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Sommario del 05/01/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa a terremotati: per ricostruire ci vogliono i cuori e le mani di tutti

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“Ricostruire i cuori prima delle case”. Così il Papa ai circa 7mila terremotati del Centro Italia ricevuti questa mattina nell'Aula Paolo VI in Vaticano. Francesco, in un discorso tutto a braccio, ha parlato della sofferenza, del rispetto, delle ferite di chi ha pianto la scomparsa dei propri cari e ha perso ogni cosa, tranne la speranza. Il servizio di Massimiliano Menichetti

“Ricostruire”. Il Papa, "toccato nel cuore" come lui stesso ha detto, parte da questa parola, citando alternativamente nel suo discorso le due testimonianze che lo hanno accolto. Ricorda le parole di Raffaele che ha raccontato i minuti del terremoto, invocato la preghiera e la necessità della ricostruzione, e don Luciano, parroco dell’Abazia di Sant’Eutizio di Spoleto-Norcia, che ha detto: “Abbiamo perso le case, ma siamo diventati una grande famiglia”:

“Una parola che è stata come un ritornello, quella del 'ricostruire', quello che Raffaele ha detto molto concisamente e molto forte: 'Ricostruire il cuori ancor prima delle case'. 'Ricostruire - ha detto don Luciano - il tessuto sociale e umano della comunità ecclesiale'. Ricostruire”.

Francesco parla delle “ferite del cuore”, delle persone che ha incontrato, che hanno perso la casa, i propri cari: bambini, genitori, anziani:  

“Non c’è posto per l’ottimismo qui: sì per la speranza ma non per l’ottimismo. L’ottimismo è un atteggiamento che serve un po’ in un momento o ti porta avanti ma non ha sostanza. Oggi serve la speranza per ricostruire e questo si fa con le mani”.

E proprio sulle mani si sofferma il Papa, quelle di Raffaele che hanno estratto dalle macerie i propri cari, quelle di medici, infermieri, vigili del fuoco, volontari:

“Le mani. Ricostruire e per ricostruire ci vogliono il cuore e le mani, le nostre mani, le mani di tutti. Quelle mani con le quali noi diciamo che Dio ha fatto il mondo come un artigiano, le mani che guariscono”.

Poi parla delle ferite, cita ancora don Luciano che ha detto: “Noi siamo rimasti lì per non ferire di più la nostra terra”:

“Non ferire di più quello che è ferito. E non ferire con parole vuote, tante volte, con notizie che non hanno il rispetto, che non hanno la tenerezza davanti al dolore. Non ferire”.

“Silenzio, carezze, tenerezza del cuore ci aiuta a non ferire”, prosegue Francesco che guarda anche alle forza della riconciliazione e dello stare insieme, piangere insieme, per affrontare le situazioni difficili. Poi concretamente parla di un’altra parola che lo ha toccato: “le ferite”:

“Le ferite guariranno, ma le cicatrici rimarranno per tutta la vita e saranno un ricordo di questo momento di dolore, sarà una vita con una cicatrice in più”.

Riporta ancora una volta le parole di don Luciano che ha raccontato, dicendosi orgoglioso, “il coraggio la tenacia, la pazienza, la solidarietà nell’aiuto vicendevole” della gente:

“Anche io devo dire che sono orgoglioso dei parroci che non hanno lasciato la terra e questo è buono: avere pastori che quando vedono il lupo non fuggono”.

Un’altra parola ripresa dal Papa è stata la vicinanza:

“La vicinanza ci fa più umani, più persone di bene, più coraggiosi. Una cosa è andare solo, sulla strada della vita e una cosa è andare per mano con l’altro, vicino all’altro”.

Ricominciare ribadisce il Papa "senza perdere la capacità di sognare" avendo "il coraggio di sognare una volta in più”. Poi torna con il ricordo alla mattina del terremoto del 24 agosto per condividere quello che ha provato:

“Due cose ho sentito: ci devo andare, ci devo andare; e poi ho sentito dolore, molto dolore. E con questo dolore sono andato a celebrare la Messa quel giorno”.

Quindi, “il grazie” a tutti per la testimonianza offerta:

“Grazie per essere venuti oggi e in alcune udienze di questi mesi; grazie per tutto quello che voi avete fatto per aiutarci per costruire, ricostruire i cuori, le case, il tessuto sociale, anche per ricostruire col vostro esempio l’egoismo che è nel nostro cuore che non abbiamo sofferto questo”.

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I terremotati: il Papa ci ha donato la speranza di guardare avanti

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Grande la gioia e la commozione per i circa 7mila terremotati del Centro Italia, presenti questa mattina all’udienza con Papa Francesco nell’Aula Paolo VI. Ascoltiamo le loro emozioni raccolte da Marina Tomarro

D. – Da dove viene, signora?

R. – Noi siamo originari di Accumoli.

D. – Papa Francesco ha sottolineato l’importanza di ricostruire prima i cuori e poi le case: ma di cosa avete bisogno voi, adesso?

R. – Sicuramente è stato un messaggio di speranza che aiuterà tutti noi che siamo stati qui, oggi, ad andare avanti e a cercare di recuperare la voglia di ricostruire e di riprendere il percorso così come era prima del terremoto.

R. – Abbiamo bisogno di tante cose: basta guardare la gente, lo sguardo della gente, che è distrutto perché vede perse tutte le certezze. L’unica cosa vera che abbiamo ritrovato in questa situazione è l’umanità, la vicinanza … Abbiamo scoperto un lato che non pensavamo esistesse. Invece, proprio l’umanità della gente, gente che è venuta da tutta Italia e ci ha portato il suo amore e il suo affetto, che ci hanno dimostrato in tutti i modi. Questo è stato un grande valore riscoperto.

D. – Il Papa ha parlato anche dell’importanza del piangere insieme per ritrovarsi. Quanto è importante in questo momento la comunità, il fatto di affrontare il dolore di ciò che si è perso?

R. – Credo che sia una cosa fondamentale: la speranza; se manca la speranza, manca tutto, secondo me. E quindi tutto, tutto: in questo momento, tutto è necessario. Tanto ormai è stato tutto tolto; qualsiasi cosa venga, è benvenuta.

D. – Lei da dove viene?

R. – Da Fonte del Campo, Accumoli.

D. – Signora, quanto è importante, oggi, sperare? Sperare per ricostruire …

R. – Tanto. Tanto, perché è l’unica cosa a cui possiamo aggrapparci in questo momento. Con la speranza, avere la forza di ricominciare.

R. – Io sono una volontaria e penso comunque che il futuro si costruisca tutti insieme. Quindi, chiunque faccia la propria parte: anche chi da lontano può donare qualcosa, lo faccia perché in questo momento un aiuto economico è la base. Sappiamo tutti quanto costi costruire una casa e soprattutto, aiutateci – aiutate. Chi può, aiuti. Chi ha aiutato, grazie. Chi può, aiuti ancora.

D. – Padre, da dove viene?

R. – Sto a Sant’Angelo, una frazione di Amatrice, in un container, per fare assistenza religiosa e umana ai fratelli colpiti dal terremoto.

D. – Essere qui, oggi, per loro cosa vuol dire?

R. – Essere confermati nella fede. Dove la terra trema, fa danni, la vita e il destino ti segnano, comunque ti fa vedere che Dio non ti abbandona e poi c’è comunque il senso di unità di questo popolo.

D. – Sindaco Petrucci, lei ha portato qui parte della popolazione di Accumoli. Cosa vuol dire per voi essere qui, oggi, all’udienza con Papa Francesco?

R. – E’ importante perché sicuramente ci ridarà morale, il morale a una popolazione che ha subito tanti traumi: anche dopo il 24 agosto, noi eravamo già con un piede nella ripartenza e il 30 ottobre purtroppo il morale è venuto giù di nuovo, perché i nostri paesi sono stati completamente rasi al suolo. Moralmente è stata un’esperienza devastante.

D. – Quali sono le esigenze della popolazione, oggi?

R. – Le priorità che ci siamo date sono comunque quelle di riportare la popolazione sul territorio nei villaggi provvisori; contestualmente, stiamo portando via le macerie dai centri urbani e salvaguarderemo quei pochi beni culturali che sono rimasti in piedi.

D. – Il Papa vi ha detto di guardare avanti: in che modo si parla di speranza a una popolazione, a persone che molto spesso hanno perso tutto?

R. – Sicuramente la speranza gliela diamo nel momento in cui non disgreghiamo le comunità: dobbiamo tenere unite le comunità perché insieme sicuramente avremo una forza maggiore, sia per reagire sia per potere andare avanti. Questa è l’unica speranza.

D. – Commissario Errani, che cosa vuol dire essere qui, oggi, per queste persone, e a che punto è la ricostruzione? Di cosa hanno bisogno, oggi?

R. – Questo è un messaggio di grande speranza, di grande forza, di fiducia. Il Santo Padre è un riferimento: è stato nelle zone del terremoto, è sempre stato vicino a queste persone, quindi è molto, molto importante. Poi, la ricostruzione è incominciata; avrà dei tempi, ma l’importante è – appunto – interpretarla con fiducia e speranza.

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Papa: per le vocazioni, pregare, porta aperta e apostolato del camminare

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Per avere vocazioni, bisogna pregare, ascoltare i giovani e metterli in movimento. E’ quanto raccomanda Papa Francesco che ha consegnato il testo scritto e si è rivolto con un discorso a braccio ai circa 800 partecipanti al Convegno promosso dall’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Conferenza episcopale italiana. Francesco li ha ricevuti in udienza stamani in Aula Paolo VI, al termine del loro incontro di tre giorni sul tema: “Alzati, va’ e non temere. Vocazioni e Santità: io sono una missione”. Il servizio di Debora Donnini

Il Papa traccia la strada per chi si occupa della pastorale vocazionale e indica, fondamentalmente, i binari su cui procedere: la preghiera, la porta aperta, l’ascolto, l’apostolato del camminare e la testimonianza. La questione delle vocazioni è un tema centrale. Lo sguardo è rivolto all’Assemblea sinodale del 2018 che avrà al centro proprio il tema: “Giovani, fede e discernimento vocazionale”.

Preghiera e porte aperte
Fondamentale è la preghiera, nota Francesco. Una preghiera che però sia con la porta aperta. Per avere vocazioni, è dunque necessaria l’accoglienza dei giovani. E per spiegare cosa significhi pregare ma con la porta aperta, Francesco fa riferimento alla prima parola del motto del Convegno della Cei, “Alzati”. Quando il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, ha ricordato appunto il tema dell’incontro, a Francesco è venuto in mente che “Alzati” è la stessa rivolta dall’Angelo a San Pietro quando si trovava in carcere. San Pietro viene liberato, va in una casa ma deve bussare alla porta più volte perché inizialmente le persone riunite lì in preghiera non credevano che fosse veramente lui. Così tanti giovani magari sentono quell’esortazione - "Alzati” - ma per paura si preferiscono chiudere le porte. Aprire le porte significa invece rischiare. Francesco ricorda infatti che ci sono diocesi ricche di vocazioni. Sono quelle dove i vescovi chiedono alle persone di pregare per le vocazioni:

“Ho saputo di alcune diocesi che sono state benedette da vocazioni, nel mondo: alcune. Parlando con i vescovi: ‘Ma, cosa avete fatto?’ Ma, prima di tutto, una lettera del vescovo, ogni mese, alle persone che volevano pregare per le vocazioni: le vecchiette, gli ammalati, gli sposi”.

Il primo compito dei vescovi è quindi la preghiera, il secondo l’annuncio del Vangelo. Senza il lievito della preghiera infatti si può fare l’organizzazione più perfetta ma non avrà forza. Il Papa fa, come sua abitudine, alcuni cenni concreti. Ad esempio, quando nelle parrocchie alcune volte viene scritto sulla porta che le confessioni sono da quell’ora a quell’ora. Il riferimento è in generale, a tutto il mondo, non ai parroci italiani che, anzi, Francesco torna a lodare: i parroci italiani sono bravi, sottolinea, basti pensare al volontariato e agli oratori, ai tanti parroci di campagna che servono diversi paesini.

L’apostolato dell’orecchio e del camminare
Se vogliamo vocazioni, sottolinea, porta aperta, preghiera e inchiodati alla sedia per sentire i giovani, ascoltarli più che parlare loro. Dire una parola che sarà un seme che lavorerà dentro. L’apostolato dell’orecchio. E’ quindi importante, ribadisce, “perdere tempo” con i giovani. E ancora l’apostolato del camminare, cioè far camminare i giovani accompagnandoli. E Francesco spiega come:

“Inventare azioni pastorali che coinvolgano i giovani, ma in qualcosa che faccia fare loro qualcosa. Nelle vacanze andiamo una settimana a 'missionare' quel popolo o a fare aiuto sociale a quell’altro o tutte le settimane andiamo in ospedale, questo, quello … o a dare da mangiare ai senzatetto nelle grandi città … I giovani hanno bisogno di questo”.

Bisogna dunque metterli in cammino, perché i giovani che hanno tutto assicurato sono giovani in pensione. Nei suoi viaggi sia italiani sia internazionali, Francesco di solito infatti incontra i ragazzi in una riunione o a pranzo e loro fanno domande, sono inquieti: ma l’inquietudine è una grazia di Dio e bisogna farla camminare, proporre cose da fare.

E’ la testimonianza che attira i giovani
E infine centrale è la testimonianza di sacerdoti e suore. La maggior parte delle volte infatti la chiamata consiste nel voler diventare come quella o quello. Non essere persone che cercano sicurezze, che chiudono le porte, che non hanno tempo ma persone in cui si possa vedere quello che predicano, esorta Francesco. E’ infatti la testimonianza che attira i giovani.

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Tweet: trattiamoci con carità e nonviolenza

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Papa Francesco ha pubblicato oggi un nuovo tweet sull’account @pontifex in nove lingue: “Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri”.

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Messa del Papa in San Pietro nella Solennità dell'Epifania

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Nella Solennità dell’Epifania del Signore, Papa Francesco presiederà alle 10.00 la Santa Messa nella Basilica Vaticana. Alle 12.00 reciterà l’Angelus con i pellegrini riuniti in Piazza San Pietro. Su questa Solennità ascoltiamo il servizio di Sergio Centofanti

Nel Vangelo dell’Epifania, il racconto dei Magi, venuti dall’oriente a Betlemme per adorare il Messia nascosto in un bambino adagiato in una mangiatoia, conferisce a questa festa un respiro di universalità: “Questo – ha detto Papa Francesco il 6 gennaio dell’anno scorso - è il respiro della Chiesa, la quale desidera che tutti i popoli della terra possano incontrare Gesù, fare esperienza del suo amore misericordioso. E’ questo il desiderio della Chiesa: che trovino la misericordia di Gesù, il suo amore”.

Il Cristo è appena nato, non sa ancora parlare, e tutte le genti – rappresentate dai Magi – possono già incontrarlo, riconoscerlo, adorarlo. La Chiesa – spiega il Papa - da sempre ha visto nei Magi “l’immagine dell’intera umanità” e con “la festa dell’Epifania vuole quasi indicare rispettosamente ad ogni uomo e ogni donna di questo mondo il Bambino che è nato per la salvezza di tutti”.

Per la Chiesa – osserva Papa Francesco -“essere missionaria non significa fare proselitismo” ma semplicemente “essere illuminata da Dio e riflettere la sua luce”. Questo è il suo servizio: “far risplendere la luce di Cristo”: tante persone attendono dalla Chiesa “questo impegno missionario, perché hanno bisogno di Cristo, hanno bisogno di conoscere il volto del Padre”.

I Magi - sottolinea il Papa - “sono testimonianza vivente del fatto che i semi di verità sono presenti ovunque, perché sono dono del Creatore che chiama tutti a riconoscerlo come Padre buono e fedele (…) Davanti a Gesù non esiste più divisione alcuna di razza, di lingua e di cultura: in quel Bambino, tutta l’umanità trova la sua unità. E la Chiesa ha il compito di riconoscere e far emergere in modo più chiaro il desiderio di Dio che ognuno porta in sé”.

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Nomine

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Per le odierne nomine del Papa consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Oggi in Primo Piano



Myanmar: la foto di un bimbo simbolo del dramma dei Rohingya

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Ha fatto il giro del mondo la terribile foto del piccolo Mohammed, il bimbo Rohingya di 16 mesi annegato mentre tentava con la sua famiglia di fuggire verso la salvezza in Bangladesh dal turbolento Stato del Rakhine, nel Myanmar occidentale. Così come nel 2015 l’immagine del piccolo siriano Aylan, morto sulle coste della Turchia, scosse molte coscienze in Europa sul dramma dell’immigrazione, potrebbe anche questa fotografia accendere i riflettori su uno dei gruppi più perseguitati al mondo? Roberta Barbi lo ha chiesto al prof. Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea dell’Asia all’Università di Bergamo: 

R. – Si tratta chiaramente di una tragedia che senza dubbio non può far altro che colpire e commuovere. È possibile che questa storia in qualche modo scuota l’opinione pubblica internazionale sulla questione dei Rohingya, che ormai si è incancrenita da diversi anni e che è molto trascurata dall’opinione pubblica, in particolare in Europa e negli Stati Uniti.

D. – Secondo l’Oim, negli ultimi mesi, 34mila Rohingya sono fuggiti dallo Stato di Rakhine, dove la maggioranza dei birmani li considera immigrati illegali , verso il Bangladesh; anche l’Acnur ha denunciato un’operazione militare molto cruenta nei loro confronti, che si sarebbe intensificata negli ultimi mesi ...

R. – La situazione è estremamente difficile, ma lo è almeno dal 2012, da quando cioè si sono verificati scontri interetnici e una vera e propria pulizia etnica in alcune zone dello Stato di Rakhine. Dopodiché l’emergenza umanitaria è notevolmente cresciuta a partire dal 2015, quando abbiamo sentito le notizie sui "boat people” che partivano dal Myanmar verso la Malaysia e l’Indonesia, con un numero imprecisato di morti in mare. La situazione è peggiorata negli ultimi mesi, ma sono poche le notizie che arrivano e che sono fatte filtrare, in seguito a un attacco ad alcuni posti di polizia a ottobre. L’accusa è stata mossa da parte del governo birmano verso non ben precisati militanti musulmani e in seguito a questo episodio c’è stata una vera e propria caccia all’uomo, in una regione che negli ultimi anni era già stata devastata da violenze.

D. – Sulle accuse di violenze contro l’etnia Rohingya il governo ha creato una commissione d’inchiesta che, finora, ha affermato di non aver trovato prove di abusi, ma che renderà noti i risultati conclusivi solo a fine gennaio. Cosa è lecito aspettarsi?

R. – Poco, nel senso che questa commissione presieduta da un militare, peraltro molto discusso in passato, ha già fatto filtrare una parte molto parziale dei risultati delle indagini, da cui risulterebbe che non vi sono stati abusi quando invece, dalle fonti che provengono dalle testimonianze di diversi Rohingya fuggiti in Bangladesh, sappiamo che ci sono state uccisioni arbitrarie, torture, stupri.

D. – Questa situazione pesa sul primo esecutivo eletto in Myanmar, in particolare sul Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, leader del partito al governo…

R. – Indubbiamente pesa molto, anche perché Aung San Suu Kyi era già stata criticata prima di andare al governo per alcune sue affermazioni relative alla questione dei Rohingya e per il suo disinteresse per questa grave crisi umanitaria. Ora che Aung San Suu Kyi controlla il governo, di fatto la situazione non è migliorata. Questo nuoce indubbiamente alla sua immagine in quanto Premio Nobel per la Pace e a lungo considerata paladina dei diritti umani in Myanmar, ma getta ombre anche sul futuro, perché il processo di democratizzazione e di armonizzazione tra le diverse componenti etniche del Myanmar non comprende i Rohingya, che vengono ufficialmente considerati dal governo birmano come “immigrati illegali”, nonostante la loro presenza nella regione di Rakhine, un tempo chiamata “Arakan”, sia ormai molto datata. La negazione dei diritti di questa popolazione, che conta oltre un milione di persone attualmente residenti nello Stato di Rakhine, è sicuramente una delle ombre principali su un processo che non è solo di democratizzazione, ma anche di armonizzazione all’interno di una società, come quella birmana, molto composita dal punto di vista etnico.

D. – La Chiesa locale, attraverso l’arcivescovo di Yangon, il cardinale Bo, non più tardi di pochi giorni fa auspicava che il 2017 fosse per il Myanmar l’”anno della pace”. Quanta strada c’è ancora da fare?

R. – Il percorso è ancora lungo. Sicuramente molto è stato fatto per quanto riguarda alcuni gruppi etnici e alcune minoranze, ma il problema dei Rohingya dimostra chiaramente che ancora c’è molto da fare. Va considerato, inoltre, che la questione Rohingya è poco presa in considerazione in Occidente, ma compare spesso, invece, nelle cronache dei Paesi musulmani, in particolare in quelli del Sud-est asiatico e questo sta creando e potrà creare anche in futuro frizioni e problemi tra il Myanmar e alcuni Paesi vicini, come la Malaysia o l’Indonesia.

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Israele si divide sulla condanna del soldato Azaria

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Israele si divide sul caso di Elor Azaria, il soldato 21enne condannato da un tribunale militare di Tel Aviv per l’assassinio a freddo di un assalitore palestinese che, ferito, giaceva a terra. Il militare rischia fino a 20 anni di carcere. I giudici devono decidere nei prossimi giorni, probabilmente il 15 gennaio, quale pena comminare. Nel frattempo, però, il Paese è in preda alle proteste con, da una parte, il premier Netanyahu, il governo e gli ultras di destra schierati al fianco del giovane e, dall’altra, le forze di centrosinistra e parte della società che condannano il comportamento del militare. Sul significato di questa condanna, Francesca Sabatinelli ha intervistato Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente: 

R. – Intanto mette in luce il fatto che in Israele c’è democrazia, perché se c’è una sentenza che condanna giustamente un soldato che ha ucciso a bruciapelo un palestinese che stava compiendo atti terroristici, ma che era stato già neutralizzato e steso a terra, questo vuol dire che qualcosa funziona. È stata importante, da questo punto di vista, la presa di posizione di Gadi Eizenkot, capo di Stato maggiore dell’esercito, che ha detto che i soldati non sono dei figli di papà in preda a reazioni emotive, ma sono soldati e come tali devono comportarsi, con tutto l’onore che questo comporta. Questa presa di posizione di Eizenkot è stata importante, così come quella dell’ex ministro della Difesa Moshe Ya'alon, che è stato poi dimissionato da Netanyahu, ma che ha difeso l’incriminazione di questo soldato. Ora, seppur comprensibile da un punto di vista elettorale, secondo me è abbastanza scandalosa la reazione di Netanyahu che, senza neanche attendere la sentenza, ha chiesto che il soldato venisse graziato, ma questo può farlo o il ministro della Difesa, Avidgor Lieberman, o il capo dello Stato, Reuven Rivlin. Credo che  sia difficile una grazia immediata. Tuttavia la pressione nella società israeliana è molto forte, così come è forte la tensione dovuta ai recenti atti terroristici di lupi solitari che hanno aggredito i cittadini israeliani.

D. - Le ripercussioni di questo processo potrebbero essere pesanti una volta annunciata la pena? Da una parte abbiamo gli ultras della destra e gran parte del mondo politico, dall’altra la sinistra israeliana; e poi i palestinesi che, addirittura parlano di processo farsa messo in piedi da Israele soltanto per evitare di essere portato davanti alla Corte internazionale di giustizia. Cosa ci si può aspettare?

R. - Si deve tenere presente però che c’è anche la reazione dell’esercito, perché si è pronunciato Eizenkot, il che in Israele non è che non conti nulla. Questo dipende da quale sarà la pena annunciata il prossimo 15 gennaio e, secondo, se il soldato sarà graziato o meno. In questo momento è  in atto uno scontro tra principi democratici elementari e l’esigenza di unità nazionale, di difesa dei sentimenti di reazione contro il pericolo, che in Israele è molto estesa e su cui fa leva Netanyahu, così come fanno Naftali Bennett (Ministro dell'Economia e Ministro dei Servizi Religiosi dell’attuale governo Netanyahu, nonché leader del partito La Casa Ebraica, ndr) e gli altri alleati di centrodestra del governo. Occorre quindi capire che cosa succederà prima di dare un giudizio su quelle che potranno essere le conseguenze di questa sentenza.

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LasciateCIEntrare: no a strutture detentive per i migranti

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Il tema dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) sarà affrontato "in Conferenza Stato-Regioni il 19 gennaio”. Lo ha affermato il ministro dell’Interno Marco Minniti, che ha precisato come si stia pensando a “piccoli numeri, per non sovraccaricare il territorio con strutture troppo grandi. Parliamo di 1.500/1.600 posti in tutto”. Alessandro Guarasci ha sentito Gabriella Guido, portavoce della campagna LasciateCIEntrare, gruppo di giornalisti che negli anni ha avuto accesso a queste strutture: 

R. – I Cie così come sono stati concepiti - e per fortuna molti sono stati chiusi - sono luoghi dove non solo la dignità, ma soprattutto la violazione dei diritti umani, era continua. Erano centri peggio delle carceri e questo è stato detto anche dalle varie commissioni sui diritti umani, dalla Commissione De Mistura e quant’altro. Il rimpatrio è possibile quando è stata accertata l’identificazione di un migrante e quando il consolato convalida il fatto che quel cittadino sia di nazionalità, ad esempio tunisino piuttosto che algerino o marocchino. Per cui ci sono dei tempi che vanno rispettati. È evidente che questo meccanismo non ha funzionato nel passato, perché altrimenti le espulsioni sarebbero state in numeri più elevati.

D. - Ma è davvero fattibile un’accoglienza più diffusa sul territorio invece?

R. - Si deve pensare in questa logica! Noi non capiamo perché negli altri Paesi europei, basi militari o ex missilistiche che abbiano, 1500 migranti non esistono! L’accoglienza diffusa è semplicemente e banalmente l’unico sistema che può funzionare. Chiediamoci perché gli Sprar vengono gestiti benissimo e non ci sono rivolte, non c’è un business dell’accoglienza sugli Sprar che poi vengono gestiti direttamente dai comuni e non da appalti dati dalle prefetture a cooperative che, come vediamo, si ammantato di far parte del terzo settore ma sono semplicemente degli sciacalli.

D. - In base alla vostra esperienza, qual è l’esempio peggiore di Cie che avete visitato in passato?

R. - Il Cie di Gradisca era forse, davvero, uno dei peggiori. È stato chiuso nel 2014 a seguito della morte di Majid, un ragazzo marocchino che durante una protesta è caduto dal tetto. Noi presentammo oltre venti esposti e cinque procure della repubblica sul territorio italiano e nessuno ha mai saputo di chi fosse la responsabilità di quella morte; il Cie di Bari, che è ora è chiuso, era un altro lager a cielo aperto. Noi abbiamo potuto, anche con immagini che hanno fatto il giro del mondo, far vedere che tipo di posto fosse; il Cie di Ponte Galeria … vi ricordate tutti tre anni fa la protesta delle bocche cucite. Questi luoghi sono talmente disumanizzanti che non si possono riformare!

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Famiglie, aumentano risparmio e potere d'acquisto, scarsi i consumi

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Aumenta il potere d'acquisto delle famiglie. Per l’Istat in un anno è aumentato dell’1,8%. Sale anche la propensione al risparmio, segno che gli italiani ancora non hanno fiducia nel futuro. Alessandro Guarasci

Gli italiani hanno più soldi in tasca, ma nei fatti questo non ha riflessi concreti sull’economia reale. Nel III trimestre 2016, il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato dello 0,2% rispetto al trimestre precedente, mentre i consumi sono cresciuti dello 0,3%. Ma quello che manca sono gli investimenti importanti, come quelli sul mattone. E poi la propensione al risparmio nel terzo trimestre 2016 è stata pari al 9,3%, in crescita dello 0,6% rispetto allo stesso periodo del 2015. I soldi quindi si preferisce mantenerli in banca. L’economista Luigi Campiglio:

R. – Il quadro è ancora troppo volatile, incerto e non solo per ragioni economiche, purtroppo; e le famiglie rispecchiano tutto questo in un atteggiamento che è cautelativo, più che conservativo. Questo però significa anche che se, come accade, il settore estero non tira, una crescita positiva ma contenuta dei consumi mantiene la nostra economia a livello anemico.

D. – Professore, a questo punto – secondo lei – che ci vuole? Un intervento sul fronte fiscale?

R. – Certamente, alcuni interventi andrebbero fatti con un certo coraggio; in questo momento – visto che se ne parla e quindi è forse l’occasione buona per cogliere l’occasione – l’occasione è tutto il programma di lotta contro la povertà, che è nato come una novità positiva che va migliorato su due piani. Il primo, che è certamente il più importante, è la dotazione di risorse che adesso sembra aumentata; e il secondo, probabilmente, sono le modalità di accesso che questo nuovo programma di lotta contro la povertà in Italia potrebbe consentire. E questo, forse, comincia a sanare non solo una situazione difficile di chi è in difficoltà, ma anche a dare un po’ di respiro a chi è borderline e vede questa situazione di povertà troppo vicina …

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Nella Festa dell'Epifania il tradizionale corteo di Viva la Befana

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Domani sfilerà in Via della Conciliazione il tradizionale corteo storico folcloristico “Viva la Befana” che arriverà in Piazza San Pietro dove parteciperà all’Angelus del Papa. Al microfono di Giulia Angelucci, ascoltiamo il promotore dell’iniziativa Sergio Balestrini,  presidente di Europae Fami.li.a.: 

R. – Il corteo quest’anno ha raggiunto la massima dimensione, anche come corposità folcloristica e soprattutto simbolica; partirà alle 10.10 dall’inizio di Via della Conciliazione e sarà diretto verso San Pietro. E quest’anno è molto importante perché vi partecipano addirittura cinque Comuni del territorio umbro (tra cui Acquasparta); un territorio che è proprio ai confini dell’epicentro del terremoto: delle città che vivono comunque nella paura… A queste cinque città sarà ispirato, come tradizione, il corteo di “Viva la Befana”. Noi ogni anno cambiamo città, perché immaginiamo che Gesù, nella universalità della Festa dell’Epifania e quindi della manifestazione di Gesù ai popoli della terra, ogni anno nasca in un luogo diverso; e da quel luogo arrivano i Re Magi. Proprio per far contenti i bambini, per la prima volta arriveranno su una carrozza del Cinquecento; saranno trainati da un cavallo Shire, molto raro in Italia: è un cavallo che raggiunge e supera i mille kg. Proprio per i bambini invece abbiamo invece un minicavallo che pesa neanche 55 kg. La caratteristica ancora di quest’anno è che abbiamo la partecipazione della fanfara a cavallo dell’Arma dei Carabinieri; e ci sarà la cerimonia dell’accoglienza. Noi vogliamo celebrare la Famiglia di Nazareth. Quindi i doni che faremo al Papa saranno soprattutto ispirati alla Famiglia di Nazareth: ci sarà una scultura di metallo, e gli infioratori di San Gemini hanno realizzato un bellissimo quadro fatto con dei petali di fiori che doneremo al Santo Padre. Noi riteniamo che questi siano il più bel dono che si può dare dopo i tre temi fondamentali del corteo: la pace, la solidarietà e la fratellanza tra i popoli.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 5

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.