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Sommario del 03/01/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Pedofilia. Don di Noto: " Gli Erode di cui parla il Papa non vinceranno"

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“La situazione resta drammatica nonostante tutti gli sforzi: occorre fare di più”. Così don Fortunato di Noto presidente dell’associazione Meter impegnata contro la pedopornografia dopo la Lettera scritta dal Papa ai vescovi nella Festa dei Santi Innocenti e resa nota ieri. Francesco invoca la difesa dei bambini del mondo dai “nuovi Erode” e chiede perdono per i sacerdoti che hanno violato l’infanzia. Ma sentiamo il commento di don Fortunato di Noto al microfono di Stefano Leszczynski:   

R. – Noi siamo convinti – e non sono fermamente convinto anche io – che Erode non vincerà! Saranno gli stessi bambini che lo schiacceranno, col loro grido, col loro dolore, con la loro innocenza. Dietro a un bambino corrotto, c’è sempre un grande corruttore: la loro carne diventa quasi più preziosa dell'oro e dell'argento, più preziosa della droga.. tenete conto che questo sfruttamento è al secondo posto dopo il commercio delle armi. E’ veramente un business che grida non soltanto vendetta, ma grida anche giustizia.

D. – Come mai la società del benessere non riesce a reagire?

R. – Perché non vede e spesso si limita soltanto al numero: non possiamo accontentarci soltanto di statistiche e numeri! Noi dobbiamo necessariamente – e la Chiesa questo lo fa! – mettere le mani nel dolore innocente e per dare loro una speranza e un futuro.

D. – Papa Francesco ha anche denunciato fortemente il male che c’è stato nella Chiesa. Su questo cosa si può dire?

R. – Certamente si può dire che Papa Francesco continua la grande opera di Benedetto XVI. Riteniamo opportuno che il rossore della vergogna nella Chiesa dobbiamo assumercelo tutti. Evidentemente che con questa lettera che Papa Francesco ha rivolto ai vescovi li impegna ulteriormente.Già c’era stato il Motu Proprio… La tolleranza zero, che ancora una volta Papa Francesco ripete, riscrive e sottoscrive di suo pugno è la dimostrazione che non è possibile che la Chiesa, che deve essere luogo di luce, di pace, di accoglienza, di amorevolezza, di protezione, possa diventare – a causa di alcuni – soltanto un luogo dove si vive l’orrore. I bambini e le famiglie devono trovare un posto sicuro, una comunità sempre accogliente, che sta dalla parte dei piccoli, dei deboli, che li difenda fino alle estreme conseguenze. Quindi io credo che la Chiesa debba ancora fare molta strada e già la sta facendo: Papa Francesco ha istituto la Commissione per la tutela dei minori e poi questo nuovo dicastero per lo Sviluppo umano integrale, e – perché no?- pensavo perché non istituire ad hoc un ufficio che tratti propri la situazione dell’infanzia. 

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P. Fornos: Francesco rinnova e incoraggia le intenzioni di preghiera

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Verrà pubblicato il 9 gennaio il video per le intenzioni di preghiera del Papa, incentrato questo mese sul tema dell’impegno dei cristiani per le sfide dell’umanità. Proprio un anno fa veniva lanciata l’iniziativa del “Video del Papa” per dare nuovo slancio alle intenzioni di preghiera mensili. Per un bilancio e alcune anticipazioni su questa iniziativa di nuova evangelizzazione, Alessandro Gisotti ha intervistato padre Frédéric Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera del Papa: 

R. – È straordinario, è una meraviglia: si vede che il Signore sta spingendo questo progetto, perché, veramente, non ci aspettavamo che tanta gente visualizzasse questi video del Papa. Per noi era importante aiutare il Santo Padre ad aver uno strumento per raggiungere la gente, per aiutare i cattolici a pregare con lui e con tutte le persone di buona volontà per le grandi sfide dell’umanità. Dopo 12 mesi contiamo più di 13 milioni di visualizzazioni del "Video del Papa" solamente sulle nostra rete qui in Vaticano. Se poi si tengono in considerazione gli oltre 3.200 media nel mondo che parlano, che fanno conoscere i video del Papa ogni mese, allora la cifra è ancora maggiore: sono milioni le persone in tutto il mondo che lo guardano, anche ad esempio, attraverso Whatsapp. Quindici giorni fa ero in Vietnam: qui ho incontrato dei  giovani che mi mostravano  il video del Papa attraverso Whatsapp!

D. - È il Papa stesso che chiede di pregare, ma con una modalità molto nuova che raggiunge anche i giovani che magari in un altro modo non si potrebbero raggiungere su questi contenuti …

R. – Sì. Questo video è disponibile attraverso tutte le reti social, in dieci lingue: Youtube, Facebook, Twitter, Instagram; per questo motivo raggiunge molti giovani. Come sappiamo, i giovani cercano immagini, video … Questo è il linguaggio del mondo di oggi e questo linguaggio permette a molte persone di venire a conoscenza delle preoccupazioni del Santo Padre circa la missione della Chiesa, sulle sfide dell’umanità; ci coinvolge in una comunione. Abbiamo ricevuto anche sette premi; l’ultimo è il premio “Bravo”, da parte della Conferenza episcopale spagnola. È un riconoscimento per questo lavoro realizzato insieme all’agenzia Maci - l’agenzia di comunicazione che ci aiuta molto in questa iniziativa - e alla Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. È veramente un grande progetto; è sorprendente per noi. Inizialmente pensavo che sarebbe stato un progetto esclusivo per il Giubileo della Misericordia, per aiutare non solo i cattolici – è un progetto per l’evangelizzazione –, ma soprattutto la gente lontana dalla Chiesa a conoscere le intenzioni del Santo Padre e della Chiesa universale nell'Anno della misericordia. A settembre scorso ho incontrato il Santo Padre durante un’udienza privata e mi ha detto che era molto contento di questo progetto e che desiderava portarlo avanti nel 2017. Stiamo dunque già lavorando per le intenzioni di preghiera del 2017.

D. - Il 9 gennaio verrà pubblicato il primo video del 2017, legato alle intenzioni di preghiera del Papa. Ci sono delle novità che può anticipare per quest’anno appena iniziato?

R. - Sì, c’è una novità. Fino ad ora, per oltre cento anni, c’erano due intenzioni di preghiera ogni mese, che il Papa affidava alla sua Rete mondale di preghiera: un’intenzione generale e una missionaria. Con una prima riforma vennero chiamate "intenzione universale” e “intenzione per l’evangelizzazione”. Nel processo di riforma di questo servizio ecclesiale della Santa Sede è stata apportata un’altra modifica: ci sarà un’intenzione universale e un’intenzione per l’evangelizzazione che si alterneranno ogni mese; un mese ci sarà un’intenzione universale e il mese successivo un’intenzione per l’evangelizzazione. Questo significa che ogni mese abbiamo un’intenzione, un orientamento per la nostra vita e per la missione della Chiesa e il mese successivo ci sarà un’intenzione universale per l’evangelizzazione. Di conseguenza i due video avranno stili diversi. Ci sarà anche un'altra modifica: Papa Francesco ci affiderà all’inizio di ogni mese, al primo Angelus di ogni mese, un’intenzione di preghiera "dell’ultimo minuto", più urgente, in relazione con l’attualità, con quello che accade nel mondo, con le sofferenze o le grandi sfide e che preoccupano il Santo Padre, la Chiesa e la sua missione. Quindi all’inizio di ogni mese ci affiderà questa intenzione, affinché possiamo pregare insieme a lui e con tutta la Chiesa; tutto questo anche per aiutarci ad uscire dalla globalizzazione dell’indifferenza e aprirci ad una cultura dell’incontro, all’apertura verso gli altri e a questo nuovo mondo che sta nascendo.

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Oggi in Primo Piano



Siria: a rischio tregua. I ribelli "congelano" i negoziati

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Rischia di allontanarsi per l’ennesima volta la possibilità dei colloqui di pace sulla Siria in programma a fine gennaio in Kazakistan. Almeno una dozzina di sigle ribelli infatti accusano Damasco di violare la tregua soprattutto nelle regioni di Wadi Baraba e Ghouta, e dichiarano “congelati“ i tavoli negoziali. Dei motivi di questa decisione e delle speranze che restano ora, Gabriella Ceraso ha parlato con Massimiliano Trentin, docente di Storia mediorientale all’Università di Bologna: 

R. – Siccome è una tregua assolutamente selettiva, chiaramente non riguarda né le milizie di al-Qeda e neanche quelle dello Stato Islamico, e per il governo neanche quelle milizie che si trovano in zone per lui strategiche. Per cui uno dei problemi di questo cessate-il-fuoco è che la determinazione di chi può farvi parte o meno è lasciata poi alla mercé del governo e dei suoi sostenitori. Poi ripeto: i combattimenti nella zona attorno a Damasco sono continuati da più di in mese a questa parte e questo perché Damasco, dopo aver conquistato Aleppo, importante nel Nord, adesso si riconcentra nel Sud. Com’è successo in altri casi, non è detto che la tregua che vale in altri territori del Paese, possa essere messa a repentaglio per quello che succede nelle zone attorno a Damasco. Questo deve essere verificato e lo si vedrà nei prossimi giorni…

D. – Per capirci: i ribelli che hanno detto “Congeliamo tutto, perché ci continuano a bombardare”, sono quelli che si erano accordati effettivamente in precedenza con Damasco?

R. – Alcuni gruppi sì, altri invece sono ai margini. E’ sempre un po’ questa l’ambiguità del conflitto e la difficoltà del conflitto in Siria: alcuni ne fanno parte, si riconoscono e altri no.

D. – Ma queste dichiarazioni portano a pensare che effettivamente lì, a quel tavolo di fine mese, non ci sarà nessuno a discutere e quindi si ricomincerà da capo o no?

R. – No! Secondo me, dopo Aleppo – perché il passaggio era fondamentale proprio nei rapporti di forza dato ad Aleppo – una parte delle opposizioni, tra cui tanto quelle militari tanto quelle che si trovano in esilio all’estero, sono convinte della necessità di giungere ad un negoziato che porti ad una soluzione politica prima che l’esercito siriano e i suoi sostenitori muovano un’altra offensiva per la riconquista di altre zone strategiche del Paese. Perché se guardiamo la traiettoria di tutti i negoziati, di tutti i cessate-il-fuoco nell’ultimo anno e mezzo, vediamo che le condizioni per i ribelli sono sempre state più dure ogni volta che hanno deciso di resistere fino all’ultimo. Ogni volta che hanno, invece, colto delle opportunità, delle piccole aperture politiche, sono riusciti a negoziare delle condizioni un po’ migliori.

D. – Quanto può concedere Damasco a questi gruppi, secondo lei?

R. – Di principio non vorrebbe concedere niente! Nella pratica dipende da quanto forte si sente in quel preciso territorio. Adesso devono recuperare le forze dopo la riconquista di Aleppo, che è stato dispendiosa… Per cui sono, forse, disposti a concedere qualcosa: questo riguardo all’esercito siriano e le milizie libanesi. I russi sarebbero decisamente ben più disposti a concedere di più ai ribelli, perché la loro strategia – almeno di principio – è riuscire ad inglobare, cooptare, portare dalla propria parte almeno una parte dei ribelli, per poi utilizzarli per combattere invece le frange più radicali: e questa è un po’ l’idea dei russi e sicuramente diversa da quella degli iraniani, che coincide in parte con quella del governo siriano.

D. – E comunque mi sembra che lei sia abbastanza possibilità: è giusto?

R. – In parte sì… Questa può essere una opportunità per riuscire a riportare il conflitto da una dimensione prevalentemente militare ad un piano più di negoziato politico.

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Turchia: caccia a un 28enne kirghizo per l'attacco di capodanno

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In Turchia continua la caccia all’attentatore che nella notte di capodanno ha ucciso 39 persone in una discoteca di Istanbul. I sospetti si concentrano su un 28 enne di origine kirghize, arrivato in Turchia da poco più di un mese. 14 le persone finora fermate nell’ambito delle indagini sull’attacco, rivendicato dallo Stato Islamico. Tra queste la moglie del presunto killer e gli agenti immobiliari che gli avevano affittato casa nella città di Konya, nel centro del Paese. Intanto il governo ha annunciato un probabile prolungamento dello stato d’emergenza in vigore da luglio per altri tre mesi. La nazionalità del ricercato sposta i riflettori sul jihadismo in Asia centrale, come spiega Stefano Silvestri, consigliere dell’Istituto Affari Internazionali al microfono di Michele Raviart

R. – Da parecchio tempo, soprattutto dalla guerra in Afghanistan, in realtà, il fenomeno dell’estremismo islamista ha preso piede nelle ex repubbliche sovietiche. La Turchia naturalmente è collegato a questo perché molti di questi popoli sono di origine turca, condividono in qualche misura le origini, ma anche in parte le lingue che parlano hanno radici analoghe. E quindi la Turchia ha sempre tenuto aperto il confine per queste persone. C’è stata spesso un’immigrazione in Turchia da parte di kirghisi, turkmeni, uzbeki. Quindi non meraviglia che ci siano queste minoranze e non meraviglia che tra queste minoranze ci siano dei jihadisti.

D.  – Abbiamo visto chiaramente che ci sono legami religiosi, culturali, linguistici. Allora, perché la Turchia è un obiettivo?

R. – La Turchia per un certo periodo ha favorito i movimenti jihadisti nel mondo arabo, in particolare in Siria. Poi, lentamente, ha rotto i legami e nell’ultimo accordo con russi e iraniani ha invertito la sua posizione contribuendo a coagulare una parte più realista, moderata, che si appoggia alla Turchia e che è disposta, per un periodo perlomeno, ad accettare Assad. Però questo, nello stesso tempo, ha spinto altre minoranze a diventare più jihadiste perché adesso vedono i jihadisti come gli ultimi rivali rimasti di Assad. La Turchia in un certo senso è diventata un obiettivo ancora più forte per i jihadisti.

D. – C’è il rischio di instabilità in questi Paesi in queste aree dell’Asia centrale, da dove vengono questi jihadisti, sulla falsariga di quello che è successo con lo Stato Islamico in Siria e in Iraq?

R. – Ci sono rischi qua e là e ci sono stati anche momenti di tensione abbastanza forti. Però ricordiamo che in questi Paesi c’è ancora una struttura di polizia e di Stato forte, ereditata dall’Unione Sovietica, che finora ha represso con molta forza questi movimenti, non è riuscita ad eliminarli però non credo che riusciranno a rovesciare i governi.

D. – Come si comporta la comunità internazionale nell’affrontare, prevenire o affrontare il terrorismo in questi Paesi dell’Asia centrale?

R. – Direi che a  livello internazionale si lascia mano libera a questi governi. La cosa non suscita grande interesse, se ne sa pochissimo. Sono anche Paesi abbastanza isolati. L’interesse viene quando si rischia che ci siano delle saldature tra talebani e minoranze jihadiste nel Turkmenistan o in Uzbekistan, che possono in qualche maniera accrescere i problemi, per esempio, in Afghanistan.

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Patriarca Sako: "Natale in Iraq, momento di vicinanza con l'Islam"

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Le recenti festività natalizie hanno rappresentato un forte segno di speranza per la rinascita dell’Iraq, stremato da guerra e violenze. Nonostante i rischi di attentati, le celebrazioni hanno registrato la folta partecipazione anche delle realtà islamiche e delle altre minoranze a quella cristiana; una sorta di “rivolta della base contro il terrorismo, a difesa della vita, della pace e della gioia”. E’ questo il pensiero del patriarca caldeo, mons. Louis Raphael Sako. Ascoltiamolo nell’intervista realizzata da Giancarlo La Vella

R. – Quest’anno il Natale ha avuto un altro sapore, perché c’è una presa di coscienza nel rispettare i cristiani, ma soprattutto la loro fede. Siamo veramente molto colpiti: è la prima volta che tanta gente viene in Chiesa. Tanti responsabili del governo, le autorità religiose ci hanno mandato lettere di augurio. Sono tutte da parte dei musulmani. Penso che questa rappresenti una vera speranza.

D. – E’ molto importante che la cittadinanza continui a dialogare e a convivere pacificamente. Questo potrà influire sulla situazione del Paese?

R. – Penso che due cose siano cambiate. La prima è la posizione così chiara della Chiesa per la pace, il dialogo, l’unità dell’Iraq. La seconda è che la realtà civile è accolgiente nei confronti di tutti gli iracheni indipendentemente da religione o etnia. Inoltre, noi abbiamo aiutato tanti musulmani rifugiati a Baghdad, ma anche nelle zone sunnite e sciite tramite la Caritas e il nostro patriarcato. I media poi hanno fatto un lavoro ottimo. Tante televisioni hanno trasmesso le celebrazioni del Natale per dare un messaggio di pace non solo ai cristiani, ma a tutti. Dunque c’è qualcosa che si muove e speriamo che questo processo possa continuare.

D.  – Su questa base è possibile ricostruire un Iraq multietnico, multiculturale e multireligioso, in pace?

R. – E’ il nostro destino: l’Iraq non sarà Iraq senza cristiani, senza yazidi, sciiti e sunniti… Il problema però non è solo fra gli iracheni, il problema è anche regionale. L’impatto dei Paesi vicini è molto grande. Noi non siamo abituati alla cultura settaria, questa viene da fuori; e anche l'ideologia di Daesh, il fondamentalismo, vengono da fuori. Speriamo che la situazione cambi.

D. – Ma i cristiani che sono fuggiti dalle violenze in Iraq stanno rientrando?

R. – Questo è più complicato, perché loro per ora non possono tornare, Mosul non è stata liberata e c’è molto pericolo. Inoltre, bisogna ricostruire le case, le strade, le infrastrutture… C’è tanto lavoro da fare. Tanti vogliono ritornare, alcuni sono andati a vedere lo stato delle loro case… Io ho visitato due volte questi villaggi per dire che è la nostra terra e noi ritorniamo, ma ci vuole tempo e un gran lavoro. Ci sono villaggi quasi totalmente distrutti, ma abbiamo tanta speranza.

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Corte Suprema indiana: no all’uso della religione a fini politici

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La Corte Suprema dell’India ha stabilito che nessun politico potrà più utilizzare la religione per conquistare voti. La sentenza – quattro voti contro tre – è stata emessa ieri e potrebbe determinare le sorti delle prossime elezioni amministrative, che nel 2017 sono previste in cinque Stati. Il parere dei giudici sfida per la prima volta – senza però rovesciarla – un’altra sentenza del 1995, che aveva definito l’Hindutva (ideologia che considera l’induismo un’identità etnica, culturale e politica, in nome della quale gruppi estremisti perpetrano atti di violenza e discriminazione contro le minoranze etniche e religiose – ndr) “uno stile di vita e non una religione”. All'agenzia AsiaNews alcuni attivisti indiani, laici e cristiani, sottolineano l’importanza della sentenza e accolgono con entusiasmo il parere della Corte guidata dal presidente TS Thakur.

Chi tenta di procacciarsi voti sulla base di religione commette un reato
Il massimo tribunale indiano ha stabilito che chi tenta di procacciarsi voti sulla base di religione, casta, appartenenza etnica o linguistica commette un reato secondo la Sezione 123(3) del Representation of People’s Act. I giudici hanno anche ribadito che “l’esercizio del voto è una pratica laica” e che “il rapporto tra l’uomo e Dio è una scelta individuale. Allo Stato è proibito chiedere fedeltà in una simile attività”.

La sentenza sull’Hindutva ha creato il precedente politico per l’abuso della religione nell’arena elettorale
Ram Puniyani, presidente del Center for Study of Society and Secularism di Mumbai, sostiene che “la sentenza sull’Hindutva ha creato il precedente politico per l’abuso della religione nell’arena elettorale”. L’attivista ricorda inoltre che nelle elezioni politiche del 2014, quelle vinte dall’attuale primo ministro Narendra Modi, è stato proprio il premier a “enfatizzare il fatto che fosse indù. Queste dichiarazioni hanno indebolito il tessuto sociale laico della nostra repubblica”. Puniyani riporta che il maggior partito che fa leva sull’elemento confessionale per attrarre consensi è il Bjp (Bharatiya Janata Party, nazionalisti indù attualmente al governo), “che polarizza le comunità lungo linee religiose”. Per questo, aggiunge, “la sentenza della Corte potrebbe essere un grande sollievo”.

La Costituzione indiana accorda diritti per tutti i suoi cittadini, comprese le minoranze
Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), commenta: “Tutto questo è davvero ironico, perchè le politiche di Modi sono radicate in profondità nel movimento dell’Hindutva. La Costituzione indiana accorda diritti ad ampio raggio per tutti i suoi cittadini, comprese le minoranze. L’India è una democrazia laica e pluralistica, dove la cittadinanza è legata al territorio e tutte le minoranze etniche e religiose sono considerate al pari degli altri”. “Invece i fautori di un ritorno alle origini indù dello Stato – continua – tentano di fare pressione su Modi affinchè egli utilizzi il mandato elettorale per accrescere le loro politiche”. (N.C.)

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Pakistan: aggressione sulle terre dei cristiani del Sindh

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Per i cristiani in Pakistan il nuovo anno si apre con una dolorosa questione: apparti mafiosi in combutta con la polizia di Sukkur, nel distretto di Hyderabad (provincia del Sindh, nel Pakistan meridionale) hanno pianificato una aggressione contro gli abitanti cristiani di Sukkur, cercando di scacciarli dalle loro proprietà come case e terreni.

Sequestri arbitrari a terre di contadini poveri e vulnerabili
I cristiani - riporta l'agenzia Fides - sono vittime di un fenomeno diffuso in Pakistan, il land-grabbing (appropriazione indebita di terreni) , per cui alcuni potenti latifondisti, con appoggi politici, sequestrano arbitrariamente le terre a contadini poveri e vulnerabili. Il fenomeno è piuttosto diffuso nel Sindh, dove le terre sequestrate sono rivendute con alti profitti.

False documentazioni per rivendicare il diritto di proprietà
Come appreso da Fides, il cristiano Munawar Gill, residente nell'area, ed ex funzionario della diocesi anglicana di Hyderabad, ha spiegato che nelle scorse settimane alcuni uomini di sono presentati nell’area dell’insediamento cristiano di Sukkur, mostrando una falsa documentazione e rivendicando il diritto di proprietà. "Non è difficile comprare documenti falsi in Pakistan", afferma Gill. Il 21 dicembre alcuni agenti di polizia hanno chiesto alle famiglie cristiane i certificati di proprietà, in mancanza dei quali avrebbero dovuto lasciare le loro case

Le Ong invitano le autorità a far rispettare lo stato di diritto per fermare la "mafia delle terre"
Il 31 dicembre circa 20 uomini, alcuni indossando uniformi della polizia e alcuni in abito civile, hanno iniziato a bussare alle porte dei cristiani e quanti hanno aperto sono stati intimiditi e percossi. "Donne e bambini sono stati maltrattati e circa 20 persone sono state ferite, alcune gravemente", riferisce Gill a Fides.
Dopo l'aggressione, il 1° gennaio i residenti cristiani si son recati alla polizia per registrare una denuncia, chiedendo adeguata protezione. Per protesta circa 4.500 persone si sono riunite davanti al Press Club di Sukkur per denunciare l'arbitrio subito dai cristiani di Sukkur. In una nota inviata a Fides l’Ong Centre for Legal Aid, Assistance and Settlement (Claas) ha condannato "l'azione orribile e brutale" e l’incidente avvenuto "mentre i cristiani si stavano preparando per la celebrazione del nuovo anno", invitando le autorità preposte a far rispettare lo stato di diritto per fermare la "mafia delle terre" che prende di mira le comunità più vulnerabili, calpestando i diritti fondamentali di cittadini pakistani. (P.A.)

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Brasile: 56 morti nel carcere di Manaus per scontri tra clan

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E' di 56 morti il bilancio di un regolamento di conti tra bande rivali, sfociato ieri in violenti disordini all'interno di un penitenziario a Manaus, in Brasile. Alessandro Guarasci: 

Il più vasto e orribile massacro nella storia delle carceri brasiliane. Così lo ha definito Epitacio Almeida, presidente della commissione per i Diritti Umani dell'Ordine Nazionale degli Avvocati. Lo stesso Almeida ha condotto le trattative per la liberazione degli ostaggi, tra cui diversi agenti.  

All'origine della strage gli scontri scoppiati tra affiliati al 'Primer Comando de la Capital', organizzazione criminale di San Paolo, e quelli della locale 'Familia do Norte', alleata a sua volta del potente cartello malavitoso 'Comando Vermelho' di Rio de Janeiro. Secondo Sergio Fontes, responsabile regionale per la Pubblica Sicurezza, sarebbero stati questi ultimi a passare per primi all'attacco, nell'intento di "eliminare la concorrenza” dell’altra fazione. Per Fontes questo è "il maggior massacro del sistema carcerario di Amazonas".

Sul massacro al carcere di Manaus, abbiamo sentito padre Gianfranco Graziola, vicecoordinatore nazionale delle Pastorale carceraria del Paese: 

R. - Si tratta di fazioni che si disputano l’egemonia del territorio. Sono gruppi ben organizzati che dialogano anche con lo Stato, dove il traffico di droga fa la sua parte, dove oggi il commercio della propria questione carceraria è una delle realtà.

D. - Queste fazioni hanno la loro influenza anche nelle carceri brasiliane?

R. – Certamente, è non sono solo dentro le carceri; dentro le carceri ci sono i prodotti della società che noi abbiamo, quindi dell’economia, del consumo. Poi ci sono i giudici, avvocati, … C’è tutta un’organizzazione ben complessa come, ad esempio, la nostra mafia. Il Brasile è il Paese al mondo che più carcerati. Russia, Stati Uniti e Cina stanno affrontando un processo di abolizione graduale delle  carceri. Il carcere produce criminalità, morte. Il Brasile ha aumentato del 400% dal 2004 al 2014 la detenzione che noi chiamiamo “detenzione di massa”. E lo continua a fare.

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Chiesa etiope: appello contro mutilazioni genitali femminili

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Bisogna combattere le mutilazioni genitali femminili (Mgf) attraverso l’istruzione: a ribadirlo è stata la Commissione episcopale per il sociale e lo sviluppo della Chiesa cattolica etiope, durante un seminario svoltosi ad Addis Abeba e indirizzato, in particolare, ai direttori scolastici ed agli insegnanti.

Mutilazioni frutto di paure e stereotipi sociali
Durante i lavori – riferisce l’agenzia cattolica africana Canaa – è stato evidenziato come le Mgf siano frutto di “pressioni sociali”: infatti, sono soprattutto “il timore della stigmatizzazione e la paura di risultare inadatte al matrimonio” a spingere le donne ad accettare simili mutilazioni, “nonostante la consapevolezza della loro pericolosità”. Di qui, il richiamo della Commissione episcopale ad affrontare la problematica in maniera globale, partendo dall’educazione dei giovani, i quali possono portare nella società “un cambiamento di atteggiamento nei confronti degli stereotipi tradizionali”.

Integrare la lotta a tali pratiche nei programmi scolastici
In quest’ottica, il seminario ha esortato le scuole cattoliche a prendere in considerazione la proposta di integrare la lotta alle Mgf all’interno dei programmi didattici, coinvolgendo direttamente sia gli studenti che i loro genitori. L’obiettivo sarà quello di accrescere “la consapevolezza sociale del problema”. Da ricordare che in Etiopia le Mgf sono illegali e quindi punibili per legge. Tuttavia, esse vengono ancora praticate, soprattutto nell’Eparchia di Emdeber, che conta il tasso percentuale più elevato di casi.

Condanna della Chiesa: mutilazioni non hanno base religiosa
Ma quello dei giorni scorsi non è stato il primo appello della Chiesa cattolica etiope contro le mutilazioni genitali femminili: già a febbraio 2013, infatti, i vescovi si erano schierati, categoricamente, contro tali pratiche, ribadendo come esse non avessero “alcuna base religiosa” ed esortando ad aiutare le vittime in modo adeguato.(I.P.)

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Astalli: da Cona segnale preoccupante che chiede cambiamento

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Sarà il risultato dell’autopsia a stabilire le cause della morte di Sandrin Bakayoko, la giovane donna ivoriana morta ieri nel Centro di prima accoglienza di Cona, nel veneziano. Tragedia che ha scatenato la protesta di una cinquantina di ospiti che per ore hanno trattenuto gli operatori della cooperativa che gestisce i servizi nel Centro. Francesca Sabatinelli

La situazione è tornata calma a Conetta, il Centro di prima accoglienza di Cona . L’unità sanitaria locale ha smentito le voci di un grave ritardo nell’intervento in soccorso della ragazza e ora saranno gli esami autoptici a stabilire la morte, che si ritiene sia avvenuta per cause naturali. L’accaduto ha scatenato le proteste di decine di ospiti, in tensione per le terribili condizioni di vita alle quali sono sottoposti: in 1.400 in una struttura che potrebbe contenere al massimo 50-60 persone, ammassati sotto tendoni in situazioni di totale promiscuità. Sarà ora una commissione parlamentare ad indagare su quanto accaduto nel Cpa, gestito dalla cooperativa Edeco. Don Marino Callegari, direttore della Caritas di Chioggia e direttore delle Caritas del Nord-Est al Consiglio nazionale di Caritas italiana:

R. – Io non mi sono mai recato nel Centro di accoglienza di Conetta, anzitutto perché  non appartiene alla nostra diocesi, in secondo luogo per un motivo più semplice, perché ciò che conosciamo è grazie alla Prefettura di Venezia che,  in alcuni casi, ha trasferito ospiti da Conetta presso strutture in cui noi facciamo inclusione sociale. Sono state queste persone a raccontare e descrivere un po’ la situazione che c’era in questo grande centro di accoglienza. Com’è facile immaginare, quando si mettono insieme centinaia e centinaia di persone evidentemente qualche problema di convivenza nasce sempre, così come anche l’impossibilità della stessa struttura di essere accogliente nei confronti delle persone. Non dimentichiamo che in questi grossi centri si mettono insieme persone che normalmente insieme non sono, perché di nazionalità diverse, di etnie diverse, di linguaggi e religioni diversi , ecco quindi che sale in maniera esponenziale il pericolo di conflittualità.

D. – Nello specifico, per quanto riguarda Cona, che tipo di racconti le sono stati fatti da quelle persone che un tempo vi sono state ospitate?

R. – I racconti sono facilmente intuibili:  la promiscuità, intendo la gestione degli spazi non sufficientemente ampi per una normale convivenza; le camerate e i tendoni; il tipo di servizio che viene effettuato e che evidentemente non può essere un servizio di tipo alberghiero con tutti i crismi. Ripeto: la questione fondamentale è che mille persone insieme mettono in difficoltà tutta la struttura logistica e organizzativa. Ma qui dovremmo anche fare un discorso sul perché oggi, e in maniera particolare in questa parte del Veneto, abbiamo una struttura con un numero così spropositato di persone.

D. – E questo perché?

R. – Perché nel Veneto, i primi soggetti che dovevano essere in qualche modo protagonisti dell’accoglienza, attraverso il sistema Sprar o attraverso le accoglienze diffuse e cioè i Comuni, hanno sempre avuto nei confronti del soggetto proponente, ossia la Prefettura, un atteggiamento di tipo ostativo. La Prefettura di Venezia, più volte, ha chiesto incontri con le municipalità per poter dar vita a quello che sarebbe che è l’intento originario: lo Sprar, un servizio di accoglienza e di accompagnamento soprattutto. Molti Comuni, la maggior parte dei Comuni, si sono rifiutati. Non si sono neanche presentati ai tavoli di lavoro! Evidentemente, però, all’emergenza immigrazione una risposta bisogna darla e, non potendo dare una risposta diffusa, si è data una risposta accentrata, con i tutti i limiti drammatici che noi oggi vediamo. Al di là dell’episodio che è capitato a Conetta, è chiaro che una convivenza di questo tipo con il tempo non può reggere. Ma ripeto: il peccato originale sta nell’impossibilità che il soggetto Prefettura ha avuto di poter distribuire le persone in forma equilibrata, territorio per territorio.

D. – Chi sono i migranti che in questo momento sono in quella parte del Veneto?

R. – Fondamentalmente sub-sahariani, di immigrazione sub-sahariana, diversa dalla provenienza di tipo siriana, irachena o afghana che ha caratterizzato gli ultimi anni. Il fatto di avere qui una grande maggioranza di persone sub-sahariane provoca una grande difficoltà nella gestione, un esempio, linguistica. C’è poi anche il fatto che relativamente pochi potranno essere quelli che un domani riceveranno il permesso di soggiorno, perché magari provenienti da zone di guerre dichiarate e dimostrate. Questa è un’altra bomba ad orologeria sulla quale dovremmo evidentemente fare delle riflessioni, e cioè sul fatto che queste persone sono nella stragrande maggioranza migranti economici, a cui non viene riconosciuto lo status di profugo o di rifugiato. Ma noi sappiamo che la peggiore di tutte le guerre è la povertà e la miseria. Dire che il migrante economico non ha possibilità di accesso è, in fondo, per il momento, raccontarci una cosa non vera, perché la peggiore delle guerre è la povertà!

Si torna, quindi, fortemente a chiedere un cambiamento radicale nelle politiche migratorie in Italia. Cona e Cie sono “segnali preoccupanti”, scrive in una nota il Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. In un momento in cui si riprende a “parlare di Cie e di rimpatri come se una risposta securitaria fosse in grado da sola di affrontare” il fenomeno delle migrazioni, il presidente padre Camillo Ripamonti indica come “pericoloso e fuorviante” associare “immigrazione a criminalità in un clima esacerbato dalla minaccia terroristica”:

R. – Il grosso problema è legato al fatto che si concentrano in piccoli spazi molte persone, in questo caso erano oltre un migliaio, e concentrare in spazi piccoli così tante persone, con tante problematiche, che arrivano da territori molto diversi, è sempre molto complesso da gestire. Quindi, sarebbe importante, nell’organizzazione di questa catena di accoglienza, lasciare le persone il minimo del tempo indispensabile per poi ridistribuirle sui territori. Questo credo sia uno passaggio importante e fondamentale. Ed è anche importante che tutti collaborino nell’accoglienza, una accoglienza diffusa, che va fatta su tutto il territorio.

D. – Intende ovviamente anche le municipalità?

R. – Sì, questo è molto importante. Ce lo ricordava anche il Presidente della Repubblica nel suo messaggio: l’importanza di una comunità di vita è quella di creare coesione sociale e la coesione sociale si crea assumendosi tutti la propria responsabilità. Nel caso dell’accoglienza, ogni piccola municipalità, ogni piccolo comune, deve prendersi la sua responsabilità ed accogliere anche un numero ridotto di persone. Questo alleggerisce la collettività dalla concentrazione di numeri grandi. E nella lunga distanza aiuta anche all’integrazione di queste persone: se piccoli numeri si inseriscono in un tessuto sociale di piccola entità, alla lunga questo aiuta l’integrazione di queste persone. 

D. – Da questo drammatico avvenimento, che ha riguardato Conetta, il Centro Astalli prende spunto anche per ricordare un aspetto molto importante: la necessità di restituire, di dare, di garantire dignità ai migranti, ma anche agli operatori che sono all’interno delle strutture…

R. – Sì, perché non dimentichiamo che gli operatori sono a contatto con persone che hanno, molto spesso, subito violenze, persecuzioni; che hanno fatto viaggi molto lunghi e difficili e quindi sono in situazioni – anche gli operatori – di grande stress e di grande difficoltà. Molto spesso ci troviamo di fronte a persone con grande professionalità, che però vanno supportate, vanno aiutate nella gestione di un fenomeno che è complesso nella sua articolazione. E quindi deve esserci una attenzione anche agli operatori, che lavorano in questi Centri e che prendono il carico di queste persone che hanno perso la loro dignità nei Paesi da cui provengono, dunque questa dignità che gli operatori cercano di restituire a questa persona, devono prima sentirla anche su di loro, come lavoratori che devono operare in condizioni degne. 

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Mons. Santoro: per i giovani disoccupati occorrono nuove politiche

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Ha destato ampia eco l’omelia di  Papa Francesco al Te Deum sulla disoccupazione giovanile e sui ragazzi costretti ad emigrare in cerca di un futuro dignitoso. Proprio sul tema del lavoro, Luca Collodi ha intervistato mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, e presidente della Commissione Lavoro della Cei: 

R. – Al giorno d'oggi si incentiva questa visione della vita senza un’attenzione effettiva e reale ai giovani. In Italia siamo sul 30% di disoccupazione a livello generale per i giovani.  Dico anche il dato più grave di Taranto solo per indicare che, fino ad un anno fa era il 54,5% e in quest’anno è salito al 60% di disoccupazione, per i ragazzi dai 15 ai 25 anni. Per questo occorrono degli incentivi, occorrono delle prospettive! In questo senso va proprio sviluppata l’attenzione, un’attenzione  che la Chiesa sta dando da tempo al problema della disoccupazione giovanile, per esempio con il Progetto Policoro, che è promosso dalla Conferenza episcopale italiana e sviluppato in particolare nelle regioni del Sud, e che è un cammino per trovare lavoro. Sento proprio che questo è un punto indispensabile nello sviluppo del Paese, perché c’è un divario ancora tra Nord e Sud  e questo è generale, ma  che con i giovani si accentua ancora di più.

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Terremotati a Rieti. Mons. Pompili: nella fede gli anticorpi alla tristezza

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Continua lo sciame sismico che stamattina ha colpito la Campania, a Capri con una scossa di magnitudo 3. Altre piccole scosse nella notte hanno interessato la zona del Centro Italia senza provocare gravi danni. Per capire la situazione attuale dei terremotati nella provincia di Rieti e i prossimi appuntamenti con Papa Francesco Giulia Angelucci ha intervistato mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti. 

R. – Intanto si sta realizzando la serie delle casette prefabbricate, alcune delle quali sono già state predisposte per arrivare in primavera alla definitiva realizzazione di questi moduli abitativi prefabbricati, che dovrebbero essere più di 400. Come Caritas diocesana abbiamo cercato di vedere quali fossero le situazioni – soprattutto nelle frazioni più isolate – che necessitassero di un aiuto: siamo intervenuti già in una cinquantina di casi con dei container. Con l’inverno ormai definitivamente arrivato, si cerca di favorire anche luoghi di incontro per la comunità: in ciascuna delle quattro frazioni più importanti sono state realizzate delle sale di comunità, che svolgono all’occorrenza anche la funzione di chiesa. La presenza dei Frati Minori e dei Frati Cappuccini garantisce a questi spazi anche una vivibilità.

D. – Come sono state vissute le feste natalizie dai terremotati?

R. – Si è cercato di non rassegnarsi al dolore. Si sono avuti diversi momenti di festa: momenti di preghiera, come la celebrazione della Messa nella notte di Natale o il Te Deum di ringraziamento lo scorso 31 dicembre; ma momenti pubblici come la rappresentazione vivente del presepe proprio a ridosso della zona detta “area rossa”, intorno alla chiesa purtroppo disastrata di Sant’Agostino.  E poi naturalmente non sono mancati momenti più conviviali nella grande tenda, qui ad Amatrice, ma anche nelle frazioni di Sant’Angelo, Sommati e di Torrita. La gente ha cercato di vivere questo Natale, che tutti ci si augura irripetibile nel senso proprio letterale, rafforzando di più i legami e cercando di trovare nella fede e anche nella compagnia gli anticorpi alla solitudine e alla tristezza. Ancora ieri c’è stata una scossa, anzi una sequenza… L’impegno è quello di favorire momenti di aggregazione:  nei prossimi giorni, qui ad Amatrice – il 6,7,8 gennaio – si terrà un meeting di giovani che rifletterà sui temi dell’“Amoris Laetitia”, cercando di trovare il modo di creare anche momenti in cui coinvolgere anche la popolazione. Direi che, in prospettiva, l’obiettivo è quello di far sì che la realizzazione dei moduli abitativi nelle diverse frazioni, anche di Accumoli, consenta il ritorno delle persone e quindi anche il riaggregarsi delle tante famiglie, che in questo momento sono sfollate provvisoriamente sulla Riviera, a Roma o a Rieti. Questo mi pare che sia un po’ l’obiettivo di medio termine: quello cioè di far sì che per la Pasqua le persone possano tornare. Nel frattempo la scuola continua ad essere frequentata; il Pronto Soccorso è un punto di riferimento. E come Caritas abbiamo realizzato un emporio e una caffetteria, nella speranza che possa diventare un punto di incontro sia per rispondere alle urgenze più immediate, sia anche a livello di ascolto grazie proprio alla possibilità di incontrare le persone, con le quali fare anche un percorso, che riesca a far metabolizzare il trauma che è evidentemente ancora all’opera.

D. – A proposito dei prossimi appuntamenti del 5 e del 14 di gennaio per i terremotati con Papa Francesco, ci può dare qualche dettaglio?

R. – Il 5 siamo con tutti i terremotati dell’ormai ampia zona del Centro Italia all’Aula Nervi per l’udienza che Papa Francesco ha riservato a tutti. C’è una grande attesa e anche un’ampia partecipazione. Il 14 di gennaio il Papa, corrispondendo all’invito di una mamma che aveva presentato il suo bambino quando era venuto qui ad Amatrice, ha permesso che ci fosse la possibilità di battezzare non solo quel bambino, ma anche gli altri che sono nati nel frattempo: perciò nel pomeriggio di sarà questa celebrazione nella Chiesa di Santa Marta per il Battesimo dei nuovi nati dopo la tragedia del 24 agosto, che ad Amatrice e ad Accumoli ha totalizzato più di 260 vittime…

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Polonia: il 2017 anno dedicato a fra’ Alberto Chmielowski

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L’anno 2017, dedicato dall’episcopato e dai parlamentari polacchi a san fra’ Alberto, sarà “una perfetta continuazione del Giubileo straordinario della misericordia”, scrivono i vescovi nel messaggio che sottolinea quanto l’esempio del santo “mostri come mettere in pratica la misericordia cristiana”. Fra’ Alberto (al secolo Adam Chmielowski, 1845-1916) - riporta l'agenzia Sir - è stato un religioso polacco del Terz’ordine francescano, fondatore delle congregazioni dei Fratelli del Terz’ordine di san Francesco Servi dei Poveri e delle Suore Albertine, nel 1989 proclamato santo da Giovanni Paolo II. 

Karol Wojtyla dedicò ad Adam Chmielowski una delle sue opere teatrali
“Desideriamo presentare quel personaggio eccezionale come esempio e patrono di una carità attiva”, rilevano i vescovi ricordando che Karol Wojtyla dedicò ad Adam Chmielowski una delle sue opere teatrali, intitolandola “Il fratello del nostro Dio”. Oltre a essere un testimone credibile della povertà evangelica e del dono di se stesso, rammentano i vescovi, fra’ Alberto in quanto “santo patrono dei poveri”, insegna a tutti “la dignità di ogni essere umano, la necessità di dimostrare rispetto e bontà nei confronti di ogni persona che è custode dell’immagine della somiglianza divina”. 

L'auspicio che l'anno di frà Alberto possa portare maggiore sensibilità verso i poveri
I vescovi auspicano che l’anno di fra’ Alberto possa “portare il cambiamento di cuori mossi da una maggiore sensibilità verso i poveri”. Il parlamento polacco ha votato la legge relativa all’Anno di fra’ Alberto nell’approssimarsi del 100° anniversario della morte di Chmielowski celebrato il 25 dicembre del 1916. (R.P.)

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 3

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.