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Sommario del 16/02/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: il Signore ci dia la grazia di dire "è finita la guerra nel mondo"

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La guerra comincia nel cuore dell’uomo, per questo tutti siamo responsabili della custodia della pace. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha messo l’accento sulla sofferenza di tanti popoli che sono travolti dalle guerre volute dai potenti e dai trafficanti d'armi. Quindi, ha raccontato come da bambino ha vissuto la notizia della fine della guerra. Il servizio di Alessandro Gisotti

La colomba, l’arcobaleno, l’alleanza. Papa Francesco si è soffermato su questi tre punti, tre immagini presenti nella Prima Lettura, tratta dal Libro della Genesi, dove si narra di Noè che libera la colomba dopo il diluvio. Questa colomba, che torna con il ramoscello d’olivo, è “il segno di quello che Dio voleva dopo il diluvio: pace, che tutti gli uomini fossero in pace”.  “La colomba e l’arcobaleno – ha rilevato il Papa – sono fragili”. “L’arcobaleno – ha soggiunto – è bello dopo la tempesta ma poi viene una nuvola, sparisce". Anche la colomba, ha ripreso, è fragile. Il Papa ricorda così quando due anni fa, all’Angelus della domenica, un gabbiano uccise le due colombe che aveva liberato assieme a due bambini dalla finestra del Palazzo Apostolico.

La gente muore per le guerre volute dai potenti e dai trafficanti d’armi
“L’alleanza che Dio fa è forte – ha commentato – ma come noi la riceviamo, come noi l’accettiamo è con debolezza, pure. Dio fa la pace con noi ma non è facile custodire la pace”. “È un lavoro di tutti i giorni – ha ripreso – perché dentro di noi ancora c’è quel seme, quel peccato originale, lo spirito del Caino che per invidia, gelosia, cupidigia e volere di dominazione, fa la guerra”. Francesco ha così osservato che, parlando dell’alleanza tra Dio e gli uomini, si fa riferimento al “sangue”: “Del sangue vostro – si legge nella Prima Lettura – io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello”. Noi, ha quindi osservato il Papa, “siamo custodi dei fratelli e quando c’è versamento di sangue c’è peccato e Dio ci domanderà conto”:

“Oggi nel mondo c’è versamento di sangue. Oggi il mondo è in guerra. Tanti fratelli e sorelle muoiono, anche innocenti, perché i grandi, i potenti, vogliono un pezzo più di terra, vogliono un po’ più di potere o vogliono fare un po’ più di guadagno col traffico delle armi. E la Parola del Signore è chiara: ‘Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello’. Anche a noi, sembra di essere in pace, qui, il Signore domanderà conto del sangue dei nostri fratelli e sorelle che soffrono la guerra”.

Custodire la pace, la dichiarazione di guerra comincia in ognuno di noi
“Come custodisco io la colomba?”, si chiede dunque Francesco, “Cosa faccio perché l’arcobaleno sia sempre una guida? Cosa faccio perché non sia versato più sangue nel mondo?”. Tutti noi, ha ribadito, “siamo coinvolti in questo”. La preghiera per la pace “non è una formalità, il lavoro per la pace non è una formalità”. Ed ha rilevato con amarezza che “la guerra incomincia nel cuore dell’uomo, incomincia a casa, nelle famiglie, fra amici e poi va oltre, a tutto il mondo”. Cosa faccio io, ha ripreso, “quando sento che viene nel mio cuore qualcosa” vuole “distruggere la pace?”:

“La guerra incomincia qui e finisce là. Le notizie le guardiamo sui giornali o sui telegiornali… Oggi tanta gente muore e quel seme di guerra che fa l’invidia, la gelosia, la cupidigia nel mio cuore, è lo stesso - cresciuto, fatto albero - della bomba che cade su un ospedale, su una scuola e uccide i bambini. E’ lo stesso. La dichiarazione di guerra incomincia qui, in ognuno di noi. Per questo la domanda ‘Come custodisco io la pace nel mio cuore, nel mio intimo, nella mia famiglia?’. Custodire la pace, non solo custodire: farla con le mani, artigianalmente, tutti i giorni. E così riusciremo a farla nel mondo intero”.

Il ricordo della fine della guerra nel ricordo da bambino
“Il sangue di Cristo – ha evidenziato – è quello che fa la pace ma non quel sangue che io faccio col mio fratello” o “che fanno i trafficanti delle armi o i potenti della terra nelle grandi guerre”. Francesco ha quindi confidato un aneddoto personale sulla pace, di quando era bambino:

“Ricordo, cominciò a suonare l’allarme dei Vigili del Fuoco, poi dei giornali e nella città… Questo si faceva per attirare l’attenzione su un fatto o una tragedia o un’altra cosa. E subito sentii la vicina di casa che chiamava la mia mamma: ‘Signora Regina, venga, venga, venga!’. E mia mamma è uscita un po’ spaventata: ‘Cosa è successo?’. E quella donna dall’altra parte del giardino le diceva: ‘E’ finita la guerra!’ e piangeva”.

Francesco ha ricordato l’abbraccio delle due donne, il pianto e la gioia perché la guerra era finita. “Che il Signore – ha concluso – ci dia la grazia di poter dire: ‘E’ finita la guerra’ e piangendo. ‘E’ finita la guerra nel mio cuore, è finita la guerra nella mia famiglia, è finita la guerra nel mio quartiere, è finita la guerra nel posto di lavoro, è finita la guerra nel mondo’. Così ci sarà più forte la colomba, l’arcobaleno e l’alleanza”.

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Francesco agli atleti di Special Olympics: l’inclusione è ricchezza

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Ogni persona è un dono e l’inclusione arricchisce la società: questa è la testimonianza che offrono al mondo gli atleti di Special Olympics, l’associazione diffusa in 170 Paesi del mondo, che organizza allenamenti ed eventi sportivi per ragazzi e adulti con disabilità intellettiva. A sottolinearlo è Papa Francesco che stamani, in Vaticano, ha rivolto un saluto ad una delegazione di Special Olympics, che parteciperà ai Giochi Invernali in Austria, il prossimo mese di marzo. Il servizio di Debora Donnini

Non è la prima volta che Francesco abbraccia i ragazzi di Special Olympics, ma la gioia è sempre la stessa: quella dell’incontro con chi, come atleti e assistenti, con la sua stessa vita racconta che “non ci sono ostacoli né barriere che non possono essere superati”:

“Siete un segno di speranza per quanti si impegnano per una società più inclusiva. Ogni vita è preziosa, ogni persona è un dono e l’inclusione arricchisce ogni comunità e società. Questo è il vostro messaggio per il mondo, per un mondo senza confini e senza esclusioni!”.

Sono oltre 4 milioni i ragazzi e gli adulti atleti con disabilità intellettiva e più di 1 milione i volontari che partecipano alle iniziative messe in campo dall’organizzazione, fondata da Eunice Mary Kennedy Shriver e oggi presieduta dal figlio Timothy Shriver. La gioia dello sport, la gioia per la vita, la gioia per i doni di Dio sono il filo conduttore del discorso che il Papa rivolge ai giovani atleti:

“Vedendo un bel sorriso sui vostri volti e la grande felicità nei vostri occhi quando siete riusciti bene in una competizione – e la vittoria più bella è proprio quella di superare sé stessi –, ci rendiamo conto di cosa vuol dire una gioia sincera e ben meritata! E possiamo imparare da voi a gioire per le cose piccole e semplici, e a gioire insieme”.

Francesco si sofferma sull’importanza dello sport, sulla preparazione costante che richiede sacrifici, fa sviluppare capacità che altrimenti rimarrebbero nascoste e fa crescere nella perseveranza secondo il giuramento stesso di Special Olympics: “che io possa vincere, ma, se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze”.

Gli atleti che parteciperanno ai Giochi Invernali di Special Olympics saranno quindi, “il battito del cuore per il mondo”, come dice il motto stesso di questa edizione.

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Il Papa in visita a Roma Tre. Gli studenti: lo sentiamo vicino

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Domani mattina Papa Francesco si recherà all’Università di Roma Tre. Si tratta della sua prima visita in una università statale italiana. Roma Tre è frequentata da circa 40mila studenti: era stata già visitata da Giovanni Paolo II nel 2002. Il servizio di Antonella Palermo

C’è grande attesa per la visita di Papa Francesco a Roma Tre, un ateneo noto per la sua attenzione ai problemi sociali. Il Pontefice arriverà verso le 10.00: dialogherà con gli studenti che sono molto contenti di incontrarlo:

R. - Sicuramente è un’esperienza positiva per noi studenti. Il Papa lo sentiamo molto vicino e ci fa piacere sentire cosa ha da dirci.

D. - Cosa ti aspetti?

R.  – Che affronti le problematiche che sono a noi più vicine: il tema del lavoro, la speranza nel futuro, la fiducia di potersi costruire una famiglia, che è un tema che oggi è fortemente in crisi.

D. - E’ importante che venga in un’università? E’ la prima volta in Italia per Papa Francesco…

R.  – Sì è molto importante e secondo me è importante che parli dei valori fondamentali che si stanno un po’ perdendo in questa epoca di internet, proprio a livello di relazioni tra le persone.

Ma perché i giovani sentono così vicino Papa Francesco? Ascoltiamo il rettore di Roma Tre, Mario Panizza:

R. – Penso che questo suo impegno, soprattutto verso i soggetti deboli sia una traccia importante per i ragazzi che sicuramente seguono questa indicazione, ma credo, anche per noi educatori. Individuare la parte bassa del mondo e quindi capire che anche queste difficoltà economiche che ci sono tra il Nord e il Sud del Pianeta vanno comprese e noi siamo nel cuore di un bacino – quello del Mediterraneo – dove i problemi della pace sono molto sentiti e molto forti. Noi abbiamo avviato un seminario residenziale di ragazzi universitari che vengono dai Paesi del Mediterraneo, che nel mese di settembre sono qui da noi. Provengono da vari Paesi culture e religioni diverse del Mediterraneo. Sono azioni che probabilmente sono gocce in un mare, però significa anche far dialogare dei ragazzi, sperimentare anche noi se quello che insegniamo, che è il patrimonio culturale, la storia dei Paesi, può servire a far dialogare chi, invece, si trova in una situazione di conflitto, se non permanente, però costante.

D. – Ecco … perché la conoscenza, il sapere non dovrebbero incontrare muri …

R. - Purtroppo dei muri devono essere abbattuti, perché c’è qualcuno che li costruisce. Credo che il mestiere di un professore sia quello di fare il professore, quindi di insegnare la storia del luogo, la pace, la tranquillità, l’armonia tra le culture, il rispetto tra le culture, l’integrazione e l’inclusione. Credo che questo sia quello che un professore deve saper fare.

D. - Dialogo credenti-non credenti. Un ambito su cui Papa Francesco sta la vorando molto …

R. - Credo che questo può mettere d’accordo tutti, perché ci sono dei valori di rispetto del prossimo che sono indipendenti dall’essere credenti o non credenti. È il valore della cultura del rispetto del prossimo.

Potrà parlare al Papa una giovane studentessa siriana, Nour, fuggita col marito dal Paese in guerra. Francesco l’ha incontrata nel campo profughi di Lesbo e l’ha voluta sull’aereo per portarla a Roma insieme al marito e al figlio. Ecco la sua testimonianza:

R. – Noi siamo scappati dalla guerra perché mio marito era stato chiamato per il servizio militare. Noi non volevamo uccidere i nostri fratelli… E’ stato un viaggio molto, molto lungo, siamo passati per tanti trafficanti, del regime siriano, dell’Is… Abbiamo pagato circa 3000 euro per arrivare in Turchia. La vita in Turchia era molto difficile… Siamo arrivati a Lesbo e poi c’è stata la visita di Papa Francesco...  e siamo stati chiamati ad andare a Roma in aereo col Papa.

D. - Come è stato quel viaggio? Come lo ricordi?

R.  - Come un viaggio meraviglioso! Mi sono sorpresa perché lui è molto semplice… Io sono musulmana e lui non aveva pregiudizi, era aperto.

D. - Questa cosa ti piace?

R. – Sì, perché lui è un vero esempio per tutti i religiosi.

D. – Incontrarlo ancora all’università, che significato ha per te?

D. – Significa molto per me e nella mia testimonianza vorrei parlare dell’integrazione.

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Altre udienze e nomine

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Per le altre udienze e nomine del Papa, consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Santa Sede: azione corale per tutelare oceani e risorse marine

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Politiche internazionali, regionali e locali: sono i tre livelli di azione che la Santa Sede invoca per la tutela della biodiversità dei mari e degli oceani e per il contrasto di tutte quelle pratiche che, abusandone, danneggiano tale ricchezza. A farsi portavoce della preoccupazione su questo tema è stato mons. Bernardito Auza, intervenuto a New York in seno alla Commissione preparatoria della Conferenza Onu che si occupa del 14.mo Obiettivo dello Sviluppo sostenibile, quello relativo in modo specifico alla conservazione e all’uso sostenibile degli oceani, dei mari e delle risorse marine.

Il rispetto della creazione
Alla platea dei partecipanti, l’Osservatore vaticano ha ricordato l’attenzione sul tema mostrata dal Papa all’interno della “Laudato si’”, nel passaggio in cui soffermava a considerare, tra i vari aspetti “dell’attuale crisi ecologica”, quelli dell’“inquinamento marino, l'acidificazione degli oceani, la diminuzione degli stock ittici, la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi marini e costieri”. Gli stessi temi, ha notato mons. Auza, che costituiscono l’ossatura di quei “dialoghi di partenariato” avviati dalle Nazioni Unite sulla questione. Dialoghi basati su alcuni principi: il “rispetto per la creazione, il bene comune, la dignità di ogni essere umano e la giustizia dovuta a tutti”.

La crisi ecologica è anche morale
Nel rammentare la convinzione di Francesco secondo la quale “è impossibile affrontare in modo adeguato l'impatto negativo del comportamento umano sull’ambiente senza considerare le cause e gli effetti di questo comportamento”, mons. Auza ha rilanciato l’idea del Papa di un dialogo mirato a un approccio e un'azione condivisi all’interno della comunità internazionale. Una modalità di azione che coinvolga nel processo decisionale a vari livelli tanto il mondo della politica e dell'economia, quanto quello del diritto e della scienza, della filosofia e della cultura, fino a interessare gli “istituti di carattere etico e religioso, perché la lotta contro i problemi ecologici – ha affermato – ha dimensioni morali e spirituali”.

Unica strada, un’azione corale
Questo approccio collettivo, ha insistito mons. Auza, dovrà affiancare “tutti i settori che cercano la riduzione dell'inquinamento e dell’acidità degli oceani” e, insieme, “la pesca sostenibile, la promozione del sostentamento dei pescatori su piccola scala, il riconoscimento delle peculiari circostanze delle fasce povere – in particolare di coloro che vivono in Paesi meno sviluppati e nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo – e l'attuazione di leggi internazionali, regionali e locali e le politiche volte al conseguimento di tali obiettivi. Nessun partner valido – ha concluso – dovrebbe essere escluso da questo dialogo”. (A cura di Alessandro De Carolis)

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Mons. Urbańczyk: cappellani militari, sentinelle di pace e perdono

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La Chiesa cattolica ha sempre cercato di provvedere alla cura spirituale dei militari. La guerra lascia segni permanenti negli uomini, deforma non solo i legami tra fratelli e tra nazioni, ma sfigura anche i soldati che sono testimoni delle atrocità causate dai conflitti. E’ quanto ha sottolineato ieri a Vienna mons. Janusz S. Urbańczyk, rappresentante permanente della Santa Sede presso l'Osce, intervenendo all’incontro incentrato sul tema: “Il ruolo dei cappellani militari nelle forze armate e la libertà di religione in tempi di pace e di guerra”.

I cappellani accompagnano i soldati in ogni scenario
La Chiesa - ha spiegato il presule - invia i cappellani per accompagnare il personale militare in ogni situazione e scenario. I cappellani sostengono i soldati – ha aggiunto mons. Urbańczyk – nelle loro attività quotidiane e sono pronti, in ogni momento, a rispondere alle loro esigenze spirituali. Li aiutano anche nella comprensione di valori prioritari, quali la centralità della persona umana e il bene comune del Paese nel quale i contingenti sono dislocati.

I militari abbiano il ruolo di sentinella
In questo modo - ha osservato il presule - i militari, sostenuti dai cappellani, possono avere – come aveva affermato Papa Giovanni Paolo II – il “ruolo di sentinella che scruta l’orizzonte per scongiurare il pericolo e promuovere dappertutto la giustizia e la pace”. Gesù Cristo – aveva detto il Pontefice, nel 2000, in occasione del Giubileo dei militari e delle forze di polizia – rende capaci “di quella fortezza evangelica che fa vincere le fascinose tentazioni della violenza”, aiuta a “porre la forza a servizio dei grandi valori della vita, della giustizia, del perdono e della libertà”.

I cappellani fedeli evangelizzatori della verità della pace
Espressione concreta di questa cura pastorale per i soldati è l’Ordinariato militare, una circoscrizione ecclesiastica con una giurisdizione equivalente a quella delle diocesi. Attualmente – ha ricordato mons. Urbańczyk - sono 36 gli Ordinariati militari nel mondo. Gli oltre 2500 cappellani sono – come ha scritto Papa Benedetto XVI nel Messaggio del 2006 per la 39.ma Giornata mondiale della pace - “fedeli evangelizzatori della verità della pace”.

I soldati chiamati a diventare esempi di speranza cristiana
Inoltre, la Chiesa cattolica in tutti i Paesi – ha sottolineato il presule - è pronta a fornire, attraverso le diocesi e le parrocchie, la cura sacramentale e pastorale ai militari, aiutandoli a diventare – come ha affermato papa Francesco il 30 aprile del 2016 in occasione del Giubileo delle Forze Armate e di Polizia - “esempi di speranza cristiana, che è certezza della vittoria dell’amore sull’odio e della pace sulla guerra”.

La libertà di religione è un diritto umano fondamentale
La libertà di religione – ha ribadito infine mons. Urbańczyk - è uno dei diritti umani fondamentali. Non solo è riconosciuto come tale dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ma è anche inserito tra i dieci principi fondamentali del Decalogo di Helsinki ed è salvaguardato dall’ Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Si tratta – ha concluso – di un diritto umano fondamentale di cui deve beneficiare “ogni persona, in ogni tempo e in ogni situazione”. Tale diritto deve essere garantito anche a tutti coloro che sono impegnati nelle Forze armate, sia in tempi di pace, sia in tempi di guerra. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Oggi in Primo Piano



Trump: Israele e Palestina, soluzione dei due Stati non è unica via

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Ha suscitato un vivace dibattito nella comunità internazionale il primo incontro, ieri, alla Casa Bianca tra il premier israeliano Netanyahu e il presidente Donald Trump. Sul tavolo il processo di pace in Medio Oriente e la soluzione dei due Stati congelata dagli Usa. Accordo tra i due sulla pericolosità del nucleare iraniano, che minaccerebbe Israele. Massimiliano Menichetti he ha parlato con Dario Fabbri esperto della rivista di geopolitica Limes: 

R. – Ciò che è cambiato con Trump è la narrazione: non siamo abituati, almeno da qualche decennio, ad ascoltare un presidente degli Stati Uniti che di fatto considera irrilevante la possibilità che dal conflitto israelo-palestinese emerga un solo Stato o due Stati. E’ evidente che è una differenza enorme, cruciale; però dobbiamo essere molto chiari su questo. Sebbene negli anni passati l’approccio, almeno dialettico, degli Stati Uniti fosse diverso, l’atteggiamento concreto, poi, dell’America nei confronti di Israele non è mai stato esattamente favorevole alla creazione di due Stati.

D. – Qual era il sottotraccia, allora?

R. – Gli Stati Uniti – nonostante gli sforzi, alcuni anche genuini, realizzati – hanno sempre avuto la consapevolezza che comunque per Israele fosse necessario, e anche legittimo, avere Stati-cuscinetto, territori-cuscinetto – da Gaza al Golan e alla Cisgiordania – per garantire la propria sicurezza, pur cercando in un futuro – a quanto sembra però ormai sempre più lontano – anche di immaginare uno spazio vitale per i palestinesi. Ecco, nella sostanza questo non è cambiato; è cambiato l’approccio narrativo dell’amministrazione attuale.

D. – Sulla questione degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, Trump ha chiesto che si rallenti, però si è dissociato dalla condanna espressa a dicembre dall’Onu quando per la prima volta, lo ricordiamo, gli Stati Uniti di Obama non esercitarono il diritto di veto in favore di Israele …

R. – Chiedere, da parte di Trump, un rallentamento, è semplicemente una misura cosmetica; la stessa scelta di Obama dell’ultima coda del suo secondo mandato alle Nazioni Unite, di condanna nei confronti degli insediamenti israeliani, anche lì è sostanzialmente una parte dialettica: la sostanza, come detto, è sempre stata molto coerente, da parte americana. Si tratta di pressioni – diciamo così – a voce, ma nei fatti gli Stati Uniti non hanno mai realmente impedito che gli insediamenti israeliani continuassero.

D. – Accordo tra Israele e Stati Uniti, invece, sul nucleare iraniano, che viene visto come una minaccia nei confronti di Israele …

R. – Qui c’è un cambiamento, nel senso che le posizioni sono diverse, tra Netanyahu e Trump, sebbene ieri apparissero identiche; ma c’è un cambiamento tra Trump, tra questa amministrazione e quella precedente. Cioè, l’amministrazione Trump non considera l’attuale accordo sul nucleare – che ovviamente non è soltanto sul nucleare, ovviamente – ma comunque l’accordo che ha reinserito nel gioco mediorientale l’Iran, non lo considera troppo funzionale agli interessi degli Stati Uniti; lo considera abbastanza funzionale, ma non troppo, come invece ovviamente lo pensava Obama che ne è stato l’alfiere durante la sua amministrazione. Ciò che Trump vuole che sia ri-negoziato, in questo accordo dell’Iran – da qui, anche la pressione esercitata sull’Iran attraverso il muslim band – l’Iran è uno dei sette Paesi i cui cittadini erano stati bloccati dall’entrata negli Stati Uniti – perché, pensa Trump, l’Iran deve essere maggiormente frenato nelle sue ambizioni a livello regionale, specialmente perché Trump è convinto – come lo era nell’ultima parte della sua amministrazione – che Assad in Siria sia il male minore e che quindi debba rimanere al suo posto. Assad, ovviamente, è un cliente dell’Iran quindi ne aumenta l’influenza nella regione. Per diminuirla, si pensa di ri-negoziare l’accordo sul nucleare.

D. – Diversa la posizione di Israele …

R. – La posizione di Israele, che invece è diversa: per Israele l’Iran, soprattutto per la politica israeliana – quindi per Netanyahu – l’Iran è il nemico assoluto, semplicemente perché è il Paese che a suo parere può eliminare l’egemonia israeliana sul Medio Oriente, e dev’essere frenato in ogni modo. In realtà, questa posizione non è accolta, neanche dall’amministrazione Trump che semplicemente vuol diminuire l’influenza di Israele ma non arrivare a uno scontro diretto, frontale.

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Aleppo, drammatico appello da un ospedale: manca tutto

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Terrore, distruzione e desolazione non hanno ucciso la speranza di poter ricominciare. "La Speranza" è il nome di un ospedale rimasto in piedi tra le rovine della città di Aleppo, diretto dal prof. Emile Katti.

Aleppo come Hiroshima: popolazione allo stremo
In un accorato appello diffuso dal sito internet della Fondazione Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia (Acs), il medico descrive lo stato di emergenza in cui vive la popolazione: lo fa in modo efficace ricorrendo ad un’immagine impressa nella memoria e nell’immaginario collettivo, quella di Hiroshima rasa al suolo da un attacco nucleare al termine della Seconda Guerra mondiale. “Ad Aleppo - spiega - la situazione, anche senza bomba atomica, è uguale”: sei anni di guerra hanno ridotto gli abitanti allo stremo: senza beni di prima necessità, cibo, medicine, case, lavoro.

Ancora incombente la minaccia jihadista
“Da quando la città è stata liberata - racconta Katti - il numero dei feriti si è ridotto, ma non c’è ancora sicurezza”. La minaccia dei jihadisti di Al Nusra infatti incombe ancora: “si trovano a meno di 3 km da noi, a sud-ovest, e lanciano razzi in un quartiere che dista 1 km da qui. Qualche giorno fa ci sono stati almeno 3 morti e 40 feriti”.  

L’embargo impedisce i soccorsi medici
Il medico si rivolge direttamente ai responsabili politici della comunità internazionale e chiede loro di rimuovere l’embargo. “Se i macchinari sanitari si guastano non possiamo ripararli perché gli ingegneri biomedici hanno abbandonato Aleppo e non vogliono tornare a causa dei rischi. Non possiamo neanche comprarne di nuovi per la mancanza di fondi, aggravata dalla svalutazione della lira siriana”. Inoltre sebbene siano disponibili i medicinali per la patologie comuni, mancano quelli per curare le malattie croniche gravi. Il nostro lavoro – racconta il direttore dell’ospedale -  è salvare le vite, e non possiamo farlo se a causa dell'embargo non ci vengono garantiti gli strumenti necessari”.

Manca tutto: acqua, elettricità, riscaldamento
Sono poi i bisogni più elementari, quelli di cui necessitano gli aleppini. In primis l’acqua, il cui flusso dalla città di Raqqa è stato bloccato da ormai due mesi dal sedicente Stato Islamico lasciando privi di questo bene vitale circa 3 milioni di persone.  “In città – racconta Katti - ci sono 130 pozzi statali ma non sono sufficienti. Assente anche l’elettricità: per supplire a questa mancanza da ormai 4 anni si ricorre ai generatori elettrici che tuttavia, essendo predisposti per un uso esclusivamente emergenziale, spesso si guastano o esplodono a causa di un utilizzo quotidiano. Infine il rettore dell’ospedale "La Speranza" menziona la grave carenza di carburanti e gasolio per riscaldamento in una stagione, l’inverno, in cui le temperature sono scese di sei gradi sotto lo zero.

Decine di migliaia i cristiani fuggiti
Solo pochi giorni fa sempre attraverso Aiuto alla Chiesa che Soffre Italia, dalle macerie di Aleppo si era levata la richiesta di soccorsi di suor Guadalupe de Rodrigo, missionaria argentina dell’Istituto del Verbo Incarnato. Chiedendo di non dimenticare la particolare situazione di indigenza di circa duemila famiglie cristiane, la religiosa ha chiesto preghiere e aiuto concreto perché molte persone fuggite negli ultimi anni a causa del Vangelo, tornino nella loro terra. Nella martoriata città siriana “nel luglio 2012 – ha raccontato suor Guadalupe - i cristiani erano circa 120.000, oggi se ne contano solo 35.000”. I jihadisti infatti hanno preso di mira in particolare i quartieri cristiani Azizie e Sulaymaniyeh.

Il progetto di Acs per i cristiani di Aleppo
Ad Aleppo la Fondazione Acs ha dedicato dal 2011 un fondo attraverso il quale, finora, sono stati realizzati progetti per un valore di quasi due milioni e mezzo di euro. Chiunque può effettuare una donazione consultando il sito http://acs-italia.org/ (A cura di Paolo Ondarza)

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Accordo Ue-Canada. Becchetti: impatto minimo sulla crescita

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Aspre polemiche e proteste dentro e fuori il Parlamento di Strasburgo hanno accompagnato l’approvazione, ieri, dell’Accordo commerciale tra Unione Europea e Canada, noto con la sigla "Ceta", che ha raccolto 408 sì, 254 no e 33 astensioni.  Un accordo – sulla carta – volto a rilanciare con nuove regole la globalizzazione, a dispetto dell’ondata protezionistica che ha investito l’America di Trump. Roberta Gisotti ha intervistato l’economista Leonardo Becchetti

Un accordo che i promotori salutano come storico e pietra miliare di un nuovo volto della globalizzazione mentre i detrattori, trasversali alle forze politiche, accusano l’Europa di aver ceduto ai dicktat delle multinazionali. Prof. Becchetti come giudicare il "Ceta"?

R. – Direi che ci sono sicuramente luci ed ombre. Intanto, alcune cose sono migliorate proprio grazie alla protesta di quelli che erano contrari. Anzitutto, è ben noto che questi accordi producono effetti assolutamente minimi e trascurabili nei confronti della crescita, se questo fosse l’obiettivo. Pongono poi una serie di problemi nei confronti dell’ambiente, della salute, del lavoro e il rischio di una perdita di capacità di scelta su tutti questi temi. L’altra questione molto controversa, è quella dei tribunali, degli arbitrati, cioè cosa succede quando c’è una controversia tra Stati e imprese e qui, che c’è uno sbilanciamento molto forte verso il potere contrattuale delle imprese. Anche questa non è sicuramente una cosa positiva. Insomma, c’è grande timore che questo tipo di accordi, non avendo di fatto poi nessun impatto particolarmente positivo sulla crescita, comportino in realtà dei sacrifici rispetto a tutta una serie di altri elementi che sono fondamentali per il bene comune. In generale credo che sia comunque la testimonianza del fatto che l’Europa in questo momento non riesca a prendere quelle decisioni chiave che sarebbero necessarie in direzione del bene comune. Prima di tutto, una maggiore democrazia nelle scelte per arrivare all’elezione del proprio parlamento e poi un passo decisivo verso la condivisione delle risorse, investimenti e debiti che sarebbe fondamentale in questo momento per fugare l’euroscetticismo.

D. - Quindi sarà molto importante il dibattito pubblico nei prossimi mesi perché l’accordo entrerà solo provvisoriamente in vigore ad aprile, ma poi dovrà passare il vaglio della ratifica dei vari Stati. Quindi la partita è ancora da giocare …

R. - Assolutamente, perché ci vuole l’approvazione dei parlamenti di tutti i Paesi e comunque sarà, anche questa, un’occasione per una dialettica, per un dibattito che speriamo sia fruttuoso. L’Europa deve ancora fare molto, a mio avviso, per essere organizzata in maniera tale da essere veramente indirizzata verso il bene comune e per fugare quelli che sono i timori, gli scetticismi, certe volte esagerati ma comunque "figli" di problemi oggettivi che esistono in questo momento.

D. - Tante proteste e manifestazioni sono anche il segnale che i popoli, le persone, la  gente vuole interessarsi dell’economia, che non è più una materia da tenere riservata agli esperti …

R. - Assolutamente. L’Europa tra l’altro ha un potenziale enorme di risorse, di democrazie che possono esser utilizzate per creare reti di occupazione benessere dei cittadini. Quello che fa rabbia è che in questo momento queste risorse, queste potenzialità non sono sfruttate al meglio e quindi tutto il tema degli accordi commerciali e delle politiche monetarie e fiscali ovviamente rientra in tutto questo. I cittadini vogliono sempre più informarsi e partecipare e questo è sicuramente un fatto positivo.

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Fine vita: le testimonianze di chi è uscito dal coma

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Persone uscite dal coma o da uno stato "vegetativo" hanno raccontato oggi le loro storie presso la Sala stampa della Camera dei deputati, per offrire uno spunto di riflessione al dibattito sul disegno di legge sul fine vita in discussione in questi giorni alla Commissione affari sociali. L’iniziativa è stata promossa da Pro Vita Onlus, che ha inoltre lanciato una petizione per modificare le parti più controverse del ddl, relative alle Disposizioni di trattamento anticipato, che prevedono la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione e pongono il medico in una posizione di mero esecutore di una volontà eutanasica. Era presente per noi Marco Guerra

“L'iniziativa di oggi è portare i testimoni che scardineranno tutti i presupposti che sono dietro alla cosiddetta vita non degna di essere vissuta. Dietro l’eutanasia ci sono profitti, c’è tanto egoismo e c’è una mentalità eugenetica per cui il più debole, il malato, l’orfano, il vecchio, poiché non producono, devono essere eliminati”.

Con questa premessa Tony Brandi, presidente di ProVita Onlus, ha introdotto le testimonianze di coloro che hanno vissuto quelle situazioni - lo stato vegetativo, il coma, la malattia grave - che sono invocate nel dibattito sull'eutanasia e sulle Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento). In Parlamento, accusano le associazioni pro life, il disegno di legge sta passando senza un adeguato confronto sulla prevista possibilità di sospendere idratazione e alimentazione. Su questo punto è intervenuto Francesco Napolitano, presidente della ‘Casa risvegli’ di Roma per pazienti in stato vegetativo:

“Queste dichiarazioni o enunciazioni anticipate di trattamento certamente possono non essere assolutamente più attuali nel momento in cui dovrebbero essere messe in pratica, perché nel momento in cui io le enuncio non posso sapere a quale tipo di patologia vado incontro. E’ una legge rischiosa perché crea una conflittualità possibile enorme tra parenti che si trovano a dover decidere per conto di chi non può farlo con la propria voce, deresponsabilizza i medici e soprattutto crea una possibile mancanza di fiducia tra medici e familiari”.

Un concetto ribadito anche da Sylvie Menard, ricercatrice oncologica ed ex allieva del prof. Veronesi, che ha cambiato idea sul fine vita dopo aver combattuto con un cancro:

“Io, come tutti, giovane … il professor Veronesi diceva: eutanasia, e anch’io dicevo: “Non sopporterei mai di essere disabile”, no?, perché è una posizione che capisco perfettamente: il sano che ancora oggi ha queste posizioni. Però, guardate che quando si diventa malato, innanzitutto in nessuna situazione io mi sono sentita indegna; eppure, ho vissuto anche situazioni pesanti. Uno si accorge che in caso di necessità, la vita ha il sopravvento su tutto, si è in grado di sopportare enormemente di più di quello che si pensava da sano. Per cui scrivere da sano “io, così, no”, non ha senso: bisogna viverle, certe situazioni”.

Infine è stato dato spazio alle storie di persone uscite dal coma. Sentiamo Sara Virgilio, coinvolta in un incidente all’età di 20 anni:

“Per quanto riguarda la mia esperienza di coma posso dire che io non ero morta, ero viva, perché percepivo tutto ciò che mi accadeva intorno, sentivo anche quello che i medici dicevano … l’unico problema era che non potevo comunicarlo. E il mio timore, la mia paura era che avrebbero potuto staccarmi le macchine, perché io ero alimentata meccanicamente, avevo il sondino naso-gastrico, ed ero idratata. Ma per me, la mia condizione non era un problema; l’unico problema era riuscire a dire agli altri: non ammazzatemi perché io sono viva”.

Questa sera è in programma l’apertura di una sessione in notturna della Commissione Affari sociali della Camera dove è in discussione il testo sulle Dat. Si prevede di portarlo in aula il 27 e febbraio. Un gruppo trasversale di parlamentari punta a far approvare una serie di emendamenti tesi a definire in che momento diventano operative le disposizioni di trattamento e a garantire al personale sanitario la discrezionalità di intervenire per salvare una vita in situazioni di emergenza.

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Siria: Policlinico Gemelli e Avsi a sostegno degli ospedali

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“In Siria stanno morendo più persone per l’impossibilità di curarsi, che sul campo di battaglia”. Per dare seguito alla constatazione del cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco, è nato il progetto “Ospedali aperti” in Siria, ideato dall’ong Avsi e sostenuto dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli. Alla presentazione dell’iniziativa, stamani a Roma, c’era per noi Giada Aquilino

Dopo sei anni di guerra in Siria, undici milioni e mezzo di persone non hanno accesso alle cure sanitarie: per il 40% si tratta di bambini. E non solo: il 58% degli ospedali locali è chiuso o danneggiato, il personale medico si è drasticamente e tragicamente ridotto, mancano medicine, apparecchiature mediche, fondi. Per dare sostegno a tre ospedali cattolici del Paese, il Saint Louis di Aleppo e i nosocomi italiano e francese di Damasco, è nato il progetto “Ospedali aperti” in Siria. Ce ne parla il prof. Rocco Bellantone, preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica:

“L’iniziativa parte dal drammatico concetto che oggi in Siria muoiono più persone per carenza di cure di quelle che invece muoiono sui campi di battaglia. Questo è inaccettabile. Potremmo fare qualcosa per evitare questo tipo di morti, ma non lo facciamo. Il Gemelli interverrà con un grosso sostegno economico perché questi ospedali hanno ovviamente problematiche di approvvigionamento dei farmaci, ma anche di ricostruzione, di acquisto delle apparecchiature. Interverrà, inoltre, con la formazione, perché lì purtroppo gran parte del personale è deceduto o è fuggito. Il problema della medicina delle donne è tra i più sentiti: riguarda la cura dei tumori alla mammella, dei tumori ginecologici, ma anche delle infezioni ovariche. Si tratta di questioni che rendono ancora più pesante la situazione delle donne. Il Gemelli risponderà con due stanziamenti iniziali da 500 mila euro ciascuno. E non ci tireremo indietro”.

Il progetto è condotto dalla Fondazione Avsi, ong che da 45 anni realizza programmi di sviluppo in 30 Paesi. Il segretario generale, Giampaolo Silvestri:

“Lo scopo è fornire cure sanitarie adeguate alle fasce povere della popolazione, quindi donne, bambini, persone colpite dalla guerra, anziani a Damasco e ad Aleppo. Forniremo un supporto ai tre ospedali cattolici – due a Damasco e uno ad Aleppo – gestisti da congregazioni cattoliche – ospedali no profit – che quindi verranno rimborsati per le cure sanitarie gratuite che forniranno. Allo stesso tempo, saranno forniti di nuove attrezzature sanitarie e adeguamento tecnologico: il Paese vive da sei anni sotto embargo e sanzioni, quindi è isolato. A ciò si affianca la parte formativa e di aggiornamento del personale sanitario. Avsi, che è presente in Siria da due anni, si farà carico della parte di raccolta fondi e poi di gestione e monitoraggio del progetto”.

I tre ospedali cattolici sono funzionanti da oltre 100 anni, ha sottolineato il cardinale Mario Zenari, in collegamento audio-video da Damasco:

“Il termine ’cattolico’ non vuol dire selettivo o restrittivo, tutt’altro. Vuol dire universale, aperto: quindi un ospedale cattolico, per sua essenza, è aperto - deve esserlo - ad ogni bisognoso. Oggi vediamo una Siria distrutta; tantissime case, palazzi, villaggi, ospedali e infrastrutture distrutti. Però non dimentichiamo che molta gente è - passatemi l’espressione - ‘rotta’ nel corpo, perché malata, ma è anche ‘rotta’ nello spirito. Allora c’è urgenza di ricostruire e, prima di tutto, non dimentichiamo di ricostruire la persona umana”.

Su tutto, a prevalere è l’auspicio di Papa Francesco, come spiega mons. Giampietro Dal Toso, segretario delegato del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, che collabora al progetto:

“C’è un interesse del Papa e della Santa Sede in generale per tutto quello che sta succedendo in Siria: l’interesse prioritario è che presto ci sia una fine del conflitto. Adesso quello che possiamo fare è venire incontro - per quanto è nelle nostre possibilità - alle necessità della popolazione siriana. Una di queste è quella della sanità, che insieme all’educazione, probabilmente, è l’urgenza prioritaria della gente”.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 47

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