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Sommario del 14/02/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Cirillo e Metodio araldi del Vangelo con coraggio, preghiera e umiltà

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Coraggio, preghiera e umiltà: questi sono i tratti che contraddistinguono i grandi “araldi” che hanno aiutato a crescere la Chiesa nel mondo, che hanno contribuito alla sua missionarietà. Papa Francesco ne ha parlato oggi nella Messa mattutina a Casa Santa Marta ispirandosi alla Liturgia e al modello dei Santi Cirillo e Metodio patroni d’Europa che oggi la Chiesa festeggia. Il servizio di Gabriella Ceraso

Cirillo e Metodio hanno fatto più forte l'Europa
C’è bisogno di “seminatori di Parola”, di “missionari, di veri araldi” per formare il popolo di Dio, come lo sono stati Cirillo e Metodio, “bravi araldi”, fratelli intrepidi e testimoni di Dio, che hanno “fatto più forte l’Europa”, di cui sono Patroni. Parte da questa riflessione l’omelia del Papa a Casa Santa Marta e prosegue indicando i tre caratteri della personalità di un “inviato” che proclama la Parola di Dio. Ne parla la Prima Lettura di oggi, con le figure di Paolo e Barnaba, e il Vangelo di Luca, con i “settentadue discepoli inviati dal Signore due a due”.

La Parola di Dio non è una proposta, serve coraggio per farla penetrare
Il primo tratto dell’”inviato” che Francesco mette in luce è la “franchezza”, che include “forza e coraggio”:

“La Parola di Dio non si può portare come una proposta – “ma, se ti piace …” – o come un’idea filosofica o morale, buona – “ma, tu puoi vivere così …” … No. E’ un’altra cosa. Ha bisogno di essere proposta con questa franchezza, con quella forza, perché la Parola penetri, come dice lo stesso Paolo, fino alle ossa. La Parola di Dio deve essere annunciata con questa franchezza, con questa forza … con coraggio. La persona che non ha coraggio – coraggio spirituale, coraggio nel cuore, che non è innamorata di Gesù, e da lì viene il coraggio! – no, dirà, sì, qualcosa di interessante, qualcosa di morale, qualcosa che farà bene, un bene filantropico, ma non c’è la Parola di Dio. E questa è incapace, questa parola, di formare il popolo di Dio. Solo la Parola di Dio proclamata con questa franchezza, con questo coraggio, è capace di formare il popolo di Dio”.

Senza preghiera la Parola di Dio diventa una conferenza
Dal Vangelo di Luca, capitolo 10, sono tratti gli altri due caratteri propri di un “araldo” della Parola di Dio. Un Vangelo “un po’ strano” afferma il Papa,  perché ricco di elementi circa l’annuncio. “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai. Pregate dunque il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe” ripete Francesco, ed è così dunque, dopo il coraggio ai missionari serve la “preghiera”:

“La Parola di Dio va proclamata con preghiera, pure. Sempre. Senza preghiera, tu potrai fare una bella conferenza, una bella istruzione: buona, buona! Ma non è la Parola di Dio. Soltanto da un cuore in preghiera può uscire la Parola di Dio. La preghiera, perché il Signore accompagni questo seminare la Parola, perché il Signore annaffi il seme perché germogli, la Parola. La Parola di Dio va proclamata con preghiera: la preghiera di quello che annuncia la Parola di Dio”.

Il vero predicatore è umile, altrimenti finisce male
Nel Vangelo è scritto anche “un terzo tratto interessante”. Il Signore invia i discepoli “come agnelli in mezzo ai lupi”:

“Il vero predicatore è quello che si sa debole, che sa che non può difendersi da se stesso. ‘Tu vai come un agnello in mezzo ai lupi’ – ‘Ma, Signore, perché mi mangino?’ – ‘Tu, vai! Questo è il cammino’. E credo che sia Crisostomo che fa una riflessione molto profonda, quando dice: ‘Ma se tu non vai come agnello, ma vai come lupo tra i lupi, il Signore non ti protegge: difenditi da solo’. Quando il predicatore si crede troppo intelligente o quando quello che ha la responsabilità di portare avanti la Parola di Dio vuol farsi furbo, ‘Ah, io me la cavo con questa gente!’, così, finirà male. O negozierà la Parola di Dio: ai potenti, ai superbi “

E per sottolineare l’umiltà dei grandi araldi, Francesco cita un episodio a lui raccontato di uno che “si vantava di predicare bene la Parola di Dio e si sentiva lupo”. E dopo una bella predica, racconta il Papa, “è andato in confessionale ed è caduto lì un pesce grosso, un grande peccatore, e piangeva, …voleva chiedere perdono”. E “questo confessore”, prosegue Francesco, ”incominciò a gonfiarsi di vanità” e la “curiosità” gli fece chiedere quale Parola pronunciata lo avesse toccato “a tal punto da spingerlo a pentirsi”. “E’ stato quando lei ha detto”, conclude il Papa, ”passiamo a un altro argomento”. “ Non so se sia vero”  chiarisce Francesco, ma di certo è vero che “si finisce male” se si porta la Parola di Dio, “sentendosi sicuri di sé e non come un agnello” che sarà il Signore a difendere.

Coraggiosi, in preghiera e umili come i Santi Cirillo e Metodio 
Dunque questa è la missionarietà della Chiesa e i grandi araldi, ribadisce in conclusione Francesco, “che hanno seminato e hanno aiutato a crescere le Chiese nel mondo, sono stati uomini coraggiosi, di preghiera e umili”. Ci aiutino i Santi Cirillo e Metodio è la preghiera del Papa “a proclamare la Parola di Dio” secondo questi criteri come hanno fatto loro.

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Nomine

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Il Papa ha nominato dirigente del "Controllo di Gestione" dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, Stefano Fralleoni, finora Ragioniere generale della Prefettura degli Affari economici della Santa Sede.

 Francesco ha nominato vescovo della diocesi di El Obeid, in Sudan, il rev. Yunan Tombe Trille Kuku Andali, del clero di El Obeid, rettore del Seminario Maggiore di San Paolo a Juba.

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Il card. Coccopalmerio spiega l'8°capitolo di "Amoris Laetitia"

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Presentazione questa mattina alla Radio Vaticana del volume: “Il capitolo ottavo della Esortazione Apostolica Post Sinodale Amoris Laetitia” scritto dal card. Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. All’incontro con i giornalisti mons. Maurizio Gronchi, professore ordinario di Cristologia all’Urbaniana e consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, il vaticanista Orazio La Rocca, e don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana che ha pubblicato il testo. Il servizio di Adriana Masotti

L’ottavo capitolo della Amoris Laetitia, dedicato alle unioni irregolari è certamente quello che ha suscitato più interesse e interrogativi riguardo all’Esortazione apostolica post sinodale. La domanda cruciale è se una pastorale più attenta alle singole persone, improntata ad accompagnare, discernere e integrare la fragilità sia in contrasto con la Dottrina tradizionale della Chiesa. Sentiamo il vaticanista Orazio La Rocca, oggi invitato alla presentazione del testo del card. Coccopalmerio:

“ I dubbi sollevati, mi avevano creato un po’ di interrogativi. Tra questi che la dottrina viene ferita. Invece no: il cardinale con questo testo spiega con una forma di didattica molto penetrante che la dottrina non viene intaccata; viene preservata però, intanto, le persone ferite sono figlie della Chiesa che si apre come una madre”.

Esistono serie condizioni per l’eventuale accesso ai Sacramenti dei divorziati risposati, spiega mons. Gronchi illustrando come il card. Coccopalmiero aiuta a comprendere ciò che il Papa scrive in “Amoris Laetitia”:

R. - Le cose in più che dice il cardinale si trovano a pagina 27 e a pagina 29 del libretto. Sono esattamente: “…la Chiesa dunque potrebbe ammettere alla Penitenza e all’Eucarestia i fedeli che si trovano in unione non legittima, i quali però verifichino due condizioni essenziali: desiderano cambiare situazione, però non possono attuare il loro desiderio”. E a pagina 29: “ … è esattamente tale proposito l’elemento teologico che permette l’assoluzione e l’accesso all’Eucarestia, sempre ripetiamo, in presenza dell’impossibilità di cambiare subito la condizione di peccato”. Queste sono le espressioni con le quali il cardinale fa un passo interpretativo nella linea dell’Esortazione.

D. - Che cosa significa questo? Che una coppia che si trova in una seconda unione illegittima deve avere coscienza di non essere in una situazione regolare e voler cambiare?

R. - Cambiare qui è inteso come il desiderio di conversione. Non si specifica se questo significhi tornare alla situazione precedente, magari commettendo una nuova colpa, questo lo dice il cardinale; non si specifica se questo vuol dire cercare di astenersi dai rapporti coniugali come indicato dalla “Familiaris consortio” al n. 84. Si parla di conversione. E quindi il proposito di essere più conformi a Cristo rende legittimo, perché è il proposito, l’accesso alla grazia santificante dei sacramenti. Questo non contraddice la dottrina dell’indissolubilità, perché si sa di non essere conformi al Vangelo, e non contraddice la dottrina del pentimento, come neppure la dottrina della grazia santificante. Queste sono le espressioni del cardinale.

D. - Il titolo dell’ottavo capitolo di Amoris Laetitia è “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”. Lei ha detto che questo potrebbe essere un modello culturale anche per la società …

R. – Esattamente, anche per la politica. Che cosa significa per una comunità civile, sociale, politica, farsi carico delle situazioni di maggiore fragilità? Penso agli immigrati, ai poveri, ai disabili, alle persone socialmente escluse … questo è il compito di ogni società, della politica, della Chiesa. Pensiamo che cosa significa questo per l’economia, per i rapporti internazionali ecc…

D. – Tornando alla Chiesa, viene fuori l’immagine della Chiesa come 'ospedale da campo' che però non è un’alternativa alla sicurezza della dottrina tradizionale…

R. – No, perché la Chiesa è sempre stata comunque il rifugio dei peccatori. “Non sono venuto a giudicare, ma a dare la vita”. Bisogna capire se Gesù è considerato assolutamente il centro, e la sua morte e resurrezione è il centro della dottrina, intorno al quale gli aspetti dottrinali si corredano secondo una gerarchia di verità, oppure se mettiamo al centro qualche aspetto che invece sta alla periferia. Il Papa mette in evidenza molte volte l’importanza delle periferie quando si tratta di situazioni di marginalità. Quindi invita ad un decentramento. Ma è interessante che a volte questo discorso vale anche a rovescio: ci sono certe periferie dottrinali che si fanno diventare centri, dimenticando che il centro è Gesù.

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Mons. Auza: no a traffico di armi e al terrorismo

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Di fronte alla “guerra mondiale combattuta a pezzi” e  alla minaccia di attacchi a strutture sensibili,  la comunità internazionale agisca unita nel contrastare il traffico illegale di armi e il sostegno finanziario al terrorismo. Questo in sintesi l’appello della Santa Sede all’Onu di New York pronunciato ieri dall’arcivescovo Bernardito Auza.

Porre fine alla strategia del terrore che mina l’esistenza di interi popoli
Il rappresentante vaticano presso il Palazzo di vetro ha chiesto uno sforzo comune alle nazioni affinché sia posto un freno all’ondata di terrore che utilizza “civili innocenti come bersagli attraverso la distruzione di  infrastrutture” necessarie alla loro sopravvivenza. Lo sguardo in particolare è andato ai conflitti che stanno insanguinando l’area dell’antica Mesopotamia dove il patrimonio religioso e culturale della antiche civiltà che per millenni hanno abitato questa regione è obbiettivo  ripetuto di attacchi. Nel mirino dei terroristi – ha sottolineato il presule – c’è una strategia deliberata finalizzata alla distruzione di infrastrutture indispensabili alla sopravvivenza dei popoli come scuole, ospedali, forniture di acqua e luoghi di culto.

No a politiche basate solo sul profitto
“E’ obbligo della comunità internazionale, come previsto dalla Carta Onu”, ha indicato mons. Auza,  “tutelare i civili e le infrastrutture necessarie alla loro esistenza da questa barbarie”, mantenendo un elevato livello di protezione dei luoghi sensibili e un alto grado di preparazione in caso di attacco perché si eviti la perdita di vita umane e l'interruzione di  servizi essenziali. Per fare ciò – è stata la raccomandazione – bisogna rifiutare politiche basate solo sulla ricerca incondizionata di profitto e interessi geopolitici egoistici.

Necessaria collaborazione nel contrasto al traffico illegale di armi
La delegazione vaticana ha ribadito l’appello della Santa Sede alle nazioni produttrici di armi affinché limitino e controllino la fabbricazione e la vendita di munizioni e tecnologie soprattutto nei Paesi e regioni del mondo più instabili, nei quali è reale la probabilità dell’utilizzo illegale di questi strumenti.  L’Osservatore Permanente della Santa Sede ha infine chiesto a tutti di collaborare a livello internazionale e regionale nel condividere informazioni, buone pratiche, politiche coordinate e controlli alle frontiere  per contrastare il finanziamento della criminalità organizzata e il suo ruolo nel traffico di armi. “La natura senza confini geografici precisi dei gruppi terroristici – ha osservato il presule - richiede un controllo congiunto delle tecnologie informatiche utilizzate per reclutare combattenti, finanziare la loro attività e coordinare attacchi terroristici”. (A cura di Paolo Ondarza)

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Koch e Hilarion celebrano a Friburgo l’incontro un anno fa tra il Papa e Kirill

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“Come per ogni evento storico, ci vorrà indubbiamente del tempo perché l’incontro de L’Avana e la Dichiarazione comune possano dare i loro frutti”. Ad un anno dall’incontro del Papa con Kirill, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, avvenuto a Cuba, il card. Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha partecipato all’Università di Friburgo, ad una commemorazione dello storico evento, insieme al metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del patriarcato ortodosso. Il card. Koch nel suo intervento ha evidenziato tre possibili direzioni da percorrere, a partire dalla Dichiarazione comune: l’ecumenismo dei santi, l’ecumenismo culturale e l’ecumenismo dell’azione comune.

Il primo ambito di ordine spirituale parte dal fatto che le due Chiese condividano una comune tradizione spirituale del primo millennio del cristianesimo. Oltre allo scambio di reliquie o di icone, che conferirebbe una dimensione più popolare e pastorale alla Chiesa e all’intensificarsi delle relazioni fraterne tra le due Chiese, si potrebbe aspirare ad un riconoscimento reciproco di alcuni santi affinchè, come sottolinea il Papa, intercedano per la piena unità della Chiesa. 

Il secondo ambito, quello culturale, sottolinea l’importanza del conoscere la cultura degli altri per riconoscerne i doni ed imparare gli uni dagli altri, come raccomanda Papa Francesco. Iniziative a questo proposito sono state le visite di studio reciproche a Roma e a Mosca di giovani sacerdoti ortodossi e cattolici per superare i pregiudizi ed avere uno scambio di idee sulle preoccupazioni pastorali. Dal 14 al 21 maggio dieci giovani sacerdoti ortodossi del patriarcato di Mosca sono stati ospitati a Roma mentre dal 26 agosto al 4 settembre dieci giovani sacerdoti cattolici hanno fatto una visita di studio a Mosca e a San Pietroburgo.

Il terzo ambito sull’ecumenismo pratico concerne la situazione dei cristiani in Medio Oriente, la libertà religiosa, la solidarietà con i poveri, la famiglia e i giovani. Il card. Koch esprime quindi l’importanza dell’approfondimento delle relazioni bilaterali che potrà avere conseguenze positive sul dialogo teologico internazionale. (A cura di Giulia Angelucci)

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Oggi in Primo Piano



Congo: violenze in tutto Paese. Oltre 100 morti

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Si acuisce l’instabilità che scuote la Repubblica Democratica del Congo. Secondo le Nazioni Unite è di oltre 100 morti il bilancio degli scontri tra l’esercito governativo e una milizia locale, avvenuti tra il 9 e il 13 febbraio nella provincia centrale del Kasai. Nuove tensioni etniche si registrano poi nella martoriata provincia del Nord Kivu, con 3 vittime e 13 persone rapite. Infine, nella capitale Kinshasa almeno quattro persone hanno perso la vita nell’assalto della polizia contro la sede di una nota setta politico-religiosa. Riguardo la situazione nel Paese, Marco Guerra ha intervistato l’africanista Marco Di Liddo, analista per l'Africa del Centro Studi Internazionali di Roma: 

R. - Sì: si tratta di una tipologia di scontri che ha opposto l’esercito nazionale congolese a una milizia attiva nelle regioni, una milizia che prende il nome da un capo villaggio molto famoso nella regione il cui nome è Kamuina Nsapu. E’ una delle tante milizie etniche che agiscono nel Paese e che sostanzialmente si oppongono al potere centrale perché rivendicano maggiore autonomia che in quel Paese vuol dire una più equa ridistribuzione delle risorse e un controllo sulle ricchezze minerarie o agricole nazionali.

D. - Intanto, questa mattina nella capitale Kinshasa le forze di sicurezza hanno preso d’assalto la residenza di un capo di una setta separatista. Che cosa succede anche qua, in questo Congo scosso dalle violenze e dall’insicurezza?

R. – A Kinshasa e nelle vicinanze di Kinshasa è stata attuata una massiccia operazione da parte delle forze armate, volta a catturare o a neutralizzare Ne Muanda Nsemi, che è appunto il capo del Bundu dia Kongo. Il Bundu dia Kongo è una milizia etnica a sfondo religioso, in cui però la religione serve semplicemente a dare una giustificazione, una legittimità politica a un’attività sostanzialmente di tipo militare. L’obiettivo di questa setta è, esattamente come in quelle del Kasai centrale, rivendicare un sistema federalista e meno accentratore rispetto a quello propugnato dal Presidente Kabila.

D. – A tale proposito, queste violenze, questa instabilità sono provocate anche dal fatto che a dicembre si sarebbe dovuto dimettere il Presidente Kabila, per la fine del suo mandato. Kabila ancora non si è dimesso, e che cosa succede in questa situazione di incertezza politica?

R. – Kabila ha posticipato le elezioni al dicembre 2017, ritardando quindi di ben un anno – rispetto alla data iniziale; e lo ha fatto adducendo ragioni di sicurezza e di instabilità politica nel Paese. In realtà, essendo terminato il numero massimo di mandati, c’è il rischio che il Presidente non voglia mollare il suo ruolo e voglia continuare a essere il padre-padrone del Paese. Questo potrebbe portare a un moltiplicarsi di episodi di violenza e purtroppo al rischio di un’insurrezione generale con scenari da guerra civile.

D. – Quindi, quali sono le principali sfide del Paese nei prossimi mesi, nei prossimi anni, sia a livello politico sia a livello sociale? Ricordiamo che il Congo è uno dei Paesi più grandi del Continente africano …

R. – La superficie territoriale del Congo corrisponde a quella di quasi tutta l’Europa occidentale, e addirittura oltre. E’ un Paese che nelle sue contraddizioni rappresenta un po’ il paradosso di tutto il Continente africano. E’ un Paese ricchissimo di qualsiasi cosa; la natura ha letteralmente benedetto questa terra, offrendole ogni sorta di ricchezza. Però, purtroppo, la brutalità del dominio coloniale belga e le difficoltà di convivenza tra le tante etnie hanno sempre impedito lo sviluppo di un sistema politico equo e che potesse garantire ricchezza a tutti i cittadini. La sfida è quella di garantire ai cittadini congolesi le condizioni giuste per sfruttare le ricchezze del Paese e non essere costretti, per vivere, a scontrarsi tra di loro e quindi a far degenerare il Paese in questi scenari di guerra civile che purtroppo lo caratterizzano fin dalla sua indipendenza.

D. – Quindi c’è bisogno di qualcuno che guidi uno sforzo di riconciliazione nazionale? C’è una figura che può fare questo?

R. – La figura era quella di Etienne Tshisekedi che purtroppo qualche settimana fa è deceduto, lasciando un vuoto politico assolutamente incolmabile. La prima responsabilità, a questo punto, non può essere che sulle spalle delle Nazioni Unite che devono non solo contribuire alla sicurezza militare nel Paese, ma anche a guidare un processo di state-building, come hanno dimostrato di saper fare in altri scenari africani.

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La Somalia riprende a battere moneta. Le speranze di mons. Bertin

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La Somalia riprenderà a stampare banconote. Il Paese non emetteva valuta dalla caduta del governo di Siad Barre nel 1991, data dalla quale sono cominciate a circolare monete occidentali. La notizia, dopo l’elezione nei giorni scorsi del nuovo Presidente, è stata resa nota dal governatore della Banca Centrale somala, Bashir Ali Issa, che ha detto che la stampa di banconote potrebbe già avvenire nel corso di quest’anno. Sull’importanza di questa scelta Giancarlo La Vella ha sentito mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio: 

R. – Bisogna dire che dal 1991 diversi "signori della guerra" avevano stampato diversi tipi di moneta, sempre scellino somalo.

D. - Ma il fatto che questa volta sia proprio la Banca centrale a dare la notizia, fa capire che insomma si sta andando verso una maggiore solidità delle istituzioni …

R. - È quello che tutti speriamo.

D. - Dopo l’elezione del Presidente com’è la situazione in Somalia?

R. - È difficile, perché è stato eletto mercoledì scorso; per le vie di Mogadiscio c’è stata una grande euforia e in generale anche in altre parti della Somalia, compresa la Comunità internazionale, perché sembra una persona capace, di buona volontà. Aveva già avuto qualche esperienza di governo, ma si vive con questo senso di euforia. Bisognerà che a questa euforia, a questa buona accoglienza da parte della popolazione somala corrispondano poi degli impegni precisi da parte delle autorità e del Presidente. Bisognerà vedere poi quale sarà la formazione del Consiglio dei ministri.

D. - In questo momento, è importante che la Somalia ricominci a dialogare anche con la comunità internazionale?

R. - Sì. Un certo dialogo con la comunità internazionale era già stato fatto in questi ultimi anni. Però, dopo un po’ di tempo, c’è stata un po’ di stanchezza, soprattutto in questi ultimi due anni. Allora, è un momento di ravvivare un po’ questo dialogo così importante, tenendo conto che anche la comunità internazionale ha bisogno non tanto di guardare ai propri interessi, ma agli interessi, al bene della popolazione somala e della Somalia.

D. - Che tipo di ostacolo rappresenta il terrorismo degli al Shabaab?

R. - Rappresenta un ostacolo, ma anche una sfida. Bisognerà rispondere a questo grosso ostacolo non solo con i mezzi armati, ma magari con il dialogo e soprattutto prestando quei servizi di cui la popolazione ha bisogno: servizi sanitari, educativi e un po’ di sicurezza. Se si è in grado rispondere a queste necessità, penso che il grosso ostacolò che rimane, quello del fondamentalismo, potrebbe essere vinto alla lunga, soprattutto con il supporto della popolazione.

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Ricerca, l'Italia spende poco ma la resa è buona

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L’Italia investe ancora troppo poco in ricerca: circa l’1,30% del Pil contro il 2% della media europea. Una cifra ancora più bassa se si pensa che entro pochi anni l’obiettivo di tutta la Ue è arrivare al 3%. Su questo hanno fatto il  punto della situazione i vertici dei massimi enti di ricerca italiani in un convegno al Cnr. Alessandro Guarasci

Serve un piano pluriennale di investimenti, se non altro per recuperare il divario con le altre nazioni Ue. Stati Uniti e Giappone sono infatti irraggiungibili in fatto di fondi per la ricerca. Il presidente della Conferenza dei Rettori, Guido Manfredi:

“Dal 2008, noi abbiamo perso 10 mila ricercatori in Italia, su 60 mila: oggi sono 50 mila; e un miliardo di euro di finanziamenti su 8 miliardi, quindi una percentuale estremamente elevata. Il governo, negli ultimi due anni, ha manifestato un’inversione di tendenza: non ci sono stati più tagli, ci sono stati primi segnali di investimento: abbiamo avuto mille ricercatori in più. Quello che però noi chiediamo, per mantenere la competitività europea e internazionale nel nostro Paese, è di recuperare questo miliardo di investimento, di recuperare per lo meno 10 mila posizioni negli prossimi anni per giovani ricercatori, per evitare che l’università italiana sia un’università vecchia – oggi abbiamo un’età media di 50 anni …”.

Ciononostante la qualità della ricerca italiana, viene considerata di buon livello sul piano internazionale, lo si vede dalle pubblicazioni sulle maggiori riveste del settore e dagli scambi tra università. Ma bisogna essere in grado di fare sistema, dice il presidente del Cnr Massimo Inguscio:

“Creare, anche come conseguenza dell’ultimo piano nazionale della ricerca, sinergie fra il mondo industriale, in modo che anche l’industria si renda conto di quanto sia importante, di quali novità e sorprese offra il mondo della ricerca. Poi, manca anche – secondo me – capire che la ricerca davvero non è una cosa da funzione pubblica qualsiasi: la ricerca è una cosa diversa, ha una sua particolarità in cui bisogna essere liberi, in cui bisogna potere assumere rapidamente, con meritocrazia”.

Inguscio tiene a precisare che non esistono tesoretti degli enti pubblici di ricerca. Tutto quello che viene stanziato viene speso. Anche per questo, no a tagli ai fondi in una possibile manovra correttiva. Ancora Manfredi:

“Perché se addirittura da una manovra correttiva si taglia la ricerca dopo quello che è stato fatto, significa che il Paese si vuole suicidare. Quindi, visto che io ho fiducia nel governo, ho fiducia nel presidente del Consiglio, nel ministro, so che sono attenti; so che il Presidente della Repubblica è molto attento a questa questione, noi non ci aspettiamo tagli, perché sarebbe veramente inaccettabile!”.

Tagliare gli investimenti sarebbe un colpo per tutto il Paese. Il presidente del Cnr Inguscio:

“La spesa per la ricerca non è una spesa ma un investimento, quindi anche di fronte a situazioni preoccupanti – come il debito pubblico, il pil, eccetera – la ricerca è quella che poi di fatto produce un aumento del pil perché dà risultati che poi si traducono in innovazioni tecnologiche, in prodotti industriali, in reclutamento, in riduzione della disoccupazione e via discorrendo”.

Le scoperte scientifiche regolano la vita di tutti noi, scoprono nuove terapie per malattie finora incurabili e ci salvaguardano dalle calamità naturale. La sfida è rendere la ricerca sempre più efficiente.

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Tabgha, riaperta la chiesa. I benedettini: mai accettare l'odio

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Una cerimonia interconfessionale e una Messa hanno segnato la riapertura, domenica scorsa in Israele, della chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Tabgha. L’edificio era rimasto chiuso per quasi venti mesi a seguito di un incendio doloso appiccato da estremisti ebraici, nel giugno del 2015, per odio verso il cristianesimo. Francesca Sabatinelli

Ci sono voluti venti mesi di chiusura e otto di restauro per restituire la chiesa di Tabgha al culto e ai fedeli. L’incendio, appiccato da due giovani estremisti ebraici non solo aveva distrutto il sito, ma aveva anche inferto una profonda ferita ai rapporti tra le comunità religiose della Terra Santa, vittime di fanatici che non credono nel dialogo e nella convivenza e che vedono nei cristiani e nei musulmani nemici da cacciare. Un grave incitamento all’odio più volte denunciato dai leader cristiani che non intendono piegarsi alla violenza. Il benedettino padre Matthias Karl è il rettore della chiesa di Tabgha:

“Questo odio continua, queste attività anti-cristiane continuano, in piccole ma anche in grandi cose. Continuano a distruggere le macchine dei monasteri, scrivono sui muri del monastero cose inaccettabili contro Gesù, contro Maria, contro i cristiani in generale. Ci sono dei fondamentalisti, nella comunità ebrea, grazie a Dio è un gruppo molto molto piccolo, sono pochi, ma questi pochi sono sempre un problema. In tutte le religioni si trovano quei pochi che creano problemi, che apertamente lavorano – noi diciamo – “contro” la propria religione: non leggono i comandamenti, perché la religione ebraica non dà la possibilità di agire contro i cristiani. Ma sono i fondamentalisti, gli estremisti, che vogliono questa terra dello Stato israeliano solo per loro e per nessun’altra persona. Non hanno rispetto per chi non è ebreo”.

Un milione di dollari circa il costo del restauro, al quale hanno contribuito, tra gli altri, anche il governo israeliano e gruppi di ebrei moderati. Un importante segnale delle autorità israeliane, sottolineato anche dalla presenza, alla cerimonia di riapertura, del presidente israeliano Reuven Rivlin:

“Per noi è stato un bel segno. E’ venuto a visitarci per la seconda volta, la prima era stata dopo l’incendio poi, quando lo abbiamo invitato per la cerimonia della benedizione, lui ha subito risposto che sarebbe venuto. E’ venuto con sua moglie, per sottolineare che si trattava di un atto non solo ufficiale, ma che aveva anche una connotazione di importanza personale per lui. E’ un segnale che lui ha dato, che l’odio non deve mai essere accettato. Non importa chi genera l’odio: questo si deve evitare sempre. E questo per noi è stato importante, un bel segno, un segno che anche se gli ebrei fanno attività anticristiana, lo Stato non lo accetta e noi ci auguriamo che le persone che lavorano per evitare queste cose, che lavorano nel campo dell’educazione, nelle diverse istituzioni per la sicurezza qui in Terra Santa, abbiamo compreso che si deve fare di più per creare un futuro migliore, un futuro più rispettoso tra i diversi gruppi religiosi che si trovano qui, in Terra Santa”.

In un primo tempo l’aspetto del risarcimento aveva creato uno scontro tra le parti, con Israele che, rigettando l’ipotesi di “terrorismo”, rifiutava di contribuire alla ricostruzione. Successivamente, poi, l’inversione di rotta e la decisione di collaborare:

“Con tutto quello che è successo qui a Tabgha, quel fuoco è stato veramente un’esperienza terribile. Renderci conto che sono stati alcuni ebrei a incendiare ci ha fatto tanto male, perché noi cristiani, qui in Terra Santa, cerchiamo di avere buone relazione con gli ebrei. Per questo è stato molto importante che dopo l’incendio tanti, tanti ebrei sono venuti a trovarci per esprimerci la loro solidarietà. Abbiamo avuto donazioni dalla comunità ebraica della Terra Santa, grazie alle quali abbiamo potuto ricostruire l’atrio e il chiostro della chiesa. Per questo noi abbiamo detto che si è trattato di due fuochi: uno che ha distrutto tanto e uno d’amore, e questo fuoco d’amore è stato nutrito da tanti ebrei. E l’esperienza bella, in tutta questa situazione difficile, è stata che tanti ebrei ci hanno manifestato la loro vicinanza, così abbiamo capito che siamo accettati in questa terra, in questo Luogo santo, biblico, che per noi cristiani è molto importante. Certamente vogliamo continuare a vivere qui, tenere aperto questo luogo per chiunque venga con cuore pieno d’amore e di pace”.

Ciò che è importante, aggiunge padre Matthias è che il processo a carico dei responsabili si concluda con una condanna, che quindi la giustizia israeliana dia un segnale deciso della strada che intende percorrere:

“Non si sa ancora come finirà il processo. Da parte della comunità cristiana chiediamo allo Stato ebraico, di Israele, di mettere in pratica le leggi anche quando è un ebreo a fare una cosa brutta, e non di applicarle solo quando è un palestinese a porre problemi. Questo si nota un po’. Grazie a Dio noi siamo contenti che i responsabili dello Stato abbiano fatto un grande lavoro per identificare le persone che hanno dato fuoco. Ma questo non basta, adesso è necessario continuare il processo, perché non si può accettare una cosa del genere”.

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Riconoscimento al Collegio San Giuseppe che salvò decine di ebrei

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Il Collegio San Giuseppe-Istituto De Merode di Roma, dei Fratelli delle Scuole cristiane, ha ricevuto oggi dalla Fondazione ebraica International Raul Wallenberg, una targa commemorativa e di riconoscimento come "Casa di vita". Presenti esponenti del mondo ebraico della comunità di Roma  - Ruth Dureghello, Noemi Di Segni, Sandro di Castro, alcuni testimoni dell'epoca ed i familiari dell'allora direttore dell'epoca Sigismondo Ugo Barbano che in questo istituto, insieme alla Comunità dei Fratelli delle scuole crisitane salvò durante la Seconda guerra mondiale, una quarantina di ebrei perseguitati dai nazisti. Giulia Angelucci ha intervistato Fr. Alessandro Cacciotti, direttore del Collegio San Giuseppe: 

R. – Il nostro istituto durante il periodo della persecuzione nazifascista contro gli ebrei, custodì qui e salvò parecchie persone, circa una quarantina. Quindi davvero un bell’evento per noi per ricordare un po’ come quei frères dell’epoca insieme al loro direttore furono molto coraggiosi, in quanto ospitarono, nascosero e salvarono parecchie persone. 

D. - Cosa cambierà nel vostro istituto?

R. - Nel nostro istituto più che cambiare continua questa bellissima tradizione di accoglienza, di solidarietà, di cura delle persone che è stata la nostra caratteristica fin da quando esiste la struttura. L’istituto è stato sempre un po’ multiculturale che è nato con presenze di italiani e di francesi nell'800. Durante la Prima Guerra Mondiale diventò ospedale militare, accolse i nostri soldati, feriti al fronte... Quindi diciamo che continua questa tradizione. Noi festeggiamo sempre il Giorno della Memoria attraverso celebrazioni, ricordi insieme ai nostri studenti. Con i ragazzi più grandi insieme a quelli più piccoli del liceo dei primi due anni, il 27 gennaio scorso abbiamo dedicato la Giornata della memoria a opere di educazione, di crescita, di riflessione perchè i ragazzi di oggi hanno veramente bisogno di questi messaggi.

D. - A proposito dell’International Wallenberg Foundation, qual è il rapporto con questa fondazione e qual è stato poi lo sviluppo di questo progetto?

R. - Non conoscevo affatto questa fondazione. Conoscevo l’altra – Yad Vashem - che riconosce i 'Giusti tra le nazioni'. Infatti il direttore dell’epoca è stato insignito anche di questo titolo di “Giusto fra le nazioni”. Il suo nome poi verrà iscritto nel museo di Gerusalemme Yad Vashem. Invece ho conosciuto la fondazione Wallenberg attraverso una delle persone che si rifugiò qui – Gianni Poldar. Una volta venne qui a fare un’intervista per il Tg2; ci conoscemmo e iniziò a raccontarmi diverse cose. Lui ha operato in maniera tale da metterci in comunicazione sia con lo Yad Vashem che con la Wallenberg foundation. Quindi poi si è instaurato questo bel rapporto, ho conosciuto alcuni di questi rappresentanti. È nata un po’ così, con le persone che sono state qui che ancora si ricordavano di questo posto e volevano che, in qualche maniera, questo ricordo diventasse ufficiale con un riconoscimento pubblico.

D. - Cosa rimane ancora di testimonianza presso il vostro collegio?

R. - Rimane questa amicizia, questo legame con la comunità. Ancora oggi abbiamo diversi alunni di religione ebraica che frequentano la nostra scuola; anche i loro genitori all’epoca frequentavano questo istituto. Qui ha studiato anche Carlo Lizzani, il grande regista. Quindi c’è questa continuità nel rapporto educativo di rispetto reciproco, di accoglienza e di amicizia. Tra anni fa un signore, un inglese, che è stato anche membro del parlamento inglese viene a Roma e viene insignito dal Presidente della Repubblica l’onorevole Napolitano di un gran merito. Era sui giornali. Stava con la foto del papà che era vestito come noi. La cosa incredibile fu questa: c’erano dei ragazzi nascosti come studenti, ma c’erano anche degli adulti. In questo caso un papà per nascondersi meglio, indossò addirittura la veste religiosa.  Questo Dennis Walters ricordava nel suo libro di ricordi: come i fratelli dell’epoca operavano per mascherarsi. Questo è uno dei motivi per il quale soltanto oggi queste cose vengono un po’ alla luce.

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Libro di Nello Scavo sui cristiani perseguitati del nostro tempo

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“Chi uccide i cristiani?”, “Perché il cristianesimo è oggi il culto più odiato del pianeta?” Sono alcune domande che si pone Nello Scavo nel suo nuovo libro “Perseguitati”, edito da Piemme. Il volume è un’indagine “sul campo” realizzata dal giornalista di Avvenire nei luoghi dove i cristiani sono vittime di persecuzioni e umiliazioni di ogni genere, dal Medio Oriente all’America Latina. Una realtà terribile, spesso ignorata dai grandi media, nonostante che il 75% delle violenze perpetrate contro una religione riguardi proprio i cristiani. Nell’intervista di Alessandro Gisotti, Nello Scavo si sofferma sui punti più significativi del suo libro: 

R. - L’idea del libro è nata dopo molti viaggi, reportage che avevo scritto per Avvenire, nel corso dei quali mi ero misurato tante volte con la sofferenza, anche l’eroismo, di tanti cristiani perseguitati. Così ho deciso poi di continuare in questo percorso andando nei luoghi, laddove fosse possibile, nei quali queste comunità vivono questo martirio quotidiano. Provo a fare qualche esempio: ci sono dei Paesi nei quali ai cristiani non è permesso studiare, altri nei quali, invece, le condizioni di lavoro sono estremamente infime. Poi ci sono realtà più recenti; penso soprattutto a quello che sta accadendo in Siria, laddove decine di migliaia di cristiani si trovano letteralmente a fare gli schiavi nei campi di lavoro in Turchia. Ho incontrato anche dei bambini piccolissimi, tra gli otto e i 12 anni, che lavorano da schiavi in alcune sartorie turche dove, ironia della sorte, producono, tra l’altro, le tute mimetiche che poi vengono vendute ai militari dell’Is, i responsabili della sparizione dei cristiani da quelle terre.

D. - Un’altra cosa che colpisce di questo libro, è che ha una visione il più globale possibile. Tu sottolinei come la situazione, per motivi diversi, sia grave anche in Asia, in Africa, in America Latina appunto, …

R. - Sì, anche in Europa! Bisogna dire una cosa: alcune volte i cristiani sono utilizzati come trofeo in una guerra tra gruppi islamici. Ci sono delle realtà nelle quali fazioni sciite e fazioni sunnite si contendono spazi di potere e la corsa a dimostrare di essere più forti viene svolta uccidendo cristiani; quindi "più cristiani uccido, più dimostro di essere forte". Questo solo per fare un esempio. Ma c’è anche il caso dell’Europa. Ho seguito il viaggio per centinaia di chilometri di alcuni gruppi di cristiani siriani che provavano, attraverso i Balcani, ad entrare in Europa per cercare di costruirsi una possibilità di vita, di sopravvivenza, rispetto alla strage continua che avviene in Siria. Questi cristiani venivano regolarmente respinti; penso a Paesi cristiani come l’Ungheria nel quale è stato eretto un muro. Questi ragazzi non riuscivano a spiegarsi come fosse possibile che dei Paesi cristiani respingessero degli altri cristiani provenienti da zone di guerra.

D. - Colpisce veramente leggere le persecuzioni, le violazioni, l’umiliazione più totale che viene perpetrate a nei confronti delle donne cristiane in tante parti del mondo …

R. - Quello che accade soprattutto in Medio Oriente è davvero impressionante. Le testimonianze raccolte tolgono davvero il respiro. Vi è, questo va detto, in una parte della cultura islamica di queste terre islamizzate, un totale disprezzo della figura femminile. Le donne cristiane, in questo senso, non hanno alcun diritto a vivere una vita normale. Ho trovato perfino i documenti di alcune corti islamiche che hanno regolamentato la schiavitù delle donne cristiane. Ma si è arrivati al punto di un mujaheddin che si "innamora" di una donna cristiana sposata. Questo uccide il marito con il pretesto di uno scontro in zona di guerra e subito dopo, acquisterà la donna quasi come fosse trofeo di guerra e naturalmente, dopo averla utilizzata, la metterà in vendita al mercato degli schiavi che si svolge ogni settimana.

D. - Che cosa vuoi dare a chi leggerà? Soprattutto a un Occidente un po’ assopito che è forse troppo lontano, un po’ indifferente al fatto che c’è gente che per andare la domenica a Messa rischia la vita …

R. - Spero anche di poter fornire delle storie di speranza, perché dentro a questi racconti a questi reportage ci sono anche le vicende di tanti cristiani che sono stati aiutati, per esempio, da molti musulmani a fuggire o a esser protetti in zone di guerra o di quei tanti cristiani che non hanno accettato la logica dello scontro e che per questo riescono comunque a testimoniare un’idea di cristianesimo radicalmente legata al Vangelo. Ovunque le comunità cristiane si tenta di spazzarle via, queste ricrescono e riscescono più forti di prima.

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Iraq: il ritorno delle prime famiglie cristiane a Mosul

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Nei quartieri orientali di Mosul, da poco sottratti dall'esercito iracheno alle milizie dell'auto-proclamato Stato islamico (Daesh) cominciano a fare ritorno le prime famiglie cristiane. Secondo quanto riportato dal sito ankawa.com - ripreso dall'agenzia Fides - sono almeno tre le famiglie armene che già hanno fatto ritorno alle proprie case, in aree urbane appena sottratte ai jihadisti e nonostante la situazione di generale insicurezza che continua a pesare su tutta la città. Nei giorni scorsi, le zone cittadine sottratte al controllo dei jihadisti erano state teatro anche di attentati suicidi, che avevano provocato almeno 9 morti tra i civili.

I cristiani erano fuggiti da Mosul nel giugno del 2014
I jihadisti di Daesh avevano conquistato Mosul il 9 giugno 2014. Nelle settimane successive, tutti i cristiani presenti in città avevano abbandonato le proprie case – molte delle quali subito espropriate dai jihadisti -, cercando rifugio come profughi dapprima nei villaggi della Piana di Ninive o a Kirkuk, e poi soprattutto a Erbil e nei villaggi del Kurdistan iracheno. 

I jihadisti di Daesh aveva espulso gli ultimi cristiani anziani nel 2015
Gli ultimi 10 cristiani anziani, rastrellati dai villaggi della Piana di Ninive e trasferiti a Mosul nella seconda metà del 2014, erano stati espulsi dai miliziani jihadisti il 7 gennaio 2015, dopo che avevano rifiutato di rinegare la propria fede. il gruppo di anziani – alcuni dei quali con gravi problemi di salute – era stato accolto a Kirkuk, dopo aver passato due giorni al freddo nella “terra di nessuno” tra i villaggi occupati dalle milizie del sedicente Stato Islamico e l'area sotto controllo dei Peshmerga curdi. (G.V.)

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Incontro vescovi di Usa e Messico sul fenomeno migratorio

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Saranno riuniti fino a domani a San Juan, negli Stati Uniti, i vescovi delle diocesi confinanti del Texas e del Messico per discutere della difficile situazione migratoria. Al primo appuntamento di questo incontro biennale, in territorio statunitense, prendono parte una ventina di presuli. «So che il Santo Padre — ha detto mons. Daniel Ernest Flores, vescovo di Brownsville — è molto preoccupato per i problemi esistenti da tempo lungo questo nostro confine». Per mons. Flores la situazione è abbastanza chiara e non esiste un’altra via che quella di mantenere alta l’attenzione e rinforzare sempre di più i rapporti tra i vescovi e le comunità delle Chiese da una parte e dall’altra del confine.

Attenzione ai problemi legati ad accoglienza e protezione dei migranti
Per gli organizzatori dell’incontro — riferisce il sismografo.blogspot.it citato dall’Osservatore Romano  — i vescovi dovranno continuare ad approfondire le questioni che ormai analizzano e discutono da diversi anni e soprattutto individuare i problemi nelle nuove condizioni esistenti da quando nella Casa Bianca si è insediato il presidente Trump; condizioni che riguardano direttamente la questione migratoria che ormai non può essere intesa come una semplice dinamica di flussi. Occorre, in sostanza, affrontare l’insieme dei problemi legati all’accoglienza e alla protezione dei migranti.

Centrale la figura del nunzio apostolico negli Usa, già nunzio in Messico
In questo senso, precisa la stampa locale, la figura del nunzio apostolico negli Stati Uniti, arcivescovo Christophe Pierre, è centrale poiché oltre alla sua attuale delicata missione, è stato per nove anni nunzio apostolico in Messico. Mons. Pierre, riferisce la stampa locale, è quello che meglio conosce la situazione. Dalla sua esperienza e dalle sue conoscenze, secondo il vescovo di Brownsville, i presuli statunitensi e messicani, potranno giovarsi grandemente per quanto riguarda la loro missione pastorale in circostanze così delicate, precarie e incerte come quella attuale.

Porre attenzione alla centralità della persona umana e della famiglia
Il vescovo di Brownsville ha precisato che la riunione dovrebbe soffermarsi in modo approfondito sulla politica, chiamata — ha osservato — a riflettere seriamente sulla persona umana e sulla sua dignità. È urgente che la politica e i politici, ha aggiunto, abbandonino la retorica che usano in tale questione. Questa retorica non solo è fuorviante, ma rende più difficile la risoluzione dei problemi. L’ottica deve cambiare radicalmente e deve essere l’unica giusta, legittima e necessaria: la centralità della persona umana e delle famiglie. Solo una visione di questo tipo — ha precisato mons. Flores — può far emergere nella loro urgenza e dimensione autentiche le sfide della giustizia e dell’equità.

Costante attenzione dei vescovi all’accoglienza e al servizio dei più vulnerabili
Pierre e il nunzio apostolico in Messico, arcivescovo Franco Coppola, insieme animeranno diversi momenti importanti dell’incontro come la celebrazione eucaristica che si terrà oggi presso la basilica Our Lady of San Juan del Valle National Shrine e la visita al Centro di accoglienza della chiesa del Sacro Cuore, a McAllen, in Texas, vicino alla frontiera tra Stati Uniti e Messico. Il mese scorso i vescovi statunitensi, in occasione della settimana nazionale per le migrazioni, hanno ribadito l’importanza «di accogliere lo straniero e di servire i più vulnerabili, come parte di una politica umanitaria d’immigrazione».

Per i vescovi la migrazione è “atto di speranza”
​In un documento i presuli hanno spiegato che «la migrazione è un atto di grande speranza. I nostri fratelli e sorelle che sono costretti a emigrare, soffrono separazioni familiari devastanti e spesso devono affrontare condizioni economiche disperate. Come cattolici negli Usa, la maggior parte di noi può trovare storie nelle nostre famiglie di genitori, nonni o bisnonni che hanno lasciato il loro antico paese per un futuro promettente negli Stati Uniti». (P.O.)

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 45

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.