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Sommario del 10/02/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: la salute è un diritto, non sia il denaro a orientare scelte

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“Le persone malate sono membra preziose della Chiesa” e a loro deve andare la massima attenzione: Papa Francesco lo ha ribadito, alla vigilia della XXV Giornata Mondiale del Malato, incontrando stamattina nella Sala Clementina in Vaticano la Commissione per il servizio della carità e la salute della Conferenza Episcopale Italiana, di cui è presidente il card. Francesco Montenegro. Presenti all’udienza anche i membri dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Cei, che celebra il suo ventennale, i direttori degli Uffici diocesani con i collaboratori, inoltre rappresentanti delle istituzioni sanitarie cattoliche, operatori sanitari e alcune persone malate. Una sintesi del discorso del Papa nel servizio di Adriana Masotti

Il grazie al volontariato italiano
Luci e ombre per quanto riguarda la sanità nella situazione sociale e culturale attuale. Il Papa apre il suo intervento mettendo in luce il positivo: il progresso della ricerca scientifica grazie a cui si possono curare, e a volte sconfiggere, alcune patologie, i tanti operatori sanitari che vivono il loro lavoro come una missione, i volontari che stanno accanto a tanti malati e anziani soli. Qui il Papa ha parlato a braccio:

"E qui mi fermo per ringraziare la testimonianza del volontariato in Italia. Per me è stata una sorpresa! Io mai avrei pensato di trovare una cosa così! Ci sono tanti volontari che lavorano in questo, convinti".

Mai speculare sui malati
Poi Francesco ha parlato delle ombre:

“Se c’è un settore in cui la cultura dello scarto fa vedere con evidenza le sue dolorose conseguenze è proprio quello sanitario. Quando la persona malata non viene messa al centro e considerata nella sua dignità, si ingenerano atteggiamenti che possono portare addirittura a speculare sulle disgrazie altrui. E questo è molto grave! Occorre essere vigilanti, soprattutto quando i pazienti sono anziani con una salute fortemente compromessa, se sono affetti da patologie gravi e onerose per la loro cura o sono particolarmente difficili, come i malati psichiatrici. Il modello aziendale in ambito sanitario, se adottato in modo indiscriminato, invece di ottimizzare le risorse disponibili rischia di produrre scarti umani. Ottimizzare le risorse significa utilizzarle in modo etico e solidale e non penalizzare i più fragili".

Non c'è solo il denaro
Francesco ricorda che al primo posto deve esserci l’inviolabile dignità di ogni persona umana dal momento del suo concepimento fino al suo ultimo respiro:

“Non sia solo il denaro a orientare le scelte politiche e amministrative, chiamate a salvaguardare il diritto alla salute sancito dalla Costituzione italiana, né le scelte di chi gestisce i luoghi di cura. La crescente povertà sanitaria tra le fasce più povere della popolazione, dovuta proprio alla difficoltà di accesso alle cure, non lasci nessuno indifferente e si moltiplichino gli sforzi di tutti perché i diritti dei più deboli siano tutelati".

La fantasia della carità
La Chiesa, nota il Papa, si è sempre occupata dei sofferenti e numerose sono le istituzioni sanitarie di ispirazione cristiana esistenti. Oggi è necessario però portare avanti la fantasia della carità propria dei loro Fondatori:

“Nei contesti attuali, dove la risposta alla domanda di salute dei più fragili si rivela sempre più difficile, non esitate anche a ripensare le vostre opere di carità per offrire un segno della misericordia di Dio ai più poveri che, con fiducia e speranza, bussano alle porte delle vostre strutture".

Attenzione spirituale ai poveri
Papa Francesco sottolinea quindi l’importanza della pastorale sanitaria che deve coinvolgere diocesi, comunità cristiane e famiglie religiose. Mai i malati devono sentirsi esclusi, anzi essi sono membra preziose della Chiesa:

“Purtroppo la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri – e i malati sono poveri di salute – è la mancanza di attenzione spirituale. Hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede".

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Papa: nella tentazione non si dialoga, si prega

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Nella debolezza delle tentazioni, che “tutti” abbiamo, la grazia di Gesù ci aiuta a non nasconderci dal Signore ma a chiedere perdono per alzarci ed andare avanti. Così il Papa nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, riflettendo sul diavolo che tenta sia Adamo ed Eva sia Gesù. Ma, ricorda il Pontefice, con Satana non si dialoga, perché si finisce nel peccato e nella corruzione. Il servizio di Giada Aquilino

Il diavolo circuisce con il dialogo
Le tentazioni portano a nasconderci dal Signore, rimanendo con la nostra “colpa”, col nostro ”peccato”, con la nostra “corruzione”. Partendo dall’odierna prima lettura dal Libro della Genesi, Papa Francesco si sofferma sulla tentazione di Adamo ed Eva, poi su quella di Gesù nel deserto. È il diavolo - spiega - che “si fa vedere in forma di serpente”: è “attraente” e con la sua astuzia cerca di “ingannare”, è “specialista” in questo, è il “padre della menzogna”, è un “bugiardo”. Sa quindi come ingannare e come “truffare” la gente. Lo fa con Eva: la fa “sentire bene”, spiega il Papa, e così comincia il “dialogo” e “passo dopo passo” Satana la porta dove vuole lui. Con Gesù è diverso, per il diavolo “finisce male”, ricorda Francesco. “Cerca di dialogare” con Cristo, perché “quando il diavolo circuisce una persona lo fa con il dialogo”: tenta di ingannarlo, ma Gesù non cede. Quindi il diavolo si rivela per quello che è, ma Gesù dà una risposta “che non è sua”, è quella della Parola di Dio, perché “col diavolo non si può dialogare”: si finisce come Adamo ed Eva, “nudi”:

“Il diavolo è un mal pagatore, non paga bene! E’ un truffatore! Ti promette tutto e ti lascia nudo. Anche Gesù è finito nudo ma sulla croce, per obbedienza al Padre, un’altra strada. Il serpente, il diavolo è astuto: non si può dialogare col diavolo. Tutti noi sappiamo cosa sono le tentazioni, tutti sappiamo, perché tutti ne abbiamo. Tante tentazioni di vanità, di superbia, di cupidigia, di avarizia… Tante”.

La corruzione comincia da poco
Oggi, aggiunge il Papa, si parla tanto di corruzione. Anche per questo si deve chiedere aiuto al Signore:

“Tanti corrotti, tanti pesci grossi corrotti che ci sono nel mondo dei quali conosciamo la vita sui giornali: forse hanno cominciato con una piccola cosa, non so, per non aggiustare bene il bilancio e quello che era un chilo: no, facciamo 900 grammi ma che sembra un chilo. La corruzione incomincia da poco, come questo, col dialogo: ‘Ma no, non è vero che ti farà male questo frutto! Mangialo, è buono! E’ poca cosa, nessuno se ne accorge. Fai, fai!’. E poco a poco, poco a poco, si cade nel peccato, si cade nella corruzione”.

Nella tentazione non si dialoga, si prega il Signore
La Chiesa ci insegna così a “non essere ingenui”, per non dire “sciocchi”, riflette il Papa, quindi ad avere gli “occhi aperti” e a chiedere aiuto al Signore “perché da soli non possiamo”. Adamo ed Eva si “nascondono” dal Signore: invece ci vuole la grazia di Gesù per “tornare e chiedere perdono”:

“Nella tentazione non si dialoga, si prega: ‘Aiuto, Signore, sono debole. Non voglio nascondermi da te’. Questo è coraggio, questo è vincere. Quando tu incominci a dialogare finirai vinto, sconfitto. Che il Signore ci dia la grazia e ci accompagni in questo coraggio e se siamo ingannati per la nostra debolezza nella tentazione ci dia il coraggio di alzarci e di andare avanti. Per questo è venuto Gesù, per questo”.

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Altre udienze e nomine

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Per le udienze e nomine odierne del Papa, consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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P. Lombardi: Francesco si sente sostenuto da Benedetto XVI

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L’11 febbraio del 2013, Benedetto XVI rinunciava al ministero petrino. Un gesto inedito che - a distanza di quattro anni - si comprende sempre più profondamente grazie anche allo straordinario rapporto di fratellanza tra Francesco e il Papa emerito. Per una riflessione sulla testimonianza che Benedetto XVI sta offrendo in questi anni di ritiro nella preghiera, Alessandro Gisotti ha intervistato padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: 

R. – Il modo in cui ha vissuto e vive questi anni corrisponde a quello che ci aveva detto, cioè vivere nelle preghiera, nel ritiro, da un punto di vista spirituale e con estrema discrezione, il suo servizio di accompagnamento nella preghiera della vita della Chiesa e di solidarietà anche, con il suo successore proprio nella sua responsabilità. Questo è quello che sta avvenendo, in piena serenità.

D. - Lei ultimamente ha avuto modo di incontrare Benedetto XVI? Come lo ha trovato?

R. - Sì, ho avuto alcune occasioni  negli ultimi mesi. Spero di continuare ad averne, tanto più che adesso, avendo ricevuto questa responsabilità della Fondazione Ratzinger, possono esserci anche motivi in più per incontrarlo. L’ho trovato perfetto dal punto di vista della lucidità, della presenza spirituale, mentale, e quindi è un vero piacere stare con lui. Naturalmente il tempo passa e quindi le forze non aumentano strada facendo, mentre quelle mentali e spirituali sono perfette, le forze fisiche vanno dunque un po’ indebolendosi. Tuttavia è una persona che non ha malattie particolari, quindi si vede la fragilità che aumenta con l’età, però sta in piedi, può camminare in casa. Lo si incontra come una persona anziana divenuta un po’ più fragile con il passare del tempo, ma che è perfettamente presente e che è piacevolissimo incontrare.

D. - Nel libro “Ultime conversazioni”, Benedetto XVI afferma che mettere al centro il tema di Dio e la fede in primo piano, è stato l’orientamento fondamentale del suo Pontificato. In questi quattro anni qual è la testimonianza più forte che ci sta donando, secondo lei, il Papa emerito?

R. - Direi che il suo vivere questo tempo nella preghiera è in perfetta coerenza con quello che è stato appena detto, cioè Dio al centro, la fede come senso della nostra vita e, la cosa che io trovo anche molto bella – e che risulta pure da questo volume delle “Ultime Conversazioni”-, è questo senso della prossimità all’incontro con Dio, il vivere l’età anziana come un tempo di preparazione e di familiarizzazione - direi - con il Signore che ci si prepara ad incontrare. Questa mi sembra una bellissima testimonianza. Credo che sia veramente molto bello avere il Papa emerito che prega per la Chiesa, per il suo successore. È una presenza che noi sentiamo, sappiamo che egli c’è e anche se non lo vediamo spesso, quando lo vediamo siamo tutti molti contenti perché gli vogliamo bene. Quindi lo sentiamo come una presenza che ci accompagna, che ci conforta, che ci rasserena.

D. - Lei conosce bene Papa Francesco e Benedetto XVI. Cosa la colpisce del rapporto tra i due, anche questo inedito nella storia della Chiesa?

R. - È vero, è inedito, ma è vissuto con estrema serenità e normalità, perché la motivazione e il modo in cui questo è avvenuto, è stato estremamente lineare, chiaro, sereno. Tutti ricordiamo, evidentemente, l’ultimo incontro di Papa Benedetto con i cardinali che stavano arrivando a Roma per prepararsi al Conclave, in cui egli pur non sapendo ancora a chi si riferiva, prometteva la sua obbedienza, il suo rispetto per quello che sarebbe stato il suo successore. Il cardinale Bergoglio era presente e naturalmente tutti ci ricordiamo questo momento. Poi è stato realizzato quello che aveva detto Papa Benedetto, nella sua discreta e serena vicinanza spirituale al suo successore che sente certamente - come ci ha detto molto volte - anche il sostegno di questa presenza e di questa preghiera e che coltiva questo rapporto, a volte con delle visite, a volte con delle chiamate telefoniche, certamente con molti segni di familiarità, di rispetto e di attesa del sostegno spirituale. Quindi sì, stiamo vivendo questa realtà inedita, ma è bella, è consolante; direi che tutte le volte che vediamo delle immagini di Papa Francesco e il suo predecessore insieme, è una grande gioia per tutti ed è un bell’esempio di unione nella Chiesa, nella varietà delle condizioni.

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Spadaro: il Papa ci esorta a essere aperti e liberi in dialogo col mondo

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Inquietudine, incompletezza, immaginazione. Il discorso di Papa Francesco, rivolto ieri alla comunità di Civiltà Cattolica, è ruotato attorno questi tre punti. Un discorso ampio che ha sottolineato l’importanza del numero 4000 della rivista dei gesuiti, fondata 167 anni fa che vede ora la nascita di nuove edizioni in inglese, spagnolo, francese e coreano. Alessandro Gisotti ha chiesto al direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, di soffermarsi sui contenuti più forti del discorso del Papa: 

R. – Non è stato un discorso d’occasione. Il Papa ha messo il suo cuore in questo discorso, anche nel modo in cui ha sottolineato alcune parole e alcune espressioni; e poi l’apertura della sua missione: in fondo il Papa ci mette lui in mare aperto, ribadendo il legame profondo tra la rivista e il Pontificato. E questo legame, in realtà, è il legame tradizionale che la rivista ha con i Papi a partire da Pio IX, che in fondo è il fondatore di questa rivista, con padre Curci, gesuita, che nel 1850 appunto diede vita a questo periodico che è il più antico d’Italia. Quindi è una grande missione, di grande apertura: una prospettiva per il futuro.

D. – Il Papa ha chiesto anche un recupero della genialità del pensiero della Chiesa. Questa è una sfida grande: come si può rispondere?

R. – Ecco, questo è esattamente uno dei passaggi che il Papa ha sottolineato con maggiore forza. In fondo lui ha detto che per scrivere qualcosa di significativo oggi, bisogna penetrare l’ambiguità del momento ed entrarci assumendo il momento presente: cioè assumendo le grandi sfide che oggi il mondo pone, sfide inedite ma anche molto complesse; un mondo che sta costruendo muri dappertutto. Allora, per far questo, bisogna avere un pensiero flessibile, non rigido, con una grande capacità di ascolto, libertà interiore, anche – se vogliamo – senso dell’umorismo e una mancanza di desiderio di rigidità; questa è la cosa fondamentale: per essere geniali bisogna essere aperti.

D. – Ovviamente il discorso era rivolto alla comunità di Civiltà Cattolica, però Francesco è sembrato tracciare proprio un orizzonte ampio, per l’impegno culturale dei cattolici, se vogliamo anche al di là dell’impegno della vostra rivista. Cosa ne pensa?

R. – Ha detto chiaramente che Civiltà Cattolica deve essere una rivista cattolica, il che non significa difendere le idee cattoliche, come se il cattolicesimo fosse una filosofia, ma guardare gli eventi, le vicende, con gli occhi di Cristo. In modo particolare, il Papa ha fatto riferimento alle grandi sfide della geopolitica, parlando anche del fenomeno migratorio come il fenomeno politico centrale dei nostri tempi: quindi un desiderio di essere aperti alle grandi sfide. Una rivista che è cattolica perché è capace di comporsi con ogni cosa umana.

D. – Il numero 4000 della rivista, che è stata l’occasione più diretta di questa udienza con Papa Francesco è accompagnato da tante iniziative, e soprattutto da edizioni nuove linguistiche; Papa Francesco stesso nel discorso ha sottolineato questo modo di essere sempre più – appunto – universale della rivista. Ieri è stata inaugurata l’edizione spagnola di Civiltà Cattolica, e seguiranno altre iniziative. Che significato ha questo? Il Papa ricordava che già dai tempi del Concilio si chiedevano edizioni linguistiche e adesso ciò si realizza…

R. – Sì, in effetti è da molto tempo che si parla di edizioni linguistiche, anche se non sono mai state realizzate. Questo perché in fondo c’è una vocazione universale della rivista. Questo è stato sempre sottolineato nel passato. Ho trovato anche nel nostro archivio dei testi degli appunti di padre Tucci, all’epoca direttore, poi cardinale, che sosteneva la natura, la vocazione universale della rivista. Il significato è abbastanza chiaro per noi: cioè noi non vogliamo colonizzare con un nostro prodotto altre lingue o altri territori. No, al contrario. Ormai da due, tre anni Civiltà Cattolica pubblica sempre più spesso articoli di gesuiti di altre nazioni, quindi scritti originariamente in altre lingue. Vogliamo incrementare questa via che abbiamo aperto e vogliamo che poi la rivista sia ponte: cioè che, attraverso la rivista, questo pensiero, che arriva da varie parti del mondo, possa essere tradotto nelle varie lingue. Quindi, in realtà è un desiderio di ascolto; è un desiderio di ascoltare ciò che autori, specialisti, gesuiti di varie nazioni dicono e di accogliere il loro pensiero e ritradurlo nelle varie lingue.

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Card. Simoni: portiamo sempre l'amore di Gesù, anche dove c'è l'odio

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Ha subito le violenze terribili di un regime ateo, oggi il suo desiderio più grande resta quello di sempre: portare a tutti l'amore di Gesù. Il cardinale albanese Ernest Simoni racconta la sua storia ai microfoni della Radio Vaticana. Questa mattina ha concelebrato la Messa con il Papa a Casa Santa Marta. Nato 88 anni fa in un villaggio vicino Scutari, Simoni è stato ordinato sacerdote nel 1956 durante la feroce dittatura comunista di Enver Hoxha: il 24 dicembre 1963, dopo la Messa di Natale, viene arrestato. In prigione diventa padre spirituale dei carcerati e loro punto di riferimento. La sua permanenza in carcere e ai lavori forzati dura in tutto 27 anni, dodici dei quali nelle miniere. Dopo la liberazione nel 1981, viene comunque considerato “nemico del popolo” e obbligato a lavorare nelle fogne di Scutari. Esercita il ministero del sacerdozio clandestinamente, fino alla caduta del regime nel 1990. Da allora ha continuato a servire come umile sacerdote, in tanti villaggi, impegnandosi a portare la riconciliazione e il perdono dove c’erano odio e spirito di vendetta. La sua testimonianza ha commosso profondamente Francesco, in visita a Tirana il 21 settembre 2014. Il Papa lo ha creato cardinale nel Concistoro del 19 novembre 2016. Domani alle 18.00 prenderà possesso della Diaconia di Santa Maria della Scala, a Roma. Ascoltiamo il cardinale Ernest Simoni al microfono di Massimiliano Menichetti: 

R. – Oggi ho concelebrato con il Santo Padre: è stata una grande gioia! Preghiamo che tutti comprendano e gustino quell'amore che Gesù ha per tutti gli uomini!

D. – Centrale per lei è la preghiera e la devozione alla Madonna …

R. – Dobbiamo pregare frequentemente ogni giorno la Santissima Madonna: dobbiamo pregare. Non abbiate paura: la Madonna viene per dare la pace e la tranquillità, l’amore e la felicità all’umanità intera.

D. – Lei ha commosso il Papa quando ha raccontato delle torture che ha subito durante gli anni bui della dittatura comunista. E’ arrivato a pesare 40 kg: a un certo punto l’hanno data per morto. Come ha fatto a superare quei momenti?

R. – E’ tutto per la grazia divina, è l’amore di Gesù: questo è l’aiuto che dà a noi tutti in questi momenti così difficili.

D. – Quando è diventato cardinale, sempre riferendosi agli anni della dittatura comunista, ha detto: “Volevo che si aprissero le porte della Cattedrale di Scutari, invece ho visto aprirsi il mondo intero”. Perché poi, di fatto, ha seguito tante comunità albanesi nel mondo …

R. – Incredibile: io avevo questo desiderio di diffondere l’amore di Gesù; ma tutte le porte, tutte le chiese, erano chiuse. Poi ho potuto donare il mio servizio nelle prigioni, nelle miniere, nei 120 viaggi in cui il Signore mi ha aiutato … Poi in America: soltanto lì ci sono mezzo milione di cattolici albanesi; e qui in Italia sono quasi un milione …

D. – Lei ribadisce spesso l’importanza della Radio Vaticana durante gli anni della dittatura …

R. – La Radio Vaticana è stata un sole brillante che illuminava e dava speranza al popolo albanese; una forza gigantesca per amare Gesù, a vivere con Gesù, a credere in Gesù. Un sole brillante!

D. – Ma non si poteva ascoltare liberamente …

R. – Solamente fare il segno della Santa Croce comportava una condanna a dieci anni di prigione.

D.- Come facevate ad ascoltare la radio, se solo per un segno di croce si rischiava il carcere?

R. – Nei nascondigli, sempre, nascosti, così …

D. – Oggi, l’Albania com’è? E di cosa ha bisogno?

R. – Grazie al Signore, è tra i popoli più radicati nella fede e nella fratellanza. Però c'è una grande differenza sociale, alcuni sono ricchissimi, altri sono poverissimi; la sfida è convincere tutti ad aiutare i poveri, i più bisognosi.

D. – Lei ha detto in Parlamento: “Le ricchezze non valgono niente se non c’è un cuore convertito a Gesù” …

R. – Esattamente ho detto: “La ricchezza data da Dio è per rispondere a tutti i bisogni delle vostre famiglie; il resto è per aiutare tutti i poveri perché – dice Gesù – quello che avete dato ai vostri fratelli poveri, l’avete dato a me. La vostra ricompensa sarà nel Cielo”. Dice San Tobia: “L’elemosina è tra le virtù più potenti, fatta per amore di Gesù”.

D. – Cosa farà, adesso che è cardinale?

R. – Gesù per tutto. Pregare per convincere tutti gli atei a guadagnare il Paradiso.

D. – Qual è la via per il Paradiso per un cristiano?

R. – La preghiera, la mortificazione, la penitenza, il digiuno, osservare il Decalogo, i 10 Comandamenti, e soprattutto la castità: questo è il fondamento della salute dell’umanità intera.

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Santa Sede: dialogo si basi su fraternità non su tolleranza

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Il ruolo del dialogo è strategico su tutti i livelli, sul piano diplomatico, tra fedi religiose e su quello interculturale. Il dialogo tra tradizioni religiose, in particolare, può notevolmente contribuire a plasmare la coscienza umana. E’ quanto ha affermato mons. Ivan Jurkovič, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu e le altre organizzazioni internazionali di Ginevra, intervenendo ieri nella città svizzera all’incontro incentrato sul tema del dialogo sulla fede, la costruzione della pace e lo sviluppo, promosso dalle Nazioni Unite e dall’Organizzazione della Cooperazione islamica.

L’amicizia fraterna e l’armonia siano ponti tra religioni
All’inizio del proprio discorso, mons. Jurkovič ha ricordato l’incontro interreligioso tenutosi, lo scorso 2 ottobre nella moschea “Heydar Aliyev” a Baku, in Azerbaigian, con lo sceicco dei musulmani del Caucaso e con rappresentanti delle altre comunità religiose del Paese. “E’ un grande segno – aveva affermato in quell’occasione Papa Francesco - incontrarci in amicizia fraterna in questo luogo di preghiera, un segno che manifesta quell’armonia che le religioni insieme possono costruire, a partire dai rapporti personali e dalla buona volontà dei responsabili”.

Non tolleranza ma fratellanza
Non è infatti la semplice tolleranza - ha detto il presule - il nostro terreno comune perché questa ha un significato negativo.  Le relazioni tra fedi religiose - ha spiegato mons. Jurkovič - dovrebbero essere basate sul concetto più dinamico della fratellanza. Saremo responsabili - ha osservato - non solo per le azioni che intraprenderemo ma anche per quelle che non avvieremo. L'armonia non deve limitarsi ad una mera convivenza pacifica. Il suo vero senso - ha detto - è l’arricchimento reciproco.

La pace è una conquista dinamica
Anche la pace deve essere vista con una connotazione positiva e dinamica: la pace non significa semplicemente riconoscere lo status quo, ma è un continuo e costruttivo miglioramento della nostra situazione come famiglia umana. Inoltre, una pace basata sulla paura e sulla deterrenza non può essere considerata una vera pace. Riferendosi al discorso che l’arcivescovo Paul Richard  Gallagher ha rivolto lo scorso 30 gennaio ad Hiroshima alle autorità civili e religiose, il presule ha anche ricordato la minaccia delle armi nucleari. Non possiamo accettare – ha sottolineato – che queste armi mantengano la stabilità mondiale attraverso, però, l’equilibrio del terrore.

All’origine dei conflitti una visione limitata della persona umana
Per gestire efficacemente vari problemi globali, tra cui quelli legati ai diritti umani, alle migrazioni, ai cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente sono cruciali il dialogo interreligioso e l’impegno concertato. Non si deve inoltre cedere alla tentazione di leggere le situazioni di tensione attraverso la visione dello scontro di civiltà. Questa interpretazione ha un impatto negativo sulle religioni. Ma all'origine di tutte queste situazioni drammatiche – ha spiegato mons. Jurkovič - vi è una visione limitata della persona umana che apre la strada alla diffusione di ingiustizia e disuguaglianza, determinando in tal modo situazioni di conflitto.

Pace e giustizia nascono nei cuori e nelle menti
Nelle nostre menti e nei nostri cuori deve iniziare la ricerca della pace e della giustizia: le religioni – aveva affermato Papa Francesco durante l’incontro interreligioso, lo scorso 2 ottobre, nella moschea “Heydar Aliyev” a Baku - sono chiamate ad “edificare la cultura dell’incontro e della pace, fatta di pazienza, comprensione, passi umili e concreti”. “La fraternità e la condivisione che desideriamo accrescere – aveva aggiunto il Papa - non saranno apprezzate da chi vuole rimarcare divisioni, rinfocolare tensioni e trarre guadagni da contrapposizioni e contrasti”. “Sono però invocate e attese da chi desidera il bene comune”.

La nonviolenza modella società pacificate e riconciliate
In molte parti del mondo a cominciare con il Medio Oriente – ha poi detto mons. Jurkovič - un approccio che preveda la costruzione della pace attraverso lo stile della nonviolenza è oggi tanto necessario non solo per porre fine al conflitto siriano, ma anche per promuovere società pienamente riconciliate e per rinnovare la pacifica convivenza civile. Papa Francesco – ha aggiunto il presule – ha fatto del dialogo interreligioso una delle sue priorità. Durante il viaggio nella Repubblica Centrafricana, il Santo Padre – incontrando musulmani, cattolici e protestanti - ha ricordato, tra l’altro, che la religione non divide le persone, ma piuttosto li unisce.

La manipolazione della religione può sfociare in violenze e conflitti
Le comunità religiose ed etniche – ha sottolineato mons. Jurkovič - non devono mai diventare uno strumento di logiche geopolitiche regionali e internazionali. Nella lettera del 2015 ai vescovi della Nigeria, il Papa sottolinea che quando vengono uccisi innocenti in nome di Dio, non deve essere chiamata in causa la religione, ma la sua manipolazione per secondi fini. Nel suo recente viaggio apostolico in Svezia il Papa ha anche ricordato la necessità di guarire le ferite del passato, di intraprendere un cammino comune. Tale dialogo è possibile e questo – ha affermato il presule – lo dimostra ad esempio lo storico incontro a Cuba con il Patriarca Kirill di Mosca.

Pace, giustizia e perdono sono complementari
Mons. Jurkovič ha ricordato infine i molteplici sforzi del Papa per la promozione della pace. In particolare si è soffermato sull’incoraggiamento al Venezuela per un dialogo sociale autentico e costruttivo. Allo stesso modo, riferendosi alla situazione delicata in Colombia, Papa Francesco ha sottolineato l'importanza dell'unità, della riconciliazione e del perdono. Pace, giustizia e perdono – ha concluso mons. Jurkovič - sono reciprocamente complementari: non ci può essere pace senza giustizia, ma anche vera giustizia senza perdono. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Oggi in Primo Piano



Usa: Trump ricorre alla Corte Suprema su bando migranti islamici

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Prosegue lo scontro tra il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e la magistratura. La Corte d'Appello federale di San Francisco ha detto no al bando del Capo della Casa Bianca contro l'ingresso dei rifugiati e dei cittadini provenienti da sette Paesi islamici. Trump ha annunciato ricorso alla Corte Suprema. Su questo confronto, che sta assumendo toni sempre più aspri, Giancarlo La Vella ha intervistato Ferdinando Fasce, già docente di Storia Contemporanea e americana: 

R. – Siamo in presenza di un conflitto profondo, finora inaudito per il sistema politico statunitense. Trump – abbiamo visto – ha cercato di far vedere subito la sua intenzione di rompere con il passato, di mettere in atto quelle politiche che, a suo dire, dovrebbero rendere l’America di nuovo grande; e quindi non poteva che colpire la – per quanto relativa, ma pur sempre esistente – disponibilità dell’amministrazione Obama nei confronti delle politiche migratorie, e poi le politiche sanitarie.

D. – Guardiamo al Trump in politica internazionale: quale scenario possiamo immaginare per il prossimo futuro?

R. – Io direi che non è facile immaginarlo, perché mi sembra che Trump si stia muovendo – come si è mosso, del resto, in campagna elettorale – fra opzioni che vengono adottate e poi vengono smentite e poi ancora riprese. Finora, di continuità c’è sostanzialmente l’atteggiamento molto amichevole nei confronti della Russia, e quindi sembra che Trump stia navigando a vista; vedremo cosa ne uscirà …

D. – Per quanto riguarda Israele, Trump sembrava potesse essere di nuovo l’alleato più importante, per lo Stato ebraico; invece, da un po’ di tempo sta bacchettando Netanyahu sul discorso degli insediamenti nei Territori palestinesi …

R. – Trump agisce molto di impulso, un atteggiamento che inizialmente  lo ha spinto a fare dichiarazioni roboanti a favore degli insediamenti. Però, poi si tratta anche di fare politica estera, insomma: e quindi è possibile che dall’interno del Dipartimento di Stato qualcuno gli abbia fatto notare che, sostenere a spada tratta, senza se e senza ma, l’allargamento degli insediamenti era una politica assurda.

D. – Possiamo parlare di quello che sta ridiventando un contenzioso con l’Iran dopo gli accordi con gli Stati Uniti di Obama e la Repubblica islamica?

R. – Bè, questo può essere davvero uno degli elementi più seri, rispetto ai quali è auspicabile che venga qualche monito a non tirare troppo la corda e a proseguire, invece, in quella politica che in fondo ha dato risultati non disprezzabili, e che era la politica dell’Accordo sul nucleare sottoscritto da Obama. Cioè, bisogna stare molto attenti al fatto che – come già aveva pensato uno che peraltro di politica aveva senz’altro più esperienza di Trump, come George W. Bush – il Medio Oriente non torni ad essere la questione di maggior crisi, di maggior difficoltà per gli Stati Uniti stessi.

D. – Come a dire che la sicurezza interna forse si costruisce anche con buoni rapporti internazionali?

R. – Certamente! Questo lo si è detto subito dopo l’11 settembre: si è fatto notare che in realtà la questione della sicurezza nazionale è prima di tutto una questione di diplomazia, di intelligence, di coordinamento a livello internazionale.

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La Siria sotto le bombe tra interessi locali e regionali

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Ieri un edificio nel nord della Siria è stato bombardato durante un raid russo  provocando la morte di tre militari ed il ferimento di altri undici. Il Presidente Putin ha ammesso l’errore ed espresso le proprie condoglianze alle autorità turche. Intanto continuano i bombardamenti sul territorio siriano nonostante il cessate il fuoco dello scorso 30 dicembre. Al microfono di Giulia Angelucci ha fatto il punto della situazione Lorenzo Trombetta dell’Ansa: 

R. – La situazione è che si combatte su vari fronti a seconda di quale guerra si sta combattendo in Siria: la guerra contro lo Stato Islamico è in corso, e, come sappiamo, su quella non c’è nessun cessate-il-fuoco che in qualche modo possa alleviare la sofferenza dei civili colpiti da queste violenze. L’altro conflitto, quello tra governo di Damasco e opposizioni, prosegue in maniera intermittente, più che altro nel nord e nel nord-ovest, a sud di Aleppo e in altre regioni dove le comunità locali continuano ad essere esposte alle violenze. Ci sono poi altri episodi di violenza molto gravi nelle regioni di Raqqa, di Deir ez-Zor, controllate dallo Stato Islamico, ma dove abitano comunque milioni di civili. Nel complesso ci sono delle zone assediate da parte dello Stato Islamico dove invece ci sono dei civili che sono in zone controllate dal governo.

D. – Notizia di ieri quella dei soldati turchi uccisi: quali potrebbero essere o saranno le prossime mosse diplomatiche della Turchia?

R. – Nessun cambio di rotta da un punto di vista diplomatico, politico e militare tra Russia e Turchia. La Russia ha già espresso le condoglianze; ha già chiesto scusa. I due Paesi, che si coordinano a livello militare, e che hanno già con l’Iran messo su un tavolo di verifica settimanale della tregua del 30 dicembre, hanno già annunciato in maniera congiunta che due inchieste parallele sono in corso ad Ankara e a Mosca per far luce sull’accaduto di ieri. Quindi due Paesi che vanno a braccetto, e i cui interessi convergenti non sono scalfiti nemmeno dall’assassinio – ricordiamolo, ad Ankara –dell’ambasciatore russo: nemmeno in quel caso c’è stato alcun vero contraccolpo, tantomeno per l’uccisione di tre soldati turchi in un contesto in cui la Russia bombarda e ha già ammesso di averlo fatto per errore.

D. – Oggi In realtà, per che cosa si combatte i Siria?

R. – Quello che a volte si dimentica è che dietro la retorica e la propaganda della guerra al terrorismo, che è anche molto forte nei nostri leader occidentali - tra i nostri decisori politici - loro combattono in Siria una vera e propria lotta per assicurarsi le risorse energetiche dei territori, delle zone d’influenza. Ovviamente, la presenza dello Stato islamico facilita questa retorica del dire: “Noi siamo lì per combattere il terrorismo, quindi abbiamo tutta la legittimità per usare le armi”. Il regime siriano, le autorità russe e i loro alleati iraniani affermano di combattere in Siria per liberarla dai terroristi. Anche lì sappiamo che l’Iran ha i suoi interessi strategici per espandersi in tutta la regione fino al Mediterraneo; il governo di Damasco resiste a una lotta di potere interna grazie proprio alla retorica del terrorismo. Diciamo che ogni attore coinvolto, anche dall’altra parte, anche i sauditi e tutte le forze dell’opposizione, accusano gli altri nemici di essere dei terroristi o individuano nei terroristi il vero obiettivo della loro offensiva. Di fatto, ognuno fa i propri interessi, sia a livello locale che regionale.

D. – Quindi ancora un oceano di dolore che colpisce in particolare i più poveri, le donne, i bambini, gli anziani…

R. – Senza dubbio le categorie più vulnerabili sono queste. Non dimentichiamoci anche che si parla sempre poco degli uomini, dei padri di famiglia, degli adulti maschi, che, perdendo il loro ruolo di portatori di un salario, perché sono impegnati in guerra, perché sono morti o disoccupati, perché non c’è più lavoro: questo crea un forte scompenso a livello sociale, socio-economico, in una struttura conservatrice, familiare, clanica e tribale come quella siriana e irachena. Se parliamo anche di domani e del lungo termine, si sta saldando una struttura familiare che è un po’ all’origine di una coesione sociale: gli uomini, i maschi adulti, sono anch’essi colpiti e vittime prima degli altri delle violenze. Sono i primi che vanno via e poi non torneranno, oppure lasciano un vuoto molto forte. La questione è che moltissime donne, in Siria per esempio, stanno assumendo gradualmente il ruolo dei maschi: una tendenza che si è radicata e che sta diventando in qualche modo un segno caratteristico di questa generazione di siriane e siriani di età media; trentenni siriane, che a dieci anni di distanza avranno comunque  una vita completamente diversa a quella delle loro madri e delle loro sorelle maggiori che hanno vissuto in un altro contesto.

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Appello di p. Neuhaus a Israele contro l'espulsione di 14 adolescenti filippini

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Il padre gesuita David Neuhaus, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica del Patriarcato latino di Gerusalemme, nella sua veste di coordinatore della Pastorale per i migranti ha rivolto una lettera aperta a Aryeh Deri, ministro degli Interni dello Stato d'Israele, facendo riferimento al caso di 14 undicenni filippini, nati in Israele da coppie di lavoratori immigrati, che adesso si trovano a rischio di espulsione immediata dal Paese con le loro famiglie, per il fatto di non essere in possesso di documenti di residenza. 

Gli adolescenti sono nati in Israele e parlano quasi solo l’ebraico
Nella lettera – riferisce l’agenzia Fides - il sacerdote di origine ebraica fa riferimento anche a Manuel Quezon, il Presidente filippino sotto il cui mandato il Paese asiatico, nel 1930, accolse più di 1.300 ebrei fuggiti dall'Europa, salvandoli dai campi di sterminio nazisti. “Avete deciso” scrive nel suo appello padre David, riferendosi agli adolescenti filippini a rischio espulsione “che non c'è posto per loro nello Stato di Israele. Questi giovani sono stati tutti nati qui, parlano quasi solo ebraico, considerano questo Paese come la loro patria e hanno soltanto un sogno: costruire qui la loro casa, contribuendo allo sviluppo e alla prosperità del nostro Paese”. 

I loro nonni accolsero nelle Filippine gli ebrei in fuga dalla Shoa
I nonni di quei ragazzi - rimarca il sacerdote gesuita - “hanno aperto le Filippine agli ebrei in fuga dalla Shoah. I loro genitori sono venuti qui per prendersi cura dei nostri anziani, disabili e malati e farlo giorno per giorno con devozione e amore. Molti di loro hanno lasciato i propri genitori anziani, parenti disabili e malati per prendersi cura dei nostri”. 

La loro espulsione è “un atto di crudeltà” che “tradisce una memoria di gentilezza e generosità
Nella lettera, l'eventuale espulsione dei bambini filippini viene definita da padre Neuhaus come “un atto di crudeltà” che “tradisce una memoria di gentilezza e generosità”. Il gesuita, alla fine del suo messaggio, invita il ministro a cancellare il decreto di espulsione, e ricorda che anche i profughi del Darfur e dell'Eritrea sono “i veri fratelli e sorelle di quegli ebrei che fuggirono dalle persecuzioni subite in quanto ebrei, trovarono rifugio qui”. (G.V.)

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Università ebraica di Gerusalemme: a Qumran scoperti nuovi reperti

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“Una sorprendente scoperta” è stata compiuta dall’équipe internazionale di Oren Gutfeld e Ahiad Ovadia, archeologi della Hebrew University di Gerusalemme: si tratterebbe di quella che è subito stata chiamata la Grotta 12 di Qumran (Q12), vicino alla riva nord-occidentale del Mar Morto. La notizia - riporta l'agenzia Sir - è stata data dal dipartimento di archeologia dell’Università, che spiega come siano state riportate alla luce “numerose giare per la conservazione e coperchi del periodo del Secondo Tempio; sono stati trovati nascosti in nicchie lungo le pareti della grotta e all’interno di un lungo tunnel”. 

I rotoli di questa grotta sarebbero stati rubati
Si tratta di vasi rotti, senza contenuto, ma anche di frammenti di custodie, una stringa che legava i rotoli e un pezzo di pelle lavorata, che, ha dichiarato Oren Gutfeld, direttore dello scavo, “senza ombra di dubbio” testimonierebbero che i rotoli che qui erano contenuti sono stati rubati, come dimostra anche il ritrovamento di una coppia di teste di piccone di ferro degli anni ‘50. Fino ad ora, si riteneva che solo 11 delle grotte avessero contenuto le antiche pergamene. 

Occorre uno scavo sistematico di tutte le grotte del deserto della Giudea
Questi scavi nella zona settentrionale del deserto di Giuda sono parte della “operazione rotoli”, in una lotta contro il tempo e i ladri: “Lo Stato di Israele ha bisogno di mobilitare e stanziare le risorse necessarie per lanciare un’operazione storica per compiere uno scavo sistematico di tutte le grotte del deserto della Giudea”, ha dichiarato Israel Hasson, direttore generale dell’autorità israeliana per le antichità. (R.P.)

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Al via a Roma il Terzo Forum mondiale dei popoli indigeni

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Al via oggi a Roma il terzo Forum Mondiale dei popoli indigeni. L’incontro è nella sede dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu per lo sviluppo agricolo. I rappresentanti di 30 popoli autoctoni si ritrovano, fino a lunedì, a discutere di comunità, risorse, sviluppo, mentre anche stand di prodotti tipici ricordano l’importanza di sostenere culture e tradizioni particolari. Il servizio di Fausta Speranza

Lo chiamano “supporto integrale”: è il tipo di aiuto che le comunità indigene chiedono al resto del mondo e che, a ben guardare, può essere motivo di profonda riflessione per tutti. Significa, infatti, non considerare solo gli indici economici ma tutto ciò che rende migliore una comunità e una società, a partire da un sano rapporto tra generazioni e dall’attenzione all’ambiente. E’ quanto si legge nei documenti di base del terzo Forum mondiale dei popoli indigeni, a 10 anni dalla Dichiarazione dell’Onu sui diritti di questa fetta di popolazione mondiale. Antonella Cordone, responsabile dell’Ufficio dedicato ai popoli indigeni dell’Ifad:

“Negli articoli della Dichiarazione, i popoli richiedono un’effettiva partecipazione nei processi che riguardano lo sviluppo nei loro territori”.

Pacifico, Asia, Caraibi, America Latina: da tutte queste macro-regioni del mondo arrivano i rappresentanti di 30 popolazioni indigene. Non sorprende che sia l’agenzia per lo sviluppo agricolo dell’Onu a promuovere l’incontro, se si pensa che nella maggior parte dei casi è la terra la prima risorsa per queste popolazioni. E la terra, infatti, è anche la prima rivendicazione: basti pensare alle tribù dell’Amazzonia. Ma sono tanti, i popoli indigeni rappresentati a Roma. Ancora Antonella Cordone:

“I pastori Masai, i popoli Maya dell’America Latina; abbiamo i rappresentanti dei popoli Igorot delle Filippine; i Baka, definiti più comunemente come i pigmei; i cacciatori delle foreste, i raccoglitori delle foreste”.

Nei documenti in discussione in questi giorni si legge che i popoli indigeni chiedono il rispetto del loro diritto all’accesso alle risorse e chiedono che debba passare attraverso il loro consenso qualunque decisione significativa che governi e multinazionali prendano sui territori che li interessano. E colpisce l’invito a dare spazio alle esigenze dei giovani e delle donne:

“Che si abbia un approccio integrale, un approccio olistico, che integri la dimensione sociale, la dimensione spirituale, la dimensione ambientale, secondo le loro conoscenze tradizionali. Un altro aspetto fondamentale è il trasferimento di questi saperi tra gli anziani e i giovani: che possano diventare importanti realtà economiche”.

Fa pensare tutto il capitolo dedicato alla reciprocità sociale. Ancora Antonella Cordone:

“Reciprocità sociale ma anche solidale; reciprocità che per loro include non soltanto gli esseri umani, ma include la madre terra, include le risorse che la terra mette a disposizione dell’umanità, e che devono essere utilizzate in maniera sostenibile. Perché, come appunto loro dicono, noi le prendiamo in prestito dalle generazioni successive. Un approccio solidale reciproco con la natura, in cui le risorse non debbano essere sfruttate finché si esauriscono con la nostra generazione, ma debbano essere preservate e nutrite, per poterle passare poi alle generazioni successive”.

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Mattarella: Foibe espressione dell'orrore del '900

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In Italia è il Giorno del ricordo delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata. Un modo per non dimenticare tutte le pulizie etniche e per ribadire il valore della pace. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato di “cicatrici” che fanno parte della storia del popolo italiano. Alessandro Guarasci

Ancora oggi non si sa quante persone furono gettate nelle cavità del Carso dette foibe, ma si calcola non meno di 5 mila. Alla fine della Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, i partigiani di Tito nelle terre al confine tra Italia ed ex Jugoslavia, uccisero e fecero sparire migliaia di persone colpevoli di essere italiane, fasciste o contrarie al regime comunista. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella definisce quanto avvenuto in quegli anni “orrore del Novecento”, il presidente del Senato Piero Grasso parla di ferite non ancora rimarginate. Per la presidente della Camera Laura Boldrini è essenziale ricordare:

“Ed è un contributo ai valori di libertà e di democrazia. Perché è proprio dei regimi totalitari il disprezzo per la vita umana e per i diritti delle persone: il disprezzo. E un Paese come il nostro, che ha sofferto sotto la dittatura fascista, che ha conosciuto l’eccidio delle foibe, non può non custodire gelosamente quei Valori che sono scritti a chiarissime lettere nella nostra Costituzione”.

Ancora oggi molti degli esuli istriani, fiumani, dalmati non hanno avuto giustizia, costretti a fuggire dalle loro terre nell’immediato dopoguerra nel timore di ritorsioni da parte dei partigiani di Tito. Il presidente di Federesuli Antonio Ballarin:

“Quando parliamo dell’esodo giuliano-dalmata, parliamo di una generazione italiana che venne via da quelle terre. E quando parliamo di questo, parliamo di tutta una serie di diritti negati: non negati settant’anni fa, ma che sono negati ancora oggi nell’Italia che stiamo vivendo adesso. Quindi, giustamente, nelle scuole si fanno lezioni di approfondimento sui diritti civili; e poi improvvisamente dicono: “Ma noi di questi diritti civili che voi, popolo dell’esodo giuliano-dalmata ancora soffrite, non ne sappiamo nulla”.

Per tanti anni dimenticati, gli esuli aspettano ancora un risarcimento materiale e morale.

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India: Messaggio dei vescovi di rito latino su matrimonio e vita

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La promozione della cultura della vita, una adeguata preparazione in vista del matrimonio, un percorso di accompagnamento delle coppie in particolare nei primi anni di vita coniugale,  la vicinanza a quanti, tra cui divorziati e risposati, per diverse ragioni si sentono lontani dalla Chiesa. Sono questi alcuni nodi centrali del piano di azione pastorale illustrato nel Messaggio diffuso al termine dell’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale dei vescovi di rito latino dell’India (Ccbi). Il piano prevede anche una migliore formazione per la pastorale familiare, la promozione di una più efficace assistenza per le famiglie che vivono, ad esempio, condizioni di disagio o il dramma della povertà estrema. 

La gioia dell'amore nella famiglia
L’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale dei vescovi di rito latino dell’India si è tenuta dal 31 gennaio all’8 febbraio a Bhopal, capitale dello Stato indiano del Madhya Pradesh. Prendendo spunto dall’esortazione apostolica di Papa Francesco “Amoris laetitia”, è stato scelto il tema “La promozione della gioia dell'amore nella famiglia”. Questa cellula fondamentale della società umana  – si sottolinea nel documento finale - è un dono prezioso di Dio per la società umana e alla Chiesa. La testimonianza di famiglie provenienti da varie parti del Paese ha scandito i lavori assembleari.
 
Molte famiglie sono vivai di vocazioni
Nel Messaggio diffuso al termine dei lavori si ricorda che i poveri in India sono più di 300 milioni. Vivono soprattutto nelle zone rurali, hanno un’insufficiente accesso ai servizi sanitari, scarse opportunità di ricevere un’istruzione adeguata e di inserirsi nel mondo del lavoro. Tra i poveri – si legge ancora nel documento – i più vulnerabili sono donne e bambini. Anche se il contesto indiano è complesso e minato da varie criticità, tra cui quella della povertà, molte famiglie – hanno sottolineato i presuli - sono vivai di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.
 
L’amore è paziente
Agli oltre 130 presuli della Conferenza dei vescovi di rito latino dell’India, si è rivolto lo scorso primo febbraio anche il card. Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Il porporato ha illustrato i contenuti dell’esortazione apostolica Amoris laetitia e prendendo spunto dall’ ”Inno alla Carità” di San Paolo (1 Corinzi, 13, 4-7) si è soffermato sulle parole dell’apostolo. San Paolo – ha detto il card. Baldisseri in quell’occasione - scrive che “l’amore è paziente”, che “non è geloso, non si gonfia, non manca di rispetto, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia” ma al contrario “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” . “Ogni giorno – ha concluso - ciò può essere messo alla prova in ogni famiglia”.
 
In India i cristiani sono oltre 28 milioni
Secondo dati abbastanza recenti ripresi dal quotidiano “L’Osservatore Romano”, in India vivono circa 28 milioni di cristiani, ovvero quasi il 3% della popolazione del Paese (in netta prevalenza induista). I cattolici di rito latino, siro-malabarese e siro-malankarese sono complessivamente 15 milioni e mezzo e rappresentano il 55% dei cristiani indiani. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Adozioni internazionali: lunghe attese per le famiglie adottive

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Convocare al più presto la Cai, la Commissione Adozioni  Internazionali per dare una risposta a tutte quelle famiglie in attesa di adozione e ripristinare un sistema virtuoso basato sulla reciproca collaborazione tra pubblico e privato. E’ questa la richiesta del comitato di famiglie adottive "Family for Children", lanciata in un incontro che si è svolto ieri al Senato.  Ascoltiamo il servizio di Marina Tomarro

"Ci rivolgiamo al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché rimetta in moto la macchina della Cai, la Commissione Adozioni  Internazionali affinchè finalmente, possa tornare ad adempiere quei compiti di vigilanza su tutti gli enti". E' un appello accorato quello lanciato dal  comitato di famiglie adottive "Family for Children" che da anni attendono di poter accogliere un bambino nelle loro case. E la mancanza di risposte di questa commissione alle coppie in attesa dell’adozione diventa un silenzio che non può più essere accettato anche da chi ci fa parte, come ci spiega uno dei commissari della Cai Simone Pillon:

R. – Noi siamo passati da oltre 4mila adozioni internazionali a poco più di 2mila per il 2015; addirittura forse siamo sotto le 2mila per il 2016: il dato ancora non è stato reso noto. La situazione è drammatica: si tratta di bambini che potrebbero già stare in Italia con una famiglia che li accoglie e gli vuole bene, e invece ancora stanno negli orfanotrofi del Terzo Mondo. Questo ha delle ragioni, e delle ragioni molto chiare, che consistono nel sostanziale blocco della Commissione per le Adozioni Internazionali. Sono tre anni che la Commissione non viene riunita, nonostante io personalmente, come commissario, abbia fatto ben due richieste formali di riunione. La riunione non viene effettuata, e tutte le decisioni assunte in questi tre anni sono decisioni invalide, perché la norma stabilisce che il lavoro della Commissione sia collegiale, e che ogni decisione debba essere ratificata alla prima riunione utile. Siamo di fronte a tutto questo: le istituzioni non si muovono; abbiamo cercato anche di conferire con la presidenza del Consiglio, ma non c’è stato nessun riscontro e io come commissario non posso più tacere di fronte a questo silenzio.

Ogni anno sono circa 10mila le domande di adozione che arrivano, di queste solo 2.000 vanno a buon fine. Ma spesso molti aspiranti genitori pur risultando idonei vedono la speranza di adozione rimanere bloccata in lunghi e tortuosi percorsi burocratici. E questa attesa logora il sogno di un figlio, come ci raccontano Anna Comi e Giovanni Verduci, una coppia di Reggio Calabria rappresentati del comitato "Family for Children" :

(marito)
R. – Il nostro comitato è nato spontaneamente da pochi mesi, perché ha scelto di rompere il muro di silenzio che circondava la nostra vicenda, che poi abbiamo scoperto essere uguale a quella di tante altre famiglie in giro per l’Italia che stanno condividendo con noi i ritardi insopportabili verso la conclusione del nostro iter adottivo. Noi, nel 2011, abbiamo ottenuto il decreto di idoneità da parte del tribunale per i minori. Immediatamente dopo, abbiamo aperto la nostra pratica per avviare l’iter adottivo. Da allora ad oggi, non abbiamo avuto nessuna risposta. Da poco abbiamo scelto di revocare il mandato al nostro ente, di presentare un esposto in Procura, affinché la magistratura faccia luce su quanto sta accadendo ed è accaduto a noi, e su quanto sta accadendo a tante altre famiglie in giro per l’Italia che si sono riunite dentro il comitato ‘Family for Children’.

D. – Cosa significa quest’attesa continua e così prolungata e dolorosa?

(moglie)
R. –Ti accorgi, man mano che passa il tempo, che quest’attesa è un’attesa vana. Rimani amareggiato, perché hai seguito l’unica strada che ti impone lo Stato, e poi lo Stato ti abbandona, non ti risponde. Per cui l’amarezza è doppia, non solo per un’adozione non avvenuta, ma anche per come non è avvenuta l’adozione.

D. – Vi siete confrontati anche con altre famiglie che hanno avuto la vostra esperienza. Ecco, allora quali sono anche le loro reazioni al riguardo?

(marito)
R. – È una battaglia emotiva, perché è l’attesa che diventa snervante. La mancanza di risposte da parte del nostro interlocutore, anzi di qualsiasi interlocutore, al quale abbiamo scelto di rivolgerci, a partire dal nostro ente, per passare alla Commissione per le Adozioni Internazionali, e finire al mondo politico, che è una componente importante di questo sistema. Va a scontarsi con tutto quello che è la tua vita, con i lutti che magari possono segnare la tua esistenza, con i problemi familiari, nel mondo del lavoro… Non è semplice. Durante questo difficile percorso dell’iter adottivo molte famiglie si sono spezzate, perché non riuscivano più a sopportare il peso di quest’attesa, che è un’attesa silente.

D. – Qual è la speranza che porta avanti ancora questa attesa?

(moglie)
R. – La nostra speranza è che cambino le cose, che cambino per tutto il mondo delle adozioni. Che ci sia più trasparenza nelle pratiche; che venga restituita la giusta dignità alle famiglie adottive. Le famiglie adottive devono essere considerate una risorsa, perché sono una risorsa per i bambini che non hanno una famiglia. Quindi al centro del sistema adottivo bisogna mettere il diritto dei bambini e poi sostenere le famiglie.

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Duomo di Milano: anteprima del film sul cardinale Martini

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Questa sera il Duomo di Milano si apre per accogliere, alle ore 19, la speciale anteprima del film “Vedete, sono uno di voi”, prodotto da Istituto Luce–Cinecittà, che Ermanno Olmi e Marco Garzonio hanno dedicato al cardinale Carlo Maria Martini e ai suoi ventitré anni alla guida della Diocesi lombarda. Il servizio di Luca Pellegrini

Era il 10 febbraio del 1980 quando il nuovo arcivescovo di Milano, nominato da San Giovanni Paolo II, faceva il suo ingresso nella Diocesi. Fu una lezione di stile, un messaggio per il suo futuro di pastore. Commentò con semplicità e profondità la fonte cui avrebbe ispirato tutta la sua azione pastorale, ossia il brano del Vangelo di Luca che parla della pesca miracolosa e della chiamata dei discepoli: “Sulla tua parola getterò le reti”. A trentasette anni da quell’evento il film di Ermanno Olmi “Vedete, sono uno di voi” viene dunque proiettato proprio nel Duomo che ha accolto migliaia di fedeli e non credenti per l’ascolto della Parola e le riflessioni del cardinale, rinnovando così con il cinema l’abbraccio tra l’uomo Martini e la sua Chiesa. Marco Garzonio è il coautore del soggetto e della sceneggiatura. Gli abbiamo chiesto perché per un film dedicato alla figura del cardinale Martini sia stato scelto proprio questo titolo:

R. – Perché è stato capace di interpretare il momento, quello che Papa Giovanni chiamava segno dei tempi. E’ stato capace di cogliere i bisogni delle persone, di quelle che lui incontrava, perché sono i fedeli della Chiesa, ma anche di tutte le altre, a cominciare per esempio già nel lontano 1982 dagli immigrati. E’ stato capace, inoltre, di cogliere le questioni emergenti che la politica, che l’economia ancora non vedeva. Nel 1981 i vescovi lombardi sotto la presidenza di Martini pubblicarono un documento, affrontare la crisi: cioè, c'erano già i germi di quello che sarebbe successo dopo. Quindi Martini ha colto i segni di quello che stava accadendo, si è posto vicino in questioni drammatiche, vedi il terrorismo, in questioni di grandi trasformazioni, vedi la crisi della politica che ha portato a Tangentopoli e, all’interno della Chiesa, alla dimensione ecumenica.

D. - Qual è stato il suo contributo alla realizzazione del film?

R. – Il mio contributo, soggetto e sceneggiatura, ovviamente, insieme a Ermanno Olmi. Tutto nasceva da una lunga storia. Io ho incominciato a seguire il cardinale Martini professionalmente per il Corriere della Sera fin dagli inizi e da allora ho continuato a seguirlo. Ho avuto poi l’opportunità di avere scambi sempre più frequenti e quando è rientrato in Italia nel 2008, perché il parkinson incalzava, ho potuto stare un po’ con lui, sentirlo, accompagnarlo in questa fase di sofferenza, di declino, ma sempre, sempre lucidissimo. E poi ho ricevuto un grandissimo dono - che io chiamo un autentico dono del Signore - di essere al suo capezzale nelle ultime ore. In quell’occasione io ho scritto una lunga poesia che apre con la stanzetta in cui Martini a poco a poco si spegne e il film incomincia con lunghe riprese di quella stanza: quella stanza diventerà anche il leitmotiv dell’intero film per dire come dalla morte comincia una nuova vita dal punto di vista della fede ma comincia anche la rinascita dal punto di vista della responsabilità che noi ci assumiamo con chi muore per portare avanti il suo messaggio.

D. - Ci sono i fatti della storia, nel corso dei quali Martini ricoprì un ruolo di primo piano. Ma il film riesce a cogliere anche il percorso interiore del sacerdote?

R. – Assolutamente sì, tanto è vero che, con una soluzione artistica geniale, la voce narrante è la voce di Olmi. Dà proprio l’impressione di questa identificazione tra il poeta regista e quest’uomo che è come se riflettesse nel momento della sua fine su tutta la sua storia. Il film è un insieme, è un montaggio di documenti, di cronache. Questo lungo percorso è il percorso visivo ma, man mano, emerge l’itinerario spirituale, l’interiorità profondissima di Carlo Maria Martini.

D. - Quale secondo lei il momento più emozionante?

R. – Non esiste un momento solo, esistono tanti momenti. Sono i momenti in cui vengono fuori le cose più tragiche e nello stesso tempo diremmo più di redenzione di questa città e di questo nostro tempo. C’è la scena delle carceri: sappiamo che le carceri sono state uno dei punti forti di Martini, della sua pastorale; c’è l’accenno evidente alla vicenda dei terroristi; ci sono le periferie, queste periferie che sono di Milano e - direbbe oggi Papa Francesco - sono le periferie del mondo, che sono le periferie degli edifici della desolazione ma sono anche le periferie della nostra anima.

D. - Si è spesso evocato lo spirito profetico che ha animato la vita di Martini. Secondo lei il film lo avvalora?

R. – Secondo me sì, perché la profezia nasce dalla normalità, non nasce dai dati eccezionali, la normalità di un’esistenza e in fondo lui ha fatto il suo mestiere di vescovo al meglio. Ecco, nel farlo al meglio è stato profeta, alla maniera degli antichi profeti di Israele. Anche quando leggiamo i profeti non ci immaginiamo e non abbiamo reso conto di gesta straordinarie, ma abbiamo reso conto di persone che in ogni momento si pongono ad un angolo e cercano di vedere ciò che accade nel mondo, cosa accade agli uomini e nello stesso tempo cercano di scoprire in quel momento il disegno di Dio.

D. - Il film si chiude con le immagini di una duplice benedizione…

R. – Il rabbino Laras ha accettato di registrare ed è inserita nel film la benedizione in ebraico che si sono scambiati poco prima della morte quando Laras è andato a trovare Martini all’Aloisianum di Gallarate. E poi c’è un’ultima benedizione di Martini a mons. Giovanni Barbareschi e in questo Martini è profetico. Un continuo rinnovare il patto tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e Dio.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 41

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.