Logo 50 Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 05/06/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa a missionari Consolata: dialogo con islam, dignità donna e famiglia

◊  

Dialogo con l'islam, dignità della donna, attenzione alla famiglia: Papa Francesco li chiede per dare nuovo slancio all'attività missionaria, ai partecipanti ai Capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata: circa 120 persone che ha ricevuto stamani in udienza in Vaticano. Il servizio di Debora Donnini

Papa Francesco esorta i missionari della Consolata a riqualificare lo stile missionario. Per fare questo, bisogna privilegiare una presenza povera e semplice fra la gente con “sensibilità all’inculturazione del Vangelo” e focalizzare alcuni temi:

“Attenzione speciale meritano il dialogo con l’Islam, l’impegno per la promozione della dignità della donna e dei valori della famiglia, la sensibilità per i temi della giustizia e della pace”.

Bisogna anche cogliere gli stimoli al rinnovamento provenienti dal contatto con Gesù:

“Ciò vi consentirà di essere operosamente presenti nei nuovi areopaghi dell’evangelizzazione, privilegiando, anche se ciò dovesse comportare dei sacrifici, l’apertura verso situazioni che, con la loro realtà di particolare bisogno, si rivelano come emblematiche per il nostro tempo”.

Fra i suggerimenti di Papa Francesco ai missionari della Consolata, anche quello di attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli  fra i quali svolgono la missione e di portare conforto a chi è segnato da grande povertà, ad esempio in Africa e in America latina.

La storia dei “vostri Istituti”, fatta di luci e ombre come in ogni famiglia, dice, è stata segnata dalla Croce in questi ultimi tempi. Il riferimento è ai confratelli e alle consorelle che hanno amato il Vangelo fino al sacrificio della vita. Per portare avanti la missione, prosegue, è soprattutto importante sentirsi amati dal Signore e così l’impegno si configura come una risposta a questo amore. E conformandosi a Cristo, i missionari sono più di tutti “i familiari di Dio” e la vita religiosa diventa una progressiva riscoperta della misericordia divina.

Il Papa conclude il suo discorso con l’auspicio che gli orientamenti elaborati dai rispettivi Capitoli generali possono far proseguire con generosità sulla via tracciata dal Fondatore, il beato don Giuseppe Allamano che nei primi anni del ‘900 dette vita a questi Istituti.

inizio pagina

Papa: fare opere di misericordia è condividere, compatire e rischiare

◊  

Le opere di misericordia non siano un fare l’elemosina per scaricarsi la coscienza, ma condividere e partecipare alla sofferenza degli altri, anche a proprio rischio e lasciandosi scomodare. Così il Papa nella Messa del mattino celebrata a Casa Santa Marta nel giorno in cui la Chiesa ricorda San Bonifacio martire, apostolo della Germania. Il servizio di Sergio Centofanti: 

Lo spunto per l’omelia di Papa Francesco è la prima lettura, tratta dal Libro di Tobia. Gli ebrei sono stati deportati in Assiria: un uomo giusto, di nome Tobi, aiuta i connazionali poveri e - a rischio della propria vita – seppellisce di nascosto gli ebrei che vengono uccisi impunemente. Tobi prova tristezza di fronte alla sofferenza degli altri. Di qui la riflessione sulle 14 opere di misericordia corporale e spirituale. Compierle - spiega Francesco - non significa solo condividere ciò che uno possiede, ma compatire:

“Cioè soffrire con chi soffre. Un’opera di misericordia non è fare una cosa per scaricare la coscienza: un’opera di bene così sono più tranquillo, mi tolgo un peso di dosso … No! E’ anche compatire il dolore altrui. Condividere e compatire: vanno insieme. E’ misericordioso quello che sa condividere e anche compatire i problemi delle altre persone. E qui la domanda: io so condividere? Sono generoso? Sono generosa? Ma anche quando vedo una persona che soffre, che è in difficoltà, anche io soffro? So mettermi nelle scarpe altrui? Nella situazione di sofferenza?”.

Agli ebrei deportati in Assiria era vietato seppellire i propri connazionali: potevano essere a loro volta uccisi. Così Tobi rischiava. Compiere opere di misericordia – afferma il Papa – significa non solo condividere e compatire, ma anche rischiare:

“Ma tante volte si rischia. Pensiamo qui, a Roma. In piena guerra: quanti hanno rischiato, incominciando da Pio XII, per nascondere gli ebrei, perché non fossero uccisi, perché non fossero deportati! Rischiavano la pelle! Ma era un opera di misericordia salvare la vita di quella gente! Rischiare”.

Papa Francesco sottolinea altri due aspetti. Chi compie opere di misericordia può essere deriso dagli altri - com’è capitato a Tobi – perché è considerata una persona che fa cose pazze invece di starsene tranquilla. E poi è uno che si lascia scomodare:

“Fare opere di misericordia scomoda. ‘Ma io ho un amico, un’amica, malato, vorrei andare a visitarlo, ma non ho voglia … preferisco riposare o guardare la tv … tranquillo’. Fare le opere di misericordia sempre è subire scomodità. Scomodano. Ma il Signore ha subìto la scomodità per noi: è andato in croce. Per darci misericordia”.

Chi “è capace di fare un’opera di misericordia” - sottolinea il Papa – è “perché sa che lui è stato misericordiato, prima; che è stato il Signore a dare la misericordia a lui. E se noi facciamo queste cose, è perché il Signore ha avuto pietà di noi. E pensiamo ai nostri peccati, ai nostri sbagli e a come il Signore ci ha perdonato: ci ha perdonato tutto, ha avuto questa misericordia” e noi “facciamo lo stesso con i nostri fratelli”. “Le opere di misericordia - conclude Francesco - sono quelle che ci tolgono dall’egoismo e ci fanno imitare Gesù più da vicino”.

inizio pagina

Altre udienze

◊  

Per le altre udienze, consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

inizio pagina

Mons. Claudio Palumbo è il nuovo vescovo di Trivento

◊  

In Italia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Trivento presentata da Mons. Domenico Angelo Scotti. Gli succede Mons. Claudio Palumbo, finora Vicario Generale della diocesi di Isernia-Venafro.

Mons. Claudio Palumbo è nato a Venafro il 30 gennaio 1965. Dopo la maturità classica è entrato nel Pontificio Seminario Regionale di Chieti ed ha conseguito il Baccalaureato in Teologia presso l’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano. Presso la Pontificia Università Gregoriana ha conseguito nel 1994 la Licenza e nel 2006 il Dottorato in Storia della Chiesa, disciplina che ha insegnato sino ad oggi in Istituti Teologici.

È stato ordinato sacerdote il 15 agosto 1990 per la diocesi di Isernia-Venafro. Dal 1990 al 2011 è stato Parroco di San Giovanni Bosco. Dal 1993 al 1998 è stato Vicerettore del Pontificio Seminario Regionale di Chieti. Dal 1993 al 2011 è stato Bibliotecario dell’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano. Dal 2009 è Vicario Generale e dal 2011 è Parroco di San Pietro Apostolo. Dal 2009 è Prelato d’Onore di Sua Santità.

inizio pagina

Papa, domenica 18 giugno Messa e Processione per il Corpus Domini

◊  

Papa Francesco presiederà domenica 18 giugno i riti del Corpus Domini, secondo il calendario liturgico della Chiesa italiana. Alle 19.00 celebrerà la Santa Messa sul sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano. Subito dopo si svolgerà la Processione Eucaristica che, percorrendo via Merulana, raggiungerà la Basilica di Santa Maria Maggiore.

Lo spostamento a domenica da giovedì 15 giugno, Festa del Corpus Domini secondo il calendario vaticano, è dovuto - spiega il direttore della Sala Stampa vaticana Greg Burke - al fatto di voler favorire la presenza delle persone e non creare ulteriori problemi alla città in un giorno lavorativo.

inizio pagina

Lettera del Papa per l'ultimo omaggio al cardinale Husar

◊  

Il cardinale Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore emerito di Kyiv-Halyč, è stato “padre e guida spirituale” per l’intera Chiesa greco-cattolica dell’Ucraina, “che egli raccolse dall’eredità delle ‘catacombe’ nelle quali era stata costretta dalla persecuzione”: lo scrive il Papa in una Lettera indirizzata all’arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč, Sviatoslav Shevchuk, nel giorno dell’ultimo omaggio al porporato spentosi il 31 maggio scorso all’età di 84 anni. Il cardinale Husar è stato sepolto oggi nella cripta della Cattedrale della Risurrezione a Kiev.

Francesco sottolinea lo “straordinario afflusso di persone che in questi giorni sono accorse a rendere omaggio alle spoglie mortali del cardinale” e “segno eloquente di quello che egli è stato: una tra le autorità morali più alte e rispettate negli ultimi decenni del popolo ucraino”. Alla Chiesa greco-cattolica del Paese “ridiede non solo le strutture ecclesiastiche, ma soprattutto la gioia della propria storia, fondata sulla fede attraverso e oltre ogni sofferenza”.

“Col sopraggiungere della vecchiaia e della malattia – osserva il Papa - la sua presenza tra il popolo ha cambiato di stile, ma, se possibile, si è fatta ancora più intensa e ricca”, intervenendo nella vita del Paese “come maestro di sapienza: il suo parlare era semplice, comprensibile a tutti, ma molto profondo. La sua era la sapienza del Vangelo, era il pane della Parola di Dio spezzato per i semplici, per i sofferenti, per tutti quelli che cercavano dignità. Le sue esortazioni erano dolci, ma anche molto esigenti per tutti. Per tutti pregava incessantemente, sentendo che questo era il suo nuovo dovere. E tanti si sentivano rappresentati, interpellati e consolati da lui, credenti e non credenti, anche al di là delle differenze confessionali. Tutti sentivano che parlava un cristiano, un ucraino appassionato della sua identità, sempre pieno di speranza, aperto al futuro di Dio. Aveva una parola per ciascuno, ‘sentiva’ le persone con il calore della sua grande umanità e di una squisita gentilezza. Amava soprattutto dialogare coi giovani, con i quali aveva una eccezionale capacità di comunicare e che a lui accorrevano numerosi”.

Grato per questa “presenza unica, religiosa e sociale nella storia dell’Ucraina”, il Papa invita “ad esserne fedeli al costante insegnamento e al totale abbandono alla Provvidenza”. 

inizio pagina

Francesco: l'ambiente è un bene collettivo e responsabilità di tutti

◊  

“Non dimentichiamo mai che l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti”: cosi il Papa in un tweet per l’odierna Giornata mondiale dell’Ambiente, istituita dall’Onu nel 1972 e dedicata quest’anno al tema “Collegare le persone alla natura, in città e in campagna, dai poli all’equatore”. Roberta Gisotti ha intervistato Marco Gisotti, esperto di ambiente, direttore scientifico di Green Factory, a servizio delle imprese per la sostenibilità ambientale: 

“Collegare le persone alla natura”: un tema che può apparire generico, o forse è giusto puntare proprio alle persone, visto che le istituzioni e la politica procedono a rilento nella difesa della natura? Marco Gisotti:

R. - Le persone sono parte centrale di ogni impegno ambientale; sono loro che devono agire e migliorare l’ambiente intorno a noi e intorno a loro. Quali che siano poi le decisioni della politica - che possono chiaramente rallentare o accelerare – la scelta in ultima analisi è la nostra. Siamo noi che decidiamo quanta energia consumare, se fare efficienza energetica a casa, se usare di più il mezzo pubblico o l’automobile. Sembra poco magari, però è esattamente come quando si vota: ogni voto conta e alla fine diventano milioni e diventano scelte. Le nostre azioni quotidiane diventano piccole scelte, che alla fine incidono globalmente sulla salute di tutto il Pianeta.

D. - Quindi una presa di coscienza dal basso …

R. - Assolutamente sì, ed è necessaria. Uno, perché – ripeto – le singole azioni modificano lo stato della natura, dell’ambiente, le strade, il consumo del suolo, l’acqua che consumiamo o che non consumiamo; due, perché le persone poi hanno veramente il potere di far cambiare idea o di modificare il corso delle leggi, delle istituzioni. In fondo è quello che accadde nel 1972 con la Conferenza di Stoccolma dalla quale nacque la Giornata di oggi che celebriamo ogni anno. Allora le tante persone del modo cominciavano a vedere che qualcosa non andava come i pesticidi nella natura, l’inquinamento nelle grandi città … Alla fine le Nazioni si riunirono per decidere e cominciare a tracciare una linea comune sulle politiche ambientali.

D. - Una Giornata che arriva quest’anno tra due importanti G7 per il futuro verde del Pianeta. Quello recente di fine maggio a Taormina, con il presidente Usa Trump che ha annunciato di voler uscire dagli accordi di Parigi sul clima, e quello di Bologna – l’11/12 giugno - dei ministri dell’Ambiente dei 7 Paesi più industrializzati. Quali scenari si prospettano?

 R. - Paradossalmente si prospettano scenari più positivi che in passato, perché se è vero che la notizia di Trump è una notizia pessima, abbiamo però tutto il resto del mondo, la Cina per prima - che è il grande polmone di sviluppo dei prossimi anni, in termini tecnologici e come rischio di inquinamento - che invece vuole prendere impegni precisi; al punto che Europa, Paesi asiatici e Sud America oggi possono ‘pesare’ molto più di Trump. Ricordiamo che la decisione presa dagli Stati Uniti, comunque, non può essere definitiva fino al 2020, anzi entrerà in vigore il giorno dopo la scadenza di questo mandato di Trump.

D. - Quindi, sarà un percorso lungo ...

R. - Sì, diciamo che il percorso è lungo e le istituzioni si stanno muovendo a cavallo di questi due G7. Quello che si svolgerà poi nel prossimo weekend specificatamente sull’ambiente non parlerà soltanto del clima. Ricordiamo infatti che in queste ore a New York c’è la Conferenza mondiale sugli oceani. Si parla quindi di tanti aspetti della natura, perché sono tutti strettamente collegati e dobbiamo tenerli tutti insieme se pensiamo e vogliamo progredire e immaginare un futuro migliore per domani.

D. - Questa posizione netta che è stata tanto criticata dal presidente Usa Trump, può in qualche modo aver evidenziato l’importanza invece di procedere unitamente sugli accordi presi non solo a parole ma nei fatti, insomma di superare un po’ quella barriera di ipocrisia, che c’era stata tante volte nei G7?

R. - In parte questo è vero, perché comunque l’azione deve essere globale. Certo che i problemi degli Stati Uniti sono anche interni, perché la settimana scorsa la California ha approvato che entro il 2050 il 100% dell’energia dovrà provenire da fonti rinnovabili e non più fonti fossili. E sta crescendo l’opposizione a Trump, sia sul fronte democratico che all’interno del suo partito. Ricordiamo che Arnold Schwarzenegger, ex governatore repubblicano della California, è il primo ad aver detto a Trump: “Ripensaci”. Trump probabilmente, anzi sicuramente, non ci ripenserà però è evidente che l’unione di tutto il resto del mondo in quella direzione - quindi non solo delle istituzioni - significa che si dà una forte spinta allo sviluppo economico ma anche tecnologico e industriale. Mi spiego meglio con un esempio: le lampadine a basso consumo dieci anni fa non c’erano ed oggi esistono solo queste; quindi sarà sempre di più così anche in altri settori, accadrà per l’industria delle automobili e per le altri grandi fabbriche. Alla fine la decisione di Trump è una decisione antistorica: il resto del mondo sta andando nel futuro, lui per quattro anni terrà l’America ferma!

inizio pagina

Oggi in Primo Piano



Sanzioni di Paesi arabi al Qatar: "Finanzia il terrorismo"

◊  

Frattura nel mondo arabo. Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain e Yemen hanno annunciato severe misure nei confronti del Qatar, in seguito a crescenti tensioni tra i Paesi del Golfo Persico specie in ambito terroristico. L’accusa è di finanziamento e sostegno a gruppi legati ad Al Qaeda e Stato Islamico, inclusi, per quanto riguarda il Cairo, i Fratelli Musulmani. Anche le Maldive decidono di rompere le relazioni con Doha. Il servizio di Giancarlo La Vella

Tra le prime misure adottate nei confronti del Qatar: l’esclusione dalla coalizione araba a guida saudita, che in Yemen si oppone ai ribelli sciiti houthi; la sospensione dei collegamenti aerei e il blocco delle relazioni diplomatiche. Addirittura il Bahrain ha chiesto che entro 15 giorni i cittadini qatarioti rientrino nel proprio Paese. Immediata la risposta di Doha, che ha eccepito ai cinque Paesi di aver formulato false accuse e di violare la propria sovranità. Sulla questione ha detto la sua anche l’Iran con un appello al dialogo tra il Qatar e i Paesi del Golfo. "La soluzione alle divergenze – si legge in una nota del Ministero degli Esteri di Teheran – è possibile solo attraverso strumenti politici e pacifici e con il confronto tra le parti”. Sulle decisioni adottate nei confronti del Qatar, sentiamo il commento di Massimo Campanini, docente di Studi Islamici all’Università di Trento:

R. – Trovo in questo pronunciamento una grossa dose di falsa coscienza, nel senso che quello che è in gioco – secondo me – è la necessità di trovare una sorta di capro espiatorio per ciò che sta succedendo, soprattutto in Europa, cioè per gli attentati, le stragi e questi Paesi scaricano la colpa su un piccolo Paese come il Qatar, che non ha certo la forza, né militare né politica, di potersi opporre. Sappiamo tutti che il Medio Oriente oggi è completamente disgregato e quindi c’è la necessità di compattare ciò che rimane della regione, in modo da poter dare un contributo a combattere questo jihadismo violento che oltretutto fa del male all’Islam, perché ovviamente fa in modo che l’opinione pubblica identifichi l’Islam con la violenza, identificazione del tutto falsa e infondata, e quindi dare un contributo poi alle xenofobie.

D. – Anche lo Yemen aderisce a questa presa di posizione dei Paesi arabi, e incolpa il Qatar di finanziare i ribelli houthi e sciiti …

R. – Il problema è che lo Yemen è un Paese in cui hanno convissuto con grande difficoltà una maggioranza sunnita, che però non deteneva il potere, con una minoranza sciita, che deteneva il potere. Quindi, la situazione dello Yemen è talmente aggrovigliata e complicata che il Paese deve aggregarsi alla ruota del più forte per ristabilizzare la situazione interna, in modo da poter ritornare a un equilibrio più solido.

D. – E’ sanabile questa frattura?

R. – L’unico modo – a mio avviso – di sanare la situazione del Medio Oriente è quello di riequilibrare le alleanze e fare in modo che attori indispensabili, come l’Iran e adesso anche la Turchia, non vengano messi nell’angolo, perché questo potrebbe avere degli effetti boomerang estremamente pericolosi, e aumentare la disgregazione della regione invece che risolverla.

inizio pagina

50 anni fa la Guerra dei sei giorni: problemi tuttora irrisolti

◊  

Cinquant'anni fa, il 5 giugno del 1967, scoppiava la Guerra dei sei giorni, che sarebbe riuscita in poche ore a modificare la storia del Medio Oriente. La vittoria militare israeliana contro i vicini arabi Giordania, Siria ed Egitto, creò una potenza regionale in grado di controllare Gerusalemme, la Cisgiordania, Gaza e le alture del Golan. Quanto e come dunque quei sei giorni influenzano ancora oggi quella zona? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Giorgio Bernardelli della rivista “Mondo e Missione” ed esperto dell’area: 

R. – Pesano ancora tantissimo. In un certo senso si può dire che quei sei giorni non sono mai finiti, perché hanno plasmato la geografia e hanno lasciato un segno profondo anche nella stessa mentalità e percezione di tutto quello che è il conflitto tra israeliani e palestinesi. È interessante che proprio negli stessi giorni in cui avveniva quel conflitto, all’interno del governo di Israele ci si poneva una serie di domande che esistono tuttora: che cosa fare della Cisgiordania, se annetterla a Israele oppure no; quale soluzione politica per i palestinesi.

D. – Perché da allora è partito tutto, anche questo aspetto?

R. – Quella mancanza di apertura di un canale diplomatico di dialogo che facesse i conti con la realtà sul terreno ha innescato una serie di movimenti a catena che rendono oggi molto più difficile la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche perché tutto il risveglio dell’islamismo, l’islamismo radicale, il grande ritorno dei Fratelli Musulmani, tutto nacque dopo il 1967, dopo la sconfitta del sogno del panarabismo sostanzialmente come ideologia laica e socialista, e, ancora, dopo la Guerra del 1967 arrivò al governo di Israele per la prima volta la destra nazionalista.

D. – E quei nodi irrisolti, di cui lei parla, sono quelle espressioni usate allora e che tuttora usiamo: occupazione; capitale unica e indivisibile; territori. Sono questi?

R. – Sì. Ovviamente dietro alle espressioni ci sono scelte politiche ben precise. La prima, quella probabilmente più importante da cui tutto il resto discende, è: che cos’è Gerusalemme?

D. – Lo stesso peso direi ha anche tutta la questione legata agli insediamenti: anche questo è un percorso che continua a crescere nel tempo ma non si risolve?

R. – Ormai in 50 anni sono diventati qualcosa di talmente grande che credo che uno degli errori sia continuare a considerarlo come un blocco complessivo e uniforme. Ci sono alcuni insediamenti fortemente ideologizzati, ma ci sono anche altre realtà in cui gli insediamenti sono semplicemente il prolungamento di città che stanno a cavallo della linea verde. Per cui credo che oggi una delle strade per riuscire a trovare un bandolo sarebbe cominciare anche a guardare dentro a questi insediamenti.

D. – E guardando invece all’embargo in cui è stritolata Gaza?

R. – Non è realistico, anzi è estremamente pericoloso. Tenendo presente anche un’altra cosa: Hamas ha perso molti degli appoggi politici che aveva nella Regione. Il fatto di non aver colto questa situazione come un’opportunità per trovare una formula che permettesse a questa realtà di uscire semplicemente dallo stato di sopravvivenza e voltare pagina, credo che sia stato un errore molto grave.

D. – Immagino che anche la Palestina sia cambiata profondamente in tanti anni?

R. – Questo è veramente uno dei problemi più grandi. Io vedo una grossa crisi generazionale, una disillusione totale da parte dei giovani palestinesi; e quando c’è una generazione così, la domanda è: che cosa stiamo preparando? E da qui anche l’importanza di riscoprire la centralità di questo problema: tra Israele e Palestina c’è una ferita che in 50 anni non è stata rimarginata. Invece, da parte soprattutto della comunità internazionale, c’è la tentazione di normalizzare la situazione.

D. – Qual è il passo da compiere per andare oltre quel giugno del 1967?

R. – Oggi credo che la prima questione sia de-ideologizzare questa questione del conflitto e andare a vedere quali possono essere le soluzioni che creano futuro perché – appunto – finché la prospettiva del negoziato sarà sempre quella del ragionare solo sulla grande soluzione definitiva, che porterà fine ai problemi, credo che difficilmente faremo dei passi avanti.

inizio pagina

Incidenti di Torino. Mons. Nosiglia: no a "scaricabarile"

◊  

A Torino gli inquirenti stanno cercando di ricostruire quanto avvenuto a Piazza San Carlo, sabato scorso, durante la finale di Champions. Identificato il ragazzo a torso nudo e zaino in spalla che avrebbe fatto scattare il panico tra la folla, circa 30mila tifosi, causando il ferimento di oltre 1500 persone, tra cui 3 in gravi condizioni. Si ipotizza una "bravata". Ed è polemica per le bottiglie di vetro per terra e le vie di fuga esigue.  Ascoltiamo il commento dell’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, al microfono di Luca Collodi: 

R. – Una competizione sportiva dovrebbe essere un’occasione di incontro gioioso, di sfida, svolta sì anche con agonismo da parte degli atleti, ma anche ricca di valori umani, civili, sociali, che vanno rispettati da tutti: sia da chi gioca sia da chi è sugli spalti. Spesso invece – lo sappiamo – diventa occasione di atti vandalici e di scontri, perché ci sono sempre quei gruppi di facinorosi che si organizzano apposta per generare confusione, magari per contrastare anche le forze dell’ordine. Bisogna pertanto educare, in particolare i giovani, a stare insieme agli altri nel rispetto delle regole. Occorre anche isolare i gruppi dei violenti e fare prevenzione. Però occorre anche un severo controllo delle norme di sicurezza, che vanno fatte rispettare da tutti, se è vero che la piazza era piena di cocci e di bottigliette, anche di alcolici venduti abusivamente e che sono stati poi la causa di tanti ferimenti.

D. – Il lancio di un petardo o la caduta di una transenna ha creato il panico. Ma sulle vere cause ci sono indagini in corso.  Perché la paura è ormai un compagno di vita con la quale la gente convive ?

R. – È vero, la paura sta crescendo nell’anima della gente. Basta poco per scatenare comportamenti inconsulti, irrazionali. Era successo pochi mesi fa a Torino che, in un cinema, una famiglia marocchina facesse delle telefonate con il cellulare parlando in arabo, e la cosa ha generato subito un fuggi-fuggi generale da parte degli spettatori: pericolo che si è rivelato ovviamente del tutto infondato. Dobbiamo recuperare il coraggio civile del vivere insieme.

D. - Ora tutti si lamentano e offrono analisi, critiche sull’organizzazione, sulla sicurezza…

R. - Non basta lamentarsi, indignarsi quando capitano certe tragedie. Adesso qui a Torino tutti hanno qualcosa da dire, tutti hanno dei consigli da offrire, tutti hanno delle recriminazioni, contro questo o contro quest’altro. Quello che conta è prenderci tutti le nostre responsabilità, senza scaricare su altri o sul caso quello che è accaduto. Se davvero teniamo al sentire la città come nostra e di tutti, rifiutando quindi comportamenti illegali, dobbiamo cominciare dal nostro vissuto quotidiano a fare queste cose. Perché poi è l’ambiente che condiziona anche le persone, le rende capaci o protagoniste di questo “bullismo”: chiamiamolo così a volte. Certo, io credo che ci voglia anche una strategia previa che va messa in atto prima dei grandi eventi, cosa che però mi pare che le forze dell’ordine cercano di fare. Quindi non dando nulla per scontato, perché quello che non capita mai può al contrario avvenire, anche in pochi minuti o in luoghi che non ti aspetti, come è avvenuto sabato a Torino.

inizio pagina

Mattarella: l'insegnamento di don Milani alla base della scuola moderna

◊  

“Imparare ad imparare”. Era questo il motto di don Lorenzo Milani verso i suoi ragazzi per sottolineare l’importanza dell’istruzione. E proprio al priore fondatore della scuola di Barbiana, in occasione del cinquantesimo dalla sua scomparsa, questa mattina a Roma al Ministero dell’Istruzione è stato dedicato un convegno sul tema “Don Milani Insegnare a tutti”. Ascoltiamo il servizio di Marina Tomarro: 

“Il metodo di don Milani, incompreso e talvolta osteggiato, ha precorso il concetto di comunità educativa, oggi alla base della scuola moderna. Ma egli ha anche posto la questione dell’uguaglianza tra cittadini e le rimozione delle barriere tra loro. Per gli studenti la figura di don Milani, contribuisce alla crescita della coscienza civile delle nuove generazioni”. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ha voluto salutare con un telegramma, i partecipanti all’incontro dedicato a don Lorenzo Milani, priore della Scuola di Barbiana. Una scuola speciale, dedicata soprattutto ai più poveri per istruirli e non farli rimanere indietro nella società ma renderli cittadini consapevoli e attivi nella vita sociale. E dal 1956 al 1968 anno in cui la scuola chiuse, furono centinaia i ragazzi che frequentarono quelle aule. Come racconta un ex allievo, Aldo Bozzolini:

R - Io sono nato a Padulivo, un gruppo di case della parrocchia di Barbiana. Prima di conoscere personalmente il priore, a casa mia per prima cosa arrivò quest’alone che il priore si portava dietro. I miei zii e mio padre dicevano che da Calenzano praticamente lo avevano mandato via, però faceva una scuola serale. Dicevano: ‘Speriamo la faccia anche a noi’. E così praticamente  fece: cioè la prima scuola impostata a Barbiana fu la scuola serale ai giovanotti per far prendere loro la patente del motorino. E il priore iniziò a fare questa scuola. Io lo conobbi circa una decina di giorni dopo quando venne a farci lezione di religione. Sinceramente tante cose del priore le ho riscoperte dopo, una volta che avevo famiglia, moglie e figlie. Però io ho conosciuto questo priore contento, gioioso e sempre disponibile.

Ma l’insegnamento sull’importanza dell’istruzione di Don Milani ha viaggiato attraverso il tempo ed ancora oggi è un esempio per le nuove generazioni, come raccontano due giovani studenti delle scuole superiori, Alessio e Fabiola:

(Alessio) "Oltre a formarci per il contesto lavorativo sia nel nostro Paese ma anche all’estero, ci può aiutare a crescere interiormente, a conoscere anche la politica, ad avere un ruolo importante all’interno della storia come hanno avuto molti elementi del passato che noi stessi abbiamo studiato".

(Fabiola) "È molto importante considerare ogni persona, ogni alunno: in questo caso è sullo stesso livello, perché nessuno deve essere lasciato indietro. Come dice lui, nessuno deve esser bocciato o rimanere indietro rispetto agli altri, perché tutti siamo sullo stesso piano”.

Quando don Milani fondò la sua scuola c’erano livelli di dispersione scolastica altissimi, che arrivavano fino al 90% della popolazione. Oggi la situazione non è così drammatica, ma  c’è ancora un 14% dei ragazzi che abbandona la scuola. A questo proposito il ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha detto che "c’è un altro investimento che dobbiamo fare in un modo molto più forte: è esattamente il recupero della dispersione scolastica". "Noi - ha proseguito - abbiamo un tema che riguarda il passaggio dalla scuola dell’obbligo alla fase successiva dell’istruzione. Penso che anche questa sia la scelta che il nostro ministero e le nostre scelte politiche devono assolutamente continuare ad operare".

inizio pagina
Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 156

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.