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Sommario del 11/01/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa a Udienza generale: gli idoli deludono sempre, Dio mai

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La speranza sia riposta in Dio, che non delude, e non negli idoli, fantasie che conducono alla morte. E’ l’esortazione del Papa nella catechesi tenuta stamani all’Udienza generale in Aula Paolo VI. Francesco proseguendo il ciclo di catechesi dedicate alla speranza cristiana, mette in guardia da ideologie, denaro, vanità. Gli idoli, dice, "ci piacciono tanto". Il servizio di Debora Donnini

La catechesi di Francesco si dipana attorno a questi due poli: da una parte la speranza cristiana, quando la fiducia è riposta in Dio, dall’altra il rischio di rifugiarsi negli idoli, fabbricandosi un "dio" a nostra immagine. Una catechesi che prende spunto dal Salmo 115, nel quale si ricorda la falsità degli idoli a cui gli uomini sono tentati di affidarsi.

A volte si cerca un “dio” che renda la realtà come la vogliamo
La fede  consiste invece nel fidarsi di Dio anche se può arrivare il momento in cui, scontrandosi con le difficoltà della vita, l’uomo sperimenta “la fragilità di quella fiducia” e il bisogno di “sicurezze tangibili”, rileva Francesco con la sua profonda conoscenza della natura umana. “Lì è il pericolo”, dice: quando si è tentati di cercare consolazioni effimere, che sembrano lenire “la fatica del credere”:

“E pensiamo di poterle trovare nella sicurezza che può dare il denaro, nelle alleanze con i potenti, nella mondanità, nelle false ideologie. A volte le cerchiamo in un dio che possa piegarsi alle nostre richieste e magicamente intervenire per cambiare la realtà e renderla come noi la vogliamo; un idolo, appunto, che in quanto tale non può fare nulla, impotente e menzognero. Ma a noi piacciono gli idoli, ci piacciono tanto!”.

Il Papa mette in guardia dai veggenti
La Sacra Scrittura infatti denuncia la falsità degli idoli in cui l’uomo è tentato di riporre la fiducia facendone appunto oggetto di speranza. Francesco ricorda quando una volta in un parco di Buenos Aires ha visto tanti veggenti che a pagamento leggevano la mano. La gente faceva la fila per avere false speranze. “E’ la sicurezza di una – permettetemi la parola – stupidaggine”, dice il Papa e il suo pensiero va al film “Miracolo a Milano”:

“Questo è l’idolo, e quando noi vi siamo tanto attaccati: compriamo false speranze. Mentre di quella che è la speranza della gratuità, che ci ha portato Gesù Cristo, gratuitamente dando la vita per noi, di quella a volte non ci fidiamo tanto”.

Gli idoli non sono solo raffigurazioni fatte di metallo, ma anche quelle “costruite dalla nostra mente”, “quando riduciamo Dio ai nostri schemi, alle nostre idee di divinità”: l’uomo si fabbrica un “dio” a sua immagine, un “dio” che ci somiglia, comprensibile, prevedibile.

Gli idoli: dalle ideologie alla bellezza che ha indotto una donna all’aborto
Così si mette la fiducia in simulacri muti: le ideologie con la loro pretesa di assoluto, il grande idolo delle ricchezze, la vanità, il potere, il successo, con la loro illusione di onnipotenza. Ma anche la salute e la bellezza fisica possono diventare idoli a cui sacrificare ogni cosa:

“E’ brutto sentire e fa dolore all’anima quello che una volta, anni fa, ho sentito, nella diocesi di Buenos Aires: una donna brava, molto bella, si vantava della bellezza, commentava, come se fosse naturale: ‘Eh sì, ho dovuto abortire perché la mia figura è molto importante’. Questi sono gli idoli, e ti portano sulla strada sbagliata e non ti danno felicità”.

Chi ripone speranza negli idoli, diventa incapace di amare
E il Salmo è molto chiaro: se si ripone la speranza negli idoli, si diventa come loro:

“Non si ha più nulla da dire, si diventa incapaci di aiutare, cambiare le cose, incapaci di sorridere, di donarsi, incapaci di amare. E anche noi, uomini di Chiesa, corriamo questo rischio quando ci 'mondanizziamo'. Bisogna rimanere nel mondo ma difendersi dalle illusioni del mondo, che sono questi idoli che ho menzionato”.

Gli idoli deludono sempre, Dio mai
E infatti mentre gli idoli deludono, non così la speranza riposta nel Signore:

“Sempre il Signore si ricorda. Anche nei momenti brutti Lui si ricorda di noi. E questa è la nostra speranza. E la speranza non delude. Mai. Mai. Gli idoli deludono sempre: sono fantasie, non sono realtà”.

Confidando in Dio invece, “si diventa come Lui”: la sua benedizione ci trasforma in suoi figli e ci salva.

Riconoscere gli idoli e abbandonarli
Al termine dell’udienza generale, nei saluti ai pellegrini polacchi, Francesco ha ricordato fra’ Alberto Chmielowski, nel centenario della sua morte, sostenitore dei senza tetto e dei poveri. Nel salutare i pellegrini di lingua araba, ha parlato dell’idolo della droga che promette gioia per rubare la libertà. La cura dalla schiavitù degli idoli consiste, ricorda il Papa, prima di tutto nel riconoscerli, nel coraggio di abbandonarli e nel porre la speranza in Dio.

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Il Papa contro i “furboni” che vendono i biglietti per l’Udienza generale

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E al termine dell’udienza generale, dopo i saluti ai fedeli di lingua italiana, il Papa ha tirato fuori da una busta un biglietto rosso e ha ricordato che per entrare alle udienze i biglietti sono totalmente gratuiti. “E’ una visita gratuita, ha spiegato, che si fa al Papa per parlare con il Papa”: 

"Ma ho saputo che ci sono dei furboni, che fanno pagare i biglietti … [applausi] Se qualcuno vi dice che per andare in udienza dal Papa c’è bisogno di pagare tal cosa, ti stanno truffando: stai attento, stai attenta! Questo è gratuito. Qui si viene senza pagare, perché questa è casa di tutti. E chi dice questo di far pagare, ma questo è un reato, non so … ma quell’uomo, quella donna è un delinquente. Questo non si fa: capito?".

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Oggi in Primo Piano



'Porte Aperte' su persecuzioni cristiane: 1207 martiri nel 2016

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Cresce la persecuzione cristiana nel mondo, come documenta il Rapporto 2017 dell’organizzazione internazionale 'Porte Aperte', che ogni anno stila la lista nera dei 50 Paesi dove maggiormente i fedeli cristiani sono oppressi, vessati, discriminati, oggetto di abusi e violenze a causa della loro fede religiosa,  condizionati nel privato e nella vita pubblica. Roberta Gisotti ha intervistato Cristian Nani direttore in Italia di Porte Aperte 

Oltre 215 milioni di fedeli perseguitati, 1 su 3 gravemente, nei 50 Paesi più illiberali al mondo riguardo la religione, dove cresce la pressione anticristiana con quali motivazioni? Cristian Nani:

R. – Nel Report di quest’anno vi è una evidente ascesa del nazionalismo religioso in alcune aree dell’Asia. E questa è, forse, la parte che sorprende un po’ di più: un Paese come l’India sale al 15.mo posto a causa del nazionalismo induista, che opprime la vita sociale dei cristiani in questo grande Paese; ma anche nazioni come Laos, Bangladesh, Vietnam, Bhutan, che hanno origini e tipologie sociali completamente differenti, il nazionalismo religioso sta trovando particolare spazio. L’altro elemento fondamentale, che è poi la fonte principale di persecuzione anticristiana, rimane quello che noi definiamo l’“oppressione islamica”, estremismi ben conosciuti dalle prime pagine dei giornali e dei report radiofonici e televisivi come Boko Haram, al-Shabbat o l’Is e fino alle persecuzioni nella vita sociale ordinaria in almeno 35 dei 50 Paesi della lista.

D. – Al primo posto troviamo da 15 anni la Corea del Nord: e qui il problema è di tipo politico?

R. – Sì. Laggiù c’è l’ideologia che governa la vita sociale dei nordcoreani, che è pura adorazione nei confronti del leader Kim Jong-un. In Corea del Nord le violazioni dei diritti umani sono massicce: vi è addirittura la presenza conclamata di campi di rieducazione e di lavori forzati simili ai lager nazisti, in cui sono rinchiusi - noi stimiamo – tra i 50 e 70 mila cristiani per il semplice fatto di essere cristiani o di aver posseduto una Bibbia.

D. – Dr Nani, questa persecuzione è portata abbastanza all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale?

R. – Io credo che ci sia stato un aumento dell’attenzione negli ultimi anni. Ricordo che 7-8 anni fa era abbastanza difficile parlare di persecuzione dei cristiani, seppure mai come in questa epoca si sono perseguitati, in termini numerici. Ma se ne parla ancora molto poco e forse in maniera superficiale, soprattutto quando ci sono dei morti e cioè uomini e donne che vengono uccisi per il solo fatto di credere in Dio. Parliamo – secondo le nostre stime - di 1.207 martiri cristiani nell’anno appena trascorso e di oltre 1.300 chiese attaccate. Quello  che mi preme sottolineare è il fatto che proprio la discriminazione e il rilegare le persone ad una vita di serie B, ad una vita senza futuro, senza l’accesso alla scuola, senza l’accesso al mondo del lavoro e alle cure mediche per il fatto di credere in Cristo Gesù, questo è qualcosa che dovrebbe scuotere se non altro il mondo occidentale!

D. – Il fatto che queste persecuzioni siano addirittura in aumento è la spia che nel mondo stanno venendo meno anche gli altri diritti delle persone…

R. – Sicuramente è un segno dei tempi. E’ chiaro che vi è una lacerazione nelle società a molti livelli. Certo la persecuzione, il sangue dei martiri come seme della Chiesa, non è una novità di questi anni: la novità è che sta molto aumentando. 

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Obama, ultimo saluto: "yes we did". Non imitiamo Russia e Cina

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‘Yes we did’: l’ultimo saluto del 44mo presidente uscente degli Stati Uniti Barak Obama, nella sua Chicago, in un clima di forte commozione, dove 8 anni fa, nella leggendaria notte elettorale, aveva gridato, conquistando la Casa Bianca lo slogan ‘Yes we can’. Il servizio di Roberta Gisotti: 

‘Yes we did’, ce l’abbiamo fatta, ha sottolineato con orgoglio Obama, perché “oggi l’America è un Paese migliore”, ha detto, rivendicando quelle che secondo lui, ma forse non per gli americani che hanno preferito Trump alla Clinton, sono state grandi conquiste civili, tra queste la legalizzazione delle nozze gay, il salvataggio dell’industria automobilistica, la lotta allo Stato islamico. Non ha citato Obama il presidente eletto Trump, se non per dire che farà di tutto per agevolare la transizione, ma non è quello che è apparso finora. Ha parlato poi del futuro del Paese, assicurato che lavorerà per il bene degli Stati Uniti anche fuori della Casa Bianca per salvaguardare i principi di libertà, uguaglianza, democrazia, che in questa fase la minaccia del terrorismo rischia di intaccare, mettendo in guardia dal discriminare i musulmani d’America e le minoranze, a partire da quella afroamericana. Un richiamo anche ai cambiamenti climatici: negarli – ha detto – sarebbe tradire le generazioni future e lo spirito del Paese. Infine il monito a non imitare la Russia e la Cina, “potenze rivali” che non possono eguagliare la nostra influenza sul mondo - ha lanciato il suo affondo Obama - a meno che non  molliamo quello in cui crediamo e ci trasformiamo in un Paese che fa il prepotente con i vicini più piccoli. Ultimo omaggio alla moglie Michelle, “la mia migliore amica”, che mi ha “reso orgoglioso”. 

Sul discorso del presidente Barack Obama, Massimiliano Menichetti ha intervistato l’americanista Ferdinando Fasce, docente di Storia Contemporanea all’Università di Genova: 

R. – Credo che, pur considerando i limiti, i problemi, le opacità del doppio mandato di Obama, non si possa  non convenire con il fatto che quando Obama dice ”Yes we did” non è lontano dalla realtà. Sul piano internazionale ha ragione ad affermare che ha riportato a casa la maggioranza delle truppe, ha ragione a ricordare l’accordo sul nucleare con l’Iran e la non meno importante iniziativa sul cambiamento climatico.

D. - Sul piano interno spiccano la riforma sanitaria con luci ed ombre, soprattutto sulla questione dell’aborto, e poi il lavoro …

R. – Non mancano le ombre sulla riforma sanitaria, ma oggi venti milioni in più di statunitensi hanno accesso alle cure. Obama eredita da John W. Bush non solo due guerre, ma una recessione che non si vedeva dal 1922 con una disoccupazione che viaggiava sulle doppie cifre. Oggi la disoccupazione - di nuovo pur con limiti, lavori temporanei,  problemi…  - si attesta a poco più del quattro percento.

D. - Cosa succederà adesso che il neo presidente eletto Trump in sostanza ha già fatto capire che smantellerà molto di ciò che ha fatto Obama puntando su un ulteriore rilancio dell’occupazione?

R. - Premettiamo che Trump ha abilmente giocato su sacche di scontento che ci sono:  sacche di difficoltà, di sofferenza, di povertà. Come possa aiutare questi strati con le sue politiche è ancora da vedere. Adesso abbiamo avuto alcune uscite significative, come questi impegni da parte delle imprese dell’auto …

D. - Bloccare la produzione in Messico ed investire sul territorio statunitense …

R. - Rispetto a questo vedo due facce. Il fatto indubbiamente positivo  è che ci sono investimenti, però vedo anche che è una procedura che non passa attraverso un’esplicita, trasparente contrattazione, ma c’è Trump che manda tweet e gli imprenditori che si allineano. Qui, mi pare che ci siano dei problemi dal punto di vista del rapporto tra economia e politica in una liberal democrazia.

D. - Guardando alla politica internazionale, posizioni simili tra i due rispetto alla Cina, ma sulla Russia Trump accorcia una distanza …

R. - Obama aveva preso le distanze per la politica aggressiva di Mosca; Trump ci si riconosce meglio perché gli sembra di poter instaurare un rapporto di nuovo da leader che direttamente può contrattare essendosi riconosciuto in una qualche lunghezza d’onda con Putin. Ma qui poi bisogna veder le dinamiche geopolitiche reali. Più continuità probabilmente c’è rispetto alla Cina, anche se ancora dovremo vedere perché non bisogna dimenticare che questo atteggiamento di dichiarato neo protezionismo trumpiano potrebbe suscitare, e in parte ha già suscitato, delle reazioni negative.

D. - Ci saranno nuovi equilibri oppure è tutta una partita da giovare sia sul fronte interno che su quello esterno?

È una partita ancora tutta da giovare perché non bisogna trascurare la complessità della macchina repubblicana e l’imprevedibilità di Trump.

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Colombia: la Chiesa media tra governo e Eln

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Il governo colombiano riaprirà domani a Quito, capitale dell’Ecuador, il dialogo con l’Eln, l'Esercito di Liberazione Nazionale, la seconda forza di guerriglia del Paese dopo le Farc. Previsti dallo scorso ottobre, i negoziati vedranno la presenza della Chiesa colombiana, con la presenza dell’arcivescovo di Cali mons. Darío de Jesús Monsalve Mejía. Sulle differenze di questi colloqui rispetto all’accordo già siglato con le Farc, Michele Raviart ha intervistato Gianni La Bella, docente di Storia Contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia, che per conto della Comunità di Sant’Egidio sta seguendo la situazione: 

R. – Questo negoziato si presenta un pochino più complicato rispetto a quello delle Farc, per due problemi: da una parte il fatto che Santos tra circa un anno e mezzo lascerà la presidenza della Repubblica e quindi c’è una parte degli interlocutori che ha oggettivamente delle difficoltà; dall’altra, la metodologia che l’Eln chiede è molto diversa da quelle delle Farc, proprio perché prevede un forte coinvolgimento degli ambienti popolari, dei movimenti… E questo renderà il dialogo, probabilmente, un pochino più complicato.

D. – Che cos’è l’“Esercito di Liberazione Nazionale” e quali le sue peculiarità, anche rispetto a quello che è stato poi l’accordo con le Farc?

R. – L’Esercito di Liberazione Nazionale – l’Eln – è una guerriglia che si riconnette idealmente alla figura di Camilo Torres: un prete colombiano che, all’inizio degli anni Sessanta, abbandonò la vita diocesana e aderì come cappellano a questo movimento. L’Eln è un movimento, anch’esso, di natura guerrigliera; ma a differenza delle Farc ha un’origine meno marxista. Ha una presenza minore dal punto di vista numerico - oggi si parla di circa 3 mila persone, di cui circa 1.500-1.800 in armi – ma un fortissimo radicamento popolare, perché - a differenze delle Farc - è una guerriglia che ha dato sempre meno peso alla dimensione “guerrista” e quindi alla parte militare ed ha più puntato al coinvolgimento dei settori popolari, dell’associazionismo, dei sindacati, dei movimenti popolari.

D. – A parte lo scambio di prigionieri – ricordiamo che l’Eln ha sotto sequestro l’ex parlamentare Odín Sánchez– che cosa chiedono le due parti?

R. – La liberazione di questa persona è stato il casus belli che ha posticipato l’apertura di questo negoziato, perché l’Eln sostengono che questo non fosse previsto negli accordi previ, mentre il governo lo considera una conditio sine qua non per aprire la fase negoziale. Ma cosa chiedono l’Eln? Chiedono ovviamente e sostanzialmente un processo negoziale che operi una serie di cambiamenti strutturali della società colombiana e che assicuri il reinserimento democratico della loro esperienza politica. Ma c’è anche un altro fatto da tener presente: la conclusione positiva del negoziato alle Farc, ha giustamente anche un po’ veicolato nella Comunità internazionale l’immagine – ovviamente giusta! – che la Colombia un pochino ce l’ha fatta. E’ come dire che l’Eln si inserisce in questo solco e quindi non può – per certi versi – far finta che questo negoziato non esista e deve anche accettare che certe cose sono state risolte. Anche se il giudizio storico-politico che l’Eln dà del trattato di pace firmato dalle Farc è estremamente negativo: dicono che le Farc si sono arrese al governo ed hanno accettato, in tutto e per tutto, quello che voleva il governo, quasi dimenticando gli obiettivi della loro pluridecennale lotta politica.

D. – La trattativa viene seguita anche dalla Chiesa colombiana. Qual è il suo ruolo?

R. – I vescovi colombiani, durante la loro ultima Assemblea, hanno costituito una Commissione composta da cinque vescovi, presieduta ed animata dall’arcivescovo di Cali, mons. Darío Monsalve, che è una figura che gode di grande rispetto e considerazione da parte dell’Eln. La Chiesa vuole seguire questo negoziato in maniera più prossima, più ravvicinata e quindi desidera aiutare il dialogo tra le due parti in una posizione un pochino terza e quindi ovviamente non schierata: la Conferenza episcopale – e questo è molto importante! – non rappresenta gli assessori dell’Eln, né gli assessori del governo. E’ una parte terza che, all’interno del dialogo, vuole essere al servizio – come si dice in America Latina – “de la mesa del dialogo”, del tavolo negoziale. 

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Emergenza maltempo: Caritas, critica situazione migranti in Serbia

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Sono tra i 7 mila e i 10 mila e provengono da Afghanistan, Pakistan, Siria, Iraq. Sono i migranti ammassati nei campi profughi o in accampamenti di fortuna in Serbia, con temperature che negli ultimi giorni hanno superato i venti gradi sotto zero. Si tratta di bambini, anziani, intere famiglie in attesa di oltrepassare il confine ungherese a nord del Paese, in un’emergenza freddo che si estende a tutti i Balcani. Ce ne parla Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas Italiana in Bosnia Erzegovina e in Serbia, raggiunto telefonicamente a Sarajevo da Giada Aquilino

R. - L’emergenza di questi giorni è abbastanza pesante, perché le temperature che qui d’inverno sono già rigide – è normale da queste parti arrivare anche a meno 10 - adesso sono scese di almeno altri 20 gradi. Sarajevo due mattine fa segnava meno 26. Questo comporta disagi a tutti i livelli, però la situazione probabilmente più grave al momento è in Serbia: il termometro segna meno 15, meno 20 e il Paese è ancora interessato dalla crisi migratoria lungo la rotta balcanica. Ci sono circa diecimila persone nei campi profughi, alcune addirittura fuori dai campi profughi, che stanno dormendo in condizioni terribili e, con questo freddo, rischiano la vita.

D. - Di chi si tratta? Chi sono queste persone?

R. - Sono le persone che, anche dopo la chiusura della rotta balcanica del marzo scorso e l’accordo con la Turchia con cui si è cercato di frenare il flusso migratorio lungo la rotta balcanica, stanno provando a raggiungere l’Unione Europea - in particolare la Germania - attraversando illegalmente i confini. Quindi sono persone arrivate per lo più da Oriente – afghani, pakistani, ma anche siriani, iracheni - che scappano da situazioni soprattutto di guerra. Sono arrivate in Grecia in qualche modo e da lì proseguono o via Turchia o via Bulgaria o tramite la Macedonia fino in Serbia. Il fatto è che qui fanno fatica a proseguire, perché puntano ad entrare nel territorio dell’Unione Europea dall’Ungheria che ha messo il muro al confine, l’esercito al confine. Quindi rimangono in qualche modo bloccati anche per mesi e mesi in Serbia, in attesa del momento buono per attraversare il confine. Il fatto è che la Serbia non è pronta a questo tipo di numeri: i campi sono super affollati, ci sono oltre mille persone che stanno dormendo all’aperto a Belgrado. In questi giorni circolano anche su internet, sui media italiani, le foto della gente in fila a Belgrado sotto la neve - alcuni di loro in ciabatte - per un pezzo di pane. Immagini terribili nel 2017!

D. - Si tratta di persone che appunto in molti casi hanno la guerra alle spalle e davanti trovano barriere anti migranti. Ma al di là delle temperature, perché è così devastante l’impatto di questa ondata di freddo?

R. - È difficile muoversi. Le famiglie, le persone che vivono in zone rurali fanno più fatica, sono isolate e stanno soffrendo molto queste temperature. Per quanto riguarda i migranti, alcuni gruppi provengono da zone dove i climi non sono freddi. Per chi viene soprattutto dal Medio Oriente, dalla Siria, dall’Iraq, cioè da zone in cui queste temperature non si registrano mai solitamente, è uno shock anche termico. Non sono abituati e quindi mettono a rischio la propria salute e la propria vita in questi giorni.

D. – Com’è impegnata la Caritas in questo momento?

R. - Caritas sta cercando di fare quello che può in queste condizioni, offrendo l’assistenza possibile a queste persone in termini di bisogni di base: vestiti, cibo e supporto sanitario. Una cosa importante va detta: in Serbia fino ad ora Caritas fa quello che il governo le consente di fare. La gestione del fenomeno migratorio è sotto strettissimo controllo governativo: il governo non vuole che le organizzazioni della società civile prendano iniziative autonome. Quindi noi vediamo che ci sono dei bisogni non coperti, avremmo anche i mezzi per poter rispondere, ma purtroppo la rigidità del governo di Belgrado impedisce di rispondere adeguatamente ai bisogni di queste persone, senza invece capire che la gente in Serbia ci rimane comunque, perché ormai è quasi arrivata alla meta europea, quindi non se ne andrà semplicemente perché nel campo le condizioni sono peggiori.

D. - Parliamo di Caritas italiana, che sul terreno collabora con le Caritas locali…

R. - Caritas italiana opera soprattutto attraverso la Caritas Serbia e le Caritas diocesane del Paese, che ormai da quasi due anni sono in prima linea nell’emergenza migratoria.

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Vescovi Costa d'Avorio: costruire la pace con la non-violenza

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Costruire la pace attraverso la non-violenza “attiva e creativa”: è l’impegno preso dalla Chiesa cattolica della Costa d’Avorio all’inizio del 2017. In un lungo messaggio a firma del card. Jean Pierre Kutwa, arcivescovo metropolita di Abidjan, la Conferenza episcopale locale si sofferma sul tema della non-violenza, scelto da Papa Francesco come leit-motiv della Giornata mondiale della pace celebrata il 1.mo gennaio scorso, per analizzare la realtà del Paese.

Migrazioni forzate, violenza senza nome
La Costa d’Avorio, infatti, non sta attraversando un periodo facile, sottoposta a continue sfide: la prima, scrive il card. Kutwa, è quella delle “migrazioni forzate” che spingono tante persone a rischiare la vita in cerca di un futuro migliore. Ma questa “è una forma di violenza senza nome che richiede una soluzione in tempi rapidi”, sottolinea il porporato. La domanda fondamentale, però, è un’altra: cosa offre la Costa d’Avorio alla sua popolazione per “porre fine a questo esodo contemporaneo?”. Cosa offre ai giovani che “vogliono guadagnare soldi il più rapidamente possibile e senza alcuno sforzo?”. Cosa offre “ai bambini che sono assuefatti alla violenza, vissuta continuamente a scuola, in famiglia, in televisione?”. Cosa offre un Paese in cui si contano “omicidi, distruzione dei beni, attacchi terroristici e vendette?”.

Spezzare le catene dell’ingiustizia con un supplemento di bontà
Di qui, l’esortazione della Chiesa ivoriana a vivere guardando all’esempio di Gesù, il quale ha fatto della non-violenza il suo insegnamento primario: “Oggi, essere veri discepoli di Gesù – afferma l’arcivescovo di Abidjan – significa opporre alla violenza ed all’ingiustizia del mondo un supplemento di bontà che ci viene da Dio, così da essere tutti attori della non-violenza”. In quest’ottica, il card. Kutwa rivolge un sentito appello a tutti i membri della società: ai cristiani, chiede di “spezzare le catena dell’ingiustizia” e di “riconciliarsi con gli uni con gli altri”; agli uomini, si richiede di “percorrere sentieri di pace”, attraverso “il dialogo ed il rispetto degli impegni presi”, “senza ricorrere ad alcuna forma di violenza fisica, verbale o morale”.

Appello alle donne: siate leader della non-violenza!
Anche le donne vengono chiamate in causa: a loro, il porporato ricorda di essere “leader della non-violenza” perché, “come recita un proverbio ivoriano, ‘Ciò che la donna vuole, Dio vuole’ ”. “Donne ivoriane – è quindi la domanda del card. Kutwa – cosa volete per il Paese? E cosa fate, a tutti i livelli della scala sociale, perché i vostri figli, mariti, fratelli e sorelle intraprendano il cammino della non-violenza?”. “Il vostro compito – aggiunge il porporato – è dimostrare che, nonostante i problemi, Gesù è sempre presente e ci indica il cammino da seguire”. Un’ulteriore esortazione viene poi lanciata alle vittime di violenza, affinché “chiedano aiuto a Dio per voltare pagina”, il che “non significa concedere l’impunità ai colpevoli, che vanno perseguiti secondo la legge”, ma implica il saper accantonare “il desiderio di vendetta”.

Tutte le religioni siano “artigiane della pace”
Centrale, poi, il richiamo alle religioni perché – sottolinea la Chiesa ivoriana, citando Papa Francesco – l’impegno in favore delle vittime di ingiustizia e violenza non è patrimonio esclusivo della Chiesa cattolica, ma è proprio di numerose tradizioni religiose per le quali la compassione e la non violenza sono essenziali”. Di qui, il richiamo a “tutti i credenti” ad essere “artigiani della pace”.

La famiglia, culla della non-violenza
E ancora: i vescovi ivoriani lanciano un appello alle famiglie, che hanno “un ruolo fondamentale” nello sviluppo di una cultura della non-violenza. È in esse, infatti, che si impara a superare i conflitti “non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia ed il perdono”. Ed è dalla famiglia che “la gioia dell’amore si propaga nel mondo e raggiunge l’intera società”. Da qui, dunque, bisogna partire – scrive il card. Kutwa – per arrivare ad “un’etica della fraternità, della coesistenza pacifica che non si fondi sulla paura e la violenza, ma sulla responsabilità, il rispetto ed il dialogo sincero”.

I politici si impegnino per la pace
Infine, un’ultima esortazione viene rivolta ai leader politici, affinché facciano davvero della non-violenza “lo stile di una politica per la pace”, guardando “agli avversari” come “a fratelli con cui camminare nella stessa direzione”, per “aiutare la popolazione”. In quest’ottica, scrivono i presuli della Costa d’Avorio, diventa essenziale “inculcare nel Paese una cultura della sconfitta” che aiuti a vivere le elezioni come “veri momenti di festa per tutti, perché tutti guardano allo sviluppo del Paese”. Il messaggio della Chiesa ivoriana si conclude con l’appello di Papa Francesco al disarmo ed alla proibizione e abolizione delle armi nucleari, mentre l’intero Paese africano viene affidato alla Vergine Maria, Regina della pace. (A cura di Isabella Piro)

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In Malawi con le piogge la fine della carestia

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In Malawi finalmente è arrivata la pioggia. Le tanto attese precipitazioni si stanno verificando dopo un anno di pesante carestia che ha colpito uno dei Paesi più poveri al mondo. Lucas Duran ha raccolto la testimonianza di padre Mario Pacifici, monfortano, missionario in Malawi da ben 40 anni. La città meridionale di Balaka è il luogo in cui svolge il suo servizio. Sentiamo: 

R. – La pioggia è vita per noi, è l’elemento positivo di questo inizio d’anno per il Paese del Malawi che, col suo primato di essere tra i più poveri Paesi al mondo, ha vissuto un anno di carestia molto dura, terribile. Quest’anno voglio testimoniare che grazie a tante associazioni e persone di buona volontà è stato un anno di carestia che la gente ha affrontato con più fiducia, con più speranza, perché tanti hanno aiutato. Mi piace nominare il nostro Papa Francesco che ha dato un contributo molto sostanziale anche alla fame del Malawi. E’ un Paese che ha come ricchezza la pace e come difficoltà enormi c’è l’economia, che non va bene e bisogna riconoscerlo. Noi possiamo trovare la forza solo nel cercare di mettere in luce la pace che c’è ancora in questo Paese per poter mettere insieme tutte le forze e trovare la via d’uscita da una situazione che non deve diventare cancrena ma che deve lasciare spazio alla speranza che il Paese può ancora crescere.

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Nigeria: oltre 800 morti e 16 chiese distrutte dai terroristi Fulani

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"Negli ultimi tre mesi, in più della metà del territorio della parte meridionale dello Stato di Kaduna c’è stata una intensificazione degli attacchi da parte del Fulani Herdsmen Terrorist (Fht), un gruppo terroristico di pastori nomadi di etnia Fulani” denuncia mons. Joseph Danlami Bagobiri, vescovo di Kafanchan, nello Stato di Kaduna, durante una sua visita alla sede italiana di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs). “In Occidente questo gruppo è quasi sconosciuto” sottolinea mons. Bagobiri, ma è responsabile da settembre ad oggi - riporta l'agenzia Fides - dell’incendio di 53 villaggi, della morte di 808 persone, del ferimento di altre 57, della distruzione di 1.422 case e di 16 chiese.

Oltre 12.000 cristiani uccisi e 2.000 le chiese distrutte a causa del terrorismo
Il vescovo ricorda che dal 2006 al 2014, sono più di 12.000 i cristiani uccisi e 2.000 le chiese distrutte a causa del terrorismo in Nigeria. Il maggior responsabile di questi crimini è il gruppo fondamentalista islamico Boko Haram. Mons. Bagobiri rileva che Boko Haram non è l'unico gruppo che diffonde il terrore nel Paese africano, sottolineando il ruolo dei pastori Fulani negli ultimi anni.

Chi sono i Fulani?
I Fulani sono un gruppo etnico nomade protagonista da tempo di conflitti ricorrenti con gli agricoltori della zona. Tuttavia negli ultimi tempi gli attacchi sono di un tipo completamente diverso dai vecchi scontri tra contadini e pastori, perché questi ultimi usano “armi sofisticate che prima non esistevano, come AK-47, la cui origine c’è sconosciuta” sottolinea mons. Bagobiri. (L.M.)

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Chiese cristiane malesi: aiutare i Rohingya rifugiati nel Paese

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Mettere in atto misure concrete per aiutare i Rohingya, rifugiatisi in Malaysia: questo l’appello lanciato al governo di Kuala Lumpur dalle Chiese cristiane nazionali.

Circa 50mila i Rohingya rifugiati in Malaysia
Nei giorni scorsi, infatti, nella capitale malese, si è svolto un forum che ha visto riunite diverse organizzazioni religiose ed associazioni della società civile, le quali hanno affrontato la drammatica questione dei Rohingya, la minoranza musulmana birmana, da diversi messi sottoposta ad attacchi da parte dell’esercito governativo di Yangon. Una situazione che ha spinto circa 50mila Rohingya a rifugiarsi in Malaysia.

2017 sia “Anno della solidarietà con i Rohingya”
Di qui, l’iniziativa della Chiese cristiane malesi che hanno deciso di proclamare il 2017 come “Anno della solidarietà con i Rohingya”. In particolare, a nome del Consiglio delle Chiese malesi, organismo che riunisce la maggior parte delle Chiese cristiane del Paese, tra cui la Chiesa cattolica, il pastore metodista Herman Shastri ha ribadito l’importanza di garantire “il rispetto dei diritti umani” della minoranza musulmana birmana, esortando in tal senso il governo di Kuala Lumpur ad “agire concretamente” in tal senso.

Vita umana è sacra, va tutelata
“Tutti gli esseri umani sono creati da Dio e quindi ogni vita umana è sacra – ha aggiunto il rev. Shastri – Per questo, tutte le religioni devono fare il possibile per tutelare la vita e la dignità delle persone”. Di qui, l’appello a tutti i cristiani malesi, pari a poco meno del 10% della popolazione, ad offrire aiuto ai Rohingya.

I dati dell’Acnur
​Da ricordare che, secondo i dati diffusi ad ottobre 2016 dall’Acnur (Altro Commissariato Onu per i rifugiati), in Malaysia si sono registrati oltre 150mila rifugiati e richiedenti asilo: di tale cifra, il 90% è di origine birmana ed il 40%, pari a circa 54mila persone, è Rohingya. (I.P.)

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Dossier Caritas su povertà rurale. Focus su Haiti a 7 anni dal sisma

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“Dopo il violentissimo terremoto che sette anni fa, il 12 gennaio 2010, provocò almeno 230mila vittime accertate, oltre 300mila feriti e un milione e mezzo di senza tetto, la popolazione locale ha vissuto anche la delicata fase delle elezioni politiche e gli effetti devastanti dell’uragano Matthew”. Caritas Italiana - riporta l'agenzia Sir - sin dai primi giorni è stata accanto alla popolazione terremotata e alla Chiesa locale insieme alla rete internazionale Caritas. 

Finanziati 205 progetti di solidarietà, per un importo di quasi 24 milioni di euro
Finora sono stati finanziati “205 progetti di solidarietà, per un importo di quasi 24 milioni di euro e in diversi ambiti: aiuti immediati, ricostruzione, socio-economico; idrico-sanitario; animazione/formazione/istruzione. La maggior parte dei progetti sono stati realizzati nelle zone più colpite dal sisma (ovest e sud-est), ma si è comunque intervenuti in tutte e 10 le diocesi”.

800 milioni di persone che vivono in stato di povertà assoluta nel mondo si trovano in aree rurali
All’importanza della terra Caritas Italiana dedica il primo dossier con dati e testimonianze del 2017, dal titolo “Ripartire dalla terra. Dalla povertà rurale a nuove politiche per lo sviluppo”, che contiene un focus su Haiti, a sette anni dal terremoto. Tre quarti degli 800 milioni di persone che vivono in stato di povertà assoluta nel mondo, ricorda il dossier, si trovano in aree rurali. Solo ad un quinto delle comunità rurali e popolazioni indigene del mondo vengono riconosciuti titoli di proprietà della terra. Vi è un incremento di episodi di espropri forzati, violenze e omicidi nei territori in cui queste popolazioni abitano e da cui traggono sostentamento. Papa Francesco, ricorda la Caritas, in più occasioni ha sottolineato la centralità della “Madre Terra”, ad esempio nell’enciclica Laudato si’.

È fondamentale coinvolgere i più emarginati con investimenti mirati 
Il focus su Haiti evidenza come “la maggior parte degli haitiani vive di sussistenza e le prime fonti di sostentamento sono agricoltura e allevamento. Lo sviluppo in ambito rurale richiede interventi multisettoriali accompagnati da politiche inclusive. È fondamentale coinvolgere i più emarginati con investimenti mirati che possano migliorare gli effetti di una rapida trasformazione strutturale in termini di equità nella distribuzione dei benefici da essa generati”. (R.P.)

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Cyberspionaggio: la sicurezza al 100% non esiste

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“Mai acquisiti dati riservati su altre persone”: questa la difesa dei fratelli Occhionero interrogati stamattina dal gip di Roma. Sui due pende un’accusa di cyberspionaggio ai danni dello Stato, si tratta della più grande attività di dossieraggio illegale mai avvenuta in Italia. Ma questo è solo l’ultimo dei casi sul tema, da Wikileaks alle accuse agli hacker russi nella vittoria di Trump, siamo di fronte a una nuova forma di conflitto, parallelo a quello che si combatte con le armi? Roberta Barbi lo ha chiesto al prof. Antonio Teti, esperto di cyber intelligence dell’Università di Chieti-Pescara: 

R. – Sicuramente il potere delle informazioni è una realtà di fatto, tant’è che le informazioni  - oggi - sono considerate come l’oro nero del terzo millennio. Quindi chi detiene informazioni riconducibili a qualsiasi tipo di persona, anche che non rivesta un ruolo di particolare rilievo, sono comunque informazioni che possono essere spese all’interno del cyberspazio nel mercato dei dati.

D. – In pratica, nel caso in questione è stato installato un virus che ha garantito il controllo da remoto dei computer coinvolti e ha consentito la sottrazione di documenti senza che i diretti interessati se ne accorgessero. Ci spiega brevemente come si fa?

R. – È molto semplice. In questo caso parliamo di un “malware”, cioè di un software “malizioso” ed è anche piuttosto datato come software; però c’è un aspetto da evidenziare: i software utilizzati per questo tipo di finalità - cioè quelli di cyberspionaggio - non possono essere gestiti da una o due persone. Le applicazioni software che consentono di acquisire dati all’interno del cyberspazio devono essere gestite da più persone, soprattutto, come in questo caso, quando si tratta di un’attività condotta su centinaia e centinaia di utenti.

D. – Sono stati violati per anni computer di politici, militari, religiosi, di enti… nelle mani della polizia postale ci sono migliaia di nomi. Questo significa che ci sono falle nel sistema? È davvero così facile?

R. – Diciamo che la sicurezza a livello di sistemi informativi, la sicurezza al 100% non esiste. Nel corso degli ultimi decenni sono stati violati i portali di strutture che sono oltremodo messe in sicurezza, come il portale della Cia, dell’Fbi e tanti altri. L’aspetto più importante è mantenere alto il livello di protezione dei sistemi informativi e questo lo si fa rimanendo costantemente aggiornati da un punto di vista tecnico. ma anche e soprattutto da un punto di vista di “tendenze” riconducibili al mondo della cybercriminalità. Quindi bisogna capire anche cosa interessa maggiormente, quali dati interessano maggiormente un determinato momento.

D. – Nel caso delle violazioni ai danni dell’Enav, si parla anche di attentato alla sicurezza nazionale e potrebbero emergere anche delitti contro la personalità dello Stato. A che punto è la legislazione in questo campo?

R. – Esistono anche in Italia soprattutto norme che tendono a tutelare da un punto di vista legale queste violazioni commesse all’interno del cyberspazio. Però bisogna sempre considerare che la rete internet - quindi il cyberspazio - è un qualcosa che esiste a livello multinazionale, cioè sovranazionale. Per cui, pensare di perseguire legalmente un atto criminoso condotto all’interno del cyberspazio è veramente molto, molto difficile.

D. – A quanto ha detto il suo legale, Occhionero si difende dicendo che i server all’estero li aveva per motivi di lavoro. Per andare a fondo di questa vicenda, dunque, si dovrà ricorrere anche a rogatorie internazionali?

R. – Sì, ma penso che siano tecnicamente inutili, da un punto di vista pratico. Di fatto, nel momento in cui si attiva uno spazio all’interno del web su un server ubicato – ad esempio – in un Paese con il quale magari non si hanno rapporti, risulta molto molto difficile venire a capo di determinate indagini. All’interno del cyber-spazio, sono pochissimi i casi in cui effettivamente si riesce a identificare gli autori di un determinato crimine e anche a perseguirli. Nel cyberspazio l’indipendenza e l’assoluta gestione in autonomia dei sistemi informativi è un dato di fatto e quindi l’ingovernabilità della rete di fatto azzera questi tentativi di pover risalire ai mandanti di un determinato crimine condotto all’interno di internet.

D. – Si parla di tre livelli di interesse in questa attività illecita: carpire informazioni finanziarie per avvantaggiarsene, informazioni politiche per esercitare lobbismo, informazioni personali per usarle come armi di ricatto. Che rischi ci sono, soprattutto per la politica e per l’economia?

R. – I rischi sono totali e sono continui: qualsiasi tipo di informazione ha un valore. Anche, ad esempio, i dati riconducibili a una persona comune hanno un prezzo in rete, dato dalla possibilità di utilizzare questi dati anagrafici di una persona qualsiasi per creare un’identità falsa. C’è un aspetto da tenere presente: più informazioni immettiamo all’interno della rete, maggiormente ci esponiamo a rischi di questo tipo. Soprattutto negli ultimi anni sta prendendo piede in modo particolare quella che viene definita la “cyber intelligence”, cioè l’intelligence del cyberspazio: consiste nella ricerca, nell’acquisizione e nell’elaborazione di informazioni che, una volta assemblate, possono creare una conoscenza particolare, spendibile in un determinato contesto.

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Italia: in aumento la donazione d'organi per i trapianti

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Il 2016 segna, in Italia, un più per i trapianti: l’anno appena trascorso ha infatti registrato un aumento di donazioni. Stabili i rifiuti dei parenti per l'espianto e stabile anche il divario che ancora si registra tra Nord e Sud della penisola. Sono i dati forniti ieri dal Centro nazionale trapianti. Francesca Sabatinelli

110 in più rispetto allo scorso anno. Il 2016 è stato un anno positivo, con i suoi 1.596 donatori, non tutti effettivamente utilizzati, segnala il Centro nazionale trapianti, per problemi vari che non hanno consentito di rispettare la volontà del soggetto. Resta però il dato dell’anno record. Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro:

R. – E’ stato un anno-record: nel 2016 abbiamo avuto il più alto numero di donazioni e di trapianti mai avuto in Italia. In particolare il numero dei trapianti, che supera i 3.000 – sono circa 3.700: è veramente un numero significativo. Rappresentano un aumento di trapianti del 15% rispetto all’anno precedente. Io credo che sia legato a un maggior lavoro delle rianimazioni: e qui vanno davvero ringraziati i rianimatori; e poi a una migliore funzionalità della rete. E’ aumentata l’offerta degli organi, cioè la rete ha lavorato di più, i coordinamenti hanno lavorato di più e questo ha consentito una migliore utilizzazione degli organi disponibili. E poi i chirurghi hanno lavorato davvero bene: hanno lavorato molto, tutti i giorni, 24 ore su 24. E’ una rete che ha funzionato e ha lavorato a un livello più elevato rispetto agli anni precedenti.

D. – Il fatto che ci siano più potenziali donatori denota anche una maggiore sensibilità da parte degli italiani?

R. – Sotto questo aspetto c’è da lavorare; in Italia, le opposizioni sono tuttora al 30%; numericamente abbiamo avuto più di 700 opposizioni, lo scorso anno. Questo significa che possiamo ottenere dei risultati importanti se riusciremo a diminuire queste opposizioni. Solo in Spagna c’è un numero di opposizioni che è quasi la metà di quello che è in Italia, mentre la Francia – che è l’altro Paese vicino a noi – ha un numero di opposizioni leggermente superiore al nostro e gli altri Paesi europei hanno tutti numeri più elevati rispetto ai nostri. Quindi l’Italia ha – teoricamente – una buona posizione europea. In realtà, questo è un settore su cui si può lavorare: sull’opinione pubblica da una parte e sulle relazioni tra i medici, i rianimatori e i familiari delle persone di cui è stata accertata la morte.

Ancora una volta è la regione Toscana a distinguersi per generosità. e ancora una volta si evidenzia il divario tra Nord e Sud Italia:

“Il problema del Sud è relativo al fatto che le donazioni di trapianti si fanno nelle strutture pubbliche e là dove esistano delle complessità o delle criticità nelle strutture pubbliche, mediamente queste si riflettono anche sui trapianti. In realtà, un’analisi un po’ più dettagliata ci fa vedere che c’è una regione del Sud – la Sardegna – che ha ottenuto un risultato davvero positivo, ai livelli dell’area centro-nord; ci sono le grandi regioni del Sud – come la Puglia, la Sicilia e la Campania – che stanno incrementando le loro donazioni e il loro numero dei trapianti. Il quadro è un quadro in miglioramento. Sicuramente, anche qua c’è spazio per migliorare: questa non vuole essere la solita frase buttata lì per dire che le cose non vanno bene. C’è un impegno al miglioramento anche da parte delle amministrazioni regionali, e gli ultimi dati sono consistenti”.

In aumento anche i “samaritani”, donatori viventi che scelgono di aiutare sconosciuti malati:

“Sta aumentando: abbiamo avuto una “catena samaritana” nel 2015, due nel 2016; abbiamo altri donatori che sono già segnalati e che stanno facendo il percorso: io credo che aumenteranno. Ed è importante. Voglio dire una cosa, bellissima, che ha detto il donatore “samaritano”: “Perché no? E’ bellissimo! Perché no?”. Il donatore samaritano è un signore che ha dato un rene a una persona che non sa chi sia, ma ha detto: “Perché no?”. Ecco, credo che sia questo “perché no?”, che è un segno di coesione sociale, di solidarietà concreta, profonda. Credo che potrebbe diventare un ottimo slogan … “Perché no?” …

 

 

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 11

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.