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Sommario del 12/01/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa a S. Marta: nel cuore si gioca l'oggi della nostra vita

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La nostra vita è un oggi, che non si ripeterà. Nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, il Papa esorta a non avere il cuore indurito, senza fede, ma aperto al Signore. Nel nostro cuore infatti si gioca l’oggi. Il servizio di Debora Donnini

“Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”. Parte da questo passo della Lettera agli Ebrei, contenuto nella prima Lettura della Messa odierna, l’omelia di Francesco che si dipana attorno a due parole: “Oggi” e “cuore”.

L'oggi nel quale abbiamo ricevuto l'amore di Dio
L’oggi del quale parla lo Spirito Santo, nel passo della Lettera agli Ebrei, è infatti “la nostra vita”, un oggi “pieno di giorni” ma “dopo il quale non ci sarà un replay, un domani”, “un oggi nel quale noi abbiamo ricevuto l’amore di Dio”, la promessa di Dio di trovarlo”, spiega il Papa, “un oggi” nel quale possiamo rinnovare “la nostra alleanza con la fedeltà a Dio”. C’è però “soltanto un solo oggi, nella nostra vita” e la tentazione è quella di dire: “Sì, farò domani”. "La tentazione del domani che non ci sarà”, come Gesù stesso spiega nella parabola delle dieci vergini: le cinque stolte che non avevano preso con loro l’olio assieme alle lampade, lo vanno poi a comprare ma quando arrivano, trovano la porta chiusa.  Francesco fa anche riferimento alla parabola  di colui che bussa alla porta dicendo al Signore: “Ho mangiato con te, sono stato con te …”.  “Non ti conosco: sei arrivato tardi …”:

“Questo lo dico non per spaventarvi, ma semplicemente per dire che la vita nostra è un oggi: oggi o mai. Io penso a questo. Il domani sarà il domani eterno, senza tramonto, con il Signore, per sempre. Se io sono fedele a questo oggi. E la domanda che vi faccio è questa che fa lo Spirito Santo: ‘Come vivo io, questo oggi?’”.

Il nostro cuore sia aperto al Signore
La seconda parola che viene ripetuta nella Lettura è “cuore”. Con il cuore infatti “incontriamo il Signore” e tante volte Gesù rimprovera dicendo: “tardi di cuore”, tardi nel capire. L’invito è quindi a non indurire il cuore e a chiedersi se non sia “senza fede” o “sedotto dal peccato”:

“Nel nostro cuore si gioca l’oggi. Il nostro cuore è aperto al Signore? A me sempre colpisce quando trovo una persona anziana – tante volte sacerdoti o suorine – che mi dicono: ‘Padre, preghi per la mia perseveranza finale’ – ‘Ma, hai fatto tutta la vita, bene, tutti i giorni del tuo oggi sono nel servizio del Signore, ma hai paura …?’ – ‘No, no: ancora la mia vita non è tramontata: io vorrei viverla pienamente, pregare perché l’oggi arrivi pieno, pieno, con il cuore saldo nella fede, e non rovinato dal peccato, dai vizi, dalla corruzione …”.

Interrogarsi sul nostro oggi e sul nostro cuore
Il Papa esorta dunque a interrogarci sul nostro oggi e sul nostro cuore. L’oggi è “pieno di giorni” ma “non si ripeterà”. I giorni si ripetono finché il Signore dica “basta”:

“Ma l’oggi non si ripete: la vita è questa. E cuore, cuore aperto, aperto al Signore, non chiuso, non duro, non indurito, non senza fede, non perverso, non sedotto dai peccati. E il Signore ha incontrato tanti di questi che avevano il cuore chiuso: i dottori della legge, tutta questa gente che lo perseguitava, lo metteva alla prova per condannarlo … e alla fine sono riusciti a farlo. Andiamo a casa con queste due parole soltanto: com’è il mio oggi? Il tramonto può essere oggi stesso, questo giorno o tanti giorni dopo. Ma come va, il mio oggi, nella presenza del Signore? E il mio cuore, com’è? E’ aperto? E’ saldo nella fede? Si lascia condurre dall’amore del Signore? Con queste due domande chiediamo al Signore la grazia di cui ognuno di noi ha bisogno”.

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Pontificio Consiglio Cultura e Cei: progetto “Educarsi alla Bellezza”

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“Educarsi alla Bellezza. Indagine sulla formazione del clero e degli artisti in vista della committenza di opere d’arte per il culto cristiano”. È il progetto che verrà presentato il prossimo 19 gennaio al Pontificio Consiglio della Cultura. Interverranno il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del medesimo dicastero vaticano, e mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei. Il progetto, realizzato dal Dipartimento “Arte e Fede” del Pontificio Consiglio della Cultura e dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Conferenza episcopale italiana, col sostegno della Fondazione per i Beni e le Attività Culturali ed Artistiche della Chiesa, vuole evidenziare quale sia il livello di formazione estetica e storico-artistica del clero secolare e religioso, degli operatori pastorali e culturali delle diocesi (docenti di religione, catechisti, guide turistiche, volontari, ecc.) e quale formazione specifica sia rivolta agli artisti chiamati ad operare in ambito ecclesiale per realizzare opere che si inseriscano nei luoghi di culto e siano a servizio della liturgia. L’indagine sarà sviluppata nell’ambito del territorio italiano per creare una “mappa” attraverso cui capire se e quale sia l’offerta formativa destinata a chi lavora – o lavorerà nei prossimi anni – nell’ambito della committenza ecclesiale, della creazione di opere d’arte destinate ai luoghi di culto. 

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Urbańczyk: religioni siano leve per promuovere pace e rispetto

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La pace deve essere in cima all’agenda dell’Organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). E’ quanto ha affermato mons. Janusz Urbańczyk, rappresentante permanente della Santa Sede presso l’Osce, intervenendo a Vienna alla seduta plenaria del Consiglio permanente di questo organismo intergovernativo.

La forza delle armi è ingannevole
Ricordando che l’inizio del 2017 è stato scosso da diversi conflitti e attentati, mons. Janusz Urbańczyk ha spiegato che questa preoccupante realtà ci spinge all’azione, a rifiutare la violenza. “La nonviolenza - ha detto il presule ricordando quanto sottolineato da Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2017 - è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così… Perché la forza delle armi è ingannevole”.

Le religioni possono prevenire i conflitti
La Santa Sede - ha aggiunto mons. Urbańczyk - desidera ancora una volta sottolineare il ruolo costruttivo e importante che le religioni possono assumere, soprattutto in una prospettiva di prevenzione dei conflitti, per la riconciliazione e la ricostruzione della società dopo la guerra. Dopo essersi soffermato sul dramma di popoli in fuga da conflitti, da persecuzioni e dalla povertà, il presule ha poi affermato che gli Stati hanno il dovere di garantire ai migranti e ai rifugiati le libertà fondamentali, tra cui quella religiosa.

Tra le criticità, intolleranza e discriminazione
Le sfide che dovrà affrontare la presidenza dell’Osce,che dal primo gennaio è passata all'Austria – ha detto l’osservatore permanente - sono legate inoltre alle emergenze ambientali e alle criticità che alimentano intolleranza e discriminazione, anche nei confronti di musulmani, cristiani e membri di altre religioni. La delegazione della Santa Sede – ha concluso mons. Janusz Urbańczyk – attribuisce grande importanza al dialogo e alla collaborazione tra religioni per promuovere il rispetto reciproco e la pace. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Udienze del Papa

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Per le udienze odierne di Papa Francesco consultare il Bollettino della sala Stampa della Santa Sede

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In arrivo mille pasti per i senza tetto della zona di San Pietro

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Un doppio cheeseburger, delle mele fresche tagliate in busta e una bottiglietta d’acqua. E’ la composizione dei mille pasti che, dal prossimo 16 gennaio, verranno distribuiti ai tanti senza fissa dimora che vivono nella zona di San Pietro e di via della Conciliazione. L’iniziativa nasce dall’accordo tra l’associazione Medicina Solidale onlus - che già da tempo opera con un ambulatorio medico sotto il colonnato della Basilica Vaticana e altre iniziative di volontariato - e il ristorante McDonald’s di Borgo Pio, in collaborazione con l’Elemosineria Apostolica. Ce ne parla la dottoressa Lucia Ercoli, responsabile sanitario dell’istituto di Medicina Solidale, intervistata da Giada Aquilino

R. – L’iniziativa è nata da una riflessione in un momento così critico sia per l’emergenza freddo sia per l’incremento della povertà e quindi del numero di persone in strada, persone che in parte assistiamo nei nostri ambulatori di strada. Visto che si accendeva una polemica sull’apertura di un McDonald’s, abbiamo pensato: invece di andare sulle polemiche, cerchiamo di vedere se si riesce a creare una rete, se si riescono a trovare ponti tra chi può e chi soffre, in maniera che una parte di questi beni possano arrivare a chi non ha niente. L’idea era di provare a capire se, invece di essere soltanto un’occasione di conflitto, potesse essere un’occasione di apertura alla generosità, quindi con la possibilità di creare ponti. Poi, chiaramente, noi al colonnato di Piazza San Pietro lavoriamo al servizio dell’Elemosineria Apostolica: vediamo l’utenza che arriva e l’impegno dell’Elemosineria a far fronte a tutte le necessità di queste persone.

D. – Proprio quando dalla stampa erano state rilanciate le notizie sull’apertura del ristorante della grande catena internazionale a un passo dal Papa, questa iniziativa com’è nata e a cosa punta?

R. - Punta a ricordare a tutti quelli che sono a un passo dal Papa, quindi a partire da noi stessi naturalmente, che c’è una grande opportunità: pensare alle risorse non più soltanto come un bene privato, ma come qualcosa che Dio ci mette a disposizione per condividerlo con i fratelli che soffrono in condizioni di emarginazione e miseria. Non in una logica di assistenzialismo; intanto in una logica di conversione non soltanto sul piano della fede ma anche dell’umano.

D. – Come verranno distribuiti i pasti e a chi?

R. – Verranno raccolti presso il ristorante, ogni settimana, tra i 50 e i 100 pasti e distribuiti ai senza fissa dimora e alle persone che si trovano in difficoltà e che già accedono ai servizi delle docce e dell’ambulatorio che animiamo il lunedì pomeriggio.

D.  – Si tratta di mille pasti in totale?

R.  – Sì, abbiamo questo piccolo “tesoro” di mille pasti che verranno distribuiti progressivamente alle persone. Ci aiuteranno anche gli studenti dell’università di Tor Vergata che sono impegnati nel volontariato con l’associazione Medicina Solidale presso i nostri ambulatori di strada. Ci saranno penso anche altri volontari che lavorano con l’Elemosineria e attraverso queste braccia arriveranno i pasti a questi nostri fratelli che vivono ai margini.

D. – Perché la distribuzione avverrà il lunedì?

R. – Perché il lunedì siamo presenti, quindi abbiamo la “forza lavoro” sufficiente per poter fare anche questo tipo di servizio, perché quando le persone vengono in ambulatorio sotto il colonnato e non mangiano chiaramente non bastano più soltanto le medicine: bisogna dare loro anche del cibo. E vedere persone non vestite o mal vestite, che soffrono il freddo, che soffrono la fame in tempi in cui cibo ce n’è veramente per tutti è sempre qualcosa che fa riflettere.

D. – La distribuzione partirà il 16 gennaio: quanto durerà?

R.  – Se sono mille pasti e noi andiamo a regime a 100 pasti a settimana, saranno 10 lunedì, quindi il tempo dell’emergenza freddo. E’ un inizio di un dialogo, vediamo cosa succederà in futuro. E’ veramente una piccola goccia in un oceano di cose che vengono fatte anche da tante altre associazioni, da tante persone che si spendono per gli altri.

D. – Verso quelle periferie di cui parla Papa Francesco…

R. – Ci son tanti innamorati di Gesù nella Chiesa che si mettono a servizio dei poveri e questo è qualcosa che fa crescere ed è un stimolo a migliorarsi ogni giorno.

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Oggi in Primo Piano



Usa: conferenza stampa di Trump. "Sì al muro col Messico"

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Prima conferenza stampa del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump. Il neo capo della Casa Bianca, parlando con i giornalisti alla Trump Tower di New York, ha ripreso i temi che hanno caratterizzato la sua campagna elettorale, come il muro col Messico e la modifica delle riforme attuate da Obama. Al centro dei suoi interventi anche la polemica sugli hacker russi. Ce ne parla Giancarlo La Vella:

E’ un Trump nuovamente battagliero e sicuro di sé quello che parla con i giornalisti, a nove giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca e 24 ore dopo il discorso d’addio a Chicago di Obama. Sceglie lui quelli a cui rispondere e bolla la Cnn, che diffonde – dice – solo false notizie. Tra i temi forti subito quello dell’immigrazione: “Costruiremo il muro e il Messico ci rimborserà”. Anche se la risposta, a distanza, del presidente messicano Pena Nieto, esclude un’ipotesi del genere. Poi di nuovo la modifica delle riforme che sono state i cavalli di battaglia dell’era Obama, prima tra tutte quella della sanità. Ribatte, quindi, con sicurezza a chi gli parla del conflitto di interessi tra presidenza e il suo immenso patrimonio, trasferito alla gestione del figlio maggiore. Pezzo forte della conferenza stampa gli attacchi degli hacker russi alla campagna elettorale americana. Trump ammette, per la prima volta, le intromissioni, ma specifica: “Non ho rapporti con la Russia, alcun affare in corso e neanche debiti". "I rapporti con Mosca, che con l'amministrazione Obama sono arrivati al minimo storico – continua – torneranno a essere cordiali, perché "la Russia può aiutarci a combattere lo Stato Islamico.

Cosa succederà adesso che il neo presidente eletto Trump in sostanza ha già fatto capire che smantellerà molto di ciò che ha fatto Obama puntando su un ulteriore rilancio dell’occupazione? Massimiliano Menichetti ha intervistato l’americanista Ferdinando Fasce, già docente di Storia Contemporanea all’Università di Genova: 

R. – Credo che, pur considerando i limiti, i problemi, le opacità del doppio mandato di Obama, non si possa  non convenire con il fatto che quando Obama dice ”Yes we did” non è lontano dalla realtà. Sul piano internazionale ha ragione ad affermare che ha riportato a casa la maggioranza delle truppe, ha ragione a ricordare l’accordo sul nucleare con l’Iran e la non meno importante iniziativa sul cambiamento climatico.

D. - Sul piano interno spiccano la riforma sanitaria con luci ed ombre, soprattutto sulla questione dell’aborto, e poi il lavoro …

R. – Non mancano le ombre sulla riforma sanitaria, ma oggi venti milioni in più di statunitensi hanno accesso alle cure. Obama eredita da John W. Bush non solo due guerre, ma una recessione che non si vedeva dal 1922 con una disoccupazione che viaggiava sulle doppie cifre. Oggi la disoccupazione - di nuovo pur con limiti, lavori temporanei,  problemi…  - si attesta a poco più del quattro percento.

D. - Cosa succederà adesso che il neo presidente eletto Trump in sostanza ha già fatto capire che smantellerà molto di ciò che ha fatto Obama puntando su un ulteriore rilancio dell’occupazione?

R. - Premettiamo che Trump ha abilmente giocato su sacche di scontento che ci sono:  sacche di difficoltà, di sofferenza, di povertà. Come possa aiutare questi strati con le sue politiche è ancora da vedere. Adesso abbiamo avuto alcune uscite significative, come questi impegni da parte delle imprese dell’auto …

D. - Bloccare la produzione in Messico ed investire sul territorio statunitense …

R. - Rispetto a questo vedo due facce. Il fatto indubbiamente positivo  è che ci sono investimenti, però vedo anche che è una procedura che non passa attraverso un’esplicita, trasparente contrattazione, ma c’è Trump che manda tweet e gli imprenditori che si allineano. Qui, mi pare che ci siano dei problemi dal punto di vista del rapporto tra economia e politica in una liberal democrazia.

D. - Guardando alla politica internazionale, posizioni simili tra i due rispetto alla Cina, ma sulla Russia Trump accorcia una distanza …

R. - Obama aveva preso le distanze per la politica aggressiva di Mosca; Trump ci si riconosce meglio perché gli sembra di poter instaurare un rapporto di nuovo da leader che direttamente può contrattare essendosi riconosciuto in una qualche lunghezza d’onda con Putin. Ma qui poi bisogna veder le dinamiche geopolitiche reali. Più continuità probabilmente c’è rispetto alla Cina, anche se ancora dovremo vedere perché non bisogna dimenticare che questo atteggiamento di dichiarato neo protezionismo trumpiano potrebbe suscitare, e in parte ha già suscitato, delle reazioni negative.

D. - Ci saranno nuovi equilibri oppure è tutta una partita da giovare sia sul fronte interno che su quello esterno?

È una partita ancora tutta da giovare perché non bisogna trascurare la complessità della macchina repubblicana e l’imprevedibilità di Trump.

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Usa: le incognite di Trump nella politica estera

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Il tema della politica internazionale è stato il grande assente, nella prima conferenza stampa del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump. A riguardo Marina Tomarro ha chiesto il parere del giornalista Gianni Riotta, esperto di politica estera: 

R. – Intanto anche i giornalisti americani sono tutti concentrati sulle questioni più interne e sulla storia dell’hackeraggio, quindi se davvero sono stati i russi a fare queste incursioni informatiche negli Stati Uniti contro le elezioni, quanto Trump possa essere ricattato dalla Russia, se ci sono dossier segreti e naturalmente la conferma al Senato del Segretario di Stato Tillerson, ex petroliere della Exxon … Quindi questi sono temi interni. La politica internazionale aspetta il presidente Trump al varco, perché già la Cina scalpita, non è contenta e a Pechino molti sono preoccupati che si possa arrivare ad uno showdown, ad un confronto tra Washington e Pechino, molto presto.

D. - I temi caldi della politica estera sono anche l’Iraq e la Siria. Allora quali potrebbero essere le sue posizioni a riguardo? Cosa potrebbe succedere?

R. - Io sono molto scettico rispetto al lavoro degli analisti che fanno previsioni in un senso o nell’altro sull’amministrazione Trump, perché quest’ultimo ha sempre avuto una politica estremamente umorale, è il presidente più filorusso che il Partito repubblicano abbia mai espresso nella sua storia, e allo stesso tempo è straordinariamente filoisraeliano, promette guerra a tutti costi contro Is, ma poi non la fa perché non sono certo i russi a fare la guerra all’Is in Siria; hanno sempre bombardato i ribelli anti Assad e mai postazioni del fondamentalismo islamico. Quindi non c’è una chiara politica estera; sappiamo che è contrario al patto nucleare sull’Iran, ma non è che anche se gli Stati Uniti si ritirano, il patto decade in quanto l’accordo è stato firmato da altri Paesi europei, la Russia, … Quindi dobbiamo aspettare che cosa la politica estera di Trump ci porterà davvero. In più Trump sottovaluta molto il peso della presidenza: non capisce che quando un problema arriva sul suo tavolo è sempre un problema drammatico; quindi vedremo come reagirà.

D. - Cosa rimarrà secondo lei dei passi fatti precedentemente da Obama a riguardo?

R. - Può darsi che Trump faccia anche qualche restrizione sull’apertura a Cuba, però molto del business americano è favorevole, perché ci sono interessi turistici, ci sono interessi da parte delle varie industrie dal tabacco, all’industria dei liquori, alla telefonia, … Quindi può darsi che lì lasci tutto quanto aperto. Quello che si perde di Obama è sicuramente il tono di tolleranza, di apertura, … Però anche Obama ha avuto le sue sconfitte. Per esempio, sulla Siria certamente non ha un bilancio favorevole.

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No di Israele ad una conferenza di pace con i palestinesi

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Chiusura di Israele a qualsiasi ripresa del dialogo con i palestinesi. Dopo il recente attentato subito da militari dello Stato ebraico, il governo del premier Netanyahu ha espresso la sua categorica opposizione all’iniziativa francese di rilanciare i negoziati di pace attraverso una conferenza internazionale. Sulla presa di posizione israeliana, Giancarlo La Vella ha intervistato Lorenzo Cremonesi, esperto di Medio Oriente del 'Corriere della Sera': 

R. – Israele non vede nella Francia, e nell’Europa in generale, un mediatore ideale nei negoziati di pace, un po’ perché l’Europa è profondamente divisa ed è percepita non come un alleato, ma anzi più filoaraba, più filopalestinese. In secondo luogo, direi che in Israele c’è una sorta di attendismo in questo momento: dopo gli anni difficili dei rapporti con l’amministrazione Obama, vedono in Trump un ritorno dello storico partner americano. In terzo luogo, in al momento c’è una grande diffidenza: Netanyahu è un premier che si basa fondamentalmente sul rapporto con le destre - lo abbiamo visto sulle ambiguità ad esempio della condanna del militare che ha ucciso a sangue freddo un palestinese, che aveva accoltellato degli israeliani, e la sua apertura nei riguardi delle colonie - e quindi direi che c’è tutta una serie di motivazioni, di pratiche storiche e politiche che giustificano, che ci fanno capire, questo atteggiamento da parte di Israele.

D. - Anche da parte palestinese non sembra ci sia tutta questa voglia di riprendere il dialogo…

R. - I palestinesi, nei confronti dell’Europa, della Francia in particolare, sono stati sempre estremamente aperti. Il problema è che hanno Abu Mazen, un presidente che ha difficoltà nella sua leadership, nel mantenerla, e poi naturalmente c’è lo scontro con Hamas che domina a Gaza, che è comunque un elemento che frena qualsiasi tipo di apertura ad Israele. Quindi per i palestinesi direi che più che altro è un problema di leadership.

D. - C’è comunque un terreno idoneo all’eventuale ripresa di un negoziato tra israeliani e palestinesi?

R. - Noi parliamo spesso di processo di pace, di un dialogo che si è interrotto, di speranze di una ripresa, ma in realtà questo dialogo è fermo da 15 anni: le ultime vere speranze concrete di un accordo ci sono state ancora ai tempi del governo Barak del 2000, ai tempi della mediazione di Clinton. Da allora un vero processo di pace non c’è più stato. Poi c’è un elemento nuovo e cioè in realtà sul campo le cose sono cambiate drasticamente con la crescita delle colonie, lo sviluppo dei quartieri ebraici a Gerusalemme Est, la crescita di infrastrutture da parte israeliana nei Territori occupati, strade, impianti per l’elettricità, per le acque. Tutto ciò ha praticamente reso impossibile la divisione in due Stati. È la realtà sul campo che parla, quindi Israele si trova di fronte altre alternative, come ad esempio una amministrazione in co-gestione dei Territori, ma, comunque, la divisione in due Stati è ormai praticamente impossibile, a meno che non si parli di smantellare migliaia di case, spostare 500 mila israeliani da una parte all’altra della vecchia “linea verde”, un confine che di fatto non c’è più. Quindi è sul campo che le cose sono drasticamente cambiate. Qui stiamo parlando di alternative diverse: uno Stato binazionale o una specie di encalve separata governata comunque territorialmente dagli israeliani… C’è una realtà diversa sul campo rispetto a una pace basata sul famoso discorso della terra in cambio della pace - cioè i due Stati - ancora ai tempi degli accordi di Oslo, all’inizio degli anni ’90.

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Iraq: raid turchi nel nord contro il Pkk curdo

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C’è attesa per i colloqui di pace sulla Siria previsti in Kazakhstan a fine mese, mentre in una conversazione telefonica i presidenti di Russia e Turchia, Putin e Erdogan, si sono detti d'accordo sul fatto che la tregua regga sul terreno. Intanto in Iraq le forze governative hanno riconquistato l'80% di Mosul est, finora nelle mani dell'Is, mentre la Turchia ha bombardato alcuni rifugi del Pkk curdo a nord del Paese. Ieri, poi, i due principali partiti curdi iracheni, cioè il Partito democratico del Kurdistan, Pdk, e l'Unione patriottica del Kurdistan, Upk, hanno raggiunto un accordo per organizzare un referendum sull'indipendenza della regione autonoma del Kurdistan da Baghdad da tenersi dopo la sconfitta dell'Is. Proprio la questione curda è uno dei tanti temi che si affiancano alla lotta all’Is in Medio Oriente, come spiega Massimo Campanini, docente di Islamistica e Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento, al microfono di Michele Raviart

R. – La Turchia non può rinunciare ad una posizione di forza nei confronti del problema curdo, perché evidentemente è una minaccia che potrebbe rischiare veramente di minare alla base la solidità dello Stato. Questo ha giustificato all’inizio la politica, che è stata definita ambigua, della Turchia nei confronti dell’Is in Siria e nell’alto Iraq. Secondo questa direttiva di difesa nazionale - che l’eventuale nascita di uno Stato curdo metterebbe a rischio - la politica turca si è sempre mossa fin dall’inizio. Ci sono altre due variabili da considerare: la prima è il fatto che il Pkk è un movimento turco e non è un movimento iracheno; e la seconda variabile sta nel fatto che il problema curdo è un problema regionale, che coinvolge cinque Stati, che sono la Turchia, l’Azerbaigian, la Siria, l’Iraq e l’Iran. Bisogna poi tener presente il fatto che i curdi hanno una storia decennale di feroci lotte intestine…

D. – Gran parte degli Stati che lei ha citato e i curdi stessi sono occupati anche nella lotta al sedicente Stato Islamico in Iraq: le ultime notizie che arrivano da Mosul dicono che in tre settimane Mosul cadrà… Quale futuro si può prospettare per l’Iraq?

R. – L’Iraq è ormai, allo stato dei fatti, un Paese dissolto. Pensare di ricostituire un Iraq unito com’era all’epoca di Saddam Hussein è politicamente impensabile. L’Iraq deve mirare ad una soluzione federale, tenendo presente che la zona di Mosul è una zona ad altissima concentrazione petrolifera. E credo che non sia infatti casuale il fatto che il sedicente Stato Islamico in Iraq – è anche vero che ovviamente non avrebbe potuto farlo nella parte meridionale, perché c’era il controllo iraniano – abbia voluto ramificarsi e consolidarsi proprio nella zona di Mosul. Ma questo petrolio iracheno del nord, prima che apparisse lo Stato Islamico dell’Is, era sostanzialmente controllato dai curdi: quindi è chiaro che l’eventuale suddivisione o federalizzazione del Paese deve tenere conto di questa importante risorsa economica potenziale della realtà presente e del futuro.

D. – La crisi in Siria: si sta preparando qil tavolo di negoziati che probabilmente a fine mese si terrà ad Astana, la capitale del Kazakhistan. Lì quali sono gli interessi delle forze coinvolte?

R. - Sul campo ci sono essenzialmente tre elementi. Il primo è Bashar al-Assad; gli altri due fattori sono l’opposizione - diciamo - democratica, quella della Siria libera, e le forze di orientamento fondamentalista: entrambe queste forze sono meno solide e meno autorevoli di quella di Bashar al-Assad, attorno a cui inevitabilmente vira non solo l’interesse russo, ma anche l’interesse iraniano. Mancando delle alternative serie ed essendoci una unità di intenti tra Mosca e Washington, in tutta apparenza si dovrebbe poter arrivare in maniera relativamente facile ad una soluzione condivisa.

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Caritas italiana: Haiti a 7 anni dal sisma, povertà e distruzioni

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Esce oggi il primo dossier di Caritas italiana del 2017 sulla povertà rurale nel mondo. Il documento contiene un focus particolare su Haiti sette anni dopo lo spaventoso sisma che provocò almeno 230 mila vittime accertate. Una ricostruzione che procede a rilento, anche dopo l’abbattersi dell’uragano Matthew del 2015. Giulia Angelucci ha raggiunto telefonicamente Marta Da Costa, unica operatrice Caritas italiana ad Haiti, che sottolinea le precarie condizioni dell'infanzia ad Haiti 

R. – La situazione dei bambini haitiani è ancora molto grave, e il passaggio dell’uragano Matthew nell’ottobre dello scorso anno ha portato molti problemi legati a carenze alimentari, che hanno portato a malnutrizione; oltre a questo, ci sono grandi problemi sociali legati anche a violenze familiari e scolastiche. Ci sono difficoltà grandi che i bambini haitiani vivono quotidianamente.

D. – Dopo sette anni, i riflettori dei media tornano per questo anniversario; ma gli aiuti continuano?

R. – Gli aiuti continuano, e io spero che in qualche modo possano continuare ancora. La situazione del Paese non è semplice: non a caso è uno degli Stati  più poveri del mondo. Ci sono innumerevoli bisogni e difficoltà, tanto a livello infrastrutturale quanto a livello sociale. Ci sono zone praticamente ancora completamente isolate, dove non ci sono strade, non arriva l’acqua, non ci sono neanche scuole e la maggior parte della gente vive di pura sussistenza.

D. – Come operate in loco per aiutare la popolazione?

R. – L’idea che abbiamo portato avanti è quella dell’accompagnamento. La Caritas italiana non si trova a Haiti per sostituirsi agli haitiani, ma cerchiamo di accompagnarli in una prospettiva di lungo periodo e con interventi volti al raggiungimento dell’autonomia. Siamo intervenuti dopo il terremoto, chiaramente con una prima emergenza che riguardava i bisogni primari, immediati e successivamente e tuttora abbiamo in atto progetti che riguardano formazione, inclusione sociale, progetti a livello idrico-sanitario, progetti anche di ricostruzione e, ovviamente, nelle zone rurali in cui siamo molto presenti, progetti legati all’agricoltura e all’allevamento. Speriamo che Haiti possa poi proseguire da sola, con le proprie forze e capacità.

D. – E che cosa offre, rispetto a queste altre associazioni o ong?

R. – Noi cerchiamo soprattutto di arrivare dove ci sono collegamenti molto complessi e dove magari molte organizzazioni non arrivano. A me personalmente capita spesso di andare in visita a progetti dove per arrivare devo camminare un paio d’ore; la realtà è che Caritas arriva in queste zone, non si ferma solamente nei principali centri urbani, in cui ovviamente ci sono comunque tantissime problematiche …

D. – Per quanto riguarda le donazioni?

R. – Noi abbiamo ricevuto dei fondi, dei finanziamenti dalla Cei per intervenire in seguito all’uragano Matthew e poi subito dopo il terremoto, grazie anche alla colletta, abbiamo ricevuto altri aiuti. Ci sono moltissimi italiani che hanno collaborato e continuano a collaborare per aiutare il popolo haitiano. Siamo anche in contatto con altre Caritas che lavorano in Haiti: parlo quindi di Crs (Catholic Relief Services), la Caritas del Belgio, ovviamente la Caritas di Haiti e insieme cerchiamo di costruire interventi diversificati che possano avere poi un seguito sul territorio.

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"Silence" di Scorsese nelle sale italiane: l'amore di Dio sempre presente

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Da oggi sugli schermi italiani "Silence", il più severo e intimo dei film di Martin Scorsese: nel Giappone del XVII secolo gli ultimi missionari gesuiti rimasti affrontano, insieme alle piccole comunità cristiane, una feroce persecuzione. Cedendo ai dubbi e alla sofferenza, oppure compiendo atti valorosi. Ne sono interpreti i bravissimi Andrew Garfield e Liam Neeson. Il servizio di Luca Pellegrini

(dialogo dal film):

padre Valignano: Ferreira è perduto per noi. Ha denunciato Dio in pubblico e rinnegato la fede.

padre Garupe: Non è possibile. Padre Ferreira ha rischiato la vita per diffondere la fede in Giappone.

padre Rodrigues: A me sembra che la nostra missione qui sia più urgente che mai. Dobbiamo andare a cercare padre Ferreira.

padre Valignano: E' quello che avete ambedue nei vostri cuori?

padre Rodrigues: Si.

padre Valignano: Allora devo credere che sia Dio a ispirarvi. Dall'istante in cui metterete piede in quel Paese sarete in grave pericolo.

 

Vanno, padre Rodrigues e padre Garupe, nel Giappone feudale, come agnelli tra i lupi, a cercare il confratello perduto, che ha abiurato la sua fede. E' il 1643. Vanno sprezzando quel pericolo, mentre la persecuzione miete vittime, e sangue e violenza si abbattono sulle piccole comunità cristiane, i loro miseri villaggi trasformati in catacombe della paura. La fede dei due missionari gesuiti è salda, ma sarà messa a durissima prova. "Silence", il romanzo epistolare scritto nel 1966 da Shūsaku Endō, ha colpito Martin Scorsese molti anni fa. Realizzarlo non è stato per nulla facile: la missionarietà, vissuta il quel grande secolo, assumeva risvolti pastorali e si fondava su presupposti dottrinali che oggi potrebbero far discutere, senza una corretta interpretazione storica. Ma il grande pregio di questo film – ispirato al rigore di Dreyer e di Bergman - è proprio quello di gestire i delicati dialoghi tra i persecutori e i perseguitati con una fedeltà assoluta al testo e una prospettiva che rispetta le dinamiche di allora e accoglie però le cogenti sfide di oggi, quando si parla di religioni, di proselitismo e di conversioni. "Silence" pur dedicato dal regista nei titoli di coda a tutti i pastori della Chiesa cattolica e ai martiri che subirono terribili torture, non affronta il dubbio come fosse un peccato da scontare e nemmeno un tradimento irreparabile. Sono i dubbi di Scorsese, immerso fin da bambino, come ha più volte dichiarato, nella fede cattolica per l'insegnamento ricevuto dalla famiglia. Quello che si delinea nel film non è uno scontro di due civiltà - quella giapponese e quella occidentale, saldamente ancorate a una tradizione da difendere o una fede da esportare, cui sottostanno ragioni politiche e interessi economici, e questo potrebbe anche avere degli addentellati inequivocabili alla realtà che ogni giorno viviamo su scala mondiale - ma è il dilemma che alberga in ogni cuore umano sincero, come appare quello di Scorsese: fino a quale punto la mia fedeltà ad una religione accolta e addirittura vissuta, che chiede la donazione della propria vita, può spingersi quando in pericolo è la vita degli altri, del prossimo che vi ha aderito. Esemplare e magnifico nella sua tragicità umana e spirituale è il dialogo che oppone Rodrigues, catturato, stremato e sul punto di cedere, a padre Ferreira,  apostata, convertito al buddismo e con sposa giapponese. I cristiani giapponesi stanno sopportando violenze terribili se chi è catturato non cede e calpesta l'immagine del Cristo, buon pastore e crocifisso. Ma è quella Croce che assume un valore universale anche in quel momento così tragico: "Signore, è adesso che tu dovresti infrangere il tuo silenzio. Dimostrami che tu sei giustizia, sei bontà, sei amore", chiede disperato Rodrigues. Ma tace, il Signore, e l'animo del sacerdote è attraversato da tutto il male del mondo. Ferreira lo incalza: "Lei si mette al di sopra di loro. E' preoccupato della sua salvezza. Teme di tradire la Chiesa. Ma è amore il suo modo di comportarsi? Se Cristo fosse qui...". Cristo è lì. E chiede, nelle parole di Ferreira, che già ne ha fatto esperienza, "l'atto più doloroso d'amore che sia mai stato compiuto". Nel film questo dialogo assume proporzioni così vaste e allo stesso tempo così intime da chiedere, in tanta disperazione, il nostro, di silenzio, mentre Gesù nel cuore di Rodrigues chiede assillante: "Calpestami. Sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini". Il rispetto che Scorsese fa di questo materiale incandescente è assoluto: la "messinscena", storicamente perfetta e visivamente potente, denuda in qualche modo anche la sua anima, che come quella di tutti si sarà più volte chiesta perché Dio tace. E dice, il regista americano: «"Silence" è la storia di un uomo che impara molto dolorosamente che l'amore di Dio è più misterioso di quanto lui pensi, che Lui lascia più spazio agli uomini di quanto crediamo e che è sempre presente, anche nel Suo silenzio". La Chiesa in quello spazio oggi accoglie e difende tutti gli uomini. Di ogni razza e religione. Quello è lo spazio in cui giochiamo la nostra pace, ossia il nostro futuro.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 12

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