno profetico anche per la Chiesa egiziana che Papa Francesco visiterà a fine aprile?

R. – Sì, certamente, perché il sangue di Cristo assume in sé la sofferenza di tutti gli uomini e di tutte le donne, anche del popolo egiziano. Credo che questo viaggio sarà un incontro davvero grande con una comunità variegata, una comunità fatta di copti, di ortodossi, di cattolici, di musulmani … ebbene, tutti, insieme a Papa Francesco per pregare e per invocare il dono della pace. E credo che il popolo e le Chiese presenti in Egitto, sapranno testimoniare che dove il cuore è aperto all’azione di Dio, pace, condivisione e amore sono possibili anche contro ogni apparente possibilità.

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Sant'Egidio: con Francesco uniti ai copti e ai nuovi martiri

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C’è grande attesa per la celebrazione della Liturgia della Parola che Papa Francesco presiederà il 22 aprile prossimo nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, in memoria dei “Nuovi Martiri” del XX e XXI secolo. Il Papa ha accolto con gioia l’invito della Comunità di Sant’Egidio, in un momento – come ci ricorda drammaticamente la strage dei Copti nella Domenica delle Palme – in cui i cristiani sono perseguitati e uccisi in tante parti del mondo in odio della fede. Alessandro Gisotti ha raccolto il commento del prof. Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio: 

R. – La Comunità ha invitato il Papa a fare memoria dei nuovi martiri a San Bartolomeo all’Isola Tiberina, perché questo è un memoriale di tutta la Chiesa di Roma voluto da San Giovanni Paolo II dopo il Giubileo del 2000. Anche perché Papa Bergoglio ha sempre pregato con Sant’Egidio per i nuovi martiri, già da arcivescovo di Buenos Aires, in una celebrazione che ogni anno la Comunità fa durante la Settimana Santa per fare memoria di questi nostri fratelli e sorelle che durante l’anno hanno dato la vita per il Vangelo. E quindi il Papa ha accolto con grande gioia questo invito, anche perché sono tempi di nuovi martiri.

D. – L’invito e la decisione del Santo Padre di essere presente il 22 aprile è precedente alla strage dei copti in Egitto, pochi giorni fa. Questo, però, rende ancora più forte e significativo il messaggio che Papa Francesco darà a San Bartolomeo, vero?

R. – Certamente. Purtroppo, ciò che è accaduto la Domenica delle Palme a questi fedeli copti - persone umili che non hanno mai, in tutta la loro storia, usato la violenza contro nessuno - è qualcosa che ha scosso il mondo intero, tutte le comunità cristiane. E la presenza del Papa, e il ricordo che si farà anche in questa occasione, del loro sacrificio, assume tutto un valore particolare. Vorrei poi ricordare che nell’anno in corso è stato ucciso anche un prete francese, è stato sgozzato per la prima volta un martire del fondamentalismo islamico in Europa, padre Jacques Hamel; e ci sarà la sorella a ricordarlo nella celebrazione a San Bartolomeo davanti al Santo Padre. Si guarderà a tante situazioni: tutto il mondo sarà presente perché ci sono martiri cristiani in ogni continente.

D. – E colpisce anche che questa Liturgia della Parola viene a pochissimi giorni, neanche a una settimana di distanza dal viaggio di Papa Francesco in Egitto…

R. – È una visita importantissima, anche perché è un passo in avanti su quella amicizia tra i cristiani – su quello che si definisce l’ecumenismo – che oggi ha un carattere molto forte di ecumenismo del sangue: nel sangue siamo già uniti. Ma rimane sempre lo scandalo di Chiese divise, che non hanno ancora realizzato il Comandamento del Signore, che tutti siano uno, che siano tutti una cosa sola. Io credo che la spinta che Papa Francesco sta dando all’unità tra le Chiese è molto significativa: un’unità fatta di amicizia, di solidarietà, di visite e di incontri. È fatta anche di un’unità nella carità, perché nella carità già siamo uniti.

D. – Quando si dice Sant’Egidio si dice ovviamente anche dialogo interreligioso. Ecco, questo evento anche per sottolineare che i martiri non sono mai per dividere, ma in realtà sono per unire, per riconciliare…

R. – Non abbiamo mai visto il martirio come una rivendicazione o come un modo per andare contro qualcuno. La stessa testimonianza degli ultimi, tra questi i nostri fratelli copti, lo dimostra: i copti non hanno mai fatto crociate. Oggi i cristiani vivono la loro fede nella mitezza, nell’umiltà, e questa deve essere anche la risposta a chi vorrebbe invece usare il nome di Dio per la violenza, per fare violenza. Proprio in questi giorni stiamo ricordando il sacrificio del Signore sulla Croce, cioè Dio che muore per gli uomini, che non chiede agli uomini di morire per lui: questa è il grande messaggio che viene da questa Pasqua. Quindi la visita del Papa a San Bartolomeo sarà un ribadire realmente qual è il cuore del messaggio della Settimana Santa: il Signore che muore per noi e che non chiede a noi di morire per lui.

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Oggi in Primo Piano



Superbomba Usa in Afghanistan, sale la tensione con la Nord Corea

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Gli Stati Uniti hanno sganciato ieri una ‘superbomba’ sull'Afghanistan per colpire percorsi sotterranei usati dai miliziani dell'Is. Un'arma potentissima, capace di sprigionare fino a 11 tonnellate di esplosivo e di distruggere tutto nel raggio di centinaia di metri, costruita dagli Usa ai tempi della guerra in Iraq nel 2003, ma finora mai utilizzata in combattimento. Intanto, continua a crescere pericolosamente la tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord. Il servizio di Giada Aquilino

Obiettivo ufficiale: una rete di tunnel utilizzati dai miliziani del sedicente Stato Islamico nel distretto di Achin, nell'Afghanistan orientale. Un MC130 dell’aviazione statunitense sgancia, alle 17.32 ora di Kabul, un potentissimo ordigno non nucleare, la Moab, in gergo la ‘madre di tutte le bombe’. Il ministero della Difesa afghano rende noto che il bilancio è di 36 combattenti uccisi: nessuna vittima tra i civili. Il presidente Usa Donald Trump parla di “grande successo” e ai giornalisti che lo incalzano chiedendo se la ‘superbomba’ sia un avvertimento anche alla Corea del Nord - che prosegue il proprio programma nucleare - il capo della Casa Bianca risponde che “non fa differenza”, Pyongyang “è un problema” di cui Washington si occuperà. L’emittente Nbc rivela poi che gli Usa, intervenuti nei giorni scorsi anche con pesanti bombardamenti in Siria, sarebbero mobilitati per un raid con armi convenzionali contro il regime di Kim Jong-un, che si dice comunque pronto “alla guerra”. In questo quadro di tensioni geopolitiche si inserisce l’attacco nell’Est dell’Afghanistan, Paese che tenta di superare le ferite di un sanguinoso e decennale conflitto, come conferma da Kabul Luca Lo Presti, presidente di Fondazione Pangea Onlus:

R. – In un Afghanistan che vedeva le madri che mettevano a letto i propri figli è stata sganciata quella che viene chiamata la ‘madre di tutte le bombe’. Per cui c’è l’orribile percezione che la velocità della guerra voglia frenare la velocità della vita.

D. – Cosa significa per un Paese già provato come l’Afghanistan subire un attacco del genere?

R. – Ciò che è avvenuto si pone in un contesto geopolitico molto particolare. Oggi si tiene una conferenza sull’Afghanistan in Russia, alla quale è stata invitata anche la rappresentanza dell’Afghanistan ed era stato invitato anche il rappresentante di Washington, che però ha declinato l’invito. Questo significa che c’è un braccio di ferro tra americani e russi in questo quadrante del pianeta, perché il controllo dell’Afghanistan diventa terribilmente strategico: si tratta della spartizione di un Paese che rimane la chiave di volta di un grande gioco.

D. – La bomba in Afghanistan può essere anche un messaggio ad altri avversari degli Stati Uniti, viste le tensioni con la Corea del Nord, l’attacco in Siria…

R. – Assolutamente: è una dimostrazione di forza e della volontà di imporsi anche sul profilo militare sugli altri Stati. È un avvertimento alla Cina che si sta facendo ‘sul serio’, e a Putin, che in questa partita non è il solo a voler usare i muscoli. La cosa che oggi principalmente mi preoccupa sul fronte umano e non geopolitico è che in tutto questo molte persone muoiono. Perché è inutile che si racconti che il bombardamento di ieri, con la bomba più grande del mondo, è stato un bombardamento ‘chirurgico’! Di fatto oggi noi volevamo andare nella zona dov’è caduta la bomba, perché i parenti di un collaboratore afghano di Kabul vivono lì e volevamo sapere come stessero. Ma tutta la zona è preclusa a chiunque voglia avvicinarsi. Per cui tutta l’informazione sarà di carattere militare e mai sapremo veramente quante persone sono morte.

D. – Che zona è quella dell’Afghanistan orientale?

R. – È una zona confinante con il Pakistan, un po’ un’area di nessuno, dove si presume vi siano gli insediamenti dei terroristi dell’Is.

D. – Adesso si parla di sedicente Stato Islamico, prima dei Talebani: chi sono questi gruppi che lì si annidano?

R. – Oggi si parla di Talebani o di Is, ma di fatto sono nuclei di terroristi comodi a far sì che azioni di guerra importanti e azioni di controllo del territorio possano essere fatte con il consenso dell’umanità. L’Afghanistan vede ogni anno 100 mila persone che muoiono e sono quasi tutti civili. La comunità internazionale ha speso 600 miliardi di dollari per portare la pace in questo Paese e ieri sera è stata sganciata una bomba da un miliardo e mezzo. Cioè, si parla di soldi, si parla di interessi.

D. – Pangea da anni è al fianco delle donne afghane e non solo. Com’è cambiato il Paese in questi ultimi tempi?

R. – Ogni volta che si torna in Afghanistan e si trova un Paese differente, un Paese evoluto. Per cui anche il nostro lavoro sta dando i suoi frutti perché, vivendo accanto alle donne, riusciamo a creare un’aspettativa e una speranza di vita molto proficua. Qui a Kabul proprio domani, come Pangea, inaugureremo un nuovo progetto che coinvolgerà 400 bambini sordomuti che fino ad oggi sono stati assistiti solo nella loro quotidianità; noi, con l’applicazione del microcredito per le loro famiglie e con dei corsi di formazione professionale, riusciremo a dar loro una professione, un lavoro e un’attività in proprio, così che possano crearsi una famiglia e un futuro.

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Naufragio al largo della Libia: quasi cento i migranti dispersi

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Nuova strage di migranti al largo della Libia: secondo la Guardia costiera di Tripoli ci sarebbero quasi 100 dispersi nel naufragio di un gommone avvenuto al largo del Paese nordafricano. Il servizio di Giancarlo La Vella: 

97 i migranti, tra cui donne e bambini, freddamente etichettati come dispersi, una definizione che prova a celare la nuova tragedia avvenuta in Mediterraneo. Poco più di 20 le persone che si sono salvate nel naufragio di ieri al largo delle coste libiche, nel mare antistante Tripoli. La notizia è stata diramata da un portavoce della Guardia costiera della Libia. A bordo del gommone viaggiavano 120 migranti africani, tra cui 15 donne e cinque bambini. La Guardia costiera libica è riuscita a salvare solo 23 di loro. Molte le testimonianze dei sopravvissuti che hanno confermato la tragica sorte dei 97. Le persone salvate sono state trasferite nella base della Marina a Tripoli dove hanno ricevuto assistenza medica.

Questo nuovo drammatico episodio solleva molti interrogativi per una questione, l’immigrazione, per la quale l’Europa non sembra avere ancora trovato soluzioni. Giancarlo la Vella ne ha parlato con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: 

R. – Ormai credo che l’unica cosa sia quella di continuare a ribadire l’importanza di creare degli accessi legali per queste persone. Ormai la morte non fa più effetto a nessuno: ricordiamo che, dall’inizio di quest’anno, sono morte circa 826 persone nella traversata in Mediterraneo. Questo non solo non fa più notizia, ma non smuove né le politiche né l’opinione pubblica. Allora, però, bisogna non stancarsi di ribadire che ogni vita umana persa è una tragedia e quindi bisogna attivare canali umanitari, delle politiche, che, non solo salvino le persone, ma garantiscano dei percorsi sicuri per arrivare in Europa.

D. – Forse l’unica cosa che sta veramente funzionando sono proprio i corridoi umanitari…

R. – Sì, l’unica cosa che ha funzionato è quella, perché, in questo momento, è l’unica via razionale per far arrivare in sicurezza in Europa le persone che stanno aspettando in campi profughi. L’affidarsi a trafficanti metterebbe ulteriormente a rischio la loro vita. Invece i canali umanitari hanno dimostrato come si possa arrivare in Europa attraverso degli accordi e l’impegno della società civile, tutelando quelle persone che sono più fragili.

D. – Come stanno funzionando invece i controlli in mare, non tanto in chiave preventiva, ma di accoglienza?

R. – Certamente negli ultimi tempi hanno subito, soprattutto le ong, attacchi come se fossero loro le responsabili degli arrivi di queste persone. E questo credo che sia molto grave: il salvataggio in mare è un dovere e va attuato in qualsiasi modo, sia attraverso le operazioni in mare, garantite dalle varie marine militari, ma anche dalla marina mercantile e da quelle organizzazioni che permettono il salvataggio delle persone. La priorità è salvare. Quindi, bisogna ribadire che questa è una necessità e un dovere, e non va né abbandonata come procedura né tantomeno attaccata come se fosse questa la responsabile degli arrivi in Europa.

D. – Purtroppo, il tema immigrazione viene messo in evidenza solo quando succedono tragedie del genere. Come fare per non abbassare la guardia e per far sì che ci sia un impegno costante su questo tema?

R. – Io direi che la cosa importante è che ogni cittadino si senta responsabile del proprio fratello. Oggi tra l’altro è Venerdì Santo, la morte di una persona innocente non ci può lasciare indifferenti. Quindi l’assunzione di responsabilità da parte della società civile è un passaggio determinante: ogni cristiano deve sentire la responsabilità del suo fratello e del sangue di suo fratello. Questo ci deve risvegliare quando in qualche modo ci assopiamo di fronte a delle tragedie.

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Iraq. Patriarca Sako alla marcia della pace: sminare menti e cuori

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Arriverà domani nella città irachena di Alqosh la marcia interreligiosa partita da Erbil domenica scorsa. Oltre 140 chilometri percorsi a piedi attraverso la martoriata Piana di Ninive per lanciare un messaggio di pace per il Paese e tutto il Medio Oriente. Ieri il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, ha celebrato la Messa in Coena Domini presso il villaggio di Mella Baruan. Massimiliano Menichetti lo ha intervistato: 

R. – Mella Baruan è un villaggio dove si trovano 100 famiglie venute da Mosul. Il loro villaggio era stato distrutto durante la guerra: ora sono tornate, hanno restaurato le loro case e hanno anche ricostruito una bella Chiesa. Lì ho celebrato la Messa e ho lavato i piedi a dodici persone: alcuni del gruppo della marcia, tra cui un francese, uno yazida e un musulmano e all’assistente del rappresentante del segretario generale dell’Onu a Baghdad. In questo villaggio c’erano cristiani, musulmani, yazidi, dei rifugiati, ma anche persone provenienti dall’Occidente, e il rappresentante dell’Onu. E io ho detto: “Qui, simbolicamente c’è quasi tutta l’umanità”. Ho ribadito che senza il dialogo e senza la pace non c’è futuro. Tutti adesso dicono che bisogna sminare i villaggi, i campi, ma io ho detto che bisogna sminare anche la mente e il cuore.

D. – Per quale motivo? C’è odio?

R. – Sì, c’è questa ideologia fondamentalista che è come un cancro, che è diffuso un po’ ovunque: in Iraq, in Siria, in Occidente… Questa gente è cieca! Io penso che sono i musulmani a dover affrontare questo problema, ma con l’aiuto di tutti. Prima di tutto bisogna combattere questo sedicente Stato Islamico, questi gruppi, ma bisogna anche cambiare tutto il sistema dell’educazione religiosa e nazionale; presentare un messaggio religioso moderato, moderno, comprensibile, che dia un senso alla vita. E bisogna poi accettare gli altri, che sono diversi da noi: l’altro, il diverso, non è un obiettivo, è un fratello. Ho detto anche questo.

D. – La marcia in Iraq lancia un segnale forte, ma tutto intorno, e non solo, ci sono guerre e tensioni: come far arrivare questo messaggio di pace al mondo?

R. – Questo messaggio deve essere compreso prima di tutto dai leader politici e religiosi. Le persone sono le vittime. La politica deve essere positiva: deve aiutare a realizzare la pace, la convivenza, il progresso, la prosperità: rendere la gente felice, renderla fratelli e sorelle, tutti. Coloro che creano le guerre cercano di perseguire solo interessi economici: questo è un peccato mortale. Il mondo intero deve muoversi contro queste guerre e questi attacchi.

D. – Quale la testimonianza che viene dall’Iraq?

R. – Noi abbiamo sperimentato la guerra, la morte, la distruzione, l’emigrazione. Aspettiamo la Risurrezione! La Risurrezione è possibile quando c’è una conversione della mente e del cuore verso il bene e verso l’altro che è un fratello.

D. – Lei personalmente, per questa Pasqua, cosa vuole augurare?

R. – La pace in Iraq, in Siria, in Libia… nel Medio Oriente. Per me è cruciale. Dobbiamo tutti collaborare per realizzare questa pace che sarà una vera redenzione di questo mondo orientale e di questa povera gente: sono come Cristo, muoiono ogni giorno.

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Chiesa in America Latina crea la Rete del Grido per i migranti

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Si chiama “Red Clamor”, “Rete del grido”, con un riferimento biblico al libro dell’Esodo (3, 7-8) in cui il Signore ascolta “il grido del popolo d’Egitto”: è la Rete latinoamericana e caraibica per la Pastorale di migranti, rifugiati e vittime della tratta. L’organismo, frutto di un lavoro durato quattro anni, riunisce gran parte delle organizzazioni di mobilità umana della Chiesa cattolica dell’America Latina e dei Caraibi. A sugellare la nascita della Rete, nei giorni scorsi, è stato un incontro svoltosi a Santiago de Caballeros, nella Repubblica Dominicana, organizzato dal Dipartimento Giustizia e solidarietà (Dejusol) del Consiglio episcopale latinoamericano.

I membri della Rete
Soddisfazione per l’operato è stata espressa da mons. Gustavo Rodríguez, presidente del Dejusol, il quale ha sottolineato “l’entusiasmo dei partecipanti al progetto”, che “realizza un sogno e dona speranza al futuro di questo tipo di Pastorale”. Tra i membri della Rete ci sono gli Scalabriniani, il Jesuit Refugee Service, diversi Dipartimenti della mobilità umana delle Conferenze episcopali latinoamericane (Repubblica Dominicana, Messico, Guatemala, Haiti, Cile), oltre a numerose Congregazioni religiose.

Un grande segnale di speranza
Dal suo canto, mons. Julio César Corniel, presidente della Pastorale sociale dominicana, ha ribadito che “la Rete del Grido rappresenta il consolidamento di linee concrete per il lavoro con i migranti, per unificarne i criteri, sentirsi sostenuti ed uniti nel cercare soluzioni ai problemi che si presentano. Senza dubbio, la Rete è un grande segnale di speranza”.

Migranti sperimentano situazioni terribili
Gli ha fatto eco padre Francisco Hernández, direttore del Segretariato Caritas dell’America Latina e dei Caraibi: “La migrazione è un tema fondamentale, poiché è uno dei problemi più grandi nel mondo. Per questo, ci sentiamo profondamente impegnati nel lavorare come comunione ecclesiale, in cui la diversità di sforzi e di esperienze ci permette di procedere in modo concreto e comune in favore dei migranti che sperimentano situazioni terribili”.

Riconoscere dignità dei migranti
In conclusione, la Rede del Grito desidera essere “un ospedale da campo in cui i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le vittime della tratta possano essere accolti, protetti e curati, riconosciuti nella loro dignità ed aiutati ad integrarsi nelle comunità di accoglienza”. (I.P.)

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Vescovi del Ghana: appello di pace nel messaggio pasquale

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La pace con il prossimo, la pace con Dio, la pace nella nazione: si articola su questi tre aspetti della riconciliazione il Messaggio diffuso dalla Conferenza episcopale del Ghana (Gcbc) in vista della Santa Pasqua. Il documento, a firma di mons. Philip Naameh, arcivescovo di Tamale e presidente dell’organismo, ricorda in primo luogo che la pace “non può essere semplicemente definita come assenza di persecuzione, ma si riferisce anche al rapporto che ognuno di noi ha con Dio e con l'altro”. “Sono in pace con il mio Dio? E io sono in pace con il mio prossimo?” sono quindi domande essenziali da porsi.

L’incredulità di San Tommaso, esempio di mancanza di coesione
In secondo luogo, facendo riferimento alla figura di San Tommaso, dubbioso sulla risurrezione di Cristo, i vescovi ghanesi sottolineano come la sua incredulità non fosse solo “una mancanza di fede in Cristo, ma ha una mancanza di fiducia negli altri discepoli”. In pratica, l’episodio di Tommaso apostolo evidenzia “la mancanza di coesione e le lotte intestine che caratterizzano ogni famiglia, ogni comunità e ogni nazione”.

Essere ambasciatori di riconciliazione
Naturalmente, tutto ciò “ha implicazioni per ognuno di noi - ricordano i vescovi - come singoli cristiani il messaggio di pace di Cristo ci dovrebbe rassicurare del fatto che siamo in grado di superare delusioni e fallimenti passati, perdonando noi stessi e gli altri”. È un messaggio che ci invita, come San Paolo, ad essere “ambasciatori di riconciliazione in tutti i tempi, sostenendo ogni sforzo per creare comunione” tra i fedeli.

Le sfide del Ghana
Non solo: la Gcbc ribadisce che “il messaggio di Pasqua è rilevante per l’intera nazione”, perché “come nazione, dobbiamo e possiamo vincere il flagello della malattia; sradicare la povertà e porre fine alla carneficina sulle nostre strade; possiamo e dobbiamo di no alla distruzione indiscriminata del nostro ambiente ed alla morte di bambini presso le nostre strutture sanitarie”.

Porre fine alle “malattie morali”
“Il messaggio di Pasqua – è l’esortazione della Chiesa del Ghana - ci deve incoraggiare a porre fine a tutti i mali morali, a voltare le spalle a disonestà, indecenza, corruzione, indisciplina, mancanza di rispetto per gli anziani, violenza e vendetta”. Di qui, l’appello dei vescovi a “guarire le ferite della divisione, riconciliando le famiglie spezzate, riunendo le comunità e trovando soluzioni alle controversie tra persone di diverse convinzioni politiche e fedi religiose”. (I.P.)

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Testamento biologico, la Camera al voto dopo Pasqua

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In Italia, si riapre il dibattito sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) la drammatica morte di Davide Trentini, il 53enne malato di sclerosi multipla dal 1993, che ieri è stato accompagnato in Svizzera da Mina Welby per ottenere il suicidio assistito. Il Ddl sul testamento biologico ternerà in aula a Montecitorio mercoledì e giovedì prossimi per l’approvazione definitiva da parte della Camera dei Deputati, poi sarà la volta del Senato. Il servizio di Marco Guerra

Davide Trentini era affetto da sclerosi multipla da quasi 25 anni: una malattia stabilizzata ma che comportava un dolore che per lui non era più tollerabile. Questo ultimo caso di suicidio di un cittadino italiano in Svizzera interroga nuovamente sulle misure che saranno varate dal disegno di legge sul testamento biologico che sarà discusso alla Camera la prossima settima. Il commento dell’on. Mario Marazziti, presidente della Commissione affari sociali che da un anno lavora sulla legge:

R. – Il suicidio assistito o il suicidio di un consenziente non sono dentro l’orizzonte della legge che è in discussione alla Camera e che mercoledì e giovedì dopo Pasqua potrebbe essere approvata nella prima lettura e nel testo definitivo. Il suicidio è un dramma terribile, è una domanda terribile sulla nostra società, sul senso della vita, sulla sofferenza ma non è qualcosa che può essere regolato per legge e che non dovrà mai essere regolato per legge. La legge che sta venendo alla luce ha due linee guida. Una è cercare di umanizzare quanto più possibile il precorso del morire. L’altra è, quanto più possibile, demedicalizzare la morte ovvero almeno ricostruire un’alleanza terapeutica medico-paziente.

La storia di Davide rimanda anche allo stato emotivo del paziente che descrive le DAT, come sottolinea l’on. Paola Binetti che, insieme ad altri parlamentari di area cattolica, resta contraria alla legge:

R. – Uno dei sintomi più tipici della sclerosi multipla - è dimostrato scientificamente - è la depressione. Nel disegno di legge che noi stiamo votando in parlamento, con molta fatica siamo riusciti a mettere in evidenza che un paziente depresso che chieda di morire non può essere considerato libero in questa richiesta perché la sua depressione è quello che induce a desiderare la morte. Le condizioni possono essere prese in considerazione al momento di elaborare le DAT perché poi la parte che riguarda il paziente che non è più in grado di intendere e volere; in quel momento è chiaro che non si può nemmeno valutare quali siano le sue condizioni psicologiche.

Molti quindi i punti controversi che in Parlamento vedono gli schieramenti ancora lontani. Su questo sentiamo ancora Marazziti e Binetti:

R. – Il medico è sempre tenuto a rispettare la volontà del paziente; contemporaneamente, il paziente non può mai chiedere qualcosa che sia contro la legge. C’è un certo equilibrio, che si è faticosamente costruito anche su questo punto.

R. - Questa legge esplicitamente non vuole essere una legge eutanasica ma di fatto, con alcune delle misure che assume, finisce con l’aprire porte e finestre a un possibile ingresso dell’eutanasia. L’idratazione e la nutrizione sono state equiparate a un trattamento: questo inevitabilmente configura una situazione in cui il rischio di morire è altissimo.

In questi giorni si sta cercando comunque di armonizzare le diverse esigenze con l’introduzione di alcuni emendamenti. Ancora Marazziti e Binetti

R. - Ci sono ancora molti emendamenti da affrontare, sono solo 5 articoli. Il secondo è come tutelare i disabili gravi, come tutelare chi non è libero di intendere e di volere e ha un tutore, un altro che decide per lui…Io credo che ci sarà un ulteriore miglioramento, me lo auguro: un mio emendamento, che allarga le eccezioni alla vincolatività delle DAT, ci evita la possibilità di mostruosità. Io dico: non voglio mai essere intubato perché voglio vivere la vita che mi piace, ma magari mi punge un calabrone, ho uno shock anafilattico, se non mi fanno immediatamente una tracheotomia, io muoio soffocato e invece se mi curano tre giorni dopo sto bene.

R. - Un altro punto fondamentale della legge che ancora non abbiamo affrontato in aula è quello che riguarda il momento in cui diventeranno operative queste DAT, perché che cosa vuol dire perdere la capacità di intendere e volere? Immagino una persona che sviene, una persona che ha un incidente che in qualche modo entra in uno stato di coma transeunte da cui uscirà come ne escono tante persone… Ci sono mille situazioni che vanno precisate e puntualizzate… Cosa significa dunque che non è capace di intendere e volere?

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Firmato il Memorandum contro la povertà in Italia

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In Italia ci sono quattro milioni e mezzo di persone in povertà assoluta. Oggi a Palazzo Chigi la firma dell'intesa tra il governo e le organizzazioni che in questi anni si sono occupate di mettere a punto uno strumento contro l’esclusione sociale. Alessandro Guarasci

L’Italia nei fatti non è più l’unico Paese in Europa dove manca uno strumento di lotta alla povertà. Prima la legge di Stabilità, poi la legge delega, ed ancora il Def hanno creato il reddito d’inclusione. Non solo un trasferimento monetario ma anche servizi, come la sanità e la formazione. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni:

“Noi siamo passati - credo che dobbiamo rivendicarlo con orgoglio, è merito del governo in questi anni, del governo guidato dal presidente Renzi - da fondi iniziali che mi pare fossero attorno ai 200 milioni quelli sperimentali per il S.I.A. (Sostegno per l’Inclusione attiva), oggi, a un fondo che cuba attorno ai due miliardi. E soprattutto ha una misura, per così dire, strutturale che nei prossimi anni può crescere e che si rivolge ai nuclei familiari”.

Le famiglie che cadono in povertà sono spesso formate da più di quattro persone e magari c’è un componente che ha perso il lavoro. Roberto Rossini, portavoce dell’Alleanza contro la povertà, un cartello di 35 organizzazioni:

“Secondo gli ultimi dati dell’Istat in Italia le persone in condizione di povertà assoluta, che non hanno cioè le risorse sufficienti per avere uno standard di vita minimamente accettabile, sono 4 milioni e 598 mila. Il 7,6 per cento della popolazione e il 6,1 per cento delle famiglie. E’ il valore più alto dal 2005 ad oggi. Nel Mezzogiorno si registrano le percentuali più elevate anche se segnali di peggioramento si rilevano in tutto il territorio nazionale”.

Il governo, dice il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, vuole mettere in campo uno strumento che non sia assistenziale:

“Il sostegno al reddito e l’inclusione. Io credo che questo sia un grande tema sul quale dobbiamo continuare a lavorare perché un trasferimento monetario non è semplice da realizzare ma costruire una cultura, un’infrastruttura, una capacità di collaborazione, un coinvolgimento di una comunità è cosa particolarmente più complessa. Quando parliamo di povertà parliamo di qualcosa che non ha una sua definizione univoca perché ci sono tante condizioni e tante povertà”.

Ora i dettagli dovranno essere definiti nel decreto attuativo, entro fine mese. Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso:

“Una scelta di uscire davvero dalla trappola della povertà e di costruire processi di istruzione e di lavoro che sono poi quelli fondamentali per avere un progetto di vita e una possibilità positiva”.

Un ruolo fondamentale lo avranno i comuni, nell’individuare i soggetti che hanno diritto al reddito d’inclusione.

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La musica sacra nel Venerdì Santo: intervista con mons. Palombella

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Della liturgia la musica è parte integrante e la Chiesa da sempre la propone ai fedeli per sottolineare i grandi misteri della fede. Così durante il Triduo Pasquale e soprattutto nel Venerdì Santo. Lo Stabat Mater, melodia gregoriana del XIII secolo, ad esempio, è tutt’ora rappresentato nelle chiese di tutto il mondo, ma anche nei teatri perché considerato uno dei massimi capolavori della musica sacra di tutti i tempi. Al microfono di Adriana Masotti, mons. Massimo Palombella, direttore della Cappella musicale pontificia “Sistina”: 

R. – In generale, della musica scritta per la liturgia il meglio della produzione si concentra nel Triduo Pasquale che è il cuore dell’Anno liturgico. In particolare, di questo Triduo, nel giorno di Venerdì Santo le migliori produzioni per la musica sacra hanno avuto come tema la Passione e la morte del Signore. La musica destinata alla liturgia si esprime, in questo caso in particolare, attraverso il canto gregoriano e la polifonia classica del Rinascimento. Sono queste le due forme esemplari e normative da un punto di vista metodologico e teologico perché noi troviamo, attraverso queste forme musicali, una grande esegesi del mistero della Passione e morte del Signore. Allora, il Venerdì Santo è un giorno in cui si concentra veramente una qualità di scrittura altissima con questa preoccupazione di spiegare la Passione e morte del Signore. Pensiamo al “Popule meus”, “Popolo mio che cosa ti ho fatto…”, come rende e come manifesta il dolore, nonostante sia un pezzo molto semplice. Pensiamo soltanto allo “Stabat Mater” che è inserito in questa celebrazione, il Messale lo prevede - ho in mente sia lo “Stabat Mater” gregoriano, ma anche quel grande monumento che è lo “Stabat Mater” a doppio coro di Giovanni Pierluigi da Palestrina che la Cappella musicale pontificia ha eseguito in questi ultimi anni al Venerdì Santo durante l’adorazione della Croce, veramente un monumento interpretativo di un testo. Aggiungo un altro esempio: il famoso “Miserere” di Gregorio Allegri che quest’anno la Cappella musicale pontificia alla celebrazione del Venerdì Santo, durante l’adorazione della Croce, canterà nella sua versione originale, quella del codice sistino del 1661, il manoscritto di Allegri.

D.  – Diceva che lo “Stabat Mater” può essere inserito nella liturgia, lo sentiremo anche nella Via Crucis con il Papa al Colosseo, però questo testo è andato ben al di là della liturgia. Sono oltre 400 i musicisti che ne hanno fatto diverse versioni. Perché questo grande interesse, secondo lei?

R.  – E' un testo originariamente attribuito a Jacopone da Todi - poi gli studi hanno dimostrato che non è di Jacopone ma è precedente a Jacopone - ma è un testo dove c’è tutto il mistero del dolore, c’è la figura di Maria, c’è Cristo, quindi è un testo completo da questo punto di vista e poi è una sequenza. Per cui in qualche modo apparteneva anche a una fruizione non semplicemente legata ad un contesto strettamente liturgico, ma anche adatta ad un contesto più popolare. Questo ha permesso un grande interesse e diffusione di questo testo. Cito, perché tutti lo conosciamo, quello di Verdi che è una cosa grande e ci si accorge, conoscendo quello di Palestrina, come Verdi abbia attinto tanto da quello.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 104

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.